giovedì 31 luglio 2003

la Festa Nazionale dell'Unità quest'anno sarà a Bologna, al Parco Nord - Via Stalingrado: dal 28 agosto al 22 settembre...

(... proprio come nel 1980...)

«il Circuito Nazionale Feste de l'Unità sta allestendo una TV satellitare che trasmetterà per l'intero periodo della festa.
L'organizzazione è in cerca di idee e proposte per i programmi. Se sei un aspirante regista, operatore di camera, fotografo, se ne conosci qualcuno, o sei semplicemente interessato a ricevere via e-mail il programma del palinsesto visita il sito delle Feste de l'Unità: http://www.festaunita.it»

«L'iniziativa è per noi molto impegnativa e potrà avere successo se sarà supportata "dal basso" grazie al sostegno e alla partecipazione di chi la guarda. Per questo abbiamo bisogno di idee, di proposte, anche di un contributo di compagni, amici e militanti con la videocamera. (collaborazioni@festaunita.it oppure info@festaunita.it). Indicateci cose che avete visto e che secondo voi sono importanti da valorizzare, proponete idee di programmi da realizzare alla festa, indicateci televisioni locali che potrebbero collaborare al progetto.

Spediteci materiali, clip, interviste, cortometraggi, documentari a questo indirizzo:
Arianna Camellini, c/o Federazione bolognese dei DS, via della Beverara 9, 40131 Bologna.
Li guarderemo e quando possibile, li manderemo in onda»

da adesso è ufficiale: Marco Bellocchio, con Buongiorno Notte, in concorso a Venezia per il Leone d'Oro!

Repubblica online 31.7.03
Festival di Venezia, dal 27 agosto al 6 settembre
Presentata l'edizione numero 60, con una folta pattuglia
di titoli italiani: in gara Bellocchio, Benvenuti e Winspeare
(...) ma
[Bertolucci e] i film Usa scelgono di stare fuori concorso
di Claudia Morgoglione

(...)
Tra le pellicole lunghe, tre sono inserite nel concorso principale, quello chiamato Venezia 60, e che assegna il Leone d'Oro: Buongiorno notte di Marco Bellocchio, con Luigi Lo Cascio; Segreti di Stato di Paolo Benvenuti, una ricostruzione inedita della strage mafiosa di Portella della Ginestra; Il miracolo di Edoardo Winspeare, ambientato a Taranto. Mentre The dreamers, l'attesissima opera di Bernardo Bertolucci ambientata negli anni della contestazione, è presente fuori concorso.

Il Riformista 31 Luglio 2003
VENEZIA. CINEMA
Ma com'è di sinistra la Biennale di destra

