l'Unità 17 Luglio 2005
Marx, dittatura e democrazia
Bruno Bongiovanni
È vero. Il Greatest Philosopher Result emerso il 13 luglio dal certamen philosophicum della Bbc, con tanto di «top ten positions», è niente più che l’esito di un gioco estivo. E tuttavia bene ha fatto l’Unità di giovedì, con gli articoli di Eric Hobsbawm e di Bruno Gravagnuolo, a segnalare la netta vittoria di Marx, che si è avvalso del 27,93% dei suffragi, contro il 12,67% di Hume, ottimo secondo in nome dell’oggi bestemmiato illuminismo. Non so se Marx avrebbe gradito l’epiteto britannico di Philosopher. Avrebbe senz’altro preferito, come ebbe modo di affermare, il germanico, e kantiano (oltre che giovane-hegeliano), Kritiker. L’interesse suscitato da Marx, più che dai proclami volti a far cambiare il mondo, deriva senz’altro dalla formidabile, e ancora intatta, capacità di far comprendere il mondo stesso. Non credo tuttavia che la sua nozione di dittatura del proletariato abbia a che fare, come è stato rilevato, con i disastri del totalitarismo novecentesco. La filologia ha ragioni che spesso l’ideologia non conosce.
L’espressione «dittatura del proletariato» compare infatti in soli 12 passi all’interno dell’intera opera di Marx ed Engels. Non compare nel Manifesto, dove si introduce la «conquista della democrazia». La si trova per la prima volta, e in ben 3 dei 12 passi, nelle Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, testo scritto tra il gennaio e l’aprile del 1850. Non si possono negare in quell’anno alcuni contatti blanquisti, ma l’espressione, come ha persuasivamente avanzato Hal Draper, è ricalcata, in modo brillantemente rovesciato, sulle definizioni antidemocratiche della democrazia contenute ne La démocratie en France, testo ben noto a Marx e pubblicato nel 1849 a Bruxelles dal fuggiasco Guizot. Per questi, liberale antidemocratico, la democrazia è «il grido della guerra sociale». Sono del resto i liberali moderati che, in questi anni, individuano nella democrazia, e nella sovranità popolare, la dittatura sociale dei più. E per lo stesso Marx, che certo sbaglia a pensare che il proletariato (inteso come working class all’interno del factory-system) possa mai diventare «immensa maggioranza», la democrazia è il governo forte, e provvisorio, dell’immensa maggioranza, ovvero del proletariato. Nel 1891, nell’ultimo e dodicesimo passo, Engels sostiene che «la repubblica democratica è la forma specifica della dittatura del proletariato». Ben altra storia è invece quella dei bolscevichi russi. Per i quali il proletariato resta, inesorabilmente, una minoranza. Per di più - senza il partito politico artefice unico della dittatura - sprovvista di coscienza.
una segnalazione di Dina Battioni:
su Liberazione del 16.7:
«il Manifesto del partito comunista" di Marx ed Engels, con la prefazione di Fausto Bertinotti.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 17 luglio 2005
surclassate alla grande le vendite del nuovo catechismo
fanno piangere il papa!
Quotidiano.net 17.7.05
HARRY POTTER MANIA
Tutti in fila per il 'maghetto'
Vendute 13 copie al secondo
Centinaia i fan di Potter che si sono messi pazientemente ad aspettare l'arrivo della sesta puntata delle avventure del loro eroe già dal tardo pomeriggio. Tanti bambini, ma non solo.
Il lungo serpentone fuori dalle principali librerie di Oxford Street e Charing Cross Road era composto da persone di tutte le età, molti armati di cappello da mago e scope, ovviamente volanti.
All'interno della libreria Borders, che per l'occasione ha tenuto i battenti aperti sino alle 2 del mattino e che offriva forti sconti sull'acquisto di qualunque volume nella "nottata di Harry", la coda si snodava tra uno scaffale e l'altro ed e' arrivata ad essere composta da circa 300 persone.
Nonostante i tanti turisti dai quattro angoli del mondo, il rito della fila è stato celebrato in maniera tipicamente inglese. Tutti compostamente hanno atteso il loro turno per accaparrarsi uno dei 3mila volumi offerti in questa serata inaugurale, mentre commessi vestiti di tutto punto da Harry Potter cercavano di rendere l'attesa più gradevole distribuendo caramelle e dolci.
Per passare un po' di tempo, ai fan in fila è stata anche data la possibilità di testare la loro conoscenza delle 5 precedenti avventure uscite dalla fantasia di JK Rowling con questionari e Potter-giochi di ogni tipo.
In un'atmosfera da Capodanno, gli ultimi 10 secondi prima dell'arrivo di Harry sono stati scanditi in coro dalle centinaia di entusiasti e, appena il Big Ben è partito con il primo dei suoi dodici rintocchi, sono comparsi due enormi carrelli impacchettati con carta regalo.
Al loro interno, la sorpresa per molti di avere la scelta tra due copertine diverse di "Harry Potter e il Principe Mezzosangue", una simile a quella dei precedenti volumi verde e viola, e l'altra di un più inusuale grigio scuro.
Neanche a dirlo, la copertina più tradizionale ha dominato le vendite tra i fan più accaniti, anche se in molti sono caduti vittima dell'indecisione e hanno comprato una copia di ognuna.
Sulla via del ritorno a casa, regnava il silenzio su metropolitane e autobus notturni. Non una parola tra coppiette e gruppi di amici, tutti impegnati a divorare avidamente le prime pagine del nuovo volume.
La nottata del grande lancio l'autrice JK Rowling l'ha passata in Scozia dove, in un castello di Edinburgo addobbato per l'occasione come la scuola di Hogwarts, ha letto il primo capitolo del nuovo libro ai 70 bambini vincitori di un concorso che hanno poi avuto l'occasione di intervistarla.
Altre interviste sono state invece trasmesse dal canale televisivo ITV che ha dedicato uno speciale all'evento nelle ore precedenti all'arrivo di "Harry Potter e il Principe Mezzosangue".
Tra i tanti seguaci di Harry interpellati da ITV anche il serioso Cancelliere dello Scacchiere Gordon Brown, considerato il probabile erede del premier Tony Blair, che ha dichiarato: "Il personaggio che vorrei più essere è Harry Potter, perché è coraggioso e intelligente".
Più spiritoso il Ministro del Lavoro David Blunkett, appena tornato al Governo dopo aver perso l'anno scorso la poltrona di Ministro degli Interni per uno scandalo legato ad una presunta relazione con la governante, che ha dichiarato: "Vorrei proprio imparare qualche trucco da Harry Potter. Specialmente su come cavarmela con le donne".
VENDITE RECORD - Negli States sono state comprate, pare, 5 milioni di copie in sole 24 ore, mentre a Londra e in Inghilterra si è polverizzato ogni record con 13 copie vendute al secondo.
IN VATICANO - Neanche gli anatemi del Papa hanno frenato i fan di Harry Potter residenti in Vaticano. Le parole di Ratzinger, che qualche anno fa accusò il maghetto occhialuto di ''distorcere l'anima cristiana'', non hanno impedito ad alcuni cardinali di ordinare su Amazon le copie dell'ultimo volume della saga che fa impazzire adulti e bambini di tutto il mondo.
A rivelarlo è Amazon, la più grande libreria della rete che afferma di aver ricevuto ''un certo numero di ordini'' dalla Santa Sede (...).
HARRY POTTER MANIA
Tutti in fila per il 'maghetto'
Vendute 13 copie al secondo
"Harry Potter e il principe mezzosangue" è in vendita in inglese da mezzanotte in puntoLondra, 16 luglio 2005 - Tutti in fila per Harry Potter. Per una volta, le librerie battono pub e discoteche e, allo scoccare della mezzanotte, i locali piu' affollati del centro di Londra sono stati quelli che vendevano le prime copie del nuovo libro di JK Rowling, Harry Potter e il principe mezzosangue.
RECORD DI VENDITE Boom di vendite negli States, in Inghilterra record di 13 copie acquistate al secondo
COUNT DOWN Commessi vestiti come il maghetto, giochi e quiz per ingannare l'attesa, e 'conto alla rovescia' per gli ultimi dieci secondi. Poi tutti in silenzio per leggere le prime pagine
SORPRESA Due possibili copertine: tradizionale o in grigio scuro. Molti lettori hanno acquistato entrambe le versioni
J.K ROWLING L'autrice ha celebrato l'evento in Scozia, nel castello di Edimburgo "trasformato" nella scuola di Hogwarts. Ha letto in primo capitolo a 70 bambini vincitori di un concorso
Centinaia i fan di Potter che si sono messi pazientemente ad aspettare l'arrivo della sesta puntata delle avventure del loro eroe già dal tardo pomeriggio. Tanti bambini, ma non solo.
Il lungo serpentone fuori dalle principali librerie di Oxford Street e Charing Cross Road era composto da persone di tutte le età, molti armati di cappello da mago e scope, ovviamente volanti.
All'interno della libreria Borders, che per l'occasione ha tenuto i battenti aperti sino alle 2 del mattino e che offriva forti sconti sull'acquisto di qualunque volume nella "nottata di Harry", la coda si snodava tra uno scaffale e l'altro ed e' arrivata ad essere composta da circa 300 persone.
Nonostante i tanti turisti dai quattro angoli del mondo, il rito della fila è stato celebrato in maniera tipicamente inglese. Tutti compostamente hanno atteso il loro turno per accaparrarsi uno dei 3mila volumi offerti in questa serata inaugurale, mentre commessi vestiti di tutto punto da Harry Potter cercavano di rendere l'attesa più gradevole distribuendo caramelle e dolci.
Per passare un po' di tempo, ai fan in fila è stata anche data la possibilità di testare la loro conoscenza delle 5 precedenti avventure uscite dalla fantasia di JK Rowling con questionari e Potter-giochi di ogni tipo.
In un'atmosfera da Capodanno, gli ultimi 10 secondi prima dell'arrivo di Harry sono stati scanditi in coro dalle centinaia di entusiasti e, appena il Big Ben è partito con il primo dei suoi dodici rintocchi, sono comparsi due enormi carrelli impacchettati con carta regalo.
Al loro interno, la sorpresa per molti di avere la scelta tra due copertine diverse di "Harry Potter e il Principe Mezzosangue", una simile a quella dei precedenti volumi verde e viola, e l'altra di un più inusuale grigio scuro.
Neanche a dirlo, la copertina più tradizionale ha dominato le vendite tra i fan più accaniti, anche se in molti sono caduti vittima dell'indecisione e hanno comprato una copia di ognuna.
Sulla via del ritorno a casa, regnava il silenzio su metropolitane e autobus notturni. Non una parola tra coppiette e gruppi di amici, tutti impegnati a divorare avidamente le prime pagine del nuovo volume.
La nottata del grande lancio l'autrice JK Rowling l'ha passata in Scozia dove, in un castello di Edinburgo addobbato per l'occasione come la scuola di Hogwarts, ha letto il primo capitolo del nuovo libro ai 70 bambini vincitori di un concorso che hanno poi avuto l'occasione di intervistarla.
Altre interviste sono state invece trasmesse dal canale televisivo ITV che ha dedicato uno speciale all'evento nelle ore precedenti all'arrivo di "Harry Potter e il Principe Mezzosangue".
Tra i tanti seguaci di Harry interpellati da ITV anche il serioso Cancelliere dello Scacchiere Gordon Brown, considerato il probabile erede del premier Tony Blair, che ha dichiarato: "Il personaggio che vorrei più essere è Harry Potter, perché è coraggioso e intelligente".
Più spiritoso il Ministro del Lavoro David Blunkett, appena tornato al Governo dopo aver perso l'anno scorso la poltrona di Ministro degli Interni per uno scandalo legato ad una presunta relazione con la governante, che ha dichiarato: "Vorrei proprio imparare qualche trucco da Harry Potter. Specialmente su come cavarmela con le donne".
VENDITE RECORD - Negli States sono state comprate, pare, 5 milioni di copie in sole 24 ore, mentre a Londra e in Inghilterra si è polverizzato ogni record con 13 copie vendute al secondo.
