lunedì 16 maggio 2005

la fatica dimenticata dei primi anni di vita
Tullio De Mauro: la lingua ha un corpo

La Stampa TuttoLibri 14.5.05
Non parlare a vuoto: ricordati che la lingua ha un corpo
Tullio De Mauro

CHI di noi appartiene all'età adulta ed è per giunta istruito usa le parole in uno spazio che in genere gli appare puramente mentale: le ascolta e capisce, le progetta e con poca fatica le dice o scrive. Ogni giorno una persona adulta colta "processa", come dicono gli informatici, decine e decine di migliaia di parole. Vale la pena azzardare una stima. Sappiamo che in un minuto leggiamo o sentiamo leggere ad alta voce in modo comprensibile circa cento parole italiane o tedesche, centodieci francesi o inglesi, ma contemporaneamente, nello stesso minuto, ne pensiamo almeno altrettante senza troppa difficoltà. Per essere cauti, si può stimare, al ribasso, che un adulto colto processi ogni giorno, in sedici ore di veglia, assai più di centomila parole. Ma il word processing mentale continua anche durante il sonno. Ripeto, sono stime caute, al ribasso. Nella lettura muta un buon lettore triplica queste cifre. E le parole pensate possono scorrere sullo schermo della mente ancora più veloci di quelle lette. Così l'adulto colto si fa l'idea che le parole e il parlare siano qualcosa di aereo, puro spirito. Restano sepolte nella memoria perinatale e postnatale le fatiche del primo apprendimento delle prime parole, quando tutto il corpo, cervello compreso, dovette imparare a obbedire a un impulso primordiale: impegnarsi nella fatica di ascoltare voci, di isolare parole, di capirle, capirne l'importanza vitale, imparare a tenerle a mente, desiderare poi di balbettarle e, infine, riuscire a dirle. E anche di solito resta sepolta nella memoria infantile quella che Antonio Gramsci chiamava "la fatica muscolare dello studio" - natiche dolenti per lo stare seduti a leggere, occhi stanchi a decifrare gruppi di lettere di alfabeti o ideogrammi, a imparare cifre e numeri - per quella parte del genere umano che ha potuto studiare e, di nuovo, ha dovuto fronteggiare il compito di imparare nuove parole di una qualche lingua, apparentemente lontane dall'immediata vita quotidiana così come il bambino aveva imparata a vederla. L'adulto colto ha vissuto allora tutta la fatica di mobilitare corpo e cervello per trasformare l'impulso naturale primordiale al comunicare in quel cammino che lo ha portato a farsi partecipe di una cultura determinata e a salire in uno spazio dove parole, cifre, formule aleggiano leggere e sono quasi sempre, quasi tutte a portata di intelligenze che hanno imparato a muoversi sempre più speditamente. Ma in generale l'adulto istruito quella fatica l'ha dimenticata e la sua mente scorre distratta come su una cosa ovvia quando legge che il parlare umano è qualcosa di naturale e però è anche qualcosa di culturale, di storico. Se uno riesce a comunicarglielo, l'istruito apprende con stupore che non è altrettanto ovvio mettere insieme le due affermazioni in modo concettualmente coerente, oltre che col trattino con cui scriviamo lingue storico-naturali. La visione del parlare che qui vogliamo delineare ha la presunzione di togliere ovvietà a quel che appare ovvio, non per il gusto di complicare le cose ma perché l'adulto istruito avverta l'enormità del privilegio che la storia della specie e remote fatiche infantili gli hanno dato.
... La fatica dimenticata dei primi anni di vita di un essere umano condensa la fatica che nelle centinaia di migliaia di anni la specie umana ha compiuto per costruirsi forme sempre più astratte di cultura e lingue che possono essere rese idonee a ciò. Il gioco delle analogie che sorregge una qualità tipica delle parole, la flessibilità dei loro significati, non è un arabesco intellettuale librantesi nel vuoto, ma è un gioco che continuamente rinvia a ciò che Galileo chiamava "sensate esperienze", alla base fisica e corporea della nostra vita e capacità di intelligenza. Quel poter dire io e tu che aiuta a dire e capire ciò che noi o altri diciamo rinvia al nostro saper essere parte autonoma, autonomamente inventiva, di un gruppo e riconoscere ad altri tale autonomia.
Animalità, corporeità, comunanza sono altrettante radici delle nostre parole, anche le più rarefatte. Proprio per la enorme potenza intellettuale di ogni lingua, il locutore, se ne smarrisce le radici vitali, biologiche, animali, corporee, rischia di fingere di parlare, mentre in realtà fa girare a vuoto la lingua. Il rischio di questo smarrire le radici animali, corporee, non riguarda solo il nostro parlare.
... Eclissi del corpo e artificialità ci espongono al rischio del parlare a vuoto. Il parlare non gira a vuoto soltanto se i suoi contenuti si ancorano, prima o poi, a un esperire concreto. Specie nelle fasi di apprendimento, soltanto per tale via si formano i significati: a partire da sensi assai determinati e sperimentati nel vivo, operativamente, con intervento non solo dei canali percettivi “nobili” (vista, udito), ma anche più rudimentali (tatto, gusto, olfatto). Anche la comprensione si realizza attraverso processi di adattamento, di va e vieni, tra lo scorrere di sensi determinati e il bagaglio di potenzialità semantiche delle parole disponibili per il ricettore. Senza circoscritte esperienze individuate da particolari sensi in cui si concretano i significati delle frasi di un locutore che non parli a vuoto, il ricettore rischia di accogliere queste frasi come formule vuote. E di diventare lui stesso poi un ripetitore di formule vuote, un rischio colto già tanti anni fa genialmente da Georges Orwell (Politics and English Language, 1946). La prima conseguenza da trarre è cercare di non smarrire mai la coscienza del rapporto di continuità che lega, immediatamente o mediatamente, il più aereo e astratto dei significati al concreto e all'immediato esperire. La seconda conseguenza è poter capire quanto lunga è la strada che porta dalle esperienze più concrete e immediate alle elaborazioni più astratte e intessute di mediazioni e ciò ci aiuta anche a capire quanti sono quelli che non la percorrono tutta, ma si perdono lungo il cammino. Una lingua è fatta in modo che in qualche misura sia possibile comunicare con parole anche oltre la distanza culturale, ma ciò avviene solo in modo limitato. Il gioco verbale più denso di significati complessi gira a vuoto per molti. Non bisogna disperare. Secondo i neurologi noi utilizziamo non più del dieci per cento dei neuroni di cui è dotato il nostro cervello. E, analogamente, utilizziamo solo una parte assai piccola delle potenzialità di comunicazione che ci offre una lingua. Possiamo fare passi avanti sulla via antica della comprensione reciproca e della comprensione e intelligenza del mondo. Purché chi guarda in fondo al linguaggio vi scorga la necessità che esso, se non vuole limitare la sua stessa funzione, si faccia esso stesso educazione alla parola in tutte le sue potenzialità.