Moritz de Hadeln sa di essere sotto tiro. Benché abbia cambiato la suoneria del suo cellulare, che fino a pochi mesi fa replicava le note dell'Internazionale, questo sessantenne anglo-svizzero, esperto nel maneggiare cine-festival (Locarno, Berlino), continua a non piacere al centrodestra, che pure gli ha consegnato il timone della prestigiosa Mostra di Venezia. In verità fu Franco Bernabè, manager scelto dal ministro Urbani per presiedere la Biennale, a nominarlo due anni fa, chiudendo così una brutta storia di nomi bruciati e dinieghi imbarazzati. Lo straniero, fatto passare per "tecnico" puro, doveva salvare l'edizione del 2002 e fare le valigie: invece è ancora al Lido, e chissà che non vi resti a lungo. Lui ci tiene. Bernabè, pur pensando a un candidato diverso, più giovane, se possibile italiano, non sembra intenzionato a smuovere più di tanto le acque. E il centrodestra? Mugugna, s'incazza e abbozza.
L'anno scorso, dopo il film collettivo sull'11 Settembre, considerato antiamericano, e il Leone d'oro a Magdalene, considerato anticattolico, de Hadeln fu messo sulla graticola dal consigliere Valerio Riva, il quale minacciò addirittura provvedimenti disciplinari. E anche Urbani, pur attenendosi ad una linea più diplomatica, fece filtrare qualche disappunto rispetto alla linea estetico-culturale della Mostra.
Risultato: un piccolo paradosso destinato a rinnovarsi anche quest'anno, in occasione del sessantesimo. Proprio stamattina il direttore rivelerà il menù del festival (27 agosto-6 settembre), che si annuncia più "di sinistra" e antagonista che mai. Roba da far venire il mal di pancia a Riva, che non mancherà di esternare il proprio disappunto. Coi suoi fidati selezionatori, quasi tutti di area ulivista (da Silvio Danese a Oscar Iarussi, da Tilde Corsi a Serafino Murri), de Hadeln ha messo a punto, infatti, un palinsesto fortemente politicizzato, hollywoodiano con giudizio, certo non rassicurante. Pensate: con I sognatori Bernardo Bertolucci, al suo ritorno a sei anni da L'assedio, racconta in una chiave ideologico-scandalosa il Sessantotto francese, allestendo un triangolo adolescenziale sessualmente disinibito; con Buongiorno notte, da un verso di Emily Dickinson*, Marco Bellocchio ricostruisce il sequestro Moro dal punto di vista dei carcerieri che tennero in ostaggio, in quei lunghi 55 giorni, lo statista dc (Roberto Herlitzka incarna "il prigioniero", Luigi Lo Cascio e Maya Sansa i brigatisti Mario Moretti e Anna Laura Braghetti); con Segreti di Stato Paolo Benvenuti, cineasta marxista con la passione di Dreyer e Bresson, riscrive la dinamica della strage di Portella della Ginestra (1° maggio 1947, undici morti e ventisette feriti sul terreno), tirando in ballo, sulla base di documenti de-secretati trovati a Washington, l'intervento dei servizi segreti americani in quella pagina oscura di storia patria. Forse ci sarà anche Ettore Scola col suo Gente di Roma, che si chiude con la manifestazione dei girotondi del 14 settembre 2002. De Hadeln si confessa sereno: sono film belli, Venezia non poteva rifiutarli. Ma vedrete che il centrodestra, ritenendosi truffato, alla fine chiederà di nuovo la testa del direttore «venuto dal freddo».

*Good Morning - Midnight -
I'm coming Home -
Day - got tired of Me -
How could I - of Him?

Sunshine was a sweet place -
I liked to stay -
But Morn - did'nt want me - now -
So - Goodnight - Day!

I can look - cant I -
When the East is Red?
The Hills - have a way - then -
That puts the Heart - abroad -

You - are not so fair - Midnight -
I chose - Day -
But - please take a little Girl -
He turned away!

(di Emily Dickinson)



...e questa che segue è una traduzione, tratta da http://www.incipitario.com/ed0421-0500.html:

Buongiorno - Mezzanotte -
Sto tornando a Casa -
Il Giorno - si è stancato di Me -
Come potrei Io - di Lui?

La luce del sole era un dolce luogo -
Mi piaceva starci -
Ma il Mattino - non mi voleva - ormai -
Così - Buonanotte - Giorno!

Posso guardare - dai -
Quando è Rosso ad Oriente?
Le Colline - hanno un aspetto - allora -
Che fa traboccare - il Cuore -

Tu - non sei così bella - Mezzanotte -
Io scelsi -il Giorno -
Ma - per favore prendi una Ragazzina -
Che Lui ha cacciato via!

grandi fondazioni teoriche...

Gazzetta di Parma 31.7.03
Lo psichiatra Fausto Manara svela segreti dell'intelligenza in «Il sale in zucca» (Sperling&Kupfer)
Un cervello per amico
di Silvia Ugolotti

