lunedì 27 settembre 2004

il mondo etrusco

Repubblica 27.9.04
ARCHEOLOGIA
STORIA, ARTE E CIVILTÀ DEL MONDO ETRUSCO
GIUSEPPE M. DELLA FINA

Un libro che in tre anni arriva alla seconda edizione denota una sua vitalità notevole, ma soprattutto segnala un interesse vasto per il tema affrontato. La necessità di una revisione del testo si è resa necessaria infatti a causa dello sviluppo degli studi etruscologici che, nel breve arco di tempo trascorso, hanno visto l´allestimento di ben nove esposizioni di rilevanza internazionale, l´organizzazione di una serie d´importanti convegni e la realizzazione di scoperte in grado di gettare una luce nuova su una civiltà di grande rilievo nella storia della prima Italia. Il volume di Giovannangelo Camporeale, un´opera d´insieme sul mondo etrusco, si sta avviando di conseguenza ad affiancare e progressivamente a superare il classico Etruscologia di Massimo Pallottino.
Come è articolato lo studio? Appare suddiviso in due parti. Nella prima sono privilegiati i grandi temi (la formazione, la storia, l´arte, l´organizzazione politica, eccetera), mentre nella seconda viene presentata in maniera analitica la cultura delle singole città stato che costituivano la lega etrusca e dei loro territori. L´autore mostra così di ricollegarsi idealmente a due importanti tradizioni di studio che hanno fatto riferimento a Massimo Pallottino e a Luisa Banti, due studiosi con i quali Camporeale ha dialogato da sempre.

Bonito Oliva contro Andy Warhol:
superficialità e freddezza

Repubblica 27.9.04
Quando la merce diventa un classico
Esposti alla Triennale di Milano duecento suoi lavori, fra dipinti, disegni, sculture, ma anche fotografie, copertine e feticci
Con la sua presenza fredda, cancella ogni profondità, celebrando la superficie
L'individuo ripetuto in uomo massa, moltiplicato, diventa uno stereotipo
ACHILLE BONITO OLIVA