l'embrione

Il Tempo 15.5.05
«Quell’organismo elementare è solo un progetto di vita»

È il vero nodo della battaglia referendaria. Può l’embrione avere gli stessi diritti di un concepito? Seconco i comitati promotori assolutamente no, anche perchè, dicono, non si tratta di una vita, ma piuttosto di «un’aspettativa a nascere». Tra l’altro i referendari contestanto anche il principio per cui, secondo la legge 40, questo «progetto di vita» avrebbe gli stessi diritti degli altri «soggetti convolti» cioè gli aspiranti madre e padre. L’ovulo appena fecondato, spiega il fronte del sì, è un organismo elementare, invisibile a occhio nudo, composto da cellule indifferenziate, del tutto privo, non solo di qualsiasi capacità di sentire e pensare, ma si ogni traccia di sistema nervoso. Nell’80% e più dei casi, aggiungono, anche nella fecondazione naturale, non riesce a sopravvivere, e viene espulso con il primo ciclo mestruale. Come se non bastasse, continuano i referendari, entro i primi 14 giorni dalla fecondazione, l’ovulo può suddividersi dando vita a più gemelli. Come può essere una persona, si chiedono, se può diventare più individui? Per tutti questi motivi, concludono, si tratta di una vita di livello cellulare. L’equiparazione di un ovulo fecondato con la persona è quindi, per i promotori del referendum, espressione di una visione materialistica della vita umana che viene così ridotta a un dato puramente biologico: la fusione del dna materno con quello paterno. Inoltre, aggiungono, questa cosa non è condivisa da nessun’altra religione e, anche all’interno del cristianesimo, è avversata dalla maggior parte delle chiese protestanti e da molti cattolici. Il «popolo del sì» elenca poi una serie di principi, affermati nell’ordinamento nazionale, che sarebbero in contrasto con quanto previsto dalla legge 40. Secondo l’articolo 1 del codice civile, spiegano, la capacità giuridica, cioè l’idoneità ad essere titolari di diritti e obblighi, si acquista soltanto con la nascita. Il criterio per determinare la fine della vita umana (in Italia così come negli altri paesi occidentali) è la cosiddetta morte cerebrale. L’embrione alla stadio di sviluppo nel quale viene utilzzato per la fecondazione assistita e la ricerca non ha ancora nessuna traccia di un sistema nervoso cerebrale. La legge sull’aborto consente l’interruzione di gravidanza fino al terzo mese il che significa (secondo i referendari) che in Italia oggi, dopo l’approvazione della legge 40, ha più diritti un embrione di feto in avanzato stadio di sviluppo. Infine la legislazione italiana consente l’uso della spirale e della «pillola del giorno dopo» che impediscono all’ovulo già fecondato di impiantarsi nell’utero e ne provocano l’espulsione. Tutto ciò, secondo i promotori del referendum, è palesemente in contrasto con l’idea che l’ovulo appena fecondato abbia già un diritto alla vita. Secondo il fronte del sì, se questa norma contenuta nella legge 40, non verrà abrogata, anche la contraccezione rischia di diventare oggetto di probizioni legislative.

Dino Campana, nacque a Marradi...

Il Mattino 15.5.05
Marradi, sull'Appennino

Dove la follia di Campana diventò poesia

Annidato sul fiume tra le colline, il paese è come un monumento serio e silenzioso
Marco Ciriello