Un gigante che sonnecchia, il cervello. L'intelligenza un bradipo a riposo: «L'uomo ha raccolto tutta la saggezza dei suoi predecessori e guardate quanto è stupido», disse Elias Canetti.
«Il sale in zucca» (Sperling&Kupfer, 233 pagine, 15 euro), proprio quello che manca, ora che, usare la testa, sembra sia diventato un sogno impossibile.
Fausto Manara, psichiatra e autore di questo saggio che dalla stupidità ci vuole salvare, intravede una speranza. Vivere con la mente e con il cuore, un efficace antidoto alla pigrizia dei neuroni. Un modo per sfuggire a comportamenti sconclusionati che non derivano dalla miseria cerebrale, ma dal cattivo uso delle risorse in nostro possesso.
Quello che Manara propone è un viaggio alla scoperta: di un modo di sentire, osservare e comportarsi. La capacità di evitare ogni atteggiamento o pensiero estremo, pena il rischio di scavare pericolose distanze tra noi e gli altri. Tra noi e noi stessi. Senza escludere l'importanza di imparare a ricomporre le piccole fratture quotidiane, lasciando spazio alla creatività e a nuove strategie di azione. I sensi all'erta, onorando emozioni e bisogni, innamorandosi della vita con ironia. In una parola buonsenso.
Spesso ci spiega l'autore, «intelligenza e stupidità seguano una sorta di bioritmo. Così come ci sono fasi di sonno e di veglia, di tonicità e spossatezza, altrettanto si alternano i due poli dell'agire. Con prevalenza dell'uno o dell'altro, a seconda dei soggetti e della loro predisposizione».
Cosa saggia, essere abili nel mantenersi in stretto contatto con la nostra intelligenza per poter avere la consapevolezza di essere stupidi. Detto così sembra facile. Ma anche metterlo in pratica lo è, sostiene Manara.
Intelligenti non solo si nasce. Soprattutto si diventa. Con l'allenamento. Tutti veniamo al mondo dotati di uno sbalorditivo biocomputer. Una sorta di premio in partenza. Perché possa funzionare bene è necessaria una seria e costante manutenzione con gli strumenti che abbiamo a portata di testa. Dalla fantasia all'autocritica. Dalla curiosità all'apertura, la flessibilità e l'ironia. E la capacità di amare.
Bene. Capito cosa fare, il passo successivo è metterlo in pratica.
Come? Con l'ora di intelligenza: «E' il luogo in cui siamo stimolati ad ampliare la nostra capacità di valutazione e di critica. Frequentandola con assiduità, ci renderemo anche conto che, quanti più insegnamenti ne trarremo, tanto più potremo usarli con flessibilità, concedendoci anche qualche sana pausa di riposo dal praticarli».
In fondo, l'aveva detto anche Woody Allen che il vantaggio di essere intelligente è che si può sempre fare l'imbecille, mentre il contrario è impossibile.

donne nella storia

Gazzetta di Brescia 31.7.03
Santa Giuliana di Norwich
SUI PASSI DI UNA DONNA RELIGIOSA
di Curzia Ferrari

La santa è di scarsa nomea, le enciclopedie la liquidano con un paio di righe, nella storia delle donne ha inciso poco o nulla. Ma il libro che narra la sua vita (Ralph Milton - «La cella di Juliana» - San Paolo ed.) è davvero bello, molto intrigante, ispirato direi, sia nella forma con cui viene offerto, sia per la trama vivace, piena di colpi di scena e di situazioni (per fortuna) imperfette. Approcciando storie di santi si ha sempre il timore di venire fagocitati da un catalogo di virtù, di esperienze superiori, di prodigi e innaturali vicende che niente hanno a che fare con l’uomo: sembra che lo scopo degli estensori sia quello di attirare il lettore in un gorgo di stupida credulità. Questo Milton, invece, sa giostrare bene, approfittando delle sfaccettature della protagonista. Giuliana di Norwich - Juliana, appunto, nasce nella seconda metà del XIV secolo, nell’Inghilterra sud-orientale, durante il regno di re Edoardo III, iniziatore della Guerra dei Cento Anni; al quale seguono, in rapida successione, Riccardo II ed Enrico IV. Ma a riempire la scena inglese sono le lotte religiose e le pestilenze; ed è proprio l’orrendo male nero a portarsi via il marito e i due figli della giovane. Juliana ha subìto da sempre il fascino del divino: ma è nella solitudine, nel vuoto che si è fatto intorno a lei a delinearsi l’iter della chiamata. Chiamata per dove? Verso l’isolamento di una cella che, nella realtà, risulta assai affollata. Riciclata nel nuovo nome, per via della chiesa di san Giuliano di Norwich dove per la prima volta vide da vicino un vescovo, colei che all’anagrafe si chiamava Katerine, studia, prega, riceve, trasforma la clausura in uno stretto incontro interiore - mentre le forze più periferiche dell’anima partecipano alla vita che si svolge intorno a lei: Per assistente ha un’ex-prostituta; allaccia rapporti con la mistica Margery Kempe, una laica madre di quattordici figli, pellegrina sulle strade d’Europa e ritenuta eretica dalla Chiesa ufficiale e con la spirituale e veemente Maggie Baxter, della cui esistenza conosciamo pochi dettagli. Sono tutte illetterate (come esse si dichiaravano) e tutte autrici di libri di edificazione (di Juliana di Norwich si ricorda «Il libro delle rivelazioni»). Donne irregolari, fanatiche, da iscriversi tra coloro che rappresentano l’aspetto paradossale del cristianesimo, cristocentrico, tipico della santità tardomedievale. Alla cella di Juliana si presentano spesso anche la madre, Maud (che aveva partecipato alla sua vita di sposa e l’aveva aiutata a partorire), nonché personaggi che hanno storicamente a che fare con le vicende inglesi dell’epoca. La corruzione dei preti, il Lollardismo e i processi che ne nacquero, il disamore verso la Chiesa di Roma, i dubbi sulla Trinità, la tragica storia di Thomas Becket (rivisitata in chiave ironica dalla Baxter), queste cose e molte altre ancora vengono discusse alla grata della cella di colei che, freudianamente, diremmo oggi, immagina Cristo come Madre - perché l’idea di maternità nel suo essere, dare e avere allaga l’intera vita di Juliana. Striscia dal principio alla fine del libro quello che era uno dei dilemmi laceranti del tempo: il conflitto fra anima e corpo, l’idea del peccato della carne perfino nel matrimonio, l’assurdo desiderio della madre (Margery Kempe) di tornare alla verginità. Concetti che diedero vita a molti drammi religiosi, i mysteries, i quali andarono a formare fra il 1200 e il 1300 un prezioso catalogo della letteratura popolare dell’Inghilterra.

