giovedì 15 gennaio 2004

donne e cani

La Repubblica 15.1.03
UN SAGGIO DI CRISTINA FRANCO SU UNA SINGOLARE ANALOGIA
PER I GRECI LA DONNA ERA SIMILE AL CANE

Questa malattia faceva tornare lupo l'animale domestico che da fedele diventava infido
Secondo gli antichi l'amico dell'uomo diventa cattivo quando è preda della lyssa
di MAURIZIO BETTINI


È storia di appena ieri. Pitbull inferociti, sanguinari Rotweiler, Doberman che si aggirano minacciosi per i giardini pubblici. Ogni giorno un nuovo assalto, mentre un ministro italiano della salute si preoccupa, con una specifica ordinanza, di distinguere addirittura i cani buoni da quelli cattivi. Che cosa è successo? Per gli antichi Greci non ci sarebbero stati dubbi: gli amici dell'uomo sono caduti improvvisamente preda della lyssa.
La lyssa era una singolare malattia. Etimologicamente questa parola viene da lykos, il «lupo», dunque si trattava di un vero e proprio «allupamento» del cane, di un suo ritorno, più o meno momentaneo, all'originaria natura lupina. Colto dalla lyssa, il cane non distingue più il padrone dallo straniero, l'ospite dall'intruso: attacca, morde e talora uccide. L'amico fedele si trasforma improvvisamente in un pericoloso nemico. E questo poneva ai Greci dei problemi culturali, naturalmente: proprio come oggi li pone a noi il Pitbull che scavalca la rete e azzanna la padroncina. Ma insomma, ci chiediamo, chi è il cane? Qual è il suo vero ruolo nella vita dell'uomo, di cui condivide - da sempre - il tetto e la mensa?
A questa domanda risponde un libro affascinante, che una giovane studiosa, Cristiana Franco, ha pubblicato presso la casa editrice Il Mulino: Senza ritegno. Il cane e la donna nell'immaginario della Grecia antica, (pagg. 372, euro 24). Questo libro inaugura la Collana «Antropologia del mondo antico», che l'omonimo Centro dell'Università di Siena cura presso la casa editrice bolognese; e sarà seguito da una serie di altri lavori di giovani studiosi i quali, per nostra fortuna, dedicano ancora le loro energie intellettuali alla cultura antica. E dunque, chi è il cane per i Greci?
Per rispondere a questo interrogativo, il libro della Franco prende le mosse da un insulto: quel «cane!» che l'uomo adirato scaglia all'indirizzo dell'amico che lo ha tradito, o del familiare di cui ha appena scoperto gli intrighi meschini. È abbastanza strano, in effetti, che venga usato come insulto proprio il nome dell'animale più caro all'uomo. Il fatto è, spiega l'autrice, che il cane non è un animale, al contrario, è un membro della società degli uomini - salvo che, come tale, esso (o egli?) ne occupa il posto più infimo. Il cane incarna un vero e proprio paradosso: se come animale è il più prossimo all'uomo, come "uomo", invece, costituisce una perenne delusione. È nutrito, vezzeggiato, ma d'un tratto può essere colto dalla lyssa, oppure, più semplicemente, può vendersi ai ladri per un boccone di carne cruda. Oltre che inaffidabile, però, il cane è soprattutto uno svergognato. Il suo vizio più grave, infatti, è quello che i Greci definivano anaideia, cioè mancanza di aidos, di «pudore». Per questo il cane si abbandona in pubblico alle voglie di amore, né si preoccupa di nascondere i propri impulsi e i propri desideri, che anzi manifesta con guaiti impudenti e un modo adulatorio di scodinzolare - i Greci, che avevano una parola per tutto, lo definivano sainein - da cui non c'è da aspettarsi niente di buono.
Il fatto è che «Fido», in realtà, non ci guarda con gli stessi occhi con cui lo guardiamo noi, né ha il nostro stesso cuore. Come ha scritto efficacemente Giovanni Jervis, «il vero limite dei rapporti fra noi e il nostro cane non sta nel trovare un animale che possiamo trattare come una persona: ma nell'impossibilità di avere un cane che ci tratti veramente come una persona». In quanto «persona» il cane ci delude, ci tradisce e talora ci aggredisce. Ecco perché non ci fidiamo di «Fido» e possiamo usare il suo nome - «cane» - per insultare qualcuno.
A questo punto il lettore si starà chiedendo che cosa c'entri la donna, in questa faccenda. Perché abbastanza inaspettatamente il libro della Franco mette sotto l'etichetta della «impudenza» - la anaideia - non solo la razza canina ma anche il sesso femminile: per i Greci cane e donna sono entrambi dei «senza ritegno». Anche questo secondo filone di ricerca, che accompagna il primo come un pedale inquietante, prende in realtà le mosse da una domanda. Perché al momento di creare Pandora, la prima donna, mentre Atena le donava l'arte del telaio e Afrodite la grazia, Ermes pensò invece di donarle una «indole cagnesca»? Kyneos noos, nelle parole di Esiodo, un'indole non «di cagna», come l'autrice efficacemente dimostra, ma proprio «di cane».
Se i Greci hanno legato così strettamente il cane e la donna, lo hanno fatto in primo luogo per un motivo di carattere culturale. In altre parole, a loro il cane è servito soprattutto per «pensare» la donna. Pensarla come una «razza» a sé stante, diversa da «noi» - cioè cittadini maschi adulti - eppure destinata ineluttabilmente a dividere la nostra casa e la nostra vita. Dividerla naturalmente tenendo la posizione più bassa all'interno della società degli uomini - cioè i maschi - proprio come il cane tiene l'infimo rango a mensa o nella casa in generale. Per questo donna e cane si toccano, nell'immaginario dei Greci. Ma non solo per questo. Proprio come del migliore amico dell'uomo, infatti, anche della donna - madre, moglie o figlia che sia - i Greci non si sono mai fidati. La donna è svergognata, seduttiva - come il cane che scodinzola - e sempre pronta a tradire. La prova di tutto ciò? Basta ripensare alla mitologia e alla letteratura dei Greci, dove le donne si chiamano Elena (colei che in Omero si autodefinisce «faccia di cane»), Clitennestra, Fedra, Mirra, Medea: creature svergognate, traditrici e assassine. Ma che cosa ci si poteva aspettare da una razza nata da Pandora? «Indole cagnesca», kyneos noos.