Era il matto del villaggio. Quello che faceva vergognare la famiglia. Il figlio venuto male; da nascondere, allontanare, punire. Buono a nulla, incontenibile, sempre pronto alla fuga; quello da mettere in mezzo, da umiliare, sfottere, rinchiudere. Invece, era un grande poeta: Dino Campana. Il tempo gli ha dato ragione. Se li è lasciati tutti dietro. Li ha staccati, surclassati, dimenticati. Con la poesia. Parole, suoni, metrica. Cavalcano ancora il tempo. Passano da bocca a orecchio. Lucide visioni che accendono l’immaginazione di chi legge. Cullano emozioni, lasciano stupore, musica, vita: i suoi versi. Melodiose fughe in mondi veri resi improbabili, sudati sogni, sofferenza, rabbia, amore. Spalancano cieli avvolti da nuvolosi colori irreali. Città, uomini, donne. Notti e giorni. Diventano una lunga ininterrotta evasione. L’opera doveva essere la giustificazione alla sua vita. Ingiusta, sciagurata, impedita. Una vita da poeta. Un tortuoso dolente percorso partendo da Marradi (paesino dell’alta Toscana: rifugio, tana, prigione) fino a Buenos Aires, passando per Firenze, Bologna, Genova, Bruxelles e la Svizzera, Torino, università, manicomi, prigioni. Arresti, fogli di via, rifiuti. Non è stato un picnic l’esistenza di Campana. Ma un ininterrotto prendi e scappa, patisci e spera, rilancia, imbroglia, tieni duro, provaci ancora e ancora e ancora. Marradi è una tomba vuota, oggi. Una mano chiusa. Poche case, paesaggio appenninico, vasto territorio collinare, una strada che le auto percorrono in fretta, chiese scialbe, bar vuoti, silenzio, noia, gente chiusa in casa. Alle spalle c’è la Romagna. Siamo a nord-est di Firenze. Dietro il nido di case ci sono dolci colline, protettive, quelle che lo accoglievano per le letture, donando pace ai suoi pensieri, solitudine, corretta dimensione d’animo. Il paese è attraversato dal fiume Lamone, fasciato di cemento, ma in compenso carezzato ancora da bonarie anatre, che giocano a pelo d’acqua. Provano senza sosta a risalire la corrente, inutili, respinte dalla forza maggiore del fiume, scivolano. Passiamo senza fretta, alle sette di sera, cercando il centro studi campaniano. Chiuso. «Campana? per carità, non ne so niente», risponde il vecchio prete don Guglielmo, un Arnoldo Foà con naso massiccio e rosso. Ciondolando dalla canonica alla chiesa. «A quest’ora son tutti a tavola, e poi qui ci alziamo presto la mattina». Alla biblioteca comunale ci danno il numero della signora Gentilini, che però è a pregare per il maggio mariano e tocca aspettare. La mostra permanente campaniana è foto e biografia, il centro ha ben poco, la cosa migliore è un quadro di Emilio Tadini, i suoi personaggi nasuti sospesi nel buio, un girotondo d’adulti nelle tenebre, con uscita. Impressionante, invece, è una foto di Campana appena venuto fuori dal manicomio: un Mussolini bello, il viso contratto, la testa rapata, e gli occhi tirati, le braccia incrociate sul petto, tese come una camicia di forza che non c’è, ma che forse lui sente ancora. Valeva la pena di aspettare solo per quella, il resto - quadri, monete, riproduzioni - è dimenticabile. Come la sua casa. Chiusa, ovviamente. Emilio Cecchi diceva che «accanto a Campana si sentiva la poesia come se fosse una scossa elettrica, un alto esplosivo». Ma si vede che il paese non è sensibile come il critico. O forse quella poesia è esplosa una volta sola, perdendosi nell’aria, fuggendo nel vento. I «Canti Orfici»: la sua opera, il riscatto, la scommessa, l’immortalità; hanno dentro anche una storia singolare. Frutto dei viaggi, degli incontri, delle città e delle esperienze del poeta, hanno avuto una gestazione travagliata, piena di tentativi andati male, rischiando anche di vedere la luce per essere persi. Anni dopo (1929) Campana si vedrà recapitare il libro in manicomio a Castel Pulci (dove morirà), e nei momenti di lucidità troverà gli errori, i tagli della censura, riuscendo anche a scrivere al fratello «affinché cercasse l’edizione originale per ricordo». Ma prima sarà tutto diverso. Una volta scritti (con il titolo «Il più lungo giorno» e come exergo la frase di Nietzsche: «E come puro spirito varca il ponte»), il poeta li consegna in lettura a Giovanni Papini che poi li deve passare a Ardengo Soffici, ma i due intellettuali della Firenze del primo decennio