Michelangelo Buonarroti

La Gazzetta di Brescia 31.7.03
GRANDI ARCHITETTI
L’esperienza di Michelangelo nella città eterna, oltre gli schemi dell’arte antica
L’impronta del genio su Roma rinascimentale
di Chiara Fabbrizi

E venne Michelangelo. Pittore, scultore, poeta, mistico, e architetto. Nelle sue lettere il Buonarroti dice di rifiutare la «professione di architettore», ma sia vera o falsa la modestia che si nascondeva dietro questa affermazione, magari fatta dal nostro genio per distinguersi dagli altri architetti in un momento in cui questa professione era piuttosto degradata, è certo che già nella Cappella Sistina egli fece architettura. Nell’immenso affresco, infatti, il meccanismo narrativo è scandito da una netta struttura architettonica creata non solo da archi, cornici e pilastri dipinti, ma anche da alcune figure, come gli Ignudi, collocate in posizioni simmetriche e usate come se fossero elementi architettonici. L’architettura non diviene con ciò serva della pittura, ma si fonde ad essa: è un miracolo reso possibile dalla forza del linguaggio michelangiolesco. Una delle caratteristiche di questo gigante dell’arte è che lasciò molte opere incompiute, in particolare quelle architettoniche; e se nessuno si sognerebbe di completare con qualche altro colpo di scalpello i celebri Prigioni, che così come sono sembrano tesi nello sforzo di uscire dalla pietra, non ci si è potuti permettere il lusso di tenersi palazzi e chiese allo stadio di abbozzi; e la conseguenza è stata un inevitabile snaturamento dei progetti da parte di coloro che gli succedettero: così i Dioscuri snaturano piazza del Campidoglio, la piatta facciata del Maderno nasconde la cupola michelangiolesca di San Pietro, il geniale progetto per Santa Maria degli Angeli a Roma non ebbe seguito, le fortificazioni per Firenze rimasero sulla carta e così via. L’incompiutezza di queste opere, tuttavia, non scalfisce il loro valore rivoluzionario. Che prendesse in mano un pennello, uno scalpello o un compasso, infatti, Buonarroti riuscì sempre a creare qualcosa di nuovo, avventurandosi su strade mai battute prima, senza temere di affrontare percorsi faticosi e accidentati. L’originalità del genio michelangiolesco è già evidente nelle opere fiorentine, come la Biblioteca Laurenziana, la prima biblioteca di formazione profana a gareggiare in lustro con l’Apostolica in Vaticano; o la Sagrestia Nuova di San Lorenzo, rispettosa del precedente edificio progettato da Brunelleschi. È nelle opere romane, tuttavia, che si riflette chiaramente la forza della gestione michelangiolesca dello spazio, e innanzitutto nella piazza del Campidoglio, esempio di architettura e urbanistica di altissimo livello, benché del progetto michelangiolesco conservi tracce frammentarie e discontinue. Prima dell’intervento di Michelangelo il colle era raggiungibile dalla scala dell’Aracoeli e appariva sormontato, oltre che dalla chiesa dell’Aracoeli, dal Palazzo Senatorio e da quello dei Conservatori, tra loro convergenti: Michelangelo ruppe la continuità che c’era con la chiesa chiudendo la piazza con un terzo palazzo, gemello di quello dei Conservatori e attuale sede dei Musei Capitolini. Con questo gesto creò di fatto una distinzione tra Stato e politica da una parte, e Chiesa e apostolato dall’altra. Lo spazio della piazza risulta compresso in modo da essere esplosivo; la simmetria dei due palazzi gemelli e divergenti crea un’apertura in più direzioni, e le facciate dei palazzi sono allo stesso tempo le pareti della