gli autori della destra: da Prezzolini a Tolkien

La Repubblica 15.1.04
PENSIERI CLANDESTINI TRA TOLKIEN E GUARESCHI
Le radici della cultura di destra/ 3

Nel dopoguerra c'è come una invisibilità delle idee più elaborate che pure non mancano Il tradizionalismo conservatore si muove tra i cattolici ma non ha grande rilievo Il populismo è un fenomeno trasversale che ha attecchito soprattutto al Sud Il caso del filosofo Del Noce che cerca un'alternativa ai laici ed ai marxisti
di ANTONIO GNOLI


FIRENZE. Una combinazione di interno esterno. Ecco come ci appare la conversazione con Marco Tarchi. Intrinseco, negli anni giovanili, alla destra missina, culturalmente militante, Tarchi si è staccato da quel mondo non rinunciando tuttavia a guardarlo con gli occhi dello studioso. Del politologo. Tra le due guerre la cultura di destra ha svolto un ruolo. Nel secondo dopoguerra quel ruolo si è fortemente ridimensionato fino a diventare marginale. Osserva Tarchi: «La mia impressione è che in questo dopoguerra la visibilità e la creatività della cultura di destra sono state fortemente condizionate dal peso delle compromissioni con il fascismo di tutta una serie di settori, di ambienti sociali e anche intellettuali».
La cultura di destra del secondo dopoguerra diventa in Italia un fenomeno marginale.
«Direi non solo in Italia. Paradossalmente, si è creato una sorta di doppio piano: quello accademico, ma anche produzione di idee attraverso i giornali, le case editrici, ed è un piano mimetico. E poi c´è il piano della cultura popolare. Qui il fenomeno è stato diverso: l´eredità del ventennio fascista ha diffuso stereotipi, miti, modelli che hanno reso ancor più marginale e patetica quella cultura».
Questi due piani cui lei accenna - uno colto ma criptico, l´altro popolare ma rozzo - in realtà sono messi in crisi da una cultura di sinistra che è molto vitale nel dopoguerra.
«È quella che ha vinto. Anche se tra tutte le componenti del fronte antifascista l´opera sistematica di penetrazione nei gangli della società civile è svolta soprattutto dal marxismo. Il che ha impedito che quanto di vitale la cultura di destra poteva avere venisse alla luce».
Lei dice vitale, ma non trova che quella cultura avesse una debolezza intrinseca, una incapacità a camminare con le proprie gambe?
«Può darsi che quella cultura non avesse la forza per riemergere. Però se osserviamo la vicenda senza strumentalizzazioni ci accorgeremmo che non tutto era da buttare. E che alcuni eventi entrati in circolazione prima del fascismo erano sopravvissuti».
A quali eventi pensa?
«La cultura di destra nell´Italia post Risorgimentale è ampia e variegata. Ma quello che è singolare e aggiungo penalizzante è che ogni volta che si è parlato della cultura di destra lo si è fatto sempre al singolare. Probabilmente in ciò agevolato dal fascismo che come contenitore autoritario legittima, accorpandole, alcune culture e altre, come il tradizionalismo antimoderno o il modernismo futurista, le rifiuta».
Lei sostiene che la cultura di destra non può esaurirsi nel fenomeno del fascismo.
«Sì, ma aggiungo che il problema è capire che fine fanno quei filoni che il contenitore autoritario lascia fuori. Il tradizionalismo conservatore, per esempio, cercherà di mimetizzarsi o di entrare in simbiosi con la cultura cattolica, dove pure non avrà uno spazio rilevante».
Forse l´esempio più noto è quello di Augusto Del Noce.
«Lui è un caso a sé, in parte vicino al dibattito che nasce nell´ambito della metafisica cattolica e che si pone il problema su quali basi sia possibile un’alternativa alla società secolarizzata e al marxismo. Poi c´è il filone laico conservatore della cultura borghese, che ha referenti molto popolari in Longanesi prima e in Montanelli dopo. È un filone che si alimenta di una vena di scetticismo nei confronti dell´impegno politico e culturale».
È un filone che si serve soprattutto dei giornali.
«È un tramite essenziale che garantisce una grande popolarità ai suoi protagonisti».
A un livello un po´ più alto c´è la figura di Prezzolini.
«Prezzolini è una specie di sfondo dal quale essi prendono le mosse».
E poi c´è il caso Guareschi che sul piano della narrativa rende popolare e in qualche modo indolore l´opposizione destra e sinistra. Non crede che sia l´anticomunismo il collante che unisce i vari protagonisti?
«L´anticomunismo è solo un aspetto. C´è un collante più importante che tiene unite queste esperienze ed è il senso di inattualità che la memoria del buon tempo antico alimenta. Il tentativo, più o meno palese, è ricostruire modelli culturali che siano non riconducibili al fascismo, che evitino inquinamenti con l´estremismo e che si attengano alla ridefinizione di un ordine patriottico nazionale ma non esasperatamente nazionalista».
Ho l´impressione che da parte di questi conservatori ci sia la netta ripulsa del totalitarismo, ma anche l´accettazione o la ricerca di una convivenza con le forme autoritarie del potere.
«Diciamo che è possibile registrare un certo accomodamento».
Forse qualcosa di più. Longanesi e Montanelli hanno un rapporto dialettico con il fascismo: ne vedono il lato comico a volte tragico, ma al tempo stesso ne accettano il principio d´ordine. Non vede in ciò una contraddizione?
