venerdì 25 febbraio 2005

Citata al Mercoledì
una intervista, in cui si parla anche di Massimo Fagioli

(già pubblicata su questo blog in data 4 c.m. ndr)

Zefiro, anno II - n. 1 - gennaio 2005
"Malattia mentale.
Ma i medici chi li cura?"
Intervista a Luana De Vita
di Paolo Izzo


Si sente spesso parlare di disagio psichico o sociale; mentre, anche di fronte a fatti di cronaca molto gravi, diagnosticare una malattia mentale, semplicemente pronunciare queste due parole, appare come uno scoglio insuperabile. Perché nella psichiatria ufficiale la confusione è tanta e quando ci si trova di fronte a un malato di mente sembra più accettabile ricorrere alla farmacologia, per “contenerlo”, per riportarlo alla “normalità”.
Abbiamo intervistato Luana De Vita, psicologa, giornalista e autrice di un libro molto interessante, “Mio padre è un chicco di grano” (Ed. Nutrimenti, aprile 2004, pp. 126), dove racconta con coraggio le vicissitudini cui è andata incontro come figlia di un paziente psichiatrico, sempre in bilico tra l’indifferenza e l’incompetenza di certi medici e la situazione di totale anarchia in cui si trovano oggi i Dipartimenti di salute mentale…

Spesso la cronaca ci racconta di persone che, pur avendo un perfetto rapporto con le cose, con la realtà materiale ed essendo dunque apparentemente normali, un giorno compiono una strage… Cita molti di questi episodi in un capitolo del suo libro. Che cos’è per lei la “normalità”?
Se una persona ha equilibrio, normalità, capacità cioè di gestirsi e di essere funzionante – questa è l’unica normalità riconosciuta – il modo in cui ce l’ha, se non crea problemi agli altri, non importa. Normale è una persona che riesce a “funzionare”: alzarsi, lavarsi, vestirsi, andare a lavorare, tornare a casa e prepararsi da mangiare. Nessuno psichiatra potrà mai dire se quella persona avrà un’esplosione psicotica…
E non dovrebbe invece capirlo?
No. Perché il comportamento umano è completamente diverso dal corpo umano. Se non accettiamo questa idea continueremo a cercare una malattia che non c’è. In ragione di un funzionamento sano di tutti gli organi, possono esserci una serie di problematiche che non sono prevedibili. Per esempio quelle dell’assassino non lo sono. Si può magari ragionare in termini di fattori che possono favorire un certo tipo di comportamento, ma sono pochissimi quelli che si muovono in questa direzione: significherebbe considerare il disagio come legato non solo al rapporto medico-paziente, ma anche alla condizione in cui il paziente vive. Significherebbe accettare di farsi carico di una serie di situazioni…
Ma il medico non ha l’obbligo di curare?
Sì, ma se uno ha un’infezione e va dal medico, il medico gli prescrive delle medicine. Se poi quello va a casa e ha una situazione familiare terribile, francamente al medico che deve curare l’infezione che gliene importa! Certo, se uno viene da me e mi dice “ho preso appuntamento perché io la mattina, quando mi alzo, vorrei uccidermi”, io mi devo preoccupare di dove vive, con chi vive, che relazioni ha…
In questo senso sembra esserci un’impotenza del medico, come lei dice bene nel libro, anche per effetto della legge 180. Allora è più facile dire che uno sta bene piuttosto che diagnosticargli una malattia mentale…
Sicuramente c’è l’impotenza medica e la 180 ha affidato alla famiglia del malato la cura di queste cose. Il che è incredibile! Vedi queste famiglie impegnate ad allarmarsi, ma impotenti a loro volta. Non le nascondo che un altro problema serio è quello della non responsabilità dei medici: il fatto che il tizio che aveva le armi poi le usi per sparare alla moglie dovrebbe significare che il medico che ha firmato il certificato di idoneità psico-fisica per le armi venga preso e sospeso dalla professione… Perché quanto meno il medico chiamato allo stesso compito la volta successiva approfondisca l’indagine!
Arrivando al trattamento delle malattie della psiche, sempre che ci si arrivi, secondo lei come dovrebbe agire un medico, con la psicoterapia o con i farmaci?
Con tutti e due. Come avrà letto nel libro, ho un atteggiamento molto critico rispetto soprattutto all’abuso di farmaci e rispetto alla consuetudine di delega al farmaco, che è una mancata presa in cura del paziente, cui si propone solo una lista di medicine da prendere. Detto questo, ritengo che una persona depressa ad esempio può avere per un periodo un grosso beneficio dall’assunzione di un farmaco, se accompagnata da un percorso psicoterapeutico che vada a indagare su quali sono le ragioni di quella depressione e aiuti a rinforzare quelle che sono le risorse della persona…
E della psicoterapia che mi dice?
Personalmente mi sto specializzando in psicoterapia cognitivo-comportamentale e questo perché è un tipo di psicoterapia che si concentra molto sul sintomo e non è la terapia freudiana che ti stende sul lettino per dieci anni a parlare di quando eri piccolo… Certo, se da psicologa mi trovo di fronte a una situazione di psicosi, rimando il paziente a uno psichiatra…
Nel libro descrive molte situazioni