novecentesco, che animavano cultura e società, non prendono in considerazione l’opera del matto, non la leggono, o se lo fanno è senza importanza, e la smarriscono. Saranno in molti a ignorarlo, tra questi anche il futurista Filippo Tommaso Marinetti. Non trovandosi più il manoscritto, Campana è costretto a riscrivere l’opera, a memoria. Ci riesce. La spedisce agli editori del tempo: Vallecchi, Treves, Zanichelli, ma non ha risposta, così alla fine la stampa Ravagli, una tipografia del paese, e lui si incarica di venderla e farla circolare. Vero o falso che sia, l’episodio di Campana che prima di consegnare il libro a Marinetti ne strappa molte pagine - perché non le capirebbe - è bellissimo, e molto campaniano. Oltre la sua opera che si realizza, l’unico momento di tregua, anche se fuggevole, travagliato, e pieno di litigi, riprese e cadute, prima della vera pazzia, sarà la storia con la scrittrice Sibilla Aleramo, donna meravigliosa, instancabile mangiatrice di uomini, ma anche capace di slanci d’animo e aperture sentimentali vere.
«Vi amai per la città dove per sole
strade si posa il passo illanguidito
dove una pace tenera che piove
a sera il cuore non sazio e non pentito
volge a un’ambigua primavera in viole
lontane sopra il cielo impallidito».
Camminando in piazza delle Scalelle dove ci sono il municipio e gli unici edifici con un po’ di storia, un flebile filo con il passato, si può immaginare Campana trascinato dalle guardie, o deriso in piazza. E gioire, perché lui ha avuto sempre ragione. «Dietro un matto c’è sempre un villaggio» aveva scritto Edgar Lee Masters, forse Marradi è esistita fin quando lui era in vita, fin quando si poteva alimentare della sua pazzia. Ora è solo un monumento senza senso. Non ha saputo cogliere e vedere nell’esuberanza di quel ragazzo, nei suoi modi estremi di vivere, sentire, scavalcare il suo tempo, che uno stupido. Ne ha fatto una vittima, un escluso, un pericolo. Forse per questo adesso è così silenziosa. Pervasa da una seriosità che sa di pentimento. Una condanna che arriva fino ai nostri giorni. Che salva solo il paesaggio. Muta, sconta la sua pena. Senza l’allegria, le bravate, le urla del ragazzo che studiava chimica e doveva essere farmacista, ufficiale, il vagabondo, il demente, il mozzo, il fuochista, l’operaio nella pampa, lo scemo, il selvaggio, l’anarchico pericoloso, il mendicante, il montanaro, l’ubriacone, il poeta. Uno così non può avere una associazione normale a ricordarlo, un premietto d’agosto con reading e serate di gala, merita altro. Chissà se è mai venuto per queste strade, se ha mai guardato la ferrovia con ansia, Carmelo Bene. Sì, lui era l’unico che poteva riscattare Marradi e rendere davvero omaggio a Campana. Per capire lui, e i suoi «Canti Orfici», bisogna sentirli masticati dalla voce di Bene. La punta più alta di Campana è anche la fine della grazia, l’inizio del disfacimento. Carmelo Bene, leggendoli, li riconsegna al nulla dal quale sono venuti, ogni volta, quasi restituendo la pace a Campana. Bene non li legge semplicemente i «Canti Orfici»: li cancella, la sua voce diviene verso, parola, rigo, strofa, poema, liberando la pagina nell’aria, ripercorrendo, inversamente, la scintilla, la febbre che costituisce la creazione; l’impalpabile sovrana scrittura, così, è sottoposta a un percorso terreno, una morte buddhista: che mille e mille volte, nasce e si spegne. Innalza, trascina, e fila via. Emozioni, gioia, lacrime. È un nuovo mondo che si crea e scompare. La poesia è uno strumento da suonare, per pochi. I «Canti» sono un guanto che Bene calza alla perfezione, chi ha ascoltato l’attore «divenire» la poesia di Campana, non può separarsene. Riesce nel difficile compito di rendere reali le immagini del poeta, le materializza, le porta nella vostra stanza e vi costringe ad amarlo, sentirlo, è una questione di magia, che Bene ha e soffia, tocca, anima, dentro, attraverso, su, nei «Canti», li fa tornare, danzare, correre nell’aria, bambini in tondo, nuvole e cieli sconosciuti, e poi puff, suoni che lentamente spariscono, e nulla più è come prima. «They were all torn and cover’d with the boy’s blood». «Essi erano tutti stracciati e ricoperti del sangue del fanciullo». Riverbero, che ci portiamo dentro. Ricordo che il treno mette in salvo portandoci via da Marradi.

