mercoledì 2 marzo 2005

giovedì mattina è andato in onda Neon Libri
dalla Libreria Amore e Psiche

giovedì 24 febbraio

La trasmissione settimanale di
Neon Libri

con l'intervento di Carlo Anzillotti, è andata in onda dalla

LIBRERIA AMORE E PSICHE

«Neon Libri è una rubrica, a cura della redazione del Tg2, della durata di 10 minuti. Questa finestra offre un'informazione rapida e concisa sul panorama letterario italiano. Dall'interno di una libreria vengono presentati e commentati alcuni libri e autori, soffermandosi soprattutto sulla narrativa e sulle recenti uscite, italiane e non. Uno spazio particolare è dedicato alla classifica delle vendite.

L'unica rubrica culturale all'interno di un telegiornale Rai, che si occupa di libri.
Per voi tutte le novità editoriali, approfondimenti ed interviste sull'argomento ed una singolare classifica dei libri più venduti prendendo a campione ogni settimana una libreria diversa».

a cura di: Tommaso Ricci
conduce: Maria Grazia Capulli
giorno: Giovedì alle: 10,05
una segnalazione di Silvia Iannaco
______________________

arte
Guggenheim a Roma

La Stampa 02 Marzo 2005
DA NEW YORK, BILBAO E VENEZIA UNA MOSTRA OGGI A ROMA
Tre Guggenheim per 80 capolavori
di Lea Mattarella
Da Manet a Merz, passando per Kandinsky, Picasso e Matisse
Dietro le opere la passione per le avanguardie del Novecento
di due collezionisti americani, ricchi grazie all’industria mineraria
ROMA. Ci si emoziona di fronte ai cambiamenti graduali di Piet Mondrian, alla parete di Robert Délaunay che costruisce disfacendo e alla fine sceglie la potenza della luce a quella della forma, alla magica testa di Costantin Brancusi, idolo di una modernità non ancora corrotta che non aspira a diventare moda: icona spirituale, integra e pura, forma perfetta. Portare a Roma, città ricca di arte di tutti i secoli ma purtroppo quasi sprovvista di capolavori del Novecento, una parte della collezione Guggenheim, che finisce per essere una specie di prezioso riassunto dei principali artisti e delle più significative correnti del XX secolo, è un evento. Si celebra fino al 5 giugno alle Scuderie del Quirinale e propone un'ottantina di capolavori provenienti dai musei Guggenheim di New York, di Bilbao e di Venezia, selezionati dalla curatrice Lisa Dennison: da Manet a Mario Merz e Richard Serra, passando per Picasso e Matisse, Léger e Bonnard, Giacometti e Mirò, Rauschenberg e Warhol.
Oggi è diventata un marchio, ma la collezione Guggenheim nasce dal coraggio e dall'ossessione di due ricchi americani: Solomon e sua nipote Marguerite, la celebre Peggy. Ed è una storia che si sviluppa tra gli Stati Uniti e l'Europa, contrassegnata da un bel po' di intuito femminile.
Infatti, Solomon Guggenheim, nato nel 1861 a Filadelfia da una famiglia di origine svizzera che aveva costruito la sua fortuna con l'industria mineraria, si converte all'arte dell'avanguardia grazie all'incontro con la giovane pittrice tedesca Hilla Rebay, baronessa Von Ehrenwiesen. È lei che fa conoscere ed amare a Solomon e alla moglie Irene Rothschild il meglio dell'arte europea. I tre viaggiano insieme, visitano gli studi e fanno man bassa. Per esempio da Wassily Kandinsky, a Dessau, comprano ben 150 opere. D'altra parte il maestro russo è il pallino di Hilla, sacerdotessa di un arte non-oggettiva e spirituale, emanazione quasi diretta delle teorie teosofiche di Rudolph Steiner. In mostra c'è una bella parete dedicata a Kandinsky che ben chiarisce il suo passaggio da una figurazione coloratissima, personale declinazione dell'arte popolare russa, ad un'astrazione lirica, incantata, misteriosa. Anche quando inquadra semplicemente dei cerchi colorati su un fondo scuro, un po' lunare, come in quest'opera del 1926, accaparrata da Solomon dopo che i nazisti l'avevano esposta come esempio di «arte degenerata».
Intanto la collezione di Solomon, nel 1937 diventa una fondazione, si arricchisce della raccolta Tannhauser, da cui provengono le opere di Monet, Renoir, Van Gogh, il bel paesaggio di Cézanne qui esposti. E nel 1959 trova la sua sistemazione nel museo newyorkese ideato da Frank Lloyd Wright.
A Peggy sembra che l'edificio non piacesse granché. Lo definisce un orribile garage e paragona la celeberrima rampa a spirale al rotolarsi di un serpente malefico. I suoi gusti differiscono un po' da quelli di Hilla e dello zio. In Europa dal 1920, la nipotina di Solomon frequenta gli ambienti parigini dell'avanguardia artistica e letteraria. E ne conosce, e qualche volta ama, alcuni tra gli esponenti più significativi: da Samuel Beckett a Marcel Duchamp, da Jean Cocteau ad André Breton, fino a Max Ernst, suo marito per un breve periodo. A un certo punto finisce a Londra, dove apre una galleria. Qui organizza la prima mostra inglese di Kandinsky ma, oltre al cubismo e all'astrattismo, lei ama l'inconscio surrealista, quella miriade di fantasmi, incubi, sfacciate simbologie erotiche, inquietanti spazi liquidi, che sembrano emergere dai più segreti abissi della psiche e irrorare le tele di Dalì, Tanguy, Max Ernst, Delvaux.
Quando la seconda guerra mondiale la costringe a rientrare negli Stati Uniti, apre una galleria dove fanno i primi passi i grandi protagonisti della Scuola di New York per i quali il Surrealismo è una specie di malattia esantematica, un iniziale passaggio obbligato. Peggy fa in tempo a capire e sostenere la grandezza silenziosa di Mark Rothko, ma soprattutto quella quasi tribale di Jackson Pollock. Poi si trasferisce a Venezia dove apre il suo museo. Quando muore, nel 1979, ha già donato la sua raccolta alla Fondazione Solomon Guggenheim, e il suo nome è diventato una leggenda.