IN VATICANO - Neanche gli anatemi del Papa hanno frenato i fan di Harry Potter residenti in Vaticano. Le parole di Ratzinger, che qualche anno fa accusò il maghetto occhialuto di ''distorcere l'anima cristiana'', non hanno impedito ad alcuni cardinali di ordinare su Amazon le copie dell'ultimo volume della saga che fa impazzire adulti e bambini di tutto il mondo.
A rivelarlo è Amazon, la più grande libreria della rete che afferma di aver ricevuto ''un certo numero di ordini'' dalla Santa Sede (...).
storia del Novecento
la complicità delle gerarchie cattoliche con il massacratore Videla
Corriere della Sera 17.7.05
ARGENTINA Daniela Padoan incontra le «pazze» di Plaza de Mayo e indaga sul ruolo delle gerarchie cattoliche negli anni di Videla
Il silenzio della Chiesa, l’urlo delle madri
di CARLO VULPIO
Se è vero che un libro vale quando riesce a farne leggere almeno un altro, allora Le pazze di Daniela Padoan è un libro di valore. Diciamo subito che la ricca bibliografia che correda questo «Incontro con le madri di Plaza de Mayo» stimola la lettura di più di un altro libro sui desaparecidos, il genocidio argentino avviato nel 1976 dalla giunta militare golpista del generale Jorge Videla (trentamila persone scomparse, per lo più ragazzi tra i venti e i trent’anni), ma «il » libro che Le pazze spinge a leggere più di ogni altro è Niente asilo politico, diario di un console italiano nell’Argentina dei desaparecidos (Editori Riuniti), di Enrico Calamai, il diplomatico italiano che durante quegli anni terribili fu tra i pochissimi uomini delle istituzioni (assieme al presidente della Repubblica, Sandro Pertini) a non voltarsi dall’altra parte. Al contrario, Calamai rischiò in prima persona, arrivando a falsificare documenti per salvare vite umane, come nel 1944 fece Giorgio Perlasca per salvare i «suoi» ebrei ungheresi. E questo, proprio mentre sul dramma argentino persino la Chiesa cattolica sceglieva la via del silenzio. Le pazze ha anche quest’altro merito: di ricostruire, attraverso documenti e testimonianze dirette, un’altra pagina grigia poco conosciuta della Chiesa di Roma, che oggi meriterebbe di essere affrontata senza reticenze dallo stesso papa Benedetto XVI, non fosse altro che per onorare la memoria di quei centoventicinque sacerdoti e due vescovi (Angelelli e Ponce de León) desaparecidos perché si opposero ai «nazisti», così li chiamavano e questo erano, che si impadronirono del potere in Argentina. Anche per quei preti assassinati, furono le madri dei desaparecidos le prime persone a chieder conto. Si unirono e si misero alla ricerca dei propri figli e dei figli di tutti, reclamandoli ogni settimana, per mesi e per anni, in Plaza de Mayo, davanti alla Casa Rosada, il palazzo del governo. Non ci volle molto ad anagrammare in pazzia quella piazza che malvolentieri le accoglieva assieme ai loro fazzoletti bianchi. Pazze, le chiamavano, e come pazze le trattavano. Fissate. Ammalate di dolore. Incurabili. Dicevano, quasi tutti, anche importanti uomini di Chiesa, che avrebbero resistito poco in quella loro ostinata ricerca dei figli, e invece hanno resistito per ventinove anni, rinunciando anche ai soldi a titolo di risarcimento che l’ex presidente Carlos Menem aveva loro offerto per «chiudere» la vicenda. Hanno resistito fino all’altro ieri, quando l’attuale presidente della Repubblica argentina, Nestor Kirchner, si è pubblicamente dichiarato «figlio delle madri di Plaza de Mayo» e la Corte Suprema ha dichiarato incostituzionali le due leggi, Obediencia debida e Punto final, consentendo di processare i criminali che erano stati amnistiati.
«Le pazze» ce l’hanno fatta, e senza rinnegare l’attività politica dei figli. Anzi, difendendo anche quelli che tra loro avevano scelto la resistenza armata, «perché non è reato opporsi con le armi alla dittatura e al tiranno». Ma «le pazze», finalmente, sono state anche credute. Grazie ai documenti della Cia sull’Operazione Condor in America Latina, desecretati, persino il fronte negazionista (ce n’è sempre uno per ogni olocausto, genocidio o crimine contro l’umanità) ha dovuto arrendersi all’evidenza.
Paesi come la ex Unione Sovietica e partiti come l’ex Pci fingevano di non vedere, nemmeno l’ Unità ne scriveva, mentre le oneste corrispondenze del povero Giangiacomo Foà per il Corriere della Sera infiltrato dalla loggia massonica P2 di Licio Gelli, amico di quei generali, presidenti e cardinali, stentavano a trovar spazio. Ce n’era invece per i Mondiali di calcio giocati negli stadi in cui si torturavano i dissidenti, non per la vicenda di Jacobo Timerman, direttore de La Opinión, sequestrato perché ebreo e dunque sospettato di essere parte di una fantomatica operazione di conquista giudaica della Patagonia. L’Argentina, grazie anche alla «collaborazione» del Perù, che si fece sconfiggere per sei gol a zero in semifinale, vinse il Mondiale contro l’Olanda. Per la cronaca, era olandese l’unica tv che riprese le madri a Plaza de Mayo e fece fare a quelle immagini il giro del mondo.
ARGENTINA Daniela Padoan incontra le «pazze» di Plaza de Mayo e indaga sul ruolo delle gerarchie cattoliche negli anni di Videla
Il silenzio della Chiesa, l’urlo delle madri
di CARLO VULPIO
Se è vero che un libro vale quando riesce a farne leggere almeno un altro, allora Le pazze di Daniela Padoan è un libro di valore. Diciamo subito che la ricca bibliografia che correda questo «Incontro con le madri di Plaza de Mayo» stimola la lettura di più di un altro libro sui desaparecidos, il genocidio argentino avviato nel 1976 dalla giunta militare golpista del generale Jorge Videla (trentamila persone scomparse, per lo più ragazzi tra i venti e i trent’anni), ma «il » libro che Le pazze spinge a leggere più di ogni altro è Niente asilo politico, diario di un console italiano nell’Argentina dei desaparecidos (Editori Riuniti), di Enrico Calamai, il diplomatico italiano che durante quegli anni terribili fu tra i pochissimi uomini delle istituzioni (assieme al presidente della Repubblica, Sandro Pertini) a non voltarsi dall’altra parte. Al contrario, Calamai rischiò in prima persona, arrivando a falsificare documenti per salvare vite umane, come nel 1944 fece Giorgio Perlasca per salvare i «suoi» ebrei ungheresi. E questo, proprio mentre sul dramma argentino persino la Chiesa cattolica sceglieva la via del silenzio. Le pazze ha anche quest’altro merito: di ricostruire, attraverso documenti e testimonianze dirette, un’altra pagina grigia poco conosciuta della Chiesa di Roma, che oggi meriterebbe di essere affrontata senza reticenze dallo stesso papa Benedetto XVI, non fosse altro che per onorare la memoria di quei centoventicinque sacerdoti e due vescovi (Angelelli e Ponce de León) desaparecidos perché si opposero ai «nazisti», così li chiamavano e questo erano, che si impadronirono del potere in Argentina. Anche per quei preti assassinati, furono le madri dei desaparecidos le prime persone a chieder conto. Si unirono e si misero alla ricerca dei propri figli e dei figli di tutti, reclamandoli ogni settimana, per mesi e per anni, in Plaza de Mayo, davanti alla Casa Rosada, il palazzo del governo. Non ci volle molto ad anagrammare in pazzia quella piazza che malvolentieri le accoglieva assieme ai loro fazzoletti bianchi. Pazze, le chiamavano, e come pazze le trattavano. Fissate. Ammalate di dolore. Incurabili. Dicevano, quasi tutti, anche importanti uomini di Chiesa, che avrebbero resistito poco in quella loro ostinata ricerca dei figli, e invece hanno resistito per ventinove anni, rinunciando anche ai soldi a titolo di risarcimento che l’ex presidente Carlos Menem aveva loro offerto per «chiudere» la vicenda. Hanno resistito fino all’altro ieri, quando l’attuale presidente della Repubblica argentina, Nestor Kirchner, si è pubblicamente dichiarato «figlio delle madri di Plaza de Mayo» e la Corte Suprema ha dichiarato incostituzionali le due leggi, Obediencia debida e Punto final, consentendo di processare i criminali che erano stati amnistiati.
«Le pazze» ce l’hanno fatta, e senza rinnegare l’attività politica dei figli. Anzi, difendendo anche quelli che tra loro avevano scelto la resistenza armata, «perché non è reato opporsi con le armi alla dittatura e al tiranno». Ma «le pazze», finalmente, sono state anche credute. Grazie ai documenti della Cia sull’Operazione Condor in America Latina, desecretati, persino il fronte negazionista (ce n’è sempre uno per ogni olocausto, genocidio o crimine contro l’umanità) ha dovuto arrendersi all’evidenza.
Paesi come la ex Unione Sovietica e partiti come l’ex Pci fingevano di non vedere, nemmeno l’ Unità ne scriveva, mentre le oneste corrispondenze del povero Giangiacomo Foà per il Corriere della Sera infiltrato dalla loggia massonica P2 di Licio Gelli, amico di quei generali, presidenti e cardinali, stentavano a trovar spazio. Ce n’era invece per i Mondiali di calcio giocati negli stadi in cui si torturavano i dissidenti, non per la vicenda di Jacobo Timerman, direttore de La Opinión, sequestrato perché ebreo e dunque sospettato di essere parte di una fantomatica operazione di conquista giudaica della Patagonia. L’Argentina, grazie anche alla «collaborazione» del Perù, che si fece sconfiggere per sei gol a zero in semifinale, vinse il Mondiale contro l’Olanda. Per la cronaca, era olandese l’unica tv che riprese le madri a Plaza de Mayo e fece fare a quelle immagini il giro del mondo.
Il libro : Daniela Padoan, «Le pazze», Bompiani, pagine 432, 9,50
diagnosi pre-impianto e diritti delle donne
Corriere della Sera 17.7.05
Il caso sollevato da un tribunale
Procreazione assistita: sulla diagnosi pre-impianto deciderà la Consulta
CAGLIARI - La salute della donna o la tutela dell’embrione? Da quando è in vigore la legge 40, per la prima volta la Corte Costituzionale dovrà pronunciarsi sulla legittimità di uno degli aspetti più discussi, l’articolo 13, e sul caso di una signora che non vuole rischiare di avere un figlio talassemico né essere costretta a ricorrere all’aborto terapeutico.
Il tribunale civile di Cagliari ha ritenuto fondato il problema della legittimità dell’articolo 13 (che nega la possibilità di diagnosi sull’embrione prima dell’impianto nell’utero) e ha inviato gli atti alla Consulta. La sentenza rileva un possibile contrasto con gli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione, che tutelano i diritti e la salute delle donne. «E’ in gioco la salute della donna», commenta Marco Cappato dei Radicali. Lanfranco Turci, senatore diessino, è fiducioso: «La corte rileverà il contrasto della legge. E’ una svolta importante».
La vicenda della coppia di Cagliari è fra i casi-limite segnalati dai sostenitori del sì ai quesiti referendari. Marito e moglie, entrambi portatori sani di betatalassemia e il 25 per cento di probabilità di trasmettere la malattia alla prole, tentavano da anni di avere un bimbo. Entrambi infertili, sono andati all’ospedale microcitemico di Cagliari nel 2004 poco dopo l’approvazione della legge 40. Giovanni Monni, primario di ginecologia, ricorda: «Lei voleva fare la procreazione medico assistita e ha chiesto di eseguire la diagnosi genetica preimpianto. Ho dovuto rifiutare: la legge lo proibiva».
La donna ha accettato comunque l’impianto dell’embrione ed è rimasta incinta. La diagnosi è stata eseguita all’undicesima settimana di gravidanza e ha rivelato che anche il feto sarebbe stato portatore della malattia. La signora ha chiesto (e ottenuto) l’aborto terapeutico, causa di gravi forme di ansia e depressione. Lo scorso maggio nuovo tentativo: ma stavolta la donna ha rifiutato l’impianto dell’embrione «alla cieca» e si è rivolta al tribunale; il suo avvocato Luigi Concas ha chiesto l’esecuzione immediata della diagnosi preimpianto (questa anche la richiesta del pm Mario Marchetti) o l’invio degli atti alla Corte Costituzionale.