«Non so se vi sia una contraddizione. La mia impressione è che in questo tipo di cultura è radicato un forte pessimismo antropologico. Il riferimento a cui penso è Machiavelli. Essi sono convinti che l´individuo preso a sé può coltivare tutte le elementari virtù civiche della convivenza ordinata all´interno della collettività. Ma quando l´individuo è coinvolto in fenomeni di gruppo tende a perdere la propria identità e si fa strumento di operazioni che non capisce e che mirano a irreggimentarne la vita quotidiana».
Insomma quello che temono è il conformismo. «Che essi trovano più forte e pericoloso nel comunismo che non nel fascismo».
L´accenno a Machiavelli fa pensare a un realismo di fondo, ma anche a un tono da invettiva che in loro prende a volte la cifra della satira.
«È una cultura che si pone il classico problema di come stare al mondo nel momento in cui non si accetta una problematica di tipo religioso. Lo scettico, il conservatore, il pragmatico, il liberal, da una parte sanno che lo stare al mondo non è un privilegio, dall´altro però si sentono estranei alla logica dell´utopia e quindi non vogliono inseguire sogni di palingenesi».
La loro si potrebbe dire è anche una reazione al populismo. A questo proposito lei ha scritto di recente un libro sull´argomento (L´Italia populista, edito da il Mulino). Si può parlare in relazione all´Italia di un populismo più di destra che di sinistra?
«Posto che il populismo è un fenomeno trasversale, effettivamente è più la destra che ne ha colto i frutti. I temi della antipartitocrazia, cioè della diffidenza verso la classe politica in generale, le critiche al potere, l´arroccamento autarchico, i toni plebei, la presenza di un leader carismatico sono aspetti ai quali la destra si dimostra più sensibile della sinistra. Sicché dal qualunquismo si è passati al laurismo, e poi a certe posizioni del Movimento sociale che al Sud ha cercato in anni passati di mettersi a capo della protesta popolare».
E l´attuale Lega?
«La Lega fa involontariamente sua quella vena letteraria e populista che attraversa il fascismo degli anni Trenta e che non ritrovi assolutamente nella cultura di destra degli anni ‘60, ‘70, e ‘80. Questa vena - tesa ad esaltare l´oleografia delle virtù popolari, a vederne l´eroismo, a porre l´intima connessione fra il capo e la folla - ricompare in maniera tumultuosa e a un livello politico più che culturale. Tutto questo va ricondotto alla presenza di altri elementi che sono interni al funzionamento della democrazia come mistica dell´espressione diretta del popolo».
Non trova, a proposito di populismo, che la vena narrativa di Guareschi ne sia intrisa? Che i suoi personaggi, le contrapposizioni fra "chiese", quella cattolica e comunista, aprano a un populismo del buon senso?
«Un certo populismo è indiscutibile. Ma quello che mi colpisce è soprattutto l´idea di buon senso che circola nelle pagine dei suoi romanzi. Poco fa parlavamo di personaggi come Longanesi e Montanelli, che mantengono comunque certe forme di distacco quasi sprezzante nei confronti del popolo. Eppure essi non negano potenzialmente al popolo la virtù del buon senso. Solo che la vedono offuscata dalle ideologie e dalle febbri politiche che ogni tanto lo divorano. Guareschi, ma soprattutto Giannini sul piano politico, sono l´altro versante del discorso».
Ossia?
«Intravedono nella vita quotidiana un fondo vitale. Qualcosa che è lontano dalle utopie sovversive e che va nella direzione di un conservatorismo nemico del progressismo».
Conservazione e progresso sono polarità che useranno in tanti.
«Non c´è dubbio. Ma nel discorso che si sta facendo il progressismo è visto come lo snaturamento del buon senso e abbandono irrazionalistico al sogno della grande trasformazione. E questa opposizione avverrà in modi diversi: su un registro più popolare con Guareschi, più culturalizzato con Prezzolini e per certi versi con Longanesi».
Ma questa idea del buon senso, che è un po´ la faccia popolare della tradizione, non limita il discorso sulla cultura di destra.
«A me viene in mente il ruolo che ha svolto la casa editrice Rusconi negli anni Settanta, la cui speranza almeno nel progetto editoriale fu duplice: cercare di riconquistare a livello popolare il buon senso, ma al tempo stesso far emergere una sorta di contro élite culturale che facesse muro a quella marxista. Tra le scelte editoriali c´era la pubblicazione di Decadenza dell´analfabetismo, un testo raffinato di Bergamín, che richiamava la necessità di non staccarsi dal popolo».
Un ruolo ispiratore alla Rusconi lo svolgerà il filosofo Augusto del Noce che da cattolico tradizionalista cercherà il confronto con la cultura marxista, provando a minare le basi della sua egemonia.
«Anche questo tentativo di Del Noce che per un verso è molto sofisticato dall´altro è indirizzato a un livello più elementare. Secondo me i vari filoni della cultura di destra, a eccezione di alcune frange marginali, partono dal presupposto che il popolo italiano abbia nel fondo conservato un nucleo di valori positivi spendibili sul piano della costruzione della buona società e che solo la febbre ideologica, la catastrofe bellica con annessa guerra civile, abbia finito con il manipolare».
È in gioco uno scontro tra chi deve detenere il potere culturale?