MILANO. La merce è la grande madre che accudisce il sonno, i sogni e gli incubi dell´uomo americano, che lo assiste in tutti i suoi bisogni, fino al punto di incentivare e creare altri nuovi consumi. La città è lo spazio, l´alveo naturale dell´american dream, inteso come sogno continuo di opulenza e di stordimento organizzato dalla merce. L´arte diventa il momento di esibizione splendente ed esemplare di tale sogno, la pratica alta che mette sulla scena definitiva del linguaggio lo stile basso delle immagini, prodotte dai mezzi di comunicazione di massa, dalla pubblicità e dagli altri strumenti di persuasione occulta ed esplicita dell´industria americana.
Andy Warhol è l´artista della Pop Art che cerca di dare classicità all´oggetto di consumo. Una sorta di Raffaello della società di massa americana. Di tale grandezza ne è soltanto un´eco, forse non potrebbe essere altrimenti, la mostra «The Andy Warhol show» alla Triennale di Milano (fino al 9 gennaio 2005, catalogo Skira). Il gran magazzino espositivo, segnala l´iperconsumo di Warhol come icona, fino alla presentazione feticistica del suo scalpo (una delle parrucche). Questo ci consente un lamento, parafrasando Goya: il sonno della ragione genera mostre! Ecco quindi il «The Andy Warhol show» trasformarsi nel «The Andy Warhol show room». Lo show comprende 200 lavori tra dipinti (tra cui numerosi ritratti di attori e attrici, cantanti, stilisti, galleristi, artisti, e nobildonne) disegni, fotografie, opere grafiche, illustrazioni di riviste, sculture giovanili, feticci di scarpe, copertine di riviste e prove delle sue esperienze di precoce vetrinista della vita. Che comunque amava la vita, fino a farsi ferire dal femminismo della Solanas e a creare opere di gruppo con Basquiat e Clemente.
«Tutti si rassomigliano e agiscono allo stesso modo, ogni giorno che passa di più. Penso che tutti dovrebbero essere macchine. Penso che tutti dovrebbero amarsi. La pop-art è amare le cose. Amare le cose vuol dire essere come una macchina, perché si fa continuamente la stessa cosa. Io dipingo in questo modo perché voglio essere una macchina». Questo dichiara Andy Warhol in una intervista di Swenson, apparsa su Art News, nel novembre del 1963. Andy Warhol è l´artista che tenta di dare una classicità alla nuova arte americana. Lo standard viene assunto a livello antropologico: la cancellazione di ogni psicologia individuale e la celebrazione snobistica dell´inespressivo.
Con la sua presenza fredda e distaccata, Warhol cancella ogni profondità e i suoi quadri, i suoi ritratti, diventano la celebrazione della superficie. Così l´artista adopera nell´arte l´idea del multiplo, dell´oggetto fatto in serie: l´individuo ripetuto in uomo massa, in uomo moltiplicato, portato dal sistema in una condizione di esistenza stereotipata. Al prodotto unico subentra l´opera ripetuta, la cui ripetizione comporta non più un´angoscia esistenziale ma il raggiungimento di uno stato di indifferenza che diventa l´ottica attraverso cui Warhol guarda il mondo.
Infatti nei suoi quadri ogni intenzione di segretezza viene ribaltata in ostentazione, che è la premessa di quel consumo cui la civiltà americana non intende sfuggire. L´occhio cinico dell´artista ci restituisce una condizione oggettiva dell´uomo medio americano alla quale egli stesso non sfugge, cui non intende sfuggire, in quanto i modelli adoperati non sono fuori dalla realtà americana ma dentro. Dentro ci sono le espressioni, le facce inespressive dell´ uomo-folla, gettato nella sua solitudine quotidiana, separato dagli altri uomini, incidenti d´auto, nature morte di fiori, riprodotti con gelida allegria attraverso il procedimento meccanico della serigrafia.
Così Warhol ribadisce e accetta lo stato di manipolazione di ogni cosa, anche dell´uomo, senza disperazione, senza possibilità di alternativa, applicando la considerazione irreversibile dell´uomo come "uomo consumato". Anche l´artista vive dentro una realtà già definita, in cui ogni prodotto è segno della merce. L´uomo viene confinato nello stato paralizzato di voyeur, dove ogni evento è il portato di un futuro già fissato in una distanza dal mondo, diventata a sua volta condizione inerte dell´esistenza.
In una realtà così freddamente ordinata nei suoi eventi strutturali, lo stato incerto e eccentrico dell´omosessualità diventa un varco mobile attraverso cui Warhol tenta, mediante autogratificazioni (il vestire, l´amare, il vivere, il creare, il produrre nella comunità della Factory) di affermare la propria identità. E in una realtà tecnologica che tende alla moltiplicazione e a moltiplicarsi, l´unica maniera di affermare tale identità è il raddoppio di se stessi: il rapporto omosessuale con l´altro uomo. Tale procedimento passa inevitabilmente attraverso lo specchio, attraverso l´onanismo, l´esibizionismo, il narcisismo, per cui ogni rapporto è pura tensione, possibilità bloccata nel suo nascere che definisce l´uomo come semplice voyeur della propria solitudine e del mondo.
L´accumulo grammaticale delle immagini è l´effetto di una mentalità che non ha il mito della complessità del mondo ma che anzi ha individuato le istanze dell´uomo e l´ineluttabile e necessaria esibizione ditali istanze, collegata alla dimensione non negativa di spettacolarità insita nel sistema sociale e economico. Così Warhol situa le proprie immagini per associazione elementare, che riflette con cinica disperazione il destino dell´uomo: l´esibizione come esibizionismo, quale ineluttabile cancellazione della profondità e riduzione a uno splendente superficialismo. Lo spegnimento della profondità psicologica segna il punto di massima socialità nell´opera di Warhol.

il "mondo nuovo"
animatori culturali e psicoterapeuti anziché docenti: ubbidienza e controllo

Repubblica 27.9.04
L'INTERVISTA
L'allarme del super-consulente
"Ma tra 50 anni gli insegnanti spariranno"
di c.m.c.