Dino Campana nacque a Marradi il 20 agosto del 1885 da Giovanni, maestro elementare, e Francesca Luti, detta Fanny. Studiò presso il Convitto Salesiano, iniziò gli studi liceali prima a Faenza, poi a Torino. Seguì i corsi di Chimica a Bologna. I primi anni di università furono un vero disastro: non riescì a sostenere neppure un esame e frequentò prevalentemente le lezioni di Lettere. Il padre decise allora di mandarlo a Firenze presso uno zio magistrato, poi lo richiamò a casa, e la tensione in famiglia si fece sempre più vistosa. Nel 1906 venne ricoverato per qualche tempo nel manicomio di Imola. Nel 1907 lasciò gli studi e per viaggiare: prima in Francia, poi in America del Sud. Tornato in Europa, in Belgio venne arrestato e quindi internato in manicomio. In Italia nel 1909, dopo tre anni si iscrisse ancora a Chimica a Bologna e pubblicò i primi versi. Prese i primi contrastati contatti con il gruppo di poeti e intellettuali fiorentini. Uno di loro: Soffici, suo grande estimatore, smarrì il manoscritto de «Il più lungo giorno», alimentando il mito del poeta costretto a ricostruire la sua opera tutta a memoria. I «Canti Orfici» furono poi pubblicati a Marradi dalla tipografia Ravagli nel 1914. Allo scoppio della guerra avrebbe voluto arruolarsi come volontario, ma venne di nuovo rinchiuso in manicomio. Nel 1916 conobbe Sibilla Aleramo, con lei ebbe una relazione difficile ma importante anche per il carteggio che determinò. Nel 1918 venne ricoverato nell’ospedale psichiatrico di Castel Pulci, dove morì nel 1932.