In attesa della decisione della Consulta il dottor Monni ha dovuto congelare l’embrione e la signora, se vuole avere la certezza di avere un figlio sano, dovrà fare la procreazione medico assistita all’estero.
Il caso sollevato da un tribunale
Procreazione assistita: sulla diagnosi pre-impianto deciderà la Consulta
CAGLIARI - La salute della donna o la tutela dell’embrione? Da quando è in vigore la legge 40, per la prima volta la Corte Costituzionale dovrà pronunciarsi sulla legittimità di uno degli aspetti più discussi, l’articolo 13, e sul caso di una signora che non vuole rischiare di avere un figlio talassemico né essere costretta a ricorrere all’aborto terapeutico.
Il tribunale civile di Cagliari ha ritenuto fondato il problema della legittimità dell’articolo 13 (che nega la possibilità di diagnosi sull’embrione prima dell’impianto nell’utero) e ha inviato gli atti alla Consulta. La sentenza rileva un possibile contrasto con gli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione, che tutelano i diritti e la salute delle donne. «E’ in gioco la salute della donna», commenta Marco Cappato dei Radicali. Lanfranco Turci, senatore diessino, è fiducioso: «La corte rileverà il contrasto della legge. E’ una svolta importante».
La vicenda della coppia di Cagliari è fra i casi-limite segnalati dai sostenitori del sì ai quesiti referendari. Marito e moglie, entrambi portatori sani di betatalassemia e il 25 per cento di probabilità di trasmettere la malattia alla prole, tentavano da anni di avere un bimbo. Entrambi infertili, sono andati all’ospedale microcitemico di Cagliari nel 2004 poco dopo l’approvazione della legge 40. Giovanni Monni, primario di ginecologia, ricorda: «Lei voleva fare la procreazione medico assistita e ha chiesto di eseguire la diagnosi genetica preimpianto. Ho dovuto rifiutare: la legge lo proibiva».
La donna ha accettato comunque l’impianto dell’embrione ed è rimasta incinta. La diagnosi è stata eseguita all’undicesima settimana di gravidanza e ha rivelato che anche il feto sarebbe stato portatore della malattia. La signora ha chiesto (e ottenuto) l’aborto terapeutico, causa di gravi forme di ansia e depressione. Lo scorso maggio nuovo tentativo: ma stavolta la donna ha rifiutato l’impianto dell’embrione «alla cieca» e si è rivolta al tribunale; il suo avvocato Luigi Concas ha chiesto l’esecuzione immediata della diagnosi preimpianto (questa anche la richiesta del pm Mario Marchetti) o l’invio degli atti alla Corte Costituzionale.
In attesa della decisione della Consulta il dottor Monni ha dovuto congelare l’embrione e la signora, se vuole avere la certezza di avere un figlio sano, dovrà fare la procreazione medico assistita all’estero.
sinistra
dopo il no di Bertinotti di ieri
Il Mattino 17.7.05
Bocciata dalla sinistra radicale, la bozza di Prodi potrebbe essere presentata come una semplice dichiarazione
CLAUDIO SARDO Roma. Sul documento Prodi, ormai, la mediazione è impossibile. I partiti della sinistra radicale non sono disposti a sottoscrivere una mozione sull’Iraq, che non contenga la richiesta perentoria di un «ritiro immediato» delle truppe italiane. Mentre Romano Prodi, sostenuto da Ds, Margherita e Sdi, non intende arretrare dalla sua exit strategy, come «se l’Unione fosse già al governo». Ieri è stata una giornata di contatti tra i leader del centrosinistra. Il voto della Camera sul decreto di rifinanziamento della missione Antica Babilonia slitterà probabilmente a mercoledì. Ma il tempo è comunque stretto per dipanare l’ingarbugliata matassa. L’orientamento che sembra prevalere è di rinunciare alla mozione parlamentare. Il documento Prodi diventerebbe una dichiarazione del leader dell’Unione, anzi del candidato-leader, dal momento che sull’Iraq si è di fatto aperta la competizione delle primarie. E a sostegno della dichiarazione di Prodi scenderebbero in campo i segretari di Ds, Margherita e Sdi (la Federazione ulivista) con una conferenza stampa. Ma le posizioni dell’area riformista - contrarietà alla missione, coinvolgimento nella stabilizzazione dell’Iraq dei Paesi non belligeranti, ritiro graduale delle nostre truppe e trasformazione della presenza italiana in funzione di addestramento e sostegno alla sicurezza interna - non si tradurrebbero in uno strumento parlamentare. In questo modo i partiti dell’Unione (salvo l’Udeur, che ha annunciato il sì al decreto del governo) voterebbero tutti no al rifinanziamento. E le diversità sull’exit strategy si manifesterebbero nel dibattito. Per questa soluzione sta lavorando Piero Fassino. Che fa leva su un impegno preso da Fausto Bertinotti: Rifondazione non presenterà una sua mozione, a meno che non sia l’area ulivista a muovere il primo passo. Lo stesso Prodi è su questa linea. Anche se è molto contrariato. Aveva infatti preparato due versioni della sua bozza: una in forma di mozione, l’altra in forma di dichiarazione. Ha distribuito la prima per verificare compatibilità e dissensi. E ora un ritorno alla dichiarazione politica sarà letto da molti come un passo indietro. L’esito, comunque, non è scontato. E l’incognita principale è il comportamento della Margherita. Che è schierata tutta a sostegno delle posizioni di Prodi. Ma Francesco Rutelli ha fin qui dato l’impressione di non temere, anzi di cercare, un chiarimento con la sinistra radicale anche in Parlamento. «Mi piacerebbe votare il documento Prodi» ha detto ieri Franco Marini. Subito, però, gli ha risposto Alfonso Pecoraro Scanio: «Se depositeranno quel documento, noi presenteremo una mozione per il ritiro immediato firmata dai parlamentari pacifisti». La minaccia è di aprire una frattura nei Ds, dove il correntone è da sempre schierato a fianco della sinistra radicale. Anche per questo Fassino vuole evitare mozioni contrapposte. Rutelli potrebbe essere tentato a forzare: anche lui, tuttavia, deve tener conto che il capogruppo Pierluigi Castagnetti e gli ulivisti lavorano per ridurre al minimo le divisioni. Le diversità, piuttosto, si misureranno alle primarie, dove, spiega Arturo Parisi, «le priorità del candidato vincente, diventeranno le priorità della coalizione». Come dire: saranno le primarie a definire la linea sull’Iraq. Ma non è detto che Bertinotti accetti.
Bocciata dalla sinistra radicale, la bozza di Prodi potrebbe essere presentata come una semplice dichiarazione
CLAUDIO SARDO Roma. Sul documento Prodi, ormai, la mediazione è impossibile. I partiti della sinistra radicale non sono disposti a sottoscrivere una mozione sull’Iraq, che non contenga la richiesta perentoria di un «ritiro immediato» delle truppe italiane. Mentre Romano Prodi, sostenuto da Ds, Margherita e Sdi, non intende arretrare dalla sua exit strategy, come «se l’Unione fosse già al governo». Ieri è stata una giornata di contatti tra i leader del centrosinistra. Il voto della Camera sul decreto di rifinanziamento della missione Antica Babilonia slitterà probabilmente a mercoledì. Ma il tempo è comunque stretto per dipanare l’ingarbugliata matassa. L’orientamento che sembra prevalere è di rinunciare alla mozione parlamentare. Il documento Prodi diventerebbe una dichiarazione del leader dell’Unione, anzi del candidato-leader, dal momento che sull’Iraq si è di fatto aperta la competizione delle primarie. E a sostegno della dichiarazione di Prodi scenderebbero in campo i segretari di Ds, Margherita e Sdi (la Federazione ulivista) con una conferenza stampa. Ma le posizioni dell’area riformista - contrarietà alla missione, coinvolgimento nella stabilizzazione dell’Iraq dei Paesi non belligeranti, ritiro graduale delle nostre truppe e trasformazione della presenza italiana in funzione di addestramento e sostegno alla sicurezza interna - non si tradurrebbero in uno strumento parlamentare. In questo modo i partiti dell’Unione (salvo l’Udeur, che ha annunciato il sì al decreto del governo) voterebbero tutti no al rifinanziamento. E le diversità sull’exit strategy si manifesterebbero nel dibattito. Per questa soluzione sta lavorando Piero Fassino. Che fa leva su un impegno preso da Fausto Bertinotti: Rifondazione non presenterà una sua mozione, a meno che non sia l’area ulivista a muovere il primo passo. Lo stesso Prodi è su questa linea. Anche se è molto contrariato. Aveva infatti preparato due versioni della sua bozza: una in forma di mozione, l’altra in forma di dichiarazione. Ha distribuito la prima per verificare compatibilità e dissensi. E ora un ritorno alla dichiarazione politica sarà letto da molti come un passo indietro. L’esito, comunque, non è scontato. E l’incognita principale è il comportamento della Margherita. Che è schierata tutta a sostegno delle posizioni di Prodi. Ma Francesco Rutelli ha fin qui dato l’impressione di non temere, anzi di cercare, un chiarimento con la sinistra radicale anche in Parlamento. «Mi piacerebbe votare il documento Prodi» ha detto ieri Franco Marini. Subito, però, gli ha risposto Alfonso Pecoraro Scanio: «Se depositeranno quel documento, noi presenteremo una mozione per il ritiro immediato firmata dai parlamentari pacifisti». La minaccia è di aprire una frattura nei Ds, dove il correntone è da sempre schierato a fianco della sinistra radicale. Anche per questo Fassino vuole evitare mozioni contrapposte. Rutelli potrebbe essere tentato a forzare: anche lui, tuttavia, deve tener conto che il capogruppo Pierluigi Castagnetti e gli ulivisti lavorano per ridurre al minimo le divisioni. Le diversità, piuttosto, si misureranno alle primarie, dove, spiega Arturo Parisi, «le priorità del candidato vincente, diventeranno le priorità della coalizione». Come dire: saranno le primarie a definire la linea sull’Iraq. Ma non è detto che Bertinotti accetti.