BOLOGNA - Norberto Bottani ha lavorato venti anni all´O. C. S. E., è stato consulente super partes per Berlinguer e per la Moratti. Per il Mulino ha pubblicato "Insegnanti al timone?". Ora dirige un centro studi a Ginevra, si occupa di sistemi scolastici e di numeri. Perché la questione per lui è tutta nei numeri.
Perché una questione di numeri e basta?
«L´insegnamento non è una vocazione, è un mestiere. Nell´Europa a 25 ci sono 7 milioni di docenti: pensare che ognuno di loro sia una personalità carismatica o che sia colto, equilibrato e dedito, è pura utopia».
Un giudizio molto perentorio, che lascia poche illusioni. E come sarà allora l´insegnante del futuro?
«Nel 2050 l´insegnante, così come lo conosciamo oggi, sarà estinto. Al suo posto ci saranno probabilmente gruppi di animatori culturali o psicoterapeuti. I luoghi che chiameremo scuole saranno, nel migliore dei casi, centri comunitari del sapere o centri culturali diurni».
Prospettiva curiosa, che fa riflettere. Eppure anche il docente del futuro dovrà pur possedere qualche qualità umana e professionale.
«Sono molto pessimista. Per far funzionare una massa di persone bisogna che queste siano ubbidienti, che siano seguite e che ricevano direttive chiare. Oggi non esistono più valori condivisi, ma saperi trasversali: dunque conterà solo la capacità di comunicare, e di collaborare insieme. L´insegnante come guida, come l´abbiamo inteso per secoli, si può dire, sarà solo un fantasma del passato».

psichiatria e Casa Bianca

Corriere della Sera 27.9.04
Quando lo psichiatra entra alla Casa Bianca
IL CASO

Anticipiamo un capitolo dal libro di Mauro della Porta Raffo, «I Signori della Casa Bianca. Fatti, aneddoti & personaggi per capire la democrazia americana da G.Washington a G.W.Bush» (prefazione di Ferruccio de Bortoli) in uscita per le Edizioni Ares (pagine 256, € 12). Il libro intende svelare «tutti i come e i perché del sistema elettorale e del governo americano» attraverso la vita e le opere, i vizi e le virtù degli inquilini dello Studio Ovale.

di Mauro della Porta Raffo


Tempo fa, negli Stati Uniti, ebbe un qualche successo un libro (The arrogance of power) di Anthony Summers (già autore di una buonissima e documentata biografia di J. Edgar Hoover, per lunghissimi anni direttore del Fbi) dedicato a Richard Nixon. Il presidente del Watergate - ma, non dimentichiamolo, anche dell’apertura alla Cina e di altri grandi successi in politica internazionale - veniva presentato da Summers come un folle, capace di mettere in pericolo la sicurezza nazionale e di picchiare più volte la moglie perché schiavo di potenti psicofarmaci che assumeva per combattere ansietà, insonnia e altri sintomi nevrotici. A fronte di tali «rivelazioni» (in molti casi non provate e per altri versi già note), viene da chiedersi se in un sistema quale quello che regola la vita politica americana sia davvero possibile che un pazzo o, comunque, uno squilibrato arrivi alla Casa Bianca.
Guardando alla storia più recente delle elezioni presidenziali Usa, è nel 1972 che si corse, in questo senso, il pericolo più concreto. Allora, infatti, George McGovern, candidato per i democratici alla White House, scelse come suo partner il senatore Thomas E. Eagleton che risultò essere stato per lungo tempo in cura da uno psichiatra per gravi turbe mentali.
Se il caso - un vero e proprio «scheletro nell’armadio» - non fosse venuto alla luce e se McGovern avesse prevalso, Eagleton si sarebbe venuto a trovare molto vicino («a un battito di cuore», come si usa dire) al potere diventando il vicepresidente. Naturalmente, il senatore, sia pure con qualche incredibile titubanza, fu sostituito e nel ticket democratico prese il suo posto Sargent Shriver.
Se, al di là della corsa alla presidenza, si fa riferimento, invece, all’intera politica Usa, in molti casi, veri e propri folli hanno raggiunto cariche di grande responsabilità.
Particolarmente significative, a questo proposito, le storie di due fratelli della Louisiana, Huey - «The Kingfish», come era soprannominato - e Earl Long, la cui avventura terrena fu immortalata da Hollywood (il primo è protagonista dell’ottima pellicola di Robert Rossen Tutti gli uomini del re, premiata con tre Oscar, tratta dall’omonimo romanzo, che vinse il Pulitzer, di Robert Penn Warren; il secondo, del meno riuscito Scandalo Blaze, con Paul Newman).
Giunto al governatorato del suo Stato nel 1928, Huey, autodidatta, fluviale e abilissimo oratore, intrallazzatore e allo stesso tempo capace di realizzare per i suoi concittadini opere pubbliche di grande rilievo, divenuto in seguito senatore degli Stati Uniti, dopo avere appoggiato F. D. Roosevelt nella campagna contro Herbert Hoover, nel 1935 e in vista delle presidenziali fissate all’anno successivo, pensò seriamente a una propria candidatura e pubblicò un libello intitolato I miei primi cento giorni alla Casa Bianca. In quelle pagine, ipotizzava, per far fronte alla Depressione, un azzeramento di tutte le proprietà private e la ridistribuzione in parti uguali a tutti i cittadini dei capitali.
La sua corsa verso White House (Roosevelt ebbe a temerne l’impeto) fu fermata dai colpi di pistola di un medico di campagna che, uccidendolo, intendeva vendicare vecchi torti subiti dalla sua famiglia.
Earl Long - a propria volta, anni dopo governatore della Louisiana - pazzo come un cavallo, fu rinchiuso per ordine del locale parlamento in un ospedale psichiatrico dello Stato. Forte della sua carica, ritornò libero destituendo i medici di quel manicomio che, formalmente, risultavano alle sue dipendenze. Più volte confermato e altrettante volte contestato, alla fine, si candidò alla Camera del Rappresentanti nazionale. Eletto trionfalmente contro tutte le aspettative, morì subito dopo.
In conclusione, nulla nel meccanismo elettorale americano si oppone a che un demagogo o un folle arrivino ai vertici del potere.