«Sì, ed è la tesi classica che la destra ha sempre avanzato: il marxismo ha occupato larga parte del potere intellettuale e dopo la conquista è partita una strategia di condizionamento ideologico, psicologico, mentale. Di qui il programma di confronto con cui la destra tenta di ridimensionare quel potere intellettuale: non attraverso i vertici, quindi non attraverso la politica, ma attraverso la base».
A quale base sta pensando?
«Ce ne sono di due tipi. Quella cattolica fondata sul recupero di una posizione dottrinaria che guardi verso la direzione religiosa e quella laica che poggia sugli elementi di buon senso che dicevamo prima. E che dovrebbero portare l´individuo a prendere le distanze da chi gli promette il paradiso in terra, il regno ideologico della libertà».
I due piani, popolare ed elitario, proveranno mai a convivere?
«Proveranno agli inizi degli anni Settanta con due riviste: La destra, sponsorizzata dagli ambienti politici missini, ma diretta con forte autonomia da Mario Tedeschi; e Intervento, voluto da una figura del tutto anomala, anche se fiancheggiatrice, come Giovanni Volpe. Entrambe le riviste raduneranno tutto quello che a livello nazionale e internazionale è riconducibile alla cultura di destra».
Qualche nome?
«Compaiono Del Noce e Prezzolini, Eliade e Jünger. L´obiettivo è cercare di arginare quel processo di penetrazione del marxismo nel tessuto collettivo della società italiana».
Non mi pare che ci riusciranno.
«No, anche perché quelle riviste, nate con altri intenti, finiranno con il diventare delle torri d´avorio».
In un´analoga torre d´avorio finì il lavoro editoriale della Rusconi.
«L´esempio più clamoroso fu l´insuccesso, fortissimo dal punto di vista delle vendite, di una collana che si esaurirà dopo pochi libri. Ricordo che esordì con Le serate di San Pietroburgo di de Maistre, poi il saggio sul cattolicesimo di Donoso Cortés e infine La colonna e il fondamento della verità di Florenskij».
Perché libri del genere, pur straordinari, non attecchirono?
«Perché si puntava all´idea che esistesse un pubblico colto da incuriosire e orientare verso una letteratura alternativa a quella progressista, ma non riconducibile a una cultura militante di destra, o nostalgica. E non è un caso che Rusconi riesca meglio dove la polemica culturale è più diretta e accesa».
Ma soprattutto piazza un colpo straordinario: Il signore degli anelli. Una saga che verrà accolta e fatta propria dagli ambienti giovanili della destra fascista. Come mai?
«Perché sono ambienti che si nutrono di suggestioni culturali molto drastiche, che hanno letto Evola e che condividono la proposta di una radicale alterità rispetto al mondo moderno e che quindi non si accontentano di un tradizionalismo estetizzante o religioso, ma vogliono lanciare una proposta politica alternativa».
Ma che cosa è stato questo territorio del neofascismo dal punto di vista culturale?
«È un mondo che deve confrontarsi con il problema della propria assoluta minorità numerica e di prestigio. Che mostra una grande fame di letture e che si abbevera in larga parte a culture straniere. Adora il romanticismo fascista dei Drieu la Rochelle, dei Brasillach, del Céline. Cerca in Jünger, con il quale ha un rapporto difficile, l´idea che il pensiero è qualcosa di aristocratico, e in Eliade o in Guenon una diversa via d´accesso alla tradizione. Si disinteressano del pensiero italiano. A parte Evola, non leggono tutto quello che il corporativismo, il futurismo, il sovversivismo sindacale era stato prodotto dalla cultura fascista. Queste sono cose che interesseranno soprattutto De Felice e i suoi allievi».
Che relazione ha questo mondo con la violenza?
«Il neofascismo è l´affiliazione di un ambiente che aveva referenti diversi, che andavano dallo squadrismo alla produzione culturale di circoli sospesi tra l´ortodossia e la fronda. Nelle sedi missine la separazione era quasi fisica tra quelli che predicavano l´attivismo e l´anticomunismo e quelli che volevano fare corsi di formazione politica, leggendo i testi e non usando le spranghe. Il problema è che l´occhio esterno ha teso a vedere tutto come articolazioni funzionali di un ambiente che aveva un solo progetto».
Ma quel progetto, fra eversione e violenza, si impose nel clima degli anni Settanta.
«È vero, prevalse e mise a tacere ogni possibile alternativa. La conclusione fu che all´esterno l´immagine stereotipata che vinse fu quella di un movimento brutale, violento e incolto».
Non credo che fosse così stereotipata. Pensi, tanto per fare un nome, a Freda e al terrorismo nero.
«Non dimentichiamo che all’estrema sinistra accadeva qualcosa di analogo. Ma io non discuto sul fatto che il neofascismo abbia avuto una componente violenta e inquietante. Dico che non si può ridurla a questa. Il romanzo di Tolkien coincise con lo sviluppo di un certo radicalismo di destra. Da quella saga, giusto o sbagliato che fosse, molti giovani vagheggiarono la costruzione di un mondo comunitario che fosse un´alternativa in grado di salvare l’umanità dalla cultura del progresso che porta al disastro. Quindi, più che il lato bellico, guerriero, quella parte della cultura di destra riconobbe il valore del recupero delle forme di vita estranee alla modernità industrializzata e consumistica».