Cina
l'Unità 17 Luglio 2005
L’esercito dei poveri
nella Cina del boom
di Lino Tamburino
VIAGGIO NELLE DISEGUAGLIANZE del Paese che vive un accelerato decollo economico. Nel 2004 il reddito nelle campagne è stato di 3000 yuan (300 euro) l’anno mentre i redditi urbani sono saliti a 10mila yuan (poco più di mille dollari). Con uno stacco cresciuto di cinque volte. E anche il premier lancia l’allarme
Lo chiamano «la nostra piccola Venezia». A poco più di cento chilometri da Shanghai, in quella rete di corsi d'acqua, piccoli laghi, canali, fiumiciattoli, il villaggio è meta preferita di turisti stranieri, quasi tutti taiwanesi e giapponesi, arrivati per fare il giro del canale che taglia in due Zhouzhuang. Se a Venezia nessuna donna è riuscita finora a superare le prove per manovrare una gondola, qui a maneggiare il nostro barcone è una robusta ex-contadina di mezza età. Il villaggio, rimasto intatto e finora non coinvolto nei tipici abbellimenti architettonici, vive ormai di turismo, favorito anche dalla non grande lontananza da Shuzou patria della seta. Sulle stradine interne affacciano negozietti di cibo, di stoffa ricamata e di perle, perle in gran quantità, perle bianche e perle nere, allevate nelle acque di questa rete di canali e offerte a prezzi irrisori. In Cina la produzione di perle ha registrato da qualche anno un vero e proprio boom e molti ritengono che nel giro di qualche decennio le cinesi vinceranno la concorrenza con quelle giapponesi, per ora di gran lunga più belle perché allevate in mare e di migliore di qualità. Qualche settimana fa il villaggio ha avuto un momento di celebrità nazionale perché sono arrivate in visita le partecipanti al concorso di miss Regina del turismo. Le ragazze sono state fotografate nei costumi locali e l'avvenimento è stato pubblicizzato perché la Cina sta puntando moltissimo sul turismo cosiddetto minore come mezzo per dare qualche opportunità alle aree interne del paese. Ormai nelle campagne è un fiorire di tante piccole iniziative, tutte all'insegna di una certa intraprendenza contadina. Vengono risistemati vecchi borghi per farne luoghi di villeggiatura per l'estate e di gite durante la primavera. A tre ore distanza da Pechino, Chuan Dixia era stato praticamente abbandonato dopo una lunga esistenza come importante stazione di posta durante le due ultime dinastie per le carovane di mercanti che si avventuravano, attraverso,le montagne, dalla capitale alla provincia dello Shanxi. Scoperto per caso da alcuni stranieri curiosi, è stato risistemato, dichiarato parco naturale, aperto al pubblico mentre le vecchie famiglie rimaste sul posto hanno trasformato le loro case in luoghi dove si può dormire e mangiare. Per aiutare le zone povere interne, il governo ha ora addirittura dato il via al progetto del «turismo rosso»: ovvero la visita alle varie «basi» rivoluzionarie, da Jinggangshan al sud a Yan'an al nord, che negli anni trenta furono toccate durante la mitica «Lunga Marcia». Sicuramente si troveranno taiwanesi o giapponesi pronti ad affrontare tutti i disagi per raggiungere luoghi poco attrezzati tra montagne inospitali. Meno probabile che lo facciano degli occidentali. Ma tutti questi sforzi confermano quanto sia assillante in Cina il problema del poco - o niente- sviluppo delle zone interne, abitate da contadini, lontane dalla costa ultrasviluppata e sovraeccititata. Il Paese sta vivendo tutti i problemi, le difficoltà, gli squilibri tipici di una fase di accelerato decollo economico. Ma, come sempre nel suo caso, a pesare non è tanto il fenomeno in sé quanto la sua dimensione. Se i contadini sono ancora tra i sette-ottocento milioni, non si può aspettare che vengano automaticamente riassorbiti dallo sviluppo che dovrebbe irradiarsi dalle grandi città. Bisogna fare qualcosa.
A marzo, il primo ministro Wen Jiabao ha impostato il suo discorso alla Assemblea nazionale come un unico, prolungato grido di allarme per le carenze dell'economia e l'accentuarsi degli squilibri. È apparso addirittura eccessivamente preoccupato. Ascoltandolo, per un attimo è venuta alla memoria la vecchia pratica cinese di lamentarsi anche quando le cose vanno bene per impedire agli dei di essere invidiosi. La stampa fa quotidianamente eco alle preoccupazioni governative, tacendo però le proteste o le manifestazioni di quanti vivono sulla propria pelle i disagi e gli squilibri. Le turbolenze di questi mesi nelle campagne sono state praticamente censurate. Anche se questa primavera è stato proprio uno del vertice dirigente, Pan Yue, a scrivere un articolo, che ha trovato spazio su tutta la stampa nazionale e su Internet, con una durissima denuncia dei guasti della politica economica, di cui a suo parere le vittime principali sono stati i contadini. Non esiste, ha scritto, un'area al mondo che abbia accentuato gli squilibri sociali cosi come è successo in Cina in questi ultimi quindici anni. La politica di espropriazione di spazi agricoli per esigenze urbane ha tolto ai contadini i mezzi di produzione e l'inquinamento industriale ha avvelenato le acque creando problemi di approvvigionamento per 300 milioni di abitanti delle campagne. Nell'esclusione dei contadini dai vantaggi delle riforme Pan Yue vede una grossa e non improbabile prospettiva di crisi sociale.
Squilibri, dunque, sociali e territoriali, e i dati sono incontestabili. A Shanghai hanno appena aperto tre università indipendenti, a pagamento, che sono state esentate dal rispetto dei vincoli e delle disposizioni governative in materia di istruzione superiore. Invece, nelle campagne povere del centro nord, a tutt'oggi trenta milioni di bambini poveri hanno potuto frequentare le elementari solo perché il governo ha «regalato» loro i libri di testo. Nelle grandi città le ragazze esibiscono la nuovissima borsa chiara di Vuitton ( forse falsa, chissà), mentre lo scorso anno il governo ha dovuto fornire di abiti e cibo a 69 milioni di cinesi rimasti vittime di disastri naturali. In un sondaggio condotto dal quotidiano della gioventù il 70 per cento degli intervistati ha detto di sentirsi grasso e di voler essere più magro e sono già 200 milioni i cinesi in soprappeso; e invece, secondo i dati ufficiali sono ancora 100 milioni i cinesi che mangiano e si vestono solo grazie al sussidio statale. Per frenare il malcontento nelle campagne il governo ha ridotto e in alcune aree eliminato del tutto le tasse e ha aumentato i prezzi del grano. Ma nel frattempo ai contadini non sono stati pagati gli espropri delle aree servite per l'espansione edilizia o l' installazione di nuove fabbriche. I senza lavoro in agricoltura lasciano le campagne, arrivano come pendolari nelle grandi città e diventano perciò l'ossatura del miracolo economico, ma intanto a centinaia di migliaia e per anni non hanno ricevuto il salario. A tutto il 2004 erano 367 miliardi di yuan ( 10 yuan fanno un euro) le retribuzioni non corrisposte. Sono dati ufficiali. Lo stesso primo ministro ha ammesso a marzo il fenomeno quando ha ricordato che finalmente erano stati pagati 33 miliardi di yuan come arretrati di salari e di compenso per gli espropri. Nel frattempo il reddito nella campagne si è attestato lo scorso anno a poco meno di 3000 yuan ( 300 euro) all'anno, mentre i redditi urbani sono stati quasi diecimila yuan, poco più di mille dollari, con uno stacco tra i primi e i secondi in questi anni cresciuto di cinque volte, secondo i dati di Pan Yue. La Cina futuro grande mercato di consumo per i prodotti occidentali? Ci vorrà ancora del tempo e naturalmente un grosso balzo in avanti del reddito e una maggiore fiducia nel futuro. Negli Stati Uniti il peso del consumo privato sul reddito è pari al 70 per cento, in Cina lo è per il 43 per cento. Negli Stati Uniti il tasso di risparmio è dell'1 per cento sul reddito personale, in Cina balza al 40 per cento. Pesano su questa percentuale la scarsa disponibilità di beni durevoli da acquistare ( la fila per l'acquisto delle auto è lunghissima e difficili sono i mutui per l'acquisto delle case) nonché l'orientamento delle famiglie a mettere da parte risparmi per gli studi dei figli (dalle elementari alle università sono a pagamento) o per spese mediche straordinarie. Ma quella percentuale cosi alta è anche l'indice di una inquieta incertezza sul futuro, futuro economico e futuro politico.
Sono i dirigenti cinesi ad accentuare al massimo la denuncia delle loro inadempienze, e forse l'Occidente frastornato dalla visione di quanto offrono Shanghai e Pechino dovrebbe prestare più attenzione a questa auto-denuncia per cercare di comprenderne il senso. Come guardare alla Cina? Come la Cina gestirà le sue contraddizioni sociali? Ne sarà travolta, rallentata, oppure saprà superarle? E perché le enfatizza tanto? La Cina ci tiene a presentarsi sul palcoscenico internazionale come un paese ancora «in via di sviluppo» - e in effetti lo è- quindi con il diritto a conquistarsi condizioni di vantaggio o di favore nelle trattative globali sull'economia. E anche con il diritto a violare regole concordate. L'Europa si lamenta per l'invasione dei nostri prodotti, dicono gli amici di Pechino, ma è questo il mercato, ed è l'Occidente che del mercato ha fatto una bandiera. Di che cosa vi lamentate? È invece sul fronte della politica che la Cina si aspetta, sullo scacchiere internazionale, un ruolo alla pari con il resto del mondo.
Ma il richiamo ai limiti delle scelte fin qui fatte ha anche un valore a fini interni. Suona naturalmente come una serrata critica all'attuazione delle decisioni prese anni fa da Deng Xiaoping. Però oggi il gruppo dirigente che ruota attorno a Hu Jintao non si attarda- almeno per il momento- a fare processi al passato. Cerca soluzioni per il presente. Una l'ha trovata nel lancio di una nuova parola d'ordine: vogliamo costruire una società armoniosa. Un sostantivo e un aggettivo che ormai si ritrovano dovunque, finanche nel discorso di Donald Tsang in occasione del suo insediamento come capo dell'amministrazione speciale di Hong Kong. Armonia è un termine che corre come un filo rosso nella storia, nella cultura, nella filosofia cinese. Finanche nella architettura ed ecco la Città proibita con la Porta dell' Armonia suprema e i palazzi della Suprema Armonia, dell'Armonia di Mezzo, dell'Armonia Preservata. È singolare questo approdo che parte dalla teoria di Mao sulla contraddizione e sulla rivoluzione permanente passa per la sottolineatura marxista di Deng Xiaoping (e Marx tutto è tranne che un fautore di armonia) per arrivare a un rilancio del passato, del tutto estraneo all'esperienza comunista. L'armonia è la sostanza dei rapporti tra gli uomini e del rapporto tra gli uomini e la natura. È dunque un disegno, un ricamo che richiede per forza la guida di qualcuno che tiri le fila di tutto, si assuma tutte le responsabilità. Non sono necessari perciò proteste, manifestazioni, dissensi, voci politiche diverse, perché sarebbero segno di disordine, non di armonia. Devono essere ignorate, censurate, punite se necessario. Con il richiamo all' armonia, il Partito comunista cinese conferma la sua volontà di mantenere il potere senza accettare di essere messo in discussione. Indicando l'obiettivo strategico di una società armoniosa, paradossalmente il Pcc chiede ai cinesi un atto di fiducia non in nome di quanto ha già garantito alla Cina, ma in nome degli errori che ha compiuto.
L’esercito dei poveri
nella Cina del boom
di Lino Tamburino
VIAGGIO NELLE DISEGUAGLIANZE del Paese che vive un accelerato decollo economico. Nel 2004 il reddito nelle campagne è stato di 3000 yuan (300 euro) l’anno mentre i redditi urbani sono saliti a 10mila yuan (poco più di mille dollari). Con uno stacco cresciuto di cinque volte. E anche il premier lancia l’allarme
Lo chiamano «la nostra piccola Venezia». A poco più di cento chilometri da Shanghai, in quella rete di corsi d'acqua, piccoli laghi, canali, fiumiciattoli, il villaggio è meta preferita di turisti stranieri, quasi tutti taiwanesi e giapponesi, arrivati per fare il giro del canale che taglia in due Zhouzhuang. Se a Venezia nessuna donna è riuscita finora a superare le prove per manovrare una gondola, qui a maneggiare il nostro barcone è una robusta ex-contadina di mezza età. Il villaggio, rimasto intatto e finora non coinvolto nei tipici abbellimenti architettonici, vive ormai di turismo, favorito anche dalla non grande lontananza da Shuzou patria della seta. Sulle stradine interne affacciano negozietti di cibo, di stoffa ricamata e di perle, perle in gran quantità, perle bianche e perle nere, allevate nelle acque di questa rete di canali e offerte a prezzi irrisori. In Cina la produzione di perle ha registrato da qualche anno un vero e proprio boom e molti ritengono che nel giro di qualche decennio le cinesi vinceranno la concorrenza con quelle giapponesi, per ora di gran lunga più belle perché allevate in mare e di migliore di qualità. Qualche settimana fa il villaggio ha avuto un momento di celebrità nazionale perché sono arrivate in visita le partecipanti al concorso di miss Regina del turismo. Le ragazze sono state fotografate nei costumi locali e l'avvenimento è stato pubblicizzato perché la Cina sta puntando moltissimo sul turismo cosiddetto minore come mezzo per dare qualche opportunità alle aree interne del paese. Ormai nelle campagne è un fiorire di tante piccole iniziative, tutte all'insegna di una certa intraprendenza contadina. Vengono risistemati vecchi borghi per farne luoghi di villeggiatura per l'estate e di gite durante la primavera. A tre ore distanza da Pechino, Chuan Dixia era stato praticamente abbandonato dopo una lunga esistenza come importante stazione di posta durante le due ultime dinastie per le carovane di mercanti che si avventuravano, attraverso,le montagne, dalla capitale alla provincia dello Shanxi. Scoperto per caso da alcuni stranieri curiosi, è stato risistemato, dichiarato parco naturale, aperto al pubblico mentre le vecchie famiglie rimaste sul posto hanno trasformato le loro case in luoghi dove si può dormire e mangiare. Per aiutare le zone povere interne, il governo ha ora addirittura dato il via al progetto del «turismo rosso»: ovvero la visita alle varie «basi» rivoluzionarie, da Jinggangshan al sud a Yan'an al nord, che negli anni trenta furono toccate durante la mitica «Lunga Marcia». Sicuramente si troveranno taiwanesi o giapponesi pronti ad affrontare tutti i disagi per raggiungere luoghi poco attrezzati tra montagne inospitali. Meno probabile che lo facciano degli occidentali. Ma tutti questi sforzi confermano quanto sia assillante in Cina il problema del poco - o niente- sviluppo delle zone interne, abitate da contadini, lontane dalla costa ultrasviluppata e sovraeccititata. Il Paese sta vivendo tutti i problemi, le difficoltà, gli squilibri tipici di una fase di accelerato decollo economico. Ma, come sempre nel suo caso, a pesare non è tanto il fenomeno in sé quanto la sua dimensione. Se i contadini sono ancora tra i sette-ottocento milioni, non si può aspettare che vengano automaticamente riassorbiti dallo sviluppo che dovrebbe irradiarsi dalle grandi città. Bisogna fare qualcosa.