piazza, che appare così una vera e propria struttura architettonica. Una nuova scala ne rese poi l’accesso autonomo da quello dell’Aracoeli: si trattava di una cordonata, ovvero una scalea con gradini larghi e bassi che nel progetto michelangiolesco non prevedeva le statue dei Dioscuri che oggi offuscano sia la prospettiva sui palazzi, sia la statua di Marco Aurelio. Sotto appariva la città varia e multiforme, sopra, la forma perfetta e unica della piazza, simile a una sala «nella quale attrarre e chiudere il visitatore», come dice Bonelli: da lassù ben presto si sarebbe potuto dominare anche la cupola della nuova chiesa intitolata a San Pietro. Questa è una delle tracce più grandiose che il passaggio di Michelangelo lasciò nella Città Eterna. Per il più grande tempio della Cristianità l’artista aveva in animo di riprendere la pianta a croce greca progettata da Bramante, ma la basilica che oggi conosciamo, frutto del contributo di tanti architetti diversi, conserva ben poco delle idee michelangiolesche, spazzate via soprattutto dall’intervento di Maderno. Fu invece Bernini, con la costruzione del baldacchino, a restituire centralità alla cupola michelangiolesca riflettendone la luce, così come con il colonnato esterno pose tra due parentesi la piatta facciata di Maderno deviando lo sguardo verso il «Cuppolone» tanto caro ai romani. Poco distante dal Campidoglio la mano di Michelangelo si nasconde ancora dietro l’originalissima Porta Pia, un’opera nella quale il lessico del classicismo viene rielaborato ed espresso in una sintassi nuova, eretica: ecco allora che una pausa, uno spazio vuoto sostituisce il capitello sopra i pilastri, in un gioco alternato di fedeltà e apostasia nei confronti del repertorio rinascimentale. Fu proprio questa libertà nell’interpretare la tradizione che rese il Buonarroti poco simpatico agli architetti suoi contemporanei. Odiato dal Vignola e dalla cosiddetta «setta sangallesca», fu letteralmente detestato da Pietro Ligorio, il quale, quando seppe di dover collaborare con lui a San Pietro, si dimise pubblicamente. L’ostilità dei suoi colleghi più «allineati» si riflette nel modo in cui le opere da lui iniziate o progettate furono portate a termine. Basta guardare la chiesa di Santa Maria degli Angeli nell’area delle Terme di Diocleziano, sempre a Roma, per capire che avremmo avuto un altro notevolissimo esempio di ottima architettura e gestione urbanistica, se solo si fosse seguito il progetto michelangiolesco: la chiesa sarebbe risultata perfettamente fusa alla zona archeologica nella quale è inserita e il luogo sacro avrebbe interloquito con lo spazio profano delle antiche terme dalle quali sarebbe stata ricavata - invece di esserne isolata come appare oggi, - proprio come desiderava il committente Pio IV, che intendeva sì alimentare il culto divino, ma anche tutelare quella «veneranda antichità». Forse fu solo un caso se Michelangelo non lasciò opere architettoniche finite. Tuttavia è più suggestiva l’ipotesi, avanzata da Bruno Zevi, che il non-finito sia la cifra caratteristica di un’arte che vuole celebrare la sconfitta della forma rispetto alla vita, il rifiuto programmatico di non dare soluzioni definitive a problemi necessariamente sempre aperti. E forse Roma stessa, città organica e policentrica, sempre in corso di definizione, può essere considerata, per dirla ancora con Zevi, un gigantesco «non-finito michelangiolesco», a cui gli immediati successori del Buonarroti non poterono fare altro che apportare piccoli ritocchi.