progetti ministeriali contro la depressione...

nopsych.it
Comunicato del
Comitato Cittadini per i Diritti Umani (12.5.05)
Depressione: il mercato dei ragazzi

Il ministero della Sanità sta per lanciare il programma operativo sulla depressione che riguarda anche le fasce adolescenziali citando statistiche di 800mila depressi in Italia di cui il 40% studenti delle scuole secondarie. Attualmente nelle scuole americane si spende un miliardo di dollari all'anno per gli psicologi che lavorano a tempo pieno per fare diagnosi ed etichettare i bambini con "disturbi dell'attenzione" e si spendono più di 15 milioni di dollari in "trattamenti".
Per promuovere questa industria, si pubblicano libri che sostengono teorie infondate sulle "malattie" mentali infantili e l'uso di psicofarmaci come "soluzione". Nel nostro Paese negli ultimi tre anni è enormemente aumentata la propaganda sui disturbi mentali infantili, è stato dato il via agli screening nelle scuole a fasce d'età sempre più basse, ed ora vengono sventagliate percentuali ed attuati piani per i "trattamenti" sotto la voce di "prevenzione"; è quadruplicato nel biennio 2000-2002 il consumo di psicofarmaci fra i giovanissimi con i primi casi di danni per diagnosi errate e gravi effetti collaterali. Questi programmi di prevenzione negli Usa, fatti passare falsamente come necessari per supportare la scuola, o fermare l'abuso di droghe, o diminuire il comportamento suicida e la bassa "autostima", per più di 40 anni, sono stati un fallimento aggravando in realtà tali problemi come dimostrano i casi di suicidi e omicidi e violenza in aumento.
I responsabili del "programma psicologico" "TeenScreen", in uso nelle scuole degli Stati Uniti, sostengono che il fatto di identificare e "curare" i bambini "a rischio" può evitare i casi di suicidio. Ciononostante, un rapporto pubblicato in Nevada nel 2003 riferisce che il 31% degli studenti sottoposti in passato a screening è in terapia; il 9% vede regolarmente uno psichiatra e sta prendendo psicofarmaci e l'1% ha già tentato il suicidio. In seguito allo screening della depressione sono state compilate sessanta milioni di prescrizioni per antidepressivi negli Stati Uniti: circa il dieci per cento della popolazione americana, compresi un milione e mezzo di bambini.
Diane Alden, analista ricercatrice con un background in scienza e di economia politica, su Education Reporter del 2001, scrisse: "Prima che iniziasse il movimento nazionale di autostima, i bambini si guadagnavano autostima, o la assorbivano in modo naturale dai loro genitori. Quando facevano qualcosa, sia che avessero ricevuto o meno, una lode per questo, essi comprendevano di aver fatto qualcosa di buono. Tuttavia, man mano che i sociologi e gli educatori degli anni '60 applicavano le teorie psicologiche alle scuole, l'istruzione andò declinando. I risultati sono stati disastrosi. I punteggi dei test, la lettura e l'abilità matematica dei bambini americani hanno cominciato ad andare nella direzione della spirale discendente. Man mano che si va avanti, sempre più scienziati credono che questa autostima esagerata possa veramente essere una delle cause della violenza nelle scuole pubbliche e altrove". Il Comitato dei Cittadini per i Diritti Umani, come già da diversi anni, continuerà a battersi perchè non accada anche in Italia un dilagare di diagnosi di questo genere attraverso programmi di prevenzione di disturbi mentali col pericolo di facili etichettature, trattamenti inappropriati e soffocando la spinta che promuove la ricerca di vere soluzioni e miglioramento.
Lasciamo a ogni coscienza trarre le proprie conclusioni, ma si esorta a osservare i fatti.