A marzo, il primo ministro Wen Jiabao ha impostato il suo discorso alla Assemblea nazionale come un unico, prolungato grido di allarme per le carenze dell'economia e l'accentuarsi degli squilibri. È apparso addirittura eccessivamente preoccupato. Ascoltandolo, per un attimo è venuta alla memoria la vecchia pratica cinese di lamentarsi anche quando le cose vanno bene per impedire agli dei di essere invidiosi. La stampa fa quotidianamente eco alle preoccupazioni governative, tacendo però le proteste o le manifestazioni di quanti vivono sulla propria pelle i disagi e gli squilibri. Le turbolenze di questi mesi nelle campagne sono state praticamente censurate. Anche se questa primavera è stato proprio uno del vertice dirigente, Pan Yue, a scrivere un articolo, che ha trovato spazio su tutta la stampa nazionale e su Internet, con una durissima denuncia dei guasti della politica economica, di cui a suo parere le vittime principali sono stati i contadini. Non esiste, ha scritto, un'area al mondo che abbia accentuato gli squilibri sociali cosi come è successo in Cina in questi ultimi quindici anni. La politica di espropriazione di spazi agricoli per esigenze urbane ha tolto ai contadini i mezzi di produzione e l'inquinamento industriale ha avvelenato le acque creando problemi di approvvigionamento per 300 milioni di abitanti delle campagne. Nell'esclusione dei contadini dai vantaggi delle riforme Pan Yue vede una grossa e non improbabile prospettiva di crisi sociale.
Squilibri, dunque, sociali e territoriali, e i dati sono incontestabili. A Shanghai hanno appena aperto tre università indipendenti, a pagamento, che sono state esentate dal rispetto dei vincoli e delle disposizioni governative in materia di istruzione superiore. Invece, nelle campagne povere del centro nord, a tutt'oggi trenta milioni di bambini poveri hanno potuto frequentare le elementari solo perché il governo ha «regalato» loro i libri di testo. Nelle grandi città le ragazze esibiscono la nuovissima borsa chiara di Vuitton ( forse falsa, chissà), mentre lo scorso anno il governo ha dovuto fornire di abiti e cibo a 69 milioni di cinesi rimasti vittime di disastri naturali. In un sondaggio condotto dal quotidiano della gioventù il 70 per cento degli intervistati ha detto di sentirsi grasso e di voler essere più magro e sono già 200 milioni i cinesi in soprappeso; e invece, secondo i dati ufficiali sono ancora 100 milioni i cinesi che mangiano e si vestono solo grazie al sussidio statale. Per frenare il malcontento nelle campagne il governo ha ridotto e in alcune aree eliminato del tutto le tasse e ha aumentato i prezzi del grano. Ma nel frattempo ai contadini non sono stati pagati gli espropri delle aree servite per l'espansione edilizia o l' installazione di nuove fabbriche. I senza lavoro in agricoltura lasciano le campagne, arrivano come pendolari nelle grandi città e diventano perciò l'ossatura del miracolo economico, ma intanto a centinaia di migliaia e per anni non hanno ricevuto il salario. A tutto il 2004 erano 367 miliardi di yuan ( 10 yuan fanno un euro) le retribuzioni non corrisposte. Sono dati ufficiali. Lo stesso primo ministro ha ammesso a marzo il fenomeno quando ha ricordato che finalmente erano stati pagati 33 miliardi di yuan come arretrati di salari e di compenso per gli espropri. Nel frattempo il reddito nella campagne si è attestato lo scorso anno a poco meno di 3000 yuan ( 300 euro) all'anno, mentre i redditi urbani sono stati quasi diecimila yuan, poco più di mille dollari, con uno stacco tra i primi e i secondi in questi anni cresciuto di cinque volte, secondo i dati di Pan Yue. La Cina futuro grande mercato di consumo per i prodotti occidentali? Ci vorrà ancora del tempo e naturalmente un grosso balzo in avanti del reddito e una maggiore fiducia nel futuro. Negli Stati Uniti il peso del consumo privato sul reddito è pari al 70 per cento, in Cina lo è per il 43 per cento. Negli Stati Uniti il tasso di risparmio è dell'1 per cento sul reddito personale, in Cina balza al 40 per cento. Pesano su questa percentuale la scarsa disponibilità di beni durevoli da acquistare ( la fila per l'acquisto delle auto è lunghissima e difficili sono i mutui per l'acquisto delle case) nonché l'orientamento delle famiglie a mettere da parte risparmi per gli studi dei figli (dalle elementari alle università sono a pagamento) o per spese mediche straordinarie. Ma quella percentuale cosi alta è anche l'indice di una inquieta incertezza sul futuro, futuro economico e futuro politico.
Sono i dirigenti cinesi ad accentuare al massimo la denuncia delle loro inadempienze, e forse l'Occidente frastornato dalla visione di quanto offrono Shanghai e Pechino dovrebbe prestare più attenzione a questa auto-denuncia per cercare di comprenderne il senso. Come guardare alla Cina? Come la Cina gestirà le sue contraddizioni sociali? Ne sarà travolta, rallentata, oppure saprà superarle? E perché le enfatizza tanto? La Cina ci tiene a presentarsi sul palcoscenico internazionale come un paese ancora «in via di sviluppo» - e in effetti lo è- quindi con il diritto a conquistarsi condizioni di vantaggio o di favore nelle trattative globali sull'economia. E anche con il diritto a violare regole concordate. L'Europa si lamenta per l'invasione dei nostri prodotti, dicono gli amici di Pechino, ma è questo il mercato, ed è l'Occidente che del mercato ha fatto una bandiera. Di che cosa vi lamentate? È invece sul fronte della politica che la Cina si aspetta, sullo scacchiere internazionale, un ruolo alla pari con il resto del mondo.
Ma il richiamo ai limiti delle scelte fin qui fatte ha anche un valore a fini interni. Suona naturalmente come una serrata critica all'attuazione delle decisioni prese anni fa da Deng Xiaoping. Però oggi il gruppo dirigente che ruota attorno a Hu Jintao non si attarda- almeno per il momento- a fare processi al passato. Cerca soluzioni per il presente. Una l'ha trovata nel lancio di una nuova parola d'ordine: vogliamo costruire una società armoniosa. Un sostantivo e un aggettivo che ormai si ritrovano dovunque, finanche nel discorso di Donald Tsang in occasione del suo insediamento come capo dell'amministrazione speciale di Hong Kong. Armonia è un termine che corre come un filo rosso nella storia, nella cultura, nella filosofia cinese. Finanche nella architettura ed ecco la Città proibita con la Porta dell' Armonia suprema e i palazzi della Suprema Armonia, dell'Armonia di Mezzo, dell'Armonia Preservata. È singolare questo approdo che parte dalla teoria di Mao sulla contraddizione e sulla rivoluzione permanente passa per la sottolineatura marxista di Deng Xiaoping (e Marx tutto è tranne che un fautore di armonia) per arrivare a un rilancio del passato, del tutto estraneo all'esperienza comunista. L'armonia è la sostanza dei rapporti tra gli uomini e del rapporto tra gli uomini e la natura. È dunque un disegno, un ricamo che richiede per forza la guida di qualcuno che tiri le fila di tutto, si assuma tutte le responsabilità. Non sono necessari perciò proteste, manifestazioni, dissensi, voci politiche diverse, perché sarebbero segno di disordine, non di armonia. Devono essere ignorate, censurate, punite se necessario. Con il richiamo all' armonia, il Partito comunista cinese conferma la sua volontà di mantenere il potere senza accettare di essere messo in discussione. Indicando l'obiettivo strategico di una società armoniosa, paradossalmente il Pcc chiede ai cinesi un atto di fiducia non in nome di quanto ha già garantito alla Cina, ma in nome degli errori che ha compiuto.
da fonte incerta
Corriere della Sera 17.7.05
TEORIE DEL COMPLOTTO
Teheran accusa Cia e Mossad «Hanno messo loro le bombe»
TEHERAN - Una grande trama ordita da servizi segreti statunitensi e israeliani dietro la strage del 7 luglio a Londra. La teoria del complotto è stata elaborata a Teheran, e non poteva essere diversamente, visto lo storico rancore nutrito dal regime iraniano verso il Grande Satana Usa, lo Stato ebraico e il governo di Sua Maestà britannica. Il ministro dell’intelligence iraniano, Ali Younesi, ha giudicato «non improbabile» che dietro agli attentati del 7 luglio a Londra vi siano i servizi segreti americano e israeliano, che avrebbero così voluto punire i colleghi britannici per avere trattato Al Qaeda in modo troppo «comprensivo» e aver dato asilo a numerosi personaggi accusati di estremismo. «Alcuni membri di Al Qaeda - ha detto Younesi all’agenzia degli studenti Isna - sono oggi al sicuro in Gran Bretagna e in alcuni Paesi arabi. La Cia e il Mossad sono arrabbiati con l’intelligence britannico per questo motivo, e quindi non è improbabile (...) che abbiano organizzato gli attentati di Londra, così da fare capire ai britannici che la lotta al terrorismo deve essere trasparente e ci deve essere un coordinamento, e che i britannici non possono adottare una politica diversa dagli Usa e da Israele». «È quindi possibile - ha concluso il ministro - che altri attentati simili accadano nei Paesi arabi di questa regione».