repressione culturale: i cristiani sempre in prima fila

Gazzetta del Sud 31.7.03
Da Tacito a Savonarola, dalla Bibbia ai nazisti
Storia paradossale di censure e roghi
di Paolo Petroni

«I libri non sono cose morte, ma contengono in sé un potere vitale pari a quello delle anime di cui essi sono progenie». Cita quanto il poeta Milton scrisse nel 1644 Giorgio Patrizi, docente di storia della letteratura italiana a Campobasso, per aprire il suo discorso su una storia, spesso paradossale, dei libri bruciati e censurati nel corso del tempo. Si pensi che spesso censori a istigatori al rogo di pagine stampate sono stati eroi libertari e rivoluzionari, da Savonarola a Mao, o che Giuseppe Gioacchino Belli, cantore senza peli sulla lingua della Roma papalina con sonetti pubblicati solo dopo la sua morte, fece il censore e il tagliatore di copioni teatrali. Una storia curiosa insomma, che un volume curato appunto da Patrizi, della collana dell'Istituto Poligrafico intitolata «Cento libri per Mille anni», affronta, proponendo proprio un excursus sui testi proibiti ieri e oggi. Si va da Petrarca, persino lui censurato e espurgato, passando per Casanova come Silvio Pellico, sino a Ignazio Silone e Alberto Moravia, limitandoci alla nostra letteratura. Il celeberrimo «Canzoniere» di Petrarca che canta il suo amore per Laura, modello per secoli dei nostri poeti, venne accusato a inizio '500 di aver scritto «in tante rime e versi gli sconci e molto disordinati affetti e l'angosciose passioni dè miseri innamorati» da un monaco veneziano, Girolamo Malipiero, che non dovrebbe esser meno famoso del Braghettone che coprì le parti nude del Giudizio Universale di Michelangelo. Questi infatti riscrisse, col titolo «Petrarca spirituale», i componimenti del Canzoniere tagliandoli e correggendoli per armonizzarli a un sistema ideologico e linguistico consono al potere egemone, ovvero tramutando l'amore sensuale di un uomo per una donna in un amore tutto spirituale in cui quello tra i sessi non deve essere diverso o portare lontano da quello per Dio. Patrizi cita, come caso esemplare dello spesso complesso rapporto tra letteratura e potere (lasciando da parte casi più netti come quello dell'inquisizione o del nazismo e di tutti i regimi totalitari), il Savonarola che si assunse il ruolo di difensore delle libertà civili nella precaria repubblica fiorentina a fine '400, e lo fa puntando nelle sue celebri prediche su una moralizzazione delle idee, dei costumi e della cultura così che sotto i suoi strali cade, per esempio tutta la letteratura comica, a cominciare dal Pulci, che non edifica e corrompe gli spiriti. E due volte Savonarola spinse i concittadini a portare al rogo i libri che avevano in casa perché «il fuoco distruttore fosse un emblema della purificazione delle anime, attraverso la cancellazione del peccato. Ma la stessa tragica simbologia – ricorda Patrizi – sarà in azione qualche anno dopo... quando lo stesso Savonarola, scomunicato, verrà arrestato, sommariamente processato, impiccato e bruciato», per essersi ribellato a alcune richieste pontificie. Un saggio di Mario Infelise, docente di Storia a Venezia, intitolato proprio «I libri proibiti (da Gutemberg all'Encyclopedie)» edito da Laterza, comincia ricordando comunque che i roghi di libri hanno ben più storia di quella della stampa se Tacito ricorda che un tale Cremuzio Cordo fu accusato di «novum ac tunc auditum crimen» (delitto nuovo e inaudito) sotto Tiberio Imperatore, per aver scritto pagine di rimpianto verso le antiche virtù repubblicane, e il Senato decretò i suoi libri fossero dati alle fiamme. Naturalmente furono la Controriforma e l'Inquisizione che segnarono la svolta nella repressione culturale con metodi e una vastità d'intervento che non aveva precedenti e non conosceva confini, se nei famosi Indici dei libri proibiti finì anche la Bibbia nell'edizione in volgare. E a questo capillare e quotidiano sistema di controllo e repressione Infelise dedica gran parte del suo studio. E anche lui cita l'Areopagitica di Milton: «Uccidere un buon libro è in un certo senso quasi peggio che uccidere un uomo, perché chi uccide un uomo, uccide una creatura dotata di ragione, ma chi distrugge un buon libro uccide la ragione stessa». Per la prima, pubblica proclamazione della libertà di stampa bisognerà aspettare la Rivoluzione francese e la Dichiarazione dei diritti dell'uomo del 1789. Ma la storia dei roghi non si fermerà per questo, e a Berlino, nel mezzo della piazza dove nel 1933 si bruciavano i libri della adiacente biblioteca imperiale, oggi c'è in ricordo un suggestivo e concettuale monumento sotterraneo visibile da un oblò, una stanza bianca vuota foderata di scaffali egualmente bianchi e vuoti.