Franco Rossi a proposito di Francesco Bacone
e Ciliberto su Bruno, magia e scienza

L'Unità 2.3.05
Quando la magia cedette il passo alla scienza
A Leggere per non dimenticare Paolo Rossi presenta il suo libro su Francesco Bacone
Renzo Cassigoli

FIRENZE Sono infinite le domande suscitate da Paolo Rossi nel libro, Francesco Bacone - Dalla magia alla scienza (Il Mulino), che Michele Ciliberto presenta oggi a Leggere per non dimenticare. Giunto alla terza edizione, il libro è considerato l’opera più importante scritta su Bacone nel XX secolo. Ne parliamo con l’autore, storico della filosofia.
Le ricerche sulla magia aiutano a chiarire le origini della scienza o portano a concludere che essa è solo la prosecuzione di un approccio mistico alla natura?
Quando il mio libro apparve nel ‘57 nessuno se ne accorse, fino a quando una recensione di Frances Yates, illustre esponente del Warburg Institut e grande conoscitrice di Bruno, consentì al libro di conquistare una presenza divenuta reale con la traduzione inglese del ‘68. Immesso in una circolazione più vasta contribuì - scrive Charles Schmidt - a collocare la magia al centro del pensiero Rinascimentale. Ma quando il magismo, eccedendo, fece passare l’idea della scienza moderna come prosecuzione della tradizione ermetica lo stesso Schimdt riconobbe al libro il merito di aver tracciato una linea che divide questi due mondi. C’è qualcosa che separa la tradizione ermetica dalla scienza moderna, che non è un contenuto di pensiero ma un’immagine del sapere nei confronti della società. Il sapere della scienza moderna non è segreto, il sapere magico lo è.
Che ruolo giocano un filosofo come Bacone, interessato alle nuove scienze sperimentali e Galileo, che del metodo sperimentale è l’iniziatore?
La diversità consiste prevalentemente nel fatto che Bacone crede sia suo compito costruire un’immagine della scienza stabilendo quel che deve o non deve essere. Preoccupazione che non riguarda Galileo, grande teorico e sperimentatore che costruisce la scienza e dà vita a un metodo scientifico. Bacone non ha formulato alcuna legge scientifica, ma l’immagine della scienza che ha costruito ha avuto effetti esplosivi. L’evoluzione scientifica non è solo nei grandi mutamenti delle cosiddette scienze teoriche, è nascita di scienze che non c’erano, come la chimica.
Che rapporto c’è fra Bacone e Bruno?
Bacone parla una sola volta di Bruno, non lo ama. «Non voglio dare all’intelletto ali ma pesi e piombo», è una sua frase famosa, forse, costruita come immagine alternativa alla teoria di Bruno: l’immagine dello staccarsi dalla terra. Io sono d’accordo con la Yates, Bruno è una mescolanza di scienza e magia, è un grandissimo filosofo, un metafisico e un pensatore sul piano dell’etica e della politica, ma con la scienza moderna ha poco a che fare: lo staccarsi da terra, l’essere furioso. L’eroico furore, è qualcosa che hanno solo pochi eletti. Se c’è uno che continuamente parla di volgo e di uomini terrestri, è Bruno. Cartesio comincia il discorso sul metodo dicendo che il buonsenso è la cosa al mondo meglio ripartita: vuol dire che tutti gli uomini possono arrivare alla verità. Bruno non lo avrebbe accettato mai, solo alcuni eletti possono arrivarci.
Per Bacone gli uomini hanno più paura del dubbio che dell’errore, perché determina spaesamento?
Bacone ha anche un’altra immagine bellissima: «Sono sempre in cerca di un Atlante delle meditazioni», qualcuno che sorregga la Terra. Gli uomini hanno bisogno di certezze. La magia gliele dà e anche la religione, ma la scienza no, non le può dare. In questo è moderno. È stato molto odiato, anche negli ultimi vent’anni. Ho scritto un saggio che ha suscitato interesse, Dimenticare Bacone. L’attenzione agli aspetti sperimentali, empirici era scarsissima. In molti pensavano alla scienza solo come teoria e non avendo fatto scienza, Bacone non esiste. Invece è stato grande. Ci sono filosofi come lui che hanno, in qualche modo anticipato, quella che oggi chiamiamo sociologia delle scienza.