TEORIE DEL COMPLOTTO
Teheran accusa Cia e Mossad «Hanno messo loro le bombe»
TEHERAN - Una grande trama ordita da servizi segreti statunitensi e israeliani dietro la strage del 7 luglio a Londra. La teoria del complotto è stata elaborata a Teheran, e non poteva essere diversamente, visto lo storico rancore nutrito dal regime iraniano verso il Grande Satana Usa, lo Stato ebraico e il governo di Sua Maestà britannica. Il ministro dell’intelligence iraniano, Ali Younesi, ha giudicato «non improbabile» che dietro agli attentati del 7 luglio a Londra vi siano i servizi segreti americano e israeliano, che avrebbero così voluto punire i colleghi britannici per avere trattato Al Qaeda in modo troppo «comprensivo» e aver dato asilo a numerosi personaggi accusati di estremismo. «Alcuni membri di Al Qaeda - ha detto Younesi all’agenzia degli studenti Isna - sono oggi al sicuro in Gran Bretagna e in alcuni Paesi arabi. La Cia e il Mossad sono arrabbiati con l’intelligence britannico per questo motivo, e quindi non è improbabile (...) che abbiano organizzato gli attentati di Londra, così da fare capire ai britannici che la lotta al terrorismo deve essere trasparente e ci deve essere un coordinamento, e che i britannici non possono adottare una politica diversa dagli Usa e da Israele». «È quindi possibile - ha concluso il ministro - che altri attentati simili accadano nei Paesi arabi di questa regione».
imperialismo e keynesismo
ilmanifesto.it sabato 16 luglio 2005
L'egemonia Usa e le trappole del keynesismo
Il capitalismo contemporaneo alla luce del pensiero di Paul Sweezy e della «Monthly Review» è il tema di una conferenza che si terrà questo lunedì a Londra, presso la storica sede della Marx Memorial Library. Ne anticipiamo un'ampia sintesi
JOSEPH HALEVI
Come nota lo storico Howard Zinn fu nel 1898, con la guerra alla Spagna, che Washington menzionò esplicitamente il ruolo dei mercati esteri per assorbire il surplus di merci prodotte dall'economia nazionale. Lo State Department fu lapidario nell'affermare tale connessione in un documento in cui si sosteneva che senza l'apertura di mercati esteri il mantenimento dell'occupazione sarebbe diventato molto difficile. Questo accadeva alla fine dell'Ottocento. Nell'arco di tempo che dal 1898 va al 1942-45 gli Usa cercarono di mettere in campo tale politica di apertura di nuovi spazi di sbocco, spazi che hanno un nome preciso: la Cina. Non a caso la rotta di collisione con il Giappone si concretizzò negli anni Trenta quando sull'onda della crisi il Giappone volle fare della Cina la zona di sbocco per le sue merci nonché una fonte di proventi dell'export (cinese) con il resto del mondo per finanziare il deficit nipponico verso le aree della sterlina e del dollaro. Dopo il 1945 la storia cambia, e assai rapidamente. Se è vero che gli Usa usarono il sistema di Bretton Woods per scalzare la Gran Bretagna, trasferendo la tradizionale dipendenza dei Dominions dal Regno Unito agli Usa, e installare in maniera esclusiva le multinazionali petrolifere americane in aree controllate da Londra come l'Arabia Saudita (1945, accordo verbale tra Roosevelt di ritorno da Yalta e il re saudita) e l'Iran (dopo il 1953), gli Usa dovettero occuparsi del problema della bilancia dei pagamenti. Inoltre le zone sotto maggiore controllo americano, come il Giappone, la Corea meridionale e Taiwan, attraversarono un processo di crescita accelerata chiudendosi, con l'approvazione ed il sostegno di Washington, rispetto agli investimenti diretti statunitensi. Nella sostanza, la stessa egemonia Usa poneva dei limiti all'individuazione di zone in cui esportare i capitali, mentre la bilancia dei pagamenti Usa sviluppava deficit persistenti. Già alla fine degli anni Sessanta, quindi, si può dire che il problema principale degli Usa non fosse più quello dell'imperialismo classico di Lenin, motivato dall'esportazione di capitali. Il nodo allora consisteva nel rompere il meccanismo in base al quale gran parte del mondo capitalista beneficiava del keynesismo militare Usa più di quanto ne beneficiassero le corporations americane negli Usa. La risposta fu su due fronti: svalutazione del dollaro e aumento dei prezzi del petrolio. Dalle memorie di Henry Kissinger pubblicate nel 1982 e da articoli apparsi su «Foreign Policy» nel 1976 emerge in maniera convincente come lo shock petrolifero del 1974 fu sostenuto e pilotato politicamente. Con la svalutazione del dollaro, il Giappone divenne la variabile di aggiustamento della politica monetaria Usa (un fenomeno, questo, che non funziona con la Cina che sta rimpiazzando il Giappone come maggiore esportatrice verso gli Usa), mentre la creazione dei petrodollari diede un'enorme forza internazionale al sistema finanziario degli Stati Uniti, dato che l'Arabia Saudita è una componente del sistema americano. I vincitori furono le società finanziarie, ma la svalutazione del dollaro non fece uscire la bilancia dei pagamenti Usa dal deficit. La svolta avvenne nel 1978-79 con la perdita dell'Iran. L'Iran con Israele era il maggior acquirente di mezzi militari Usa. Buona parte degli acquisti militari iraniani erano finanziati da un'apposita agenzia pubblica Usa preposta proprio al finanziamento dell'export militare. Con il 1979 questo sbocco si chiuse e le società petrolifere Usa, che avevano in precedenza accettato la nazionalizzazione dell'estrazione del greggio da parte dell'Arabia Saudita, si accorsero di aver perso il controllo diretto del greggio in Medioriente. Pertanto, il secondo shock petrolifero fu reale e non interno alle logiche dei gruppi dirigenti Usa. Ancora fino alla fine degli anni Settanta il deficit estero Usa veniva visto come un problema da affrontare aumentando in qualche modo la competitività del sistema economico nazionale. Dopo il 1979 queste considerazioni vengono abbandonate e la questione del deficit è trattata come un problema per chi detiene i surplus. Ma tale scelta non fu effettuata in relazione alla posizione contabile internazionale degli Usa bensì in relazione alla composizione degli interessi capitalistici negli Usa. Essi si concentravano nei settori che vennero colpiti durante la crisi iraniana e nell'accresciuto potere, grazie ai petrodollari, del settore finanziario. Così il periodo di Reagan fu veramente un nuovo capitolo nella storia statunitense perché ebbe proprio come obiettivo la deindustrializzazione dell'apparato produttivo civile del paese e il rilancio della componente militare-industriale. È da allora che gli Stati Uniti diventano importatori globali di merci, servizi e di capitali, questi ultimi ottenuti con le buone nelle fasi di crescita speculativa e con le cattive nelle fasi di stanca. Intanto, i «macjobs», i mestieri di servizio a basso valore aggiunto, si moltiplicano. In questo schema non vi è spazio per idiozie keynesiane e riformiste del tipo «siate carini e ascoltateci che andranno meglio salari e profitti». La spesa pubblica funziona direttamente per il complesso militare-industriale keynesiano e le società petrolifere, il resto si arrangi. E il mondo, Africa inclusa, deve volente o nolente rifinanziare il deficit Usa. Questa è la natura dell'imperialismo oggi.
L'egemonia Usa e le trappole del keynesismo
Il capitalismo contemporaneo alla luce del pensiero di Paul Sweezy e della «Monthly Review» è il tema di una conferenza che si terrà questo lunedì a Londra, presso la storica sede della Marx Memorial Library. Ne anticipiamo un'ampia sintesi
JOSEPH HALEVI
Affrontare il pensiero di Sweezy nello spirito dello stesso Sweezy, e di Magdoff e Baran, significa affrontare i problemi del capitalismo odierno e cercare di individuarne gli aspetti di cambiamento. Paul Sweezy e tutto il gruppo della «Monthly Review» non caddero mai nella trappola del keynesismo politico-economico, in base al quale con misure di distribuzione del reddito più eque e con l'aiuto della spesa pubblica, è possibile pilotare il sistema capitalista verso la piena occupazione garantendone la stabilità nel tempo. Secondo tale ideologia keynesiana, sia la questione del lavoro sia quella dell'imperialismo esulano dal campo del funzionamento economico e appartengono invece a scelte politiche dettate puramente da teorie sbagliate, dette neoclassiche, piuttosto che dalla configurazione di classe del sistema. Sweezy e la «Monthly Review» ritennero invece di Keynes la parte più avanzata, che riguardava la scarsa disponibilità dei capitalisti a sostenere un ritmo adeguato di investimenti e il tentativo di trovare invece nelle opzioni finanziarie una strada più facile per accumulare ricchezza astratta. L'elemento centrale del pensiero di Sweezy e del gruppo della «Monthly Review» consiste nell'aver integrato su basi squisitamente marxiste tre aspetti cruciali del sistema capitalistico contemporaneo: il problema degli sbocchi o della domanda effettiva, il ruolo delle grandi corporations nell'unificare politica ed economia e nel definire i rapporti di potere su cui si articola appunto il problema della domanda effettiva, il ruolo endogeno al sistema dell'imperialismo che assume istituzionalmente la forma di interventi economici dettati dalle istituzioni, e quindi esterni ai calcoli e alle decisioni economiche delle singole imprese. Solo in questo contesto è possibile concepire un keynesismo compatibile con il capitalismo. Come oculatamente scrisse «Business Week» nel 1949: «Vi è una grande differenza sociale ed economica tra il pump priming (cioè gonfiare la spesa come si gonfia il copertone di un'auto) volto al welfare ed il pump priming militare...La spesa militare non altera in realtà la struttura dell'economia. Essa avviene attraverso i canali regolari. Per ciò che riguarda l'imprenditore un ordinativo di munizioni dal governo è uguale a un ordinativo effettuato da un cliente privato». Invece la spesa sociale, sosteneva il principale settimanale economico statunitense, «crea nuovi canali a sé stanti. Crea nuove istituzioni, ridistribuisce il reddito. Sposta la composizione della domanda da un'industria all'altra: cambia l'intera struttura economica». Questo è il vero nocciolo del keynesismo, non a caso reso possibile su scala mondiale dagli Usa fino al 1971. Dal 1971 la dinamica del capitalismo si pone in termini che circoscrivono il keynesismo militare solo agli Usa con effetti che sono sempre meno significativi per il resto del mondo industrializzato e molto differenziati anche all'interno degli Stati Uniti. In un lasso di tempo relativamente breve dopo il 1945 il ruolo imperialistico degli Stati Uniti è andato mutando al punto tale da dover imporre nel 1971 l'abbandono del sistema di Bretton Woods concepito come pilastro dell'egemonia Usa.
Lunedì 18 luglio Joseph Halevi terrà una conferenza in onore di Paul Sweezy - di cui qui anticipiamo un'ampia sintesi - alla Marx Memorial Library a Londra. Il tema dell'incontro, intitolato «Paul Sweezy and a Marxist response to contemporary capitalism», sarà appunto il capitalismo odierno alla luce del pensiero di Sweezy. La Marx Memorial Library è stata fondata nel 1933 ad opera di delegati del partito laburista, di quello comunista e di alcuni sindacati. L'istituzione ha sede nello storico palazzo di Clerkenwell Green che ospitò nel 1902, per oltre un anno, la redazione dell'Iskra e lo stesso Lenin, per poi diventare sede della casa editrice Ventesimo Secolo, della federazione socialdemocratica.
Ogni anno si tengono due lectures (solitamente in primavera e in autunno) che vedono da sempre protagonisti i più noti studiosi di area marxista o leader politici e sindacali, come Sweezy, Hobsbawm, Arthur Scargill, Tony Benn, David McLellan.