la guerra americana e noi

una segnalazione di Mario Fiore

il manifesto martedì 13-1-2004
“Guerra cieca”
di GIULIETTO CHIESA


Dunque non solo non c'erano armi di distruzione di massa, ma avevano deciso di fare la guerra all'Iraq prima ancora di porsi il problema se vi fossero. Adesso sappiamo (da un premio Pulitzer del giornalismo, Ron Suskind, che ha raccolto la testimonianza di Paul O'Neill, ex segretario al tesoro Usa) che George W. Bush aveva cominciato a discutere su come fare la guerra «nei primi mesi del 2001». Cioè parecchio prima dell'11 di settembre.
Cioè sappiamo che entrambi gli argomenti (armi di distruzione di massa e connessione con il terrorismo) che sono stati usati per preparare la guerra erano completamente falsi, inventati a priori. Erano i pretesti del lupo che ha deciso di mangiare l'agnello e che, bevendo l'acqua del ruscello a monte, accusa chi gli sta sotto di averla sporcata.
Storia lurida, come luride sono le coscienze di tutti coloro che adesso tacciono. Se i direttori dei giornali e telegiornali che hanno dato credito alle menzogne del clan che ha occupato la Casa Bianca fossero persone decenti, dovrebbero dare alla smentita di oggi lo stesso spazio che diedero a quelle menzogne. Dovrebbero dire, anche, per esempio, che Tony Blair è un truffatore o un truffato (nella migliore - per lui - delle ipotesi) e non un «grande statista». Naturalmente non l'hanno fatto e non lo faranno. Della qual cosa non ci stupiremo perché li conosciamo.
Non resta che usare tutte le forze di cui disponiamo, respingendo la nausea, per tirare le somme. Nella capitale della democrazia mondiale sta succedendo (è già successo) qualche cosa di tremendamente grave. Tanto grave che è difficile applicare ad esso il giudizio e il metro della politica. Noi siamo palesemente di fronte a comportamenti doppiamente criminali ai vertici dell'Amministrazione americana.
Criminali perché organizzarono la guerra per motivi che ancora non rivelano. Criminali perché hanno ingannato consapevolmente gli americani e il mondo intero. Migliore spiegazione del perché rifiutano di accettare un tribunale penale internazionale non potrebbe esserci: ne temono, direttamente e personalmente, le conseguenze.
Le rivelazioni di O'Neill, cioè di persona che è stata per oltre un anno in mezzo a quella banda, gettano luci inquietanti sui detentori del potere e anche sul modo con cui vi sono giunti. E, adesso, anche, di nuovo, sull'intera vicenda dell'11 settembre.
Ecco perché il presidente - si fa per dire - non rivela, a oltre due anni di distanza, il contenuto esatto dei documenti che ricevette ai primi di agosto del 2001. Sappiamo solo, all'incirca, cosa contenevano (la previsione di un attacco sul territorio americano mediante aerei civili), ma non i dettagli. Ed è nei dettagli che si nasconde quel segreto terribile.
Possiamo dubitare di queste rivelazioni? O'Neill è stato messo alla porta dal presidente Bush e potrebbe covare vendetta, ma Suskind ha scritto un libro, «Il prezzo della lealtà», che si basa su «migliaia di documenti, inclusi memorandum privati al presidente e trascrizioni delle riunioni del Consiglio di Sicurezza», tutti fornitigli da O'Neill, tutto materiale verificabile.
E quando leggiamo che il presidente - si fa per dire - conduceva le riunioni del suo governo «come un cieco in una congrega di sordi» ci sembra di vedere, noi che non siamo né ciechi né sordi, che la squadra si è scelta un fantoccio ben manovrabile. Un re travicello, un imperatore cui si può ordinare d'incendiare il mondo.
E su questo mondo ci siamo tutti. Ma ritorniamo a chiedere: cosa ci stanno a fare i nostri carabinieri laggiù, in Iraq? Cosa ci stanno a fare a Kabul? Che c'entra la nostra bandiera tricolore con i progetti sconsiderati, immorali e criminali di quel gruppo di sordi guidati da un cieco?

la macchina per i sogni

una segnalazione di Paola Franz e di Guido Donati

Rai.it
Culture
Aiuterà i giapponesi a vincere lo stress quotidiano
A Tokyo c'è la macchina dei sogni


Arriva a Tokyo la macchina che crea sogni e che aiuterà a superare le ansie della vita urbana moderna grazie ai suoi dispositivi sonori e visivi. Prodotta dalla società Takara è grande quanto una macchinetta da caffè americana, sarà in commercio a fine maggio e costerà circa 110 euro.
Questa piccolissima fabbrica di chimere ha cinque funzioni e promette ai giapponesi di Tokyo un sonno migliore e la realizzazione dei loro desideri segreti. Una foto, una musica, una voce e una luce delicata aiuteranno a sognare un po' di amore, avventure, situazioni e fantasie a volte impossibili da vivere nel quotidiano.