Repubblica, Firenze 2.3.05
Scienza e Magia
Oggi "Leggere per non dimenticare" apre un ciclo sui rapporti fra le due discipline: ne parliamo con Michele Ciliberto

LAURA MONTANARI

Strade diverse, mondi in apparenza lontanissimi, che stridono, che si intersecano. Scienza e magia. Eppure strade che hanno attraversato le menti, la storia, che si sono incrociate nei secoli fino a oggi. La società più tecnologica, più matematica, più arredata di computer e circuiti elettronici, la società che arriva più vicino ai segreti della vita, che si mette a leggere il Genoma, non riesce a sbarazzarsi del magico. Ne parliamo con Michele Ciliberto, ordinario di storia della filosofia moderna e contemporanea alla Normale di Pisa e presidente, dal 1996, dell´Istituto Nazionale di Studi sul Rinascimento che oggi interviene a «Leggere per non dimenticare».
Professore, cominciamo da una definizione. La magia come scienza della trasformazione.
«E´ stata interpretata come arte e tecnica della trasformazione. Il mago rinascimentale è stato considerato il prototipo dello scienziato moderno, ma lo scienziato moderno è una figura molto diversa. Il libro di Paolo Rossi fa notare bene come ci siano differenze profonde fra il sapere di tipo magico iniziatico e segreto e il sapere moderno che deve dare la massima pubblicità ai risultati ottenuti, metterli a disposizione di tutti».
Lo scienziato e il mago sembrano figure con pochi punti in comune.
«Il pensiero magico è basato su un personaggio accreditato come straordinario, che ha attitudini e qualità eccezionali rispetto agli altri. Lo scienziato no, c´è un senso di uguaglianza di fondo, tutti che partecipano del sapere scientifico così come si viene sviluppando nei luoghi di ricerca a partire dalle accademie scientifiche, uno dei punti di forza del sapere moderno».
Ma è sempre stato così?
«In passato scienza e magia si sono intrecciate e poi divise nel Seicento con pensatori come Cartesio e Hobbes. Ma quel confine non è mai netto, c´è sempre un rapporto permanente fra mito e logos, anche nelle vicende dell´Occidente».
A «Leggere per non dimenticare» quattro giornate di studio dedicate ai rapporti tra magia e filosofia...
«E´ un´idea bellissima. Non si risolve il problema rimuovendolo o cancellandolo, meglio fare una seria indagine critica, una ricognizione di carattere storico per risalire alle varie forme di magia, da quelle più atroci della magia nera, alla magia bianca».
La magia è spesso accostata all´ignoranza e alla superstizione.
«Dipende dai livelli, è vero che c´è un livello più superficiale, forme deteriori con riti demoniaci, ma c´è una compresenza di forme di magia in culture arcaiche e meno arcaiche, come ci insegna De Martino e Rossi ci ricorda».
Magia e letteratura. Consigli lei cosa leggere.
«I rapporti fra magia e letteratura sono un tema affascinante e sconfinato. La dimensione della magia ha a che fare con la parola, si vede bene nella cultura rinascimentale. In Giordano Bruno il nesso fra cultura, parola e magia è centrale. Sui consigli, direi di leggere prima di tutto Eugenio Garin, Paolo Rossi, Ernesto De Martino, ma anche Ficino e Bruno. Io stesso ho diretto l´edizione delle opere magiche di Bruno curate da tre mie allieve, Simonetta Bassi, Elisabetta Scapparone e Nicoletta Tirinnanzi».