Come nota lo storico Howard Zinn fu nel 1898, con la guerra alla Spagna, che Washington menzionò esplicitamente il ruolo dei mercati esteri per assorbire il surplus di merci prodotte dall'economia nazionale. Lo State Department fu lapidario nell'affermare tale connessione in un documento in cui si sosteneva che senza l'apertura di mercati esteri il mantenimento dell'occupazione sarebbe diventato molto difficile. Questo accadeva alla fine dell'Ottocento. Nell'arco di tempo che dal 1898 va al 1942-45 gli Usa cercarono di mettere in campo tale politica di apertura di nuovi spazi di sbocco, spazi che hanno un nome preciso: la Cina. Non a caso la rotta di collisione con il Giappone si concretizzò negli anni Trenta quando sull'onda della crisi il Giappone volle fare della Cina la zona di sbocco per le sue merci nonché una fonte di proventi dell'export (cinese) con il resto del mondo per finanziare il deficit nipponico verso le aree della sterlina e del dollaro. Dopo il 1945 la storia cambia, e assai rapidamente. Se è vero che gli Usa usarono il sistema di Bretton Woods per scalzare la Gran Bretagna, trasferendo la tradizionale dipendenza dei Dominions dal Regno Unito agli Usa, e installare in maniera esclusiva le multinazionali petrolifere americane in aree controllate da Londra come l'Arabia Saudita (1945, accordo verbale tra Roosevelt di ritorno da Yalta e il re saudita) e l'Iran (dopo il 1953), gli Usa dovettero occuparsi del problema della bilancia dei pagamenti. Inoltre le zone sotto maggiore controllo americano, come il Giappone, la Corea meridionale e Taiwan, attraversarono un processo di crescita accelerata chiudendosi, con l'approvazione ed il sostegno di Washington, rispetto agli investimenti diretti statunitensi. Nella sostanza, la stessa egemonia Usa poneva dei limiti all'individuazione di zone in cui esportare i capitali, mentre la bilancia dei pagamenti Usa sviluppava deficit persistenti. Già alla fine degli anni Sessanta, quindi, si può dire che il problema principale degli Usa non fosse più quello dell'imperialismo classico di Lenin, motivato dall'esportazione di capitali. Il nodo allora consisteva nel rompere il meccanismo in base al quale gran parte del mondo capitalista beneficiava del keynesismo militare Usa più di quanto ne beneficiassero le corporations americane negli Usa. La risposta fu su due fronti: svalutazione del dollaro e aumento dei prezzi del petrolio. Dalle memorie di Henry Kissinger pubblicate nel 1982 e da articoli apparsi su «Foreign Policy» nel 1976 emerge in maniera convincente come lo shock petrolifero del 1974 fu sostenuto e pilotato politicamente. Con la svalutazione del dollaro, il Giappone divenne la variabile di aggiustamento della politica monetaria Usa (un fenomeno, questo, che non funziona con la Cina che sta rimpiazzando il Giappone come maggiore esportatrice verso gli Usa), mentre la creazione dei petrodollari diede un'enorme forza internazionale al sistema finanziario degli Stati Uniti, dato che l'Arabia Saudita è una componente del sistema americano. I vincitori furono le società finanziarie, ma la svalutazione del dollaro non fece uscire la bilancia dei pagamenti Usa dal deficit. La svolta avvenne nel 1978-79 con la perdita dell'Iran. L'Iran con Israele era il maggior acquirente di mezzi militari Usa. Buona parte degli acquisti militari iraniani erano finanziati da un'apposita agenzia pubblica Usa preposta proprio al finanziamento dell'export militare. Con il 1979 questo sbocco si chiuse e le società petrolifere Usa, che avevano in precedenza accettato la nazionalizzazione dell'estrazione del greggio da parte dell'Arabia Saudita, si accorsero di aver perso il controllo diretto del greggio in Medioriente. Pertanto, il secondo shock petrolifero fu reale e non interno alle logiche dei gruppi dirigenti Usa. Ancora fino alla fine degli anni Settanta il deficit estero Usa veniva visto come un problema da affrontare aumentando in qualche modo la competitività del sistema economico nazionale. Dopo il 1979 queste considerazioni vengono abbandonate e la questione del deficit è trattata come un problema per chi detiene i surplus. Ma tale scelta non fu effettuata in relazione alla posizione contabile internazionale degli Usa bensì in relazione alla composizione degli interessi capitalistici negli Usa. Essi si concentravano nei settori che vennero colpiti durante la crisi iraniana e nell'accresciuto potere, grazie ai petrodollari, del settore finanziario. Così il periodo di Reagan fu veramente un nuovo capitolo nella storia statunitense perché ebbe proprio come obiettivo la deindustrializzazione dell'apparato produttivo civile del paese e il rilancio della componente militare-industriale. È da allora che gli Stati Uniti diventano importatori globali di merci, servizi e di capitali, questi ultimi ottenuti con le buone nelle fasi di crescita speculativa e con le cattive nelle fasi di stanca. Intanto, i «macjobs», i mestieri di servizio a basso valore aggiunto, si moltiplicano. In questo schema non vi è spazio per idiozie keynesiane e riformiste del tipo «siate carini e ascoltateci che andranno meglio salari e profitti». La spesa pubblica funziona direttamente per il complesso militare-industriale keynesiano e le società petrolifere, il resto si arrangi. E il mondo, Africa inclusa, deve volente o nolente rifinanziare il deficit Usa. Questa è la natura dell'imperialismo oggi.
un dossier di Panorama, stile da spiaggia, ma qualche dato intrigante
il "piacere" oggi
Panorama 14.7.05
La ricerca del piacere perfetto
di Stefania Berbenni
Consumiamo sempre più farmaci salvasesso, compriamo accessori porno, ma la cultura dell'eros nazionale sta perdendo colpi. Perché i giovani hanno l'ansia da performance, le donne sanno poco godere e gli uomini sono sempre meno maschi
Per evitare crolli nel weekend c'è la pillola dopante che ti tiene su per 48 ore filate.
Se una cena si fa gagliarda, preludio di un dopo, ingerire l'apposita pasticca due ore prima di denudarsi. Esiste anche il pendolino dell'erezione, veloce, puntuale, bastano 20 minuti di lungimiranza e la penica performance è assicurata. Se si è propensi a viaggiare ad alta velocità, atteggiamento sconveniente sui binari dell'eros, si può inserire un fattore di ritardo: un preparato di ultima generazione evita la eiaculatio praecox.
Anche lei si può aiutare, con creme esaltanti le sensazioni, facilitanti il rapporto, e se il conto in banca è più polposo della libido e degli ormoni, un dottore americano, in cambio di 800 dollari, è disposto a iniettare una dose di collagene nel presunto punto G, per decenni oggetto di sfiancanti cacce al tesoro da parte di ginecologi, femministe, fidanzati benintenzionati (curiosità: il fatidico distretto è stato trovato per caso, una paziente affetta da mal di schiena è andata dal medico per alleviare il dolore; la puntura, con la speciale miscela di collagene, ha generato gemiti stile Meg Ryan in Harry ti presento Sally).
IL VIAGRA FA MALE ALLA VISTA
Siamo al ricettario medico del piacere, all'orgasmo da bancone farmaceutico, al godimento programmato, al kit anti brutte figure. Negli ultimi cinque anni abbiamo consumato 27 milioni di pillole blu, le statistiche dicono che i pistoiesi sono quelli messi peggio e dunque sono gli italiani a rischio cecità.
Non è infatti dandosi all'onanismo più sfrenato che si perde la vista (lo dicevano i preti fino a pochi anni fa per evitare agli adolescenti quelle brutte occhiaie da iperattività masturbatoria); no, pare che il Viagra nel rivitalizzare le parti basse immoli le cornee: 38 casi denunciati negli Stati Uniti e l'azienda produttrice (la Pfizer) ha annunciato che aggiungerà questa controindicazione al bugiardino.
Intanto a Pistoia hanno venduto 622 pasticche, dato relativo a un campione di mille uomini sopra i 40 anni, quattro in più di quelle consumate dai romani.
Prospera l'industria farmaceutica del piacere per lei e per lui che nulla ha a che vedere con la cosiddetta chimica del desiderio, naturale, primordiale pulsione istintuale che scatena reazioni chimiche dentro l'organismo di individui che si piacciono.
Meravigliosa urgenza del desiderio contro l'urgenza dell'erezione.
IL PAESE DELL'IMPOTENZA
A essere ottimisti, si potrebbe dire che gli italiani sono di nuovo a caccia del piacere perfetto di dannunziana memoria. O che, come le femministe negli anni Settanta, rivendichino un nuovo diritto al piacere. A essere ottimisti, perché dati e pareri raccolti fotografano un'Italia più da Bell'Antonio (l'impotente di Vitaliano Brancati) che da L'amante di Marguerite Duras (il sesso come esperienza conoscitiva, tonda); un Paese che consuma sempre più pornografia e sesso virtuale, ossessionato dal dovere di arrivare al piacere ma pavido, atrofizzato nel provare sensazioni, anche quelle che col piacere hanno a che fare (dolore, paura, come spiegano gli psicoanalisti).
Nel '76 Lidia Ravera raccontò le peripezie sessuali di una ragazzina che mentre si concedeva al sesso solitario urlava «cazzo, cazzo, cazzo...». Si intitolava Porci con le ali il libro-scandalo. Quasi trent'anni dopo la sua autrice annota: «Era un diario sessual-politico, in cui c'era il diritto al piacere, anche solitario, perché no? Oggi c'è una specie di esibizione costante di tracotanza sessuale, persino nel modo di vestire. E il sesso è qualcosa di tristemente meccanico, con la pillola che tiene l'attrezzo dritto fino a 80 anni. Siamo in una società che non vuole faticare né provare dolore, quindi è incapace del vero piacere. È una società diserotizzata, perché senza più il senso del peccato. Oggi scriverei la storia di una ragazza che si fa monaca».
PER I GIOVANI IL PIACERE È SOFFERENZA
Fatto base cento italiani, solo 21 di loro, in età fra i 23 e i 32 anni, dà importanza al piacere. Media che sale con l'età: 81 per cento fra i 32 e i 50 anni. «Sono i dati emersi da una nostra recente ricerca» spiega Mauro Pecchinino, sociologo e anima dell'Osservatorio sulla famiglia e la persona. «La ricerca del piacere è frequente dopo i 38 anni. Per i giovani il piacere è quasi sofferenza, perché c'è un'alta conflittualità di coppia, si sentono giudicati e giudicano. A letto si danno le pagelle. Sa cosa bisognerebbe fare? Un'inchiesta su medici e farmacisti che prescrivono il Viagra anche ai ragazzini. In due anni, chi ne fa uso è il 9 per cento dei nostri intervistati contro l'uno di due anni fa».
Pagelle in piena regola le ha stilate Lewis Wingrove, più noto come Nick, nome che in francese ha lo stesso fonema di niquer, scopare. Per un anno ha abbordato signore e signorine, se ne è portate a letto 27 assegnando loro le stelline del critico, come fossero film. Solo due hanno preso il massimo. Il signore è inglese, ha fatto sesso con delle francesi, ha raccontato le sue prodezze in un blog che sta per diventare libro. E si è fidanzato con una delle «orizzontalizzate» (da cinque stelle?). Ma il suo caso potrebbe battere bandiera tricolore perché da noi sono sempre più rari gli incontri a cinque stelle, sebbene il serissimo Wall Street Journal abbia messo gli italiani, in un recente sondaggio su 19.163 europei, in cima alla classifica degli amanti con il 17 per cento di preferenze.
ANSIA DA PRESTAZIONE
Soprattutto i giovani arrancano, cominciano ad avere rapporti fra i 18 e i 19 anni i ragazzi, fra i 20 e i 21 le femmine, così almeno dice l'altrettanto autorevole Università Bocconi di Milano, che ha fotografato, in uno studio, uso e disuso del piacere fra i giovani: al Sud si rimanda il primo incontro, a Rimini, fra piadine e discoteche, si può perdere la verginità con qualche anno d'anticipo.
«Macché sono matti? Tutti a pigliare Viagra e Cialis perché affetti da ansia di prestazione, anche i ragazzini!» dice uno che di ansia se ne intende, Carlo Verdone. «È un'epoca consumistica la nostra, si fa quel che si deve e poi arrivederci e grazie. Le andate-via sono tragiche, manco due parole». Il suo «famolo strano» in Viaggi di nozze, anno 1995, è stato però logorato da coppie e titolisti a furia di essere citato... «Ma quelli erano due poveracci, era uno scherzo».
Provare piacere è cosa seria, indispensabile.
Lo dicono medici e psicoanalisti. Il piacere è fondamentale nella vita di un individuo: è energia, sviluppo della persona: «Si cresce e il piacere cresce con la nostra crescita» spiega Giorgio Abraham, noto sessuologo docente di psichiatria a Ginevra, «chi lo nega è perché teme di perderlo».
Fra i molti suoi pazienti c'è una coppia, lei troppo lenta, lui irruente. «La signora aveva trovato un trucco: immaginava di essere stuprata da una decina di uomini. E al tempo stesso non accettava di prevedere un simile pensiero.
Chiamava in soccorso la paura e la rabbia». Abraham spiega: «Tutti i tentativi di localizzare i centri del piacere nel cervello hanno portato a un unico risultato: scoprire che a livello cerebrale sono gli stessi del dolore.
Le fibre che trasportano le sensazioni dolorose portano anche quelle del piacere, le prime più rapide, durature, le seconde fragili, fugaci». Lo diceva anche Jacques Prévert, in una sua poesia: «Mi sono accorto della presenza del piacere al rumore leggero che faceva nell'andarsene via».
L'OCCHIO È L'ORGANO SESSUALE
Philippe Daverio, intellettuale e critico d'arte, va oltre: «La nostra cultura, oppiacea e anestetizzante, tende a evitare il dolore, e con quello il piacere. Tutto viene appiattito, massificato.
Il sesso viene semplificato, esagerato, mercificato. L'erotismo della caviglia della monaca non c'è più».