all'origine dell'attacco cristiano al mondo classico
Cipriano tradì il mondo magico (200-258?)

Il Giornale di Brescia 27.9.04
Cipriano e Giustina

Sono due martiri ricordati nella liturgia romana al 26 settembre e in quella greca al 2 ottobre, dei quali si è impadronita la leggenda; cosicché risulta difficile, nella tradizione tramandata sul loro conto, distinguere la realtà dall’invenzione. Cipriano è presentato quale negromante e astrologo vissuto nella seconda metà del III secolo, il quale voleva l’apostasia della vergine Giustina; al contrario però egli stesso si convertì, fece penitenza e divenne vescovo di Antiochia; sia Cipriano sia Giustina subirono il martirio sotto Diocleziano. Un componimento poetico dell’imperatrice Eudossia, scritto nel V secolo, racconta tutto questo e precisa che i due martiri furono fatti decapitare a Nicomedia dall’imperatore, dove lo stesso Diocleziano li aveva inviati dopo averli sottoposti a lunghe torture; i loro corpi furono in seguito portati a Roma da alcuni marinai e in loro onore la patrizia Rufina fece edificare una basilica. San Gregorio Nazianzeno invece afferma in un sermone pronunciato nel 379 che il mago Cipriano, dotto in filosofia, si convertì, sì, al cristianesimo, ma fu fatto vescovo non di Antiochia bensì di Cartagine, dove si distinse con le sue virtù e i suoi scritti; durante la persecuzione di Decio, dunque verso il 250, fu prima esiliato e poi decapitato. Talché qualcuno ha identificato questo Cipriano con l’omonimo, famoso vescovo di Cartagine vissuto tra il 200 e il 258, e festeggiato il 16 settembre, il quale era un retore originario dell’Africa proconsalare che, convertitosi e ordinato vescovo, svolse un ruolo molto importante nella storia della Chiesa, compose numerosi trattati su diversi soggetti teologici, sfuggì alla persecuzione di Decio ma fu arrestato e decapitato durante quella successiva di Valeriano. Gli agiografi ritengono che, sebbene il culto di san Cipriano e di santa Giustina si sia diffuso nel Medioevo sia in Oriente che in Occidente, la loro Vita, già nota nel IV secolo, sia priva di valore storico e abbia un puro scopo edificante, e perciò il loro nome compare ora soltanto nei calendari locali. Vi si racconta, fra l’altro, che Cipriano tentò di convertire Giustina su richiesta di un pagano, certo Aglaide, che l’aveva chiesta in sposa ma ne aveva ricevuto un rifiuto poiché la giovane intendeva consacrarsi al Signore. Inutili furono tutti i tentativi e i sortilegi compiuti da Cipriano, il quale finì per riconoscere il suo insuccesso e si convertì; un lungo capitolo è dedicato al pentimento di Cipriano, che bruciò i suoi libri di magia e confessò pubblicamente i suoi misfatti; il giorno dopo ricevette il battesimo, a partire dall’anno successivo il vescovo gli conferì gli ordini sacri fino al sacerdozio e dopo sedici anni lo designò come suo successore. Durante il proprio episcopato Cipriano si adoperò in particolare a combattere gli eretici, mentre Giustina fu fatta diaconessa e messa a capo di un monastero.

novità a Chieti (...novità?)