l'idea di Atlantide, e il nesso con la società di Creta

Liberazione 31.7.03
Le prime fonti storiche risalgono addirittura a...
di Claudio Asciuti

Le prime fonti storiche risalgono addirittura a Platone, nel 347 avanti l'era volgare. Il padre della filosofia occidentale, nei due dialoghi Timeo e Crizia, indica le prime coordinate del paradiso perduto. Combinando le due trattazioni possiamo coglierne alcuni elementi: siamo all'incirca nel 9000 a. e. v. e gli abitanti felici di questa terra posta oltre le Colonne d'Ercole vivono in pace, fra animali al pascolo, campi pingui, acque pescose e vene minerarie. Il sistema politico è una federazione di dieci provincie rette da altrettanti re; il popolo è assolutamente pacifico sebbene abbia combattuto un'antica guerra contro i Greci. Fino a quando, come in ogni eden, sopraggiunse il desiderio, la violenza e, allora, Zeus decise di intervenire. Non sappiamo cosa avvenne, ma l'isola fu distrutta in un giorno e in una notte da terremoti e maremoti. Poi scomparve...
Stiamo parlando di Atlantide, naturalmente, luogo utopico per eccellenza, unica mappa certa nell'immaginario cartografico perduto. La terra che tutti, occultisti, avventurieri, maghi e ciarlatani intravidero, descrissero e documentarono, ma di cui nessuna traccia fu mai attestata.
Platone, quando scrisse i due dialoghi, aveva in mente di raccontare attraverso un mito verità politiche e filosofiche, com'era suo costume e, fino all'avvento del cristianesimo (non particolarmente favorevole ai paradisi in terra), si continuò di tanto in tanto a discuterne, poi su tutto cadde il velo.
Ma come sempre accade, dopo un lungo silenzio, il mito comincia a vivere di vita propria: l'idea di Atlantide si ripropose quando, con le mutate condizioni geografiche e naturalmente politiche, si riprese a parlare di luoghi perduti. A partire dal 1552, quando Francisco Lopez de Gòmara ipotizzò che il continente scoperto da Colombo fosse l'Atlantide, fu tutto un fiorire di interpretazioni, che videro protagonisti, fra gli altri, il mago John Dee, Francesco Bacone, il naturalista Buffon. Ma solo alla fine dell'Ottocento il problema uscì da un dibattito ristretto a pochi per diventare oggetto comune di discussione, grazie soprattutto a Ignatius Donnelly, il quale per primo teorizzò Atlantide come centro da cui s'irradiò la civiltà mondiale. Donnelly è considerato il primo "atlantideologo" e la sua trattazione non è certo il massimo del rigore scientifico. Tuttavia egli fissò il punto da cui nacquero le grandi falsificazioni che ancor oggi imperversano: perché Atlantide è naturalmente il luogo delle falsificazioni e degli imbrogli… Nello spazio di un solo articolo sarebbe impossibile far riferimento alle invenzioni che gente più o meno in buona o cattiva fede elaborò in proposito. Qualche nome, però, possiamo farlo.
Nel 1888 Helena Petrovna Blavatsky, turbolenta fondatrice della Società Teosofica (l'organismo internazionale nato nel 1875 che si poneva come base per uno sviluppo futuro dell'umanità, accogliendo studiando e comparando dottrine d'ogni genere), affermò di aver ricevuto in trance rivelazioni sui mondi sotterranei di Agharta e Shambala e teorizzò l'esistenza delle cosiddette "razze radicali", di cui l'Atlantidea sarebbe la quarta. Un attento esame dei suoi scritti avrebbe fatto certamente comprendere anche al lettore più ingenuo che si trattava di una mistificazione, ma gli esseri umani sono creduloni e così un suo adepto, W. Scott-Elliot, una decina d'anni dopo ebbe buon gioco a descrivere con abbondanza di particolari la civiltà di Atlantide, completa di aerei che volavano grazie a una forza misteriosa.