La Gazzetta del Mezzogiorno 15.1.04
L'azienda produttrice prevede la vendita di oltre trecento mila esemplari nel primo anno di produzione.
Sogni pilotati con la macchina ad hoc
In Giappone hanno messo a punto un dispositivo che serve a creare le immagini desiderate mentre si dorme per aiutare a superare ansie, angosce, e stress cittadini grazie ad un dolce o avventuroso dormire e un felice risveglio


TOKYO - Dalla fiction alla realtà, dai sogni prodotti dall’inconscio a quelli creati e voluti prima di addomentarsi. A Tokyo, megalopoli urbana che corre, arriva la macchina crea sogni per aiutare a superare ansie, angosce, e stress cittadini grazie ad un dolce o avventuroso dormire e un felice risveglio.
La "macchina dei sogni d’oro" è l’opera di Eiko Matsuda una professoressa di sociologia dell’Università Edogawa di Tokyo, esperta nello studio dei meccanismi del sonno e dei sogni. Prodotta dalla società Takara, la stessa che ha inventato bau-lingual e meov-lingual (traduttori degli umori degli animali) grande quanto una macchinetta da caffè americana, la mini fabbrica dei sogni sarà in commercio a fine maggio e costerà 14.800 yen (circa 110 Euro). Certo i sogni non hanno prezzo ma se a Tokyo il sogno si interpreta come un prozac della vita urbana, questo antidoto contro lo stress costa poco e non è un medicinale.
La macchina ha cinque funzioni: un dispositivo che aiuta l’immaginazione e che in pratica è uno spazio usato per inserire una foto. Il giornale Nikkei di Tokyo, fa vedere una donna che dorme serenamente e che ha messo nella sua macchina la foto di un matrimonio (che sia il suo o uno immaginato non si sa). Una volta inserita la foto, si deve far funzionare il dispositivo olfattivo, che emana odori e profumi adatti ad un dolce dormire. Che siano odori che ricordano un viaggio esotico o un altro episodio della vita vissuta è relativo al sogno che si vuol fare.
C’è poi il terzo dispositivo che invece cura la colonna musicale del sogno. Il sognatore sceglie la melodia o i suoni che più si adeguano al tipo di sogno da vedere. In questa fase il sognatore è già nella fase REM, la fase attiva e di movimento dei sogni. Il quarto dispositivo regola la voce. Quella che nei film si chiama «voice-over». La voce registrata ripete frasi e parole chiave che ricordano momenti felici e sereni. E, dulcis in fundo, la sveglia. Il traumatico risveglio dai sogni d’oro alla realtà stressante di Tokyo non avviene più con la classica sveglia elettronica, ma con una rivoluzionaria sveglia mattutina delicata che avviene grazie ad una luce leggera che esce dalla macchina e che permette - secondo gli studiosi- di continuare a vivere in quel senso di benessere tipico di un bel sogno. «La macchina dei sogni funziona sul serio - ha detto all’Ansa la produttrice della Takara - abbiamo fatto un test e un uomo che sognava di volare è riuscito a realizzare il suo sogno mentre dormiva accanto alla macchina dei sogni. L’esperimento è andato bene anche per un ragazzo che sognava di organizzare una festa con la ragazza dei suoi sogni ed è riuscito a sognarla addirittura all’interno della macchina dei sogni». A Tokyo prevedono la vendita di oltre 300.000 esemplari nel primo anno di produzione e se funziona prevedono anche la vendita della macchina sui mercati mondiali.

a Palermo:
architettura araba e architettura iraniana

la Repubblica edizione di Palermo 15.1.04
L'ARTE DI CONQUISTARE I CONQUISTATORI
di Marcella Croce


Così accadde che con l´arte gli iraniani conquistassero i conquistatori arabi, sempre pronti a prendere a mano larga da tutti i popoli con cui venivano in contatto. L´architettura iraniana era straordinaria sintesi di tutto ciò che avevano costruito precedentemente assiri, babilonesi ed egiziani, ma seppe divenire anche arte autoctona. Furono esportati in Europa e perdurarono poi a lungo nel tempo i suoi elementi innovativi, ad esempio la cupola su base quadrata, che secondo alcuni è nata in Iran, essendo già presente nel III secolo d.C. nei templi zoroastriani del fuoco a Firuzabad, presso Shiraz. Rimase invece per lo più circoscritta ad ambito islamico l´altra grande invenzione iraniana, l´eiwan, la grande loggia a tutta altezza che si erge a metà di ciascun lato dei cortili, aperta su tre lati tra muri portanti e affiancata da tutta una serie di eiwan minori, che in piccolo ne ripetono il disegno. La ritroviamo all´infinito in moschee e caravanserragli, prolunga lo spazio del diwan khane, la sala dell´udienza dove si sedeva il re, nelle madrase (scuole coraniche) ciascun piccolo eiwan introduce a una stanza (hojre) dove ogni maestro, con 3-4 alunni, può trovare un po´ di privacy per le sue lezioni. E l´eiwan non mancò perfino di fare, per il tramite degli arabi, la sua puntuale apparizione nei palazzi della Cuba e della Zisa a Palermo.
Diwan (da cui il nostro "divano") era l´ufficio addetto all´organizzazione tributaria, ma era anche uno strumento musicale e oggi la parola è usata principalmente per denotare una raccolta di poesie. Solo gli iraniani avrebbero potuto trovare un denominatore comune fra musica, poesia e affari, solo in Iran aspetti della vita così contrastanti avrebbero potuto essere ospitati in leggiadra combinazione e delicato equilibrio in uno stesso luogo: c´è chi pensa che l´assonanza fra eiwan e diwan non sia casuale. In origine gli arabi, rozzi uomini del deserto, non costruivano moschee particolarmente belle, ma, a contatto con l´architettura iraniana, in cui la raffinata decorazione predomina incontrastata, ne rimasero affascinati; esattamente come sarebbe poi avvenuto in Europa fra protestanti e cattolici, frequenti diatribe scoppiarono fra gli amanti della semplicità e i fautori della bellezza come riflesso della magnificenza divina. All´origine era il mattone stesso l´elemento decorativo principe della moschea iraniana come avvenne nella grande Moschea del Venerdì di Isfahan, dove è presente un vero campionario di tutti gli innumerevoli tipi di cupola esistenti.
A partire dal XVII secolo, durante il periodo safavide, che corrisponde anche cronologicamente al siglo de oro della grande arte barocca europea, fu invece il colore a farla da padrone, e all´inizio una delle corsie privilegiate da percorrere per avvicinarsi al cielo divenne rigorosamente il blu: non a caso sia in spagnolo che in portoghese le mattonelle si chiamano azulejos, il che la dice lunga sull´influenza islamica in questi due paesi. In seguito venne aggiunto anche il giallo e il verdino, intramezzati poi, nelle moschee costruite durante il periodo dei Cagiari, con numerosi tocchi di rosa fucsia, di gran moda nel XIX secolo. Gli sciiti, molto attaccati ai loro idoli preislamici, furono per molto tempo restii ad applicare rigorosamente le norme che vietavano la rappresentazione della figura umana negli edifici religiosi. In compenso si sbizzarrirono nelle raffinate decorazioni floreali che si susseguono sulle pareti delle loro moschee-giardino, che si intrecciano negli infiniti girali detti eslimi (dalla stessa radice di Islam, che vuol dire "sottomissione"), che non a caso sono spesso identiche a quelli del cosiddetto "albero della vita", recentemente messo in luce sul portico quattrocentesco della Cattedrale di Palermo. Nella grande maggioranza dei casi il disegno è dipinto su mattonelle smaltate, ma non di rado, ad esempio nella splendida moschea di Yadz, si tratta di moarragh, veri e propri intarsi, che, con una tecnica e un effetto molto simili a quelli dei contemporanei marmi mischi siciliani, pazientemente, pezzo per pezzo vanno componendo le forme che ricoprono intere altissime pareti, nel trionfo di una bellezza leggiadra e potente.