Il Messaggero 26.9.04
Chieti, bagno di folla per il vescovo teologo
Bruno Forte, napoletano, si commuove parlando ai fedeli prima della messa d’insediamento
dal nostro inviato ORAZIO PETROSILLO

(Il nuovo vescovo di Chieti è certamente il più bravo e fra i più giovani - ha solo 55 anni - dei teologi dei quali disponga oggi il Vaticano. Autore di molti importanti opere è specializzato nella "pastorale dei non credenti" cioé nel "dialogo con gli atei". Amico personale e collaboratore di Massimo Cacciari e Antonio Bassolino. Tutti si aspettano da lui una carriere assai brillante nella gerarchia ecclesiastica. Ndr)

[...]

In cattedrale, dopo la lettura della bolla di nomina, Bruno Forte ha ricevuto il pastorale dal predecessore Menichelli (trasferito ad Ancona) e si è assiso sulla cattedra, ricevendo l’acclamazione popolare. Tra gli ospiti, i cardinali Carlo Maria Martini (amico da una vita di Forte e suo mentore) e Renato Martino, il nunzio Romeo ed altri 6 vescovi amici. Nell’omelia, il presule ha indicato ai suoi fedeli tre priorità, la prima delle quali è «il riconoscere il primato di Dio». «L’inquietudine dell’epoca cosiddetta ”post-moderna” nella quale ci troviamo dopo la crisi dei mondi ideologici - ha osservato - sfida tutti a superare la pretesa della ragione umana quale unico metro dei pensieri e delle azioni: occorre un’alternativa autentica alle ideologie». Tra gli applausi, Forte ha detto prima in napoletano poi tradotto in italiano questo proverbio della sua terra: «Si può vivere senza sapere perché, ma non si può vivere senza sapere per chi». Le altre due priorità sono la solidarietà e il servizio della carità.

Karl Wilhelm von Humboldt (1767 - 1835)

segnalato da Dimitri Nicolau

il manifesto 25.9.04

La svolta estetica
In ogni lingua un mondo altro
Così Humboldt COM'È POSSIBILE IL NUOVO? Alla domanda rimasta aperta dopo Kant, il fondatore dell'università di Berlino risponde che «il primo germe» di tutto quanto è vitale sta nella sensibilità. Il compito della filosofia sarà, d'ora in poi, interpretare la infinita diversità individuale. Nei «classici della filosofia» Utet escono gli Scritti filosofici
DONATELLA DI CESARE