Paul Schliemann, nipote di Heinrich Schliemann, lo scopritore di Troia, non esitò nel 1912 a spacciare per buona l'idea che il celebre nonno gli avesse lasciato reperti atlantidei e che addirittura alcuni li avesse trovati egli stesso: reperti che, ovviamente, nessuno ebbe modo di vedere. Poi toccò a Edgar Cayce, "veggente" americano morto nel 1945, uno dei più grandi mistificatori della storia del paranormale, riportato in auge dalla New Age, e che nelle sue visioni descrisse Atlantide come un arcipelago di cinque isole, arrivando a profetizzare che nel 1976 una di esse, Poseidia, sarebbe riemersa!
In questo bizzarro repertorio non poteva mancare il nazismo. E, infatti, arrivò con la sua coorte di cerimonie lugubri e di saperi perduti, attraverso le teorie ereditate da Donnelly e dalla Blavatsky. Basta dare un'occhiata a una delle molte documentazioni che circolano oggidì sull'origine esoterica del nazismo per rendersi conto di come Hitler fosse interessato all'idea delle razze, delle distruzioni più o meno palingenetiche e soprattutto al mondo misterioso di Agharta.
Ma l'interesse non scemò con la guerra, anzi. Medium, ciarlatani, scrittori di fantascienza improvvisamente divenuti archeologi del mistero (è il caso di Richard Shaver, autore di "I remember Lemuria") hanno alimentato e alimentano un ricco giro di denaro e potere, facendo leva sulla dabbenaggine umana, mescolando Atlantide ad altrettanto immaginarie terre (Thule, Lemuria, Mu, Gondwana, Iperborea) mentre, a seconda dei periodi storici, il sito viene individuato indifferentemente nell'Atlantico, nel Caucaso, nel Sahara, nel Mediterraneo, in Antartide e in Artide, al punto che la civiltà atlantidea cambia a seconda degli orientamenti: abbiamo detto aerei mossi da forze invisibili, poi abbiamo avuto (dopo Hiroshima) civiltà distrutte non da catastrofi naturali bensì da guerre atomiche e, attualmente, con l'avvento della cristalloterapia, si è scoperto che anche questa pseudo-scienza nacque ad Atlantide.
La maggior parte di queste teorie sono ridicole, mentre altre, seppur provviste di buon senso (per esempio quella dell'italiano Flavio Barbero che situa Atlantide in Antartide), non sembrano molto credibili. Allora la civiltà misteriosa descritta da Platone fu soltanto un mito? L'archeologia ha dato una possibile risposta. Il primo a intuire la verità fu K. T. Frost, professore a Belfast, in un articolo nel 1909. Frost intravide per primo le somiglianze fra quanto descritto da Platone e le scoperte cretesi che allora stavano venendo alla luce. La sua teoria non fu presa in considerazione negli ambienti scientifici, ed egli morì in combattimento durante la Prima guerra mondiale senza aver potuto ampliarla. Si dovettero aspettare diversi anni fino a quando Spiridion Marinatos, direttore degli scavi di Thira, ovvero l'isola greca di Santorini, non imputò, nel 1939, la scomparsa della civiltà minoica all'eruzione del vulcano di Thira. Da allora gli scavi effettuati prima da Marinatos, poi dal suo allievo Christos Doumas, confermarono questa ipotesi, con progressivi aggiustamenti per quanto riguardava datazioni, reperti, identità. Ma presto John Luce, lo stesso Marinatos e poi Doumas cominciarono a pensare che la situazione andava letta diversamente: ciò che Platone chiamava Atlantide era solo il ricordo, deformato, della grande catastrofe sismica seguita all'eruzione del vulcano di Thira che, verso il 1600 a. e. v., spazzò via una fiorente civiltà.
John Luce e il palentologo Charles Pellegrino hanno lavorato a lungo su questa ipotesi - a tutt'oggi la più convincente - e che ancora una volta ci fa pensare come, al di là delle speculazioni, degli imbrogli, dei deliri di occultisti e ciarlatani, il principio di Schliemann sia ancora valido. Ogni mito contiene in sé un principio di realtà, il ricordo di ciò che è stato. Sta, naturalmente, all'intelligenza e alla serietà del ricercatore trovare il filo che lega il mito all'evento.