sul "Renzo e Lucia" di Francesca Archibugi, in tv

Corriere dela Sera 15.1.04
La più triste parodia manzoniana
di ALDO GRASSO


Fra le molte e differenti parodie dei Promessi sposiquesta è certo la meno riuscita: triste, esangue, pavida, perbenista, deturpata da psicologie e sociologie. Al confronto, quella del Quartetto Cetra («Al Paradise», 1985), con Albano e Romina nelle vesti di Renzo e Lucia, pare un capolavoro irraggiungibile, per capacità di rilettura e sapienza nel cogliere tutti gli effetti scenici sparsi a piene mani da Alessandro Manzoni nel suo celebre «bal pour le pauvres», e nell’indovinare le sublimi note di regia distribuite fra le righe del romanzo. Nel film Renzo e Lucia di Francesca Archibugi, scritto con Francesco Scardamaglia e Nicola Lusardi (Canale 5, martedì e mercoledì, ore 21.10) c’è invece tutta la modestia del cinema italiano nell’uscire dai canoni della commedia e affrontare la qualità rara e preziosa che regge il romanzo, l’umorismo. In un’aura intimista e pretenziosa, l’Archibugi non si accorge che il suo Don Rodrigo (Stefano Dionisi) è in cura da Paolo Crepet e che la sua Lucia (Michela Macalli) non si perde un intervento di Raffaele Morelli (altrimenti non direbbe battute come: «Quell’uomo mi fa pena», riferita a Don Rodrigo da cui è irresistibilmente attratta) e che al suo Renzo manca solo la divisa della Protezione Civile. Lasciamo perdere la questione della lingua (o tutti parlano l’italiano convenzionale del doppiaggio o è ridicolo mescolare tante inflessioni regionali), ma ridurre tutta la storia a una questione di «te la do, non te la do» (questa l’unica ossessione di «Lucia è partita» nei confronti di Don Rodrigo), di lavoro minorile, di «ragiunat» brianzoli trasformati in signorotti dell’epoca è abbastanza avvilente. Fino all’ultimo abbiamo invano atteso una lacrima sul Griso, come segno di pentimento.

gli angloamericani non hanno il monopolio delle baggianate
però sono sempre loro a valorizzarle e a diffonderle

Il Tempo 15.1.02
L’attrazione erotica, un calcolo matematico La mente maschile misura il volume del corpo femminile e anche il suo stato di salute e fertilità In base alla scoperta dei ricercatori cinesi l’uomo valuta esteticamente una donna servendosi di una formula numerica
Gio.Sca.