Il grande merito di Humboldt è stato quello di scoprire all'interno dell'unità dello «spirito universale», celebrato dall'idealismo tedesco, la diversità in cui la natura umana si manifesta. Non si sbaglia dicendo che la sua filosofia è una grande esplorazione antropologica e politica nello spazio sconfinato, e allora pressoché incognito, della poliedrica diversità, della multiforme varietà individuale che parla soprattutto attraverso le lingue. È lo spazio in cui la filosofia speculativa non ha mai voluto inoltrarsi, preoccupata di doversi trasformare, di divenire non solo trascendentale, ma anche empirica, di aprirsi alla storia, di immergersi al di là, e oltre il possibile, nel reale. Il nome di Humboldt ha cominciato a circolare in Italia soprattutto negli ultimi vent'anni a partire dalla cosiddetta «svolta linguistica», da quando cioè il linguaggio ha assunto un ruolo centrale nella filosofia. La ricerca di pionieri della svolta linguistica ha condotto molti sulle sue tracce, e tra loro anzitutto Noam Chomsky che nella Linguistica cartesiana del 1966, pur nel tentativo discutibile di indicare in Humboldt un precursore della «grammatica generativa», ha dato un impulso decisivo al confronto teorico sia con la sua filosofia del linguaggio sia con la sua linguistica. Prima di questa riscoperta chomskyana il nome di Humboldt era legato al breve saggio Il compito dello storico del 1821 e soprattutto allo scritto di filosofia politica Idee per un saggio sui limiti dell'attività dello Stato del 1792, dove per la prima volta viene posta la questione non dell'origine, ma della funzione dello stato. Perciò non si può dire che l'opera filosofica di Humboldt, in Italia, ma non solo, sia stata coronata da successo. Alcuni ambiti, come quello della sua estetica, restano addirittura una terra incognita.
Come spiegare questo insuccesso? Basterà parlare di «inattualità» di Humboldt, come alcuni hanno fatto, riferendosi alla lungimiranza dei suoi progetti che ancora oggi anticipano i tempi? Forse uno dei motivi di questo fallimento, e certo non l'ultimo, va scorto nella varietà e frammentarietà della sua opera a cui corrisponde una varietà e frammentarietà della vita. Né nell'una né nell'altra si riesce a cogliere un centro, a definirne l'identità. Anzi la figura di Humboldt, del tutto inconsueta nella Germania tra la fine del settecento e l'inizio dell'ottocento, sembra una figura sdoppiata, quasi schizofrenica: da un canto l'uomo politico, dall'altro lo studioso. Ma è proprio il nesso tra teoria e prassi uno dei fili conduttori della sua opera. Humboldt stesso non si è mai considerato un filosofo di professione: non solo perché non ha prodotto un sistema filosofico, ma perché è impensabile per lui una riflessione filosofica che non sia legata ad una ricerca empirica. Anche questo legame lo ha portato verso il linguaggio. Così resta un outsider nella filosofia dei suoi tempi. Non è né un illuminista, né un romantico, né un idealista. Apprezza Kant, ma lo critica. Il rapporto con Hegel è di fredda indifferenza, se non di ostilità.
Insieme al fratello Alexander, il grande geografo, esploratore e scienziato, Humboldt riceve una istruzione classica ma già di stampo illuministico o, meglio, cosmopolitico. Nella Berlino di fine settecento i due fratelli vengono introdotti nei circoli intellettuali dove conoscono le personalità più in vista del tempo. È in uno di questi circoli che Humboldt incontra la moglie Caroline von Dachroeden. In linea con l'emancipazione femminile di quei decenni, il loro è un rapporto non privo di tensioni, crisi, separazioni anche molto lunghe, ma proprio per questo è anche una relazione affettiva e intellettuale di rara intensità, che riesce a sopravvivere per quaran'anni, fino alla morte di Caroline nel 1829. Non è un caso, dunque, se l'opera più ampia di Humboldt sono i sette volumi di lettere scambiate con la moglie.
Sebbene sia predestinato alla carriera politica, Humboldt non riesce ad abbandonare gli studi classici. Legge Omero ed Erodoto; traduce Eschilo. Ma ben presto avverte l'angustia del nucleo greco-tedesco della sua formazione. Il desiderio di conoscere altre culture europee lo allontana dalla Germania, e dalla filosofia tedesca, e lo porta prima a Parigi e poi a Roma. E proprio a Roma - dove vive con la famiglia per quasi sette anni dal 1802 al 1808 - trascorre gli anni più felici della sua vita. La mattina sbriga velocemente le incombenze che gli spettano come ambasciatore della Prussia; il resto della giornata lo dedica ai suoi studi di antropologia, filosofia della storia, linguistica. Anche grazie all'influsso di Goethe progetta una filosofia antropologica che consideri la diversità così come si manifesta nel mondo umano: la diversità dei popoli, che giunge fino ai singoli individui.
Così, il nuovo compito della filosofia è per Humboldt quello di interpretare la infinita diversità individuale del mondo umano. La filosofia pura comincia a non avere più senso perché perde quello che è il suo oggetto per eccellenza: lo spirito puro e universale. La sensibilità - scrive Humboldt - è «il primo germe» di tutto quello che è vitale. E inverte i termini di un rapporto secolare: ciò che è universale e spirituale esiste solo in ciò che è individuale e sensibile. Il primato di ciò che è individuale e sensibile provoca una trasformazione della filosofia, perché essa non potrà essere solo una riflessione speculativa, ma dovrà essere anche un'indagine empirica che si apra allo spazio sconfinato della diversità individuale. L'attenzione rivolta alla sensibilità guida Humboldt nei suoi studi di estetica ed è la chiave per rispondere alla domanda rimasta aperta dopo Kant, la domanda sulla immaginazione creativa. Com'è possibile la creazione del nuovo? Humboldt risponde con un esempio politico, quello della rivoluzione francese, che non ha saputo essere creativa perché ha represso la sensibilità con la ragione. La ragione può dare forma a ciò che esiste, ma non può creare nulla di nuovo.