La zona più erogena è il cervello, diceva qualcuno, e Pablo Picasso ribatteva sostenendo che «l'occhio è l'organo sessuale». Per voyeur e habitué di fantasie erotiche son tempi duri, senza più tabù da abbattere, né trasgressioni impossibili. Esplode il mercato di oggetti porno, dilaga il sesso via internet.
«Abbiamo sbagliato negli anni Settanta pensando che la libertà corrispondesse alla coppia aperta. Il piacere perfetto lo si continua a raggiungere quando c'è fantasia, passione, un rapporto fra due individui»: parere di Platinette, la dragqueen più famosa d'Italia.
In fondo solo pochi decenni fa molte donne portavano scritto sulla camicia da notte (in alcuni casi, provvista di apertura, là dove ce n'era bisogno): «Non lo fo per piacer mio, ma per dare figli a Dio». Oggi una donna su tre ha difficoltà a raggiungere l'orgasmo, sostiene una ricerca inglese.
I maschi sempre più spesso fanno affidamento alla Rete, ma a luci rosse, o al banco farmaceutico, figli della cultura dell'«aiutino» da quiz tv.
Daverio è pessimista, arriva a rimpiangere «quando era peggio», i tempi della guerra, la vita che morde. Scorre la storia come fosse una tela di Raffaello: «Quattro momenti di piacere perfetto per l'umanità: 1635, la Germania si sta suicidando nella guerra dei Trenta anni, chi non muore gode molto, come le ciccione di Rubens; 1748, siamo a metà Settecento, c'è una cultura del piacere sottile, raffinata; 1930, dopo la grande crisi del '29, ci si butta nel godimento, siamo fra le due guerre; 1952-54, è la ripresa, ma anche il preludio della decadenza».
Dagli anni Cinquanta, più niente.
Ma non può finir così, come cantava Eros Ramazzotti.
La ricerca del piacere perfetto
di Stefania Berbenni
Consumiamo sempre più farmaci salvasesso, compriamo accessori porno, ma la cultura dell'eros nazionale sta perdendo colpi. Perché i giovani hanno l'ansia da performance, le donne sanno poco godere e gli uomini sono sempre meno maschi
Per evitare crolli nel weekend c'è la pillola dopante che ti tiene su per 48 ore filate.
Se una cena si fa gagliarda, preludio di un dopo, ingerire l'apposita pasticca due ore prima di denudarsi. Esiste anche il pendolino dell'erezione, veloce, puntuale, bastano 20 minuti di lungimiranza e la penica performance è assicurata. Se si è propensi a viaggiare ad alta velocità, atteggiamento sconveniente sui binari dell'eros, si può inserire un fattore di ritardo: un preparato di ultima generazione evita la eiaculatio praecox.
Anche lei si può aiutare, con creme esaltanti le sensazioni, facilitanti il rapporto, e se il conto in banca è più polposo della libido e degli ormoni, un dottore americano, in cambio di 800 dollari, è disposto a iniettare una dose di collagene nel presunto punto G, per decenni oggetto di sfiancanti cacce al tesoro da parte di ginecologi, femministe, fidanzati benintenzionati (curiosità: il fatidico distretto è stato trovato per caso, una paziente affetta da mal di schiena è andata dal medico per alleviare il dolore; la puntura, con la speciale miscela di collagene, ha generato gemiti stile Meg Ryan in Harry ti presento Sally).
IL VIAGRA FA MALE ALLA VISTA
Siamo al ricettario medico del piacere, all'orgasmo da bancone farmaceutico, al godimento programmato, al kit anti brutte figure. Negli ultimi cinque anni abbiamo consumato 27 milioni di pillole blu, le statistiche dicono che i pistoiesi sono quelli messi peggio e dunque sono gli italiani a rischio cecità.
Non è infatti dandosi all'onanismo più sfrenato che si perde la vista (lo dicevano i preti fino a pochi anni fa per evitare agli adolescenti quelle brutte occhiaie da iperattività masturbatoria); no, pare che il Viagra nel rivitalizzare le parti basse immoli le cornee: 38 casi denunciati negli Stati Uniti e l'azienda produttrice (la Pfizer) ha annunciato che aggiungerà questa controindicazione al bugiardino.
Intanto a Pistoia hanno venduto 622 pasticche, dato relativo a un campione di mille uomini sopra i 40 anni, quattro in più di quelle consumate dai romani.
Prospera l'industria farmaceutica del piacere per lei e per lui che nulla ha a che vedere con la cosiddetta chimica del desiderio, naturale, primordiale pulsione istintuale che scatena reazioni chimiche dentro l'organismo di individui che si piacciono.
Meravigliosa urgenza del desiderio contro l'urgenza dell'erezione.
IL PAESE DELL'IMPOTENZA
A essere ottimisti, si potrebbe dire che gli italiani sono di nuovo a caccia del piacere perfetto di dannunziana memoria. O che, come le femministe negli anni Settanta, rivendichino un nuovo diritto al piacere. A essere ottimisti, perché dati e pareri raccolti fotografano un'Italia più da Bell'Antonio (l'impotente di Vitaliano Brancati) che da L'amante di Marguerite Duras (il sesso come esperienza conoscitiva, tonda); un Paese che consuma sempre più pornografia e sesso virtuale, ossessionato dal dovere di arrivare al piacere ma pavido, atrofizzato nel provare sensazioni, anche quelle che col piacere hanno a che fare (dolore, paura, come spiegano gli psicoanalisti).
Nel '76 Lidia Ravera raccontò le peripezie sessuali di una ragazzina che mentre si concedeva al sesso solitario urlava «cazzo, cazzo, cazzo...». Si intitolava Porci con le ali il libro-scandalo. Quasi trent'anni dopo la sua autrice annota: «Era un diario sessual-politico, in cui c'era il diritto al piacere, anche solitario, perché no? Oggi c'è una specie di esibizione costante di tracotanza sessuale, persino nel modo di vestire. E il sesso è qualcosa di tristemente meccanico, con la pillola che tiene l'attrezzo dritto fino a 80 anni. Siamo in una società che non vuole faticare né provare dolore, quindi è incapace del vero piacere. È una società diserotizzata, perché senza più il senso del peccato. Oggi scriverei la storia di una ragazza che si fa monaca».
PER I GIOVANI IL PIACERE È SOFFERENZA
Fatto base cento italiani, solo 21 di loro, in età fra i 23 e i 32 anni, dà importanza al piacere. Media che sale con l'età: 81 per cento fra i 32 e i 50 anni. «Sono i dati emersi da una nostra recente ricerca» spiega Mauro Pecchinino, sociologo e anima dell'Osservatorio sulla famiglia e la persona. «La ricerca del piacere è frequente dopo i 38 anni. Per i giovani il piacere è quasi sofferenza, perché c'è un'alta conflittualità di coppia, si sentono giudicati e giudicano. A letto si danno le pagelle. Sa cosa bisognerebbe fare? Un'inchiesta su medici e farmacisti che prescrivono il Viagra anche ai ragazzini. In due anni, chi ne fa uso è il 9 per cento dei nostri intervistati contro l'uno di due anni fa».
Pagelle in piena regola le ha stilate Lewis Wingrove, più noto come Nick, nome che in francese ha lo stesso fonema di niquer, scopare. Per un anno ha abbordato signore e signorine, se ne è portate a letto 27 assegnando loro le stelline del critico, come fossero film. Solo due hanno preso il massimo. Il signore è inglese, ha fatto sesso con delle francesi, ha raccontato le sue prodezze in un blog che sta per diventare libro. E si è fidanzato con una delle «orizzontalizzate» (da cinque stelle?). Ma il suo caso potrebbe battere bandiera tricolore perché da noi sono sempre più rari gli incontri a cinque stelle, sebbene il serissimo Wall Street Journal abbia messo gli italiani, in un recente sondaggio su 19.163 europei, in cima alla classifica degli amanti con il 17 per cento di preferenze.
ANSIA DA PRESTAZIONE
Soprattutto i giovani arrancano, cominciano ad avere rapporti fra i 18 e i 19 anni i ragazzi, fra i 20 e i 21 le femmine, così almeno dice l'altrettanto autorevole Università Bocconi di Milano, che ha fotografato, in uno studio, uso e disuso del piacere fra i giovani: al Sud si rimanda il primo incontro, a Rimini, fra piadine e discoteche, si può perdere la verginità con qualche anno d'anticipo.
«Macché sono matti? Tutti a pigliare Viagra e Cialis perché affetti da ansia di prestazione, anche i ragazzini!» dice uno che di ansia se ne intende, Carlo Verdone. «È un'epoca consumistica la nostra, si fa quel che si deve e poi arrivederci e grazie. Le andate-via sono tragiche, manco due parole». Il suo «famolo strano» in Viaggi di nozze, anno 1995, è stato però logorato da coppie e titolisti a furia di essere citato... «Ma quelli erano due poveracci, era uno scherzo».
Provare piacere è cosa seria, indispensabile.
Lo dicono medici e psicoanalisti. Il piacere è fondamentale nella vita di un individuo: è energia, sviluppo della persona: «Si cresce e il piacere cresce con la nostra crescita» spiega Giorgio Abraham, noto sessuologo docente di psichiatria a Ginevra, «chi lo nega è perché teme di perderlo».
Fra i molti suoi pazienti c'è una coppia, lei troppo lenta, lui irruente. «La signora aveva trovato un trucco: immaginava di essere stuprata da una decina di uomini. E al tempo stesso non accettava di prevedere un simile pensiero.
Chiamava in soccorso la paura e la rabbia». Abraham spiega: «Tutti i tentativi di localizzare i centri del piacere nel cervello hanno portato a un unico risultato: scoprire che a livello cerebrale sono gli stessi del dolore.
Le fibre che trasportano le sensazioni dolorose portano anche quelle del piacere, le prime più rapide, durature, le seconde fragili, fugaci». Lo diceva anche Jacques Prévert, in una sua poesia: «Mi sono accorto della presenza del piacere al rumore leggero che faceva nell'andarsene via».
L'OCCHIO È L'ORGANO SESSUALE
Philippe Daverio, intellettuale e critico d'arte, va oltre: «La nostra cultura, oppiacea e anestetizzante, tende a evitare il dolore, e con quello il piacere. Tutto viene appiattito, massificato.
Il sesso viene semplificato, esagerato, mercificato. L'erotismo della caviglia della monaca non c'è più».
La zona più erogena è il cervello, diceva qualcuno, e Pablo Picasso ribatteva sostenendo che «l'occhio è l'organo sessuale». Per voyeur e habitué di fantasie erotiche son tempi duri, senza più tabù da abbattere, né trasgressioni impossibili. Esplode il mercato di oggetti porno, dilaga il sesso via internet.
«Abbiamo sbagliato negli anni Settanta pensando che la libertà corrispondesse alla coppia aperta. Il piacere perfetto lo si continua a raggiungere quando c'è fantasia, passione, un rapporto fra due individui»: parere di Platinette, la dragqueen più famosa d'Italia.
In fondo solo pochi decenni fa molte donne portavano scritto sulla camicia da notte (in alcuni casi, provvista di apertura, là dove ce n'era bisogno): «Non lo fo per piacer mio, ma per dare figli a Dio». Oggi una donna su tre ha difficoltà a raggiungere l'orgasmo, sostiene una ricerca inglese.
I maschi sempre più spesso fanno affidamento alla Rete, ma a luci rosse, o al banco farmaceutico, figli della cultura dell'«aiutino» da quiz tv.
Daverio è pessimista, arriva a rimpiangere «quando era peggio», i tempi della guerra, la vita che morde. Scorre la storia come fosse una tela di Raffaello: «Quattro momenti di piacere perfetto per l'umanità: 1635, la Germania si sta suicidando nella guerra dei Trenta anni, chi non muore gode molto, come le ciccione di Rubens; 1748, siamo a metà Settecento, c'è una cultura del piacere sottile, raffinata; 1930, dopo la grande crisi del '29, ci si butta nel godimento, siamo fra le due guerre; 1952-54, è la ripresa, ma anche il preludio della decadenza».
Dagli anni Cinquanta, più niente.
Ma non può finir così, come cantava Eros Ramazzotti.
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