L’ATTRAZIONE fisica si basa su una formula numerica. Insospettabilmente è stato infatti scoperto che mentre gli occhi di un uomo giudicano, la sua mente è in grado di calcolare in modo inconscio ma, secondo quanto sostengono i ricercatori, preciso il volume del corpo (in metri cubi) diviso per il quadrato dell’altezza (misurata in metri) dell’oggetto del suo interesse. Il calcolo non è fine a se stesso o al solo giudizio estetico ma capace di stimare il livello di salute, la fertilità di una donna, quindi legato all’obiettivo primario della sopravvivenza della specie.
Almeno è questo, secondo quanto riportato sulla rivista Proceedings of the Royal Society London B, il laborioso calcolo battezzato VHI, cioè indice volume-altezza, che racchiude il segreto dell’attrazione al femminile.
Il suo genitore, Jintu Fan dell’Università Politecnico di Hong Kong presso Kowloon, ci è arrivato testando degli uomini di fronte a pià di 50 modelli in 3D di donne di varie proporzioni, ma mantiene il riserbo circa il numero perfetto per questa formula. Gli uomini dovevano stimare da uno a nove il livello di attrazione suscitato dai modelli. Raccolti i dati Fan ha trovato che l’equazione che meglio vi si adatta è proprio quella del VHI.
Il nuovo valore indicato dal VHI manderebbe dunque in pensione l’indice di massa corporea (BMI), più semplice da calcolare, cioè il rapporto tra peso in chili e altezza in metri al quadrato, utile ai medici per capire se una persona è in sovrappeso o no.
L’indice di massa corporea era stato infatti introdotto da Piers Cornelissen della Newcastle University proprio come una misura del grado di attrazione del corpo femminile ma ora è molto usato per valutare la salute degli individui e decidere se ci sono chili di troppo.
Il nuovo e pià complicato indice tuttavia, ribadisce Fan, ha qualcosa in più, in quanto tiene conto di tutto quello che passa per la mente di un osservatore che sta con gli occhi sgranati di fronte alla sua donna da sogno. In pratica cià significa che tiene conto di tutte quelle proporzioni che istintivamente trasmettono l’idea di bellezza femminile, non semplicemente di peso e altezza ma per esempio della lunghezza delle gambe in proporzione a quella del resto del corpo.
BMI o VHI, quel che conta secondo Cornelissen intervenuto a commentare la notizia, è che questi indici in via indiretta misurano lo stato di salute e fertilità della donna ed è questo che l’uomo cerca inconsciamente di valutare per ragioni di sopravvivenza della specie. Ma qual è allora il valore ideale di VHI per un’avvenente fanciulla? I ricercatori cinesi si dimenticano di indicarlo. Però informano, con dovizia, che il mito della coscialunga è superato: quello che conta è l’altezza complessiva della fanciulla.
«Anche se - precisano gli scienziati - un bel paio d'occhi, o una chioma folta, fa ancora la differenza». «La predilezione per le forme - hanno concluso i ricercatori - sembra legata ad una componente istintiva di differenziazione tra maschio e femmina, e quindi della capacità  di essere più fertile di quest’ultima».

a Lecce:
una mostra fotografica sulla cultura indiana

La Repubblica 15.1.04 cronaca di Bari
LA MOSTRA
Suggestioni indiane fra dei, santi e adepti
Inaugurata a Lecce "Kumbha Mela" un viaggio fotografico nelle feste indù
di TITTI TUMMINO


Le antiche suggestioni dell´India e dei suoi rituali sacri raccontati attraverso cento fotografie. È stata inaugurata ieri al convento dei Teatini di Lecce, la mostra "Kumbha Mela: dei, santi, uomini a convegno nella più grande festa hindù", dedicata alla celebrazione del mito della lotta fra i demoni e gli dei per la conquista del nettare dell´immortalità. Le foto sono opera di Rosa Maria Cimino, docente di archeologia e storia dell´arte indiana all´Ateneo salentino, ma anche profonda conoscitrice del Paese asiatico per avervi a lungo soggiornato. Al vernissage ha presenziato l´ambasciatore indiano in Italia, Himachal Som, accompagnato dal rettore, Oronzo Limone, dal preside della facoltà dei Beni culturali, Marcello Guaitoli e dal direttore del Dipartimento di arti e storia, Benedetto Vetere. La mostra, organizzata dall´Istituto italiano per l´Africa e l´Oriente di Roma insieme con la facoltà salentina e all´assessorato comunale alla Cultura, rimarrà allestita fino al 29 febbraio (visite tutti i giorni, 10-13 e 16,30-19).
Le cento foto che compongono l´esposizione sono state scattate da Rosa Maria Cimino nel corso di tre festività indiane alle quali ha partecipato: due ad Allahabad (1989 e 1995) e una ad Haridvar (1999). Il Kumbha Mela si tiene ogni dodici anni proprio in questo periodo, in una delle quattro città sante e richiama milioni di fedeli - nei giorni più sacri si arriva anche a un flusso di trenta milioni di persone - provenienti da tutte le regioni dell´India. Grazie a una fortunata congiunzione astrale e alle acque purificatrici del Gange e della Yamuna che scorrono ad Allahabad e ad Haridvar, o di altri fiumi sacri per le città di Nasik e Ujjain, i pellegrini "lavano" i loro peccati, accorciando così il tempo delle loro vite future. Ogni comunità religiosa, ma anche singoli maestri, costruiscono il proprio ashram (monastero) per ospitare gli adepti o farne di nuovi: tutti possono dormire e mangiare gratis ovunque.
Lo spettacolo di questa massa umana variopinta è superbo, come anche estremamente interessante è il contatto con i numerosissimi maestri, veri centri di attrazione per l´aspetto bizzarro e i comportamenti spesso stravaganti: i naga, considerati i più santi, alle processioni sacre si presentano completamente nudi; i sadhu, che scelgono come pratica spirituale di stare sempre in piedi, si appoggiano su altalene per dormire e riposare; altri ancora assumono l´aspetto e il comportamento di scimmie; maestri molto venerati fanno apparire oggetti dal nulla, mentre altri materializzano altrove se stessi. Personaggi, colori e suggestioni che rivivono nelle foto della Cimino, al di là dell´astruso e spesso difficile simbolismo. In occasione della mostra, che approda a Lecce dopo varie tappe nelle principali città d´Italia, è stato organizzato un ricco cartellone di eventi, spettacoli di danze indiane e conferenze sull´induismo.