L'immaginazione è allora per Humboldt la facoltà capace di creare il nuovo, è quella «radice comune», già indicata da Kant, che per operare ogni volta si scinde in senso e intelletto, ricettività e spontaneità, femminile e maschile e si riunifica senza mai superare questa differenza. E alla differenza dei sessi e alla specificità del femminile Humboldt ha dedicato due importati saggi La differenza sessuale e La forma maschile e la forma femminile ora tradotti negli Scritti filosofici. Ma l'immaginazione è all'opera soprattutto nel linguaggio: Humboldt vi si imbatte mentre ricerca la infinita diversità in cui il mondo umano si manifesta. Il linguaggio, tuttavia, non è una manifestazione come un'altra. È piuttosto la manifestazione in cui, quasi come in un'opera d'arte collettiva che si produce nel corso della storia, si rivela la creatività dell'intero genere umano. Così si può dire che lo studio del linguaggio è l'orizzonte ultimo della filosofia di Humboldt.
Già in una lettera indirizzata al grande filologo Wolf nel 1799 scrive: «Sento che in futuro mi dedicherò esclusivamente allo studio del linguaggio e che una comparazione profonda di lingue diverse, condotta filosoficamente, è un lavoro per il quale sarò forse pronto dopo alcuni anni di assidua ricerca». Questo lavorò troverà testimonianza nella grande opera La diversità delle lingue, pubblicata postuma nel 1835, qualche mese dopo la morte di Humboldt.
Ma in che modo la filosofia si trasforma nel momento in cui diventa filosofia del linguaggio? E che cosa intende Humboldt quando parla di «studio del linguaggio»? Dire che il nostro pensiero si articola attraverso il linguaggio non è più all'epoca di Humboldt una novità. Piuttosto, la novità sta nell'aggiungere che il nostro pensiero si articola in una lingua storica, e che il linguaggio è una facoltà universale che si realizza nel parlare individuale di ciascuno. Noi non abbiamo esperienza del linguaggio, in generale, perché quel che sperimentiamo è invece il linguaggio così come si manifesta in un idioma specifico e nel discorso di qualcuno. Quando sentiamo parlare, sentiamo parlare in una lingua determinata e sentiamo parlare un singolo individuo. Ma dire che il pensiero si articola in una lingua storica non ha conseguenze di poco conto, perché per questa via la diversità delle lingue irrompe nella ferma e astratta universalità di un pensiero che la filosofia ha presunto puro. Uno dei pregiudizi più diffusi tra i parlanti è quello di credere che la diversità delle lingue sia solo una diversità di suoni e nient'altro. Al contrario, dice Humboldt, e lo dice per la prima volta, la diversità delle lingue è molto più profonda, perché è una «diversità di visioni del mondo». Ben più che una diversità dei suoni, la diversità delle lingue è una diversità di significati. Ogni lingua articola dunque il mondo diversamente. Passare da una lingua all'altra vuol dire passare da un mondo all'altro. Il che è possibile per l'unità del linguaggio che non viene mai meno, di modo che «ciascuno ha la chiave per comprendere ogni lingua». Ma a partire da Humboldt, la comprensione non è più assicurata, neppure all'interno della stessa lingua. Proprio perché il linguaggio si realizza in un circolo infinito, tra universalità e individualità, e giunge fino al parlare individuale di ciascuno, ogni comprendere sarà sempre anche un non-comprendere.
Se ogni lingua articola il mondo diversamente non ci sarà più un mondo, ma ci sarà una varietà di mondi. La questione del mondo in sé diventa priva di senso. Non c'è un punto di osservazione al di fuori del linguaggio da cui si possa cogliere il mondo. Perciò il diversificarsi delle visioni del mondo non comporta il frantumarsi di quel punto di osservazione, che ora appare chimerico. La conoscenza del mondo risulta dal complesso delle visioni e delle prospettive che le lingue dischiudono. Ogni nuova prospettiva aperta da una lingua arricchisce la conoscenza del mondo. Ecco perché, per Humboldt, il fenomeno della diversità delle lingue, percepito a partire dal mito di Babele come una punizione, ha in realtà un valore positivo. La diversità è una ricchezza, e quando muore una lingua si spegne anche una visione del mondo che contribuiva in modo insostituibile alla sua conoscenza. Nella nostra epoca in cui si va affermando il monolinguismo di una lingua egemone, troppo poco si parla della estinzione delle lingue e della perdita che questo comporta.
Si capisce bene, dunque, come mai per Humboldt lo studio delle lingue non sia un passatempo da eruditi: anche il particolare della lingua apparentemente meno significativa arricchisce la conoscenza del mondo. Perciò Humboldt si spinge oltre i confini dell'Europa, verso l'America, la Cina, la Polinesia. E proprio Roma, che è per lui la culla del mondo classico, gli offre questa possibilità. A Roma vengono infatti raccolte tutte le testimonianze delle lingue americane che i missionari, soprattutto ex-gesuiti, sono riusciti a salvare.
Se oggi possediamo ancora la descrizione di lingue parlate in Amazzonia, e annientate con la colonizzazione, è grazie a Humboldt che le ha descritte. Ma non si tratta solo di salvare una testimonianza - e tra i suoi inediti ci sono oltre trenta grammatiche e vocabolari di lingue americane. Per la prima volta Humboldt studia gli alfabeti più diversi e anche le lingue non indoeuropee, quelle che venivano ancora considerate «rozze e primitive». E con il suo lavoro arriva a mostrare, primo tra tutti, la pari dignità di tutte le lingue.
Se lo studio delle lingue ha una rilevanza filosofica, d'altra parte la filosofia deve a sua volta essere trasformata radicalmente. Anzitutto perché sarà anche una ricerca empirica: solo da una comparazione delle diverse lingue fin nei loro particolari può risultare, infatti, una «storia della filosofia dell'umanità». A questo aspira il progetto di una «enciclopedia delle lingue conosciute», che è una storia del divenire del linguaggio, un quadro delle diverse lingue e delle diverse visioni del mondo. La nuova storia della filosofia, come Humboldt l'ha intesa e in parte realizzata, non sarà allora la summa di ciò che ha concepito il genio dei filosofi, ma la summa del pensiero prodotto nel corso dei secoli dall'intero genere umano.