si apre domani il congresso del Prc
e Bertinotti parla di sé e della sua vita

La Stampa 2.3.05
SI APRE IL CONGRESSO CHE PORTERÀ ALL’ACCORDO CON L’UNIONE
Domani Rifondazione ufficializza la «svolta»
Scontata la riconferma del segretario. Prodi sarà presente ma non parlerà

ROMA. A 24 ore dall’apertura del congresso di Rifondazione comunista l’accoglienza che sarà riservata a Romano Prodi dai delegati sembra quasi più importante di ciò che dirà Fausto Bertinotti nella sua relazione. La questione è stata posta al Professore, che se l’è cavata con una risposta diplomatica: «Non sarebbe la prima volta che mi prendo dei fischi: è un allenamento che ogni politico fa ed è un modo del tutto democratico di esprimersi». Fischi graditi, quasi cercati per scollarsi quella etichetta “sinistrorsa” che da qualche tempo aleggia attorno a Prodi? «Non arrivo a dire che i fischi sono graditi però appartengono alla fisiologia della democrazia».
Romano Prodi arriverà domani pomeriggio al Palazzo del Cinema del Lido di Venezia, in tempo per ascoltare la relazione di Fausto Bertinotti, prevista per le cinque della sera, dopodiché il Professore anziché intervenire, lascerà il congresso. Al di là delle parole, paura dei fischi? Volontà di non sovrapporsi mediaticamente a Bertinotti? Un mix di questi motivi, come informalmente riconoscono le due “parti”. Lo conferma la prudenza con la quale Prodi si accosta al congresso: «L’Unione attende con attenzione l’esito del congresso di Rifondazione» che ovviamente «non è indifferente».
Ma la conclusione politica è già scritta: Fausto Bertinotti - per quanto sfidato dal trotzkista Marco Ferrando - sarà confermato segretario, la linea dell’accordo con Prodi e l’Unione passerà a maggioranza e il governo del partito sarà il frutto dell’accordo tra bertinottiani e una parte della minoranza. Nei congressi locali che si sono svolti nelle settimane scorse Fausto Bertinotti ha rafforzato la propria posizione. Un potenziamento conferito dalla base e che fa seguito all’indebolimento che il segretario aveva invece subito nel corso dell’ultimo anno in tutti gli organismi dirigenti, a cominciare dal Comitato politico nazionale. Ma i congressi di base hanno conferito alla mozione presentata da Bertinotti il 59,2%. Molto divisa la minoranza, che pur contando su un complessivo 40,8%, risulta frazionata in quattro gruppi.
Il più consistente, raccolto attorno alla rivista “l’Ernesto” e formato dagli ex cossuttiani di Claudio Grassi e Sandro Valentini conta sul 26,2% e lancia messaggi di pace al segretario: «Chiediamo una gestione unitaria», dice Grassi. Ma difficilmente i segnali degli ex cossuttiani verranno raccolti da Bertinotti che invece potrebbe aprire il dialogo con un’altra frazione, quella trotzkista guidata dal senatore Gigi Malabarba e che conta sul 6,5%.
Ma non è sulla “cucina” interna che si gioca il congresso. Le vere partite politiche sono due. La prima riguarda la forza con la quale Bertinotti parlerà dell’eventuale partecipazione al governo e non sono casuali le indiscrezioni fatte trapelare dall’entourage del segretario: «Nella relazione Bertinotti non parlerà di governo», in una sorta di rimozione del problema. L’altra partita riguarda il futuro di Rifondazione: resterà ancora a lungo il “cognome” comunista? Bertinotti non ha fretta ma è sintomatico che una sessione del congresso sarà dedicata al “Partito della Sinistra Europea”, il contenitore post-comunista pensato e presieduto da Fausto Bertinotti.

ibidem
ALLA VIGILIA DELLE ASSISE DI VENEZIA IL SEGRETARIO SFOGLIA UN SUO «INEDITO ALBUM DI FAMIGLIA»
Bertinotti: «Io, Paolo VI e i miei veri maestri»
«Preferisco Ingrao a Togliatti, nel primo c’è il dubbio, nell’altro la politica come potenza»
«Quello della Rossanda per me è stato un magistero
È ancora oggi una delle pochissime persone alle quali dentro di me continuo a dare del lei»
Il fascino di Riccardo Lombardi che portò il Psi al governo ma non accettò di fare il ministro: «È stato un insegnamento»
ROMA. HANNO fucilato Mussolini». E’ il 29 aprile del 1945 e a viale Monza, nella periferia di Milano che guarda verso Sesto San Giovanni, la notizia si irradia dai prati e dai marciapiedi: «Hanno ammazzato il Duce!». Enrico Bertinotti, ferroviere socialista, prende per mano il figlio Fausto, di 5 anni e si incammina. Racconta 59 anni dopo Fausto Bertinotti:
«Ricordo che ad un certo punto ci fermammo. Troppo lontano? La notizia che erano stati appesi? Risparmiare ad un bambino una scena drammatica? So solo che non arrivammo in piazzale Loreto e ritornammo a casa». Papà Enrico - socialista anticlericale «che preferiva Nenni a Togliatti» - è stato «il mio primo iniziatore alla politica» ricorda Fausto Bertinotti, un comunista che nella sua vita ha sfogliato e scritto un album di famiglia diverso da quello dei dirigenti della Quercia, nati e vissuti nel Pci nella venerazione di personaggi come Palmiro Togliatti ed Enrico Berlinguer. La Rifondazione comunista libertaria, antistalinista e (faticosamente) di governo che arriva a congresso è figlia legittima di un leader che riconosce come propri «maestri» personaggi atipici della sinistra italiana, cultori del dubbio come «Pietro Ingrao, Riccardo Lombardi, Rossana Rossanda, Vittorio Foa». E con quella sua vocazione spiazzante, Bertinotti riconosce un ruolo importante anche ad un Papa, «ma non Giovanni XXIII che su un laico dovrebbe suscitare maggior fascino», quanto piuttosto Paolo VI. «Un Papa sofferto, per quella sua interrogazione drammatica su Dio nella modernità, che espresse alla messa per Aldo Moro con quella sua dolorosa “protesta”: “Signore ti avevamo pregato perché salvassi questo nostro fratello, perché non ci hai ascoltato?”».
Racconta Bertinotti: «Mi ha iniziato alla politica mio padre che era un “uomo contro”», un ferroviere che «scaricava il carbone sui vagoni, poi diventò fuochista e alla fine macchinista» e, pur essendo «laico come i socialisti del suo tempo, non mi vietò mai di andare a messa», «un uomo colto» che «nutriva un grande rispetto per la lettura e per la scuola». L’esempio paterno non deve essere ininfluente nella scelta della prima militanza di partito: nel 1964, il ventiquattrenne Fausto - 30 anni più tardi leader comunista - si iscrive al Psi, in preda ad una fascinazione che «investiva sia chi era contro il centrosinistra - Lelio Basso, Vittorio Foa - sia chi era favorevole come Riccardo Lombardi». E proprio il rigoroso capo della sinistra socialista diventa il primo «maestro» del giovane Fausto «per quella idea di coniugare governo e rigore anticapitalistico». Quel Lombardi che «portando i socialisti al governo per una grande idea trasformazione, invece di fare il ministro preferì prendere la direzione dell’Avanti!».
Bertinotti, un esempio anche per lei? «Certo. Restare fuori dal governo, non per fuggire, ma per salvaguardare l’autonomia del partito dal governo di cui si fa parte. Nenni diceva “Entriamo nella stanza dei bottoni”, Lombardi pensava che i bottoni non fossero lì ma nella società». Bertinotti se ne ricorderà nel 2006? «Un insegnamento».
Ma colui che Bertinotti riconosce come «il maestro per eccellenza» è Pietro Ingrao, «il cui aspetto più affascinante è Ingrao stesso perché è uno di quei leader nei quali pensiero ed azione sono quasi soverchiati dalla personalità». E Bertinotti che in vista del congresso di Venezia, ha rotto con la tradizione centralista democratica del Pci («Mi basta un voto di maggioranza nel partito») ricorda: «Ingrao esercitò una grande attrazione a partire dall’undicesimo congresso del Pci quando propose due temi essenziali per la sinistra: il dissenso in un partito comunista e la tesi che la lotta all’arretratrezza non è la molla di una politica riformatrice, ma lo è invece lo scontro contro la modernizzazione capitalistica». Un episodio, uno dei tanti raccontati nel bel libro “Tutti i colori del rosso”, scritto dieci anni fa da Bertinotti assieme a Lorenzo Scheggi: «Durante i 35 giorni di occupazione della Fiat, Ingrao mi telefonò e mi chiese non come stesse procedendo la vertenza, ma solo: “Come stai tu?” e niente altro». E dunque tra Togliatti e Ingrao nessun dubbio? «Nessuno. In Ingrao c’è l’affiorare del dubbio, Togliatti apparteneva ad un’altra storia in cui la grandezza andava di pari passo all’idea della politica come potenza». Della trentennale militanza nella Cgil, Bertinotti ricorda ovviamente Vittorio Foa, Bruno Trentin, ma anche il «discorso gigantesco» pronunciato nel 1964 dal socialista Ferdinando Santi che dava l’addio alla Cgil. Dice Bertinotti: «Ho scolpita nella memoria la sua frase conclusiva: “Se dovessi dire come mi piacerebbe essere ricordato, vorrei che un operaio del Nord o un bracciante del Sud, nominandomi dicesse: Santi era uno dei nostri, di lui ci si poteva fidare”, per potergli replicare: “ti puoi fidare ancora, compagno».
E nell’album di famiglia di Fausto Bertinotti c’è pure chi, Rossana Rossanda, quella espressione l’ha coniata in un famoso articolo per il manifesto: «L’influenza di Rossana è stata molto rilevante, il suo per me è stato un magistero» ed «è una di quelle pochissime persone alle quali, dentro di me, continuo a dare del lei». Alcuni anni fa Bertinotti confidò: «Nei momenti clou ho sempre pensato: se ci fosse mio padre!». Segretario, il congresso di Venezia si preannuncia come uno di quei momenti? «Mio padre mi può venire in mente sia in un momento di successo che in un momento impegnativo. Ma per dirgli: come vedi noi siamo sempre quelli, siamo sempre dalla stessa parte».

Marco Bellocchio

Repubblica, ed. di Palermo 2.3.05
LE RIPRESE
Ieri il primo ciak siciliano per la commedia con Castellitto
Bagheria, la villa dei mostri diventa set per Bellocchio
Si attende il sole per gli esterni anche a Cefalù
PAOLA NICITA

Il salone degli specchi di Villa Palagonia moltiplica le immagini all´infinito sotto i grandi fari del cinema. È il primo ciak siciliano de "Il regista di matrimoni", il film di Marco Bellocchio che vede come protagonisti Sergio Castellitto e Donatella Finocchiaro. Si gira a Bagheria, nella dimora settecentesca del principe appassionato di mostri e stranezze, raccontata dai viaggiatori di tutti i tempi. Del film di Bellocchio - una commedia - si conosce la trama essenziale, cast e regista, che è anche sceneggiatore, sono stretti in un serrato top secret. Si racconta di un regista di matrimoni, interpretato appunto da Castellitto, già attore con Bellocchio in "L´ora di religione", in crisi per due motivi: la figlia ha sposato un fervente cattolico e per giunta gli tocca anche girare l´ennesima versione dei "Promessi sposi". Alla crisi si aggiungerà un evento inaspettato e così il regista deciderà di fuggire in un paesino della Sicilia, dove incontrerà il regista di matrimoni. Nel cast anche Sami Frey, Gianni Cavina, Maurizio Donadoni e Bruno Cariello, produzione di Sergio Pelone, Luciano Martino e Edwige Fenech per Film Albatros, Rai Cinema, Dania, Immagine e cinema.
Nel primo «si gira» la scena è movimentata: sul set ci sono anche due cani che abbaiano. Castellitto è in un angolo del grande salone degli specchi, grida alcune frasi, la macchina scenica si muove intorno a lui, la cinepresa di Bellocchio lo marca stretto. Sotto il grande «occhio di bue» al centro del salone la luce enfatizza i preziosi marmi mischi che decorano le pareti, insieme ai ritratti nobiliari: e sotto i riflettori risplendono anche i mezzibusti principeschi dai boccoli di marmo bianchissimo. Oltre al salone degli specchi, si gira anche nelle stanza contigue e nell´ingresso ellittico decorato da dipinti e scritte. Fuori, nel giardino, c´è una carrozza nera, del genere appunto da matrimonio: erano previste scene in esterno, nel giardino, ma a causa della pioggia incessante le prime riprese sono ambientate al chiuso. Nei prossimi giorni il set coinvolgerà altre zone di Bagheria e poi si sposterà nei dintorni: sono previsti set a Termini Imerese, a Cefalù - alcuni ciak anche al museo Madralisca - e ancora a Caccamo, anche qui scena da girare all´interno di antichi edifici. Dal sontuoso scalone dell´ingresso scende la protagonista, Donatella Finocchiaro: ha in testa grandi bigodini e si ripara dalla pioggia sotto un ombrello. La prima parte della giornata di lavoro è finita: si pranza e poi si torna a lavorare. C´è un via vai con gli abiti di scena: qualche vestitino a fiori per la Finocchiaro, giacche e pantaloni per Castellitto, abiti semplici. Con la complicità del sole le prossime scene dovrebbero essere ambientate in giardino, tra i mandorli e i mostri di tufo che stanno a guardare.

per mantenere disponibili gli antichi manoscritti

Le Scienze 01.03.2005
La sopravvivenza di un manoscritto
È influenzata da numerosi aspetti socio-culturali