dal domenicale del Sole 240re del 26.9.04

Storia della medicina
La tragica vicenda di Ignàc Semmelweis e della febbre puerperale
Dottori dalle mani sporche
di Sherwin B. Nuland

[...]

Sherwin B. Nuland, «Il morbo dei dottori», Codice Edizioni, Torino 2004, pagg. 148, € 18,00

Convegni
I rapporti tra arte e cervello negli esperimenti di uno dei massimi esperti. Un incontro a Firenze sulla creatività
Neurobiologia del non finito
Michelagelo, Wagner e Dante come paradigmi dei meccanismi cerebrali che ci spingono a ripensare la realtà.
E a Milano Rubbia e Quadrio Curzio discutono di innovazione e del futuro della ricerca in Italia
di Semir Zeki

[...]

Filosofi sul lettino
Un sogno enigmatico del grande pensatore è ora al centro di una piéce teatrale
Il melone di Cartesio
Nella notte del 16 novembre 1619 il giovane René ha tre visioni: quella che più lo turba è un uomo mascherato che gli offre un frutto tondo «di un paese straniero»
di Remo Bodei

[...]

Paola Canessa, «L'enigma del melone di un paese straniero», Edizioni Tracce, Pescara 2004, pagg. 62, € 9,00
Da ricordare: Adrien Baillet, «Vita di Monsieur Descartes», Adelphi, Milano 1996, pagg. 300, € 15,50
Sigmund Freud, «Un sogno di Cartesio: lettera a Maxime Leroy» in «Opere di Freud», Boringhieri, Torino 1964-1980, vol. 10, pagg. 662, € 31,00