Studiando le copie manoscritte di un antico testo come se fossero fossili di una popolazione estinta, uno scienziato ha utilizzato le equazioni della biologia evolutiva per stimare la probabilità di sopravvivenza del testo dall'ottavo secolo dopo Cristo fino a oggi. Lo studio, pubblicato sul numero del 25 febbraio 2005 della rivista "Science", suggerisce un nuovo metodo per la ricerca sulla divulgazione delle informazioni attraverso i secoli.
John L. Cisne della Cornell University ha studiato il De Temporum Ratione (725 d.C.) del venerabile Bede, il più usato libro di testo per i calcoli aritmetici e del calendario dall'ottavo al sedicesimo secolo.
Cisne ha dimostrato che in determinate circostanze è possibile effettuare stime esplicite e riproducibili della sopravvivenza di manoscritti e testi, e che alcune opere hanno probabilità di sopravvivenza molto maggiori di quanto si poteva ipotizzare basandosi soltanto su testimonianze e aneddoti. L'approccio di Cisne dovrebbe ispirare gli studiosi di manoscritti a prendere in considerazione aspetti finora trascurati, come alcuni fattori socio-culturali.

© 1999 - 2004 Le Scienze S.p.A.

Romano Luperini in morte di Mario Luzi

Liberazione 1.3.05
Luzi, poeta e testimone
È morto ieri a Firenze. È stato uno dei più grandi del secondo 900
Romano Luperini

E' morto, con Mario Luzi, uno dei poeti più significativi e importanti del secondo Novecento. Con Sereni, Caproni, Zanzotto è uno dei maggiori della generazione postmontaliana, quella nata fra anni Dieci e Venti del Novecento.
Pochi mesi fa al convegno per il decennale della morte di Franco Fortini, Luzi mandò un messaggio non formale, in cui ricordava le polemiche che lo aveva diviso dal poeta coetaneo, aggiungendo tuttavia che esse, di fronte a quanto stava succedendo in Italia da qualche anno, sarebbero certo cadute di fronte alla vergogna e all'ignominia del presente (e Muore ignominiosamente la repubblica è un titolo luziano, seppure riferito agli estremi anni Settanta). D'altronde ci sarà una ragione se a un poeta cristiano come Luzi, formatosi in clima ermetico, fiducioso nella trascendenza e programmaticamente contrario a ogni forma di militanza politica della poesia, è toccato prima di morire di dire qualche verità sul regime vigente e di subire perciò l'attacco ingiurioso di politici che si vantavano di non avere mai letto una sua poesia e chiassosamente chiedevano conto a Ciampi della sua nomina a senatore.
Eppure lui, con gli anni, non è certo cambiato. E' cambiato però il contesto, a tal punto che l'orgoglio stesso di un poeta per cui realtà, verità e testimonianza poetica coincidono ha reso per così dire naturale la sua presa di posizione pubblica. L'obbligo della testimonianza è un dovere a cui Luzi non è mai mancato.
Per Luzi la poesia è naturaliter testimonianza. Non ha bisogno di un sovrappiù di intenzioni politiche e civili, perché di per sé dichiara la verità del mondo. La realtà è dotata di valore (di valore religioso), e di valore è dotata la poesia che ne dà testimonianza. Da questa poetica Luzi non si è mai allontanato.
E tuttavia bisogna distinguere almeno due fasi diverse in cui essa si articola. In mezzo, fra anni Cinquanta e Sessanta, c'è stata la crisi del genere lirico che ha modificato in profondità la poesia di Montale e anche dei suoi maggiori eredi (Sereni e Luzi soprattutto), ponendo fine al rigorismo postsimbolista, al petrarchismo, a una poesia tendente al lirico e al sublime e puntando invece al basso, al prosastico, al narrativo. Il Luzi ermetico (perché Luzi è stato certamente il prodotto più importante dell'ermetismo fiorentino) lasciava posto a un Luzi diverso, più attento a Dante che a Petrarca, più mosso e inquieto, incline alla spezzettatura del verso a scalino, all'allungamento dell'endecasillabo, alla sprezzatura dell'epigramma ma anche al dialogato e al poemetto narrativo e filosofico. In questa evoluzione un ruolo hanno giocato certamente il passaggio di Montale da La bufera e altro a Satura e l'influenza dell'Eliot di Four Quartets.
Se Avvento notturno (1940) è il suo libro paradigmatico dell'esperienza ermetica, in Un brindisi (1946) si percepiscono già la realtà contadina e la misura del tempo storico che affioreranno poi in Primizie del deserto (1952), Onore del vero (1957), Dal fondo delle campagne (1965). Il paesaggio del Monte Amiata, della Maremma, della Toscana più desolata, dell'Umbria, con il suo mondo paesano e i suoi viandanti che rappresentano una realtà contadina ormai in via di disfacimento (bracconieri, osti, venditori di fortuna, lupi di mare, girovaghi) indicano insieme la realtà del mutamento (siamo agli inizi del miracolo economico) e la stabilità (la presenza del divino) che persiste sotto di esso. Si può forse capire da questi versi quanto l'ermetismo fiorentino viva culturalmente e artisticamente nella proiezione su uno sfondo europeo di una situazione di emarginazione e di isolamento connessa al tramonto della civiltà cattolico-contadina e alla crisi della piccola borghesia agraria e della sua rappresenta intellettuale (e penso, oltre che a Luzi, anche a Fallacara, a Betocchi, a un certo Parronchi). E tuttavia qui, in Onore del vero, finalmente il poeta scopre il «vero» e il suo «onore», seppure non per intervenire, ma per contemplarli. L'atto di chi guarda, l'atteggiamento del «testimone muto», rimane infatti costante.
Il momento di svolta è Nel magma (1963), uno dei libri poetici più importanti del secondo Novecento. L'ambiente prevalente ora è quello caotico e informe di un inferno cittadino, descritto nei suoi interni (come un appartamento cittadino, un bureau, un treno con i suoi incontri) e nei suoi abitanti, rappresentati con inedita cattiveria. Il verso si allunga, tende alla prosa e alla narrazione, include il dialogato, prevede veri e propri personaggi, come la donna e il marito di "Ménage", i compagni di "Presso il Bisenzio". Quest'ultima poesia include anche la prospettiva di una possibile crisi della funzione poetica, dato che, in una visione onirica, compaiono di fronte a Mario, di notte, nella nebbia della campagna alla periferia di Prato, i compagni che hanno partecipato alla Resistenza e alle lotte successive per rimproverarlo
(«Tu dici di puntare in alto, di là delle apparenze,
e non senti che è troppo»; «guardati, guardati attorno. Mentre pensi
e accordi le sfere dell'orologio della mente
sul moto dei pianeti per un presente eterno
che non è nostro, che non è qui e ora…»).
Ma il poeta resta fedele a se stesso: «Sono io che pago tutto il debito. E ho accettato questa sorte». E' la stessa situazione onirica e problematica di una poesia di Sereni, "Un sogno", ma nel poeta lombardo l'esito del conflitto resta aperto, mentre Luzi conferma la fiducia che la poesia, con la sua ricerca e la sua coscienza, si faccia carico per propria natura di tutta l'umanità e dei suoi pesi, senza che vi sia una necessità di confrontarsi direttamente con il «qui» e con l'«ora».
E tuttavia, più che si procede nelle opere immediatamente successive a Nel magma, più la contingenza conquista spazio e rilievo; e sarà l'esperienza del dolore, magari percepita attraverso un pianto ascoltato in un albergo straniero (come nella bellissima "Il pianto sentito piangere"), oppure la cronaca politica (indimenticabile la rappresentazione del cadavere di Moro «acciambellato in quella sconcia stiva», sempre in Per il battesimo dei nostri frammenti, 1985, forse la raccolta più importante dopo Nel magma). La presa di distanza da Petrarca rientra appunto in questa tendenza. In una poesia di Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini Petrarca è colto mentre spia con invidia il pittore senese:
«Domandava elemosina
di luce e di pietà
alle mie storie la sua arte
che non aveva storia - divorata
dalla beltà, assetata di grazia».
A un'arte priva di storia e prigioniera di un sogno di grazia e di bellezza Luzi continua a contrapporne una che sia testimonianza del vero (e il vero, per lui, è sempre storico e divino insieme).
A questa alta e orgogliosa missione Luzi è sempre rimasto fedele, sino all'ultima sua opera di pochi mesi fa, Dottrina dell'estremo principiante, dove si può leggere la dichiarazione forse più piena e completa di questa idea di poesia come testimonianza del creato e del poeta non come persona o come io isolato ma come «presenza umana» nel mondo:
«Non io come persona
piuttosto la presenza umana nel creato
muliebre, virile,
non importa
talora indecifrata,
talora contrapposta,
lui, lei, il pronome la sorprende
nel vivo
della sua esigua astanza
nella sorte universale,
ma ciascuna
scoscesa nella sua
unicità, arsa
dalla sua incolmabile differenza».
Prima di Luzi sono venuti meno Sereni, Fortini, Caproni. Una intera generazione di poeti sta scomparendo. Nessuno dei poeti che oggi hanno fra i cinquanta e i sessanta ha l'autorità che loro avevano a questa età; nessuno sembra capace di testimoniare la verità con l'intensità che essi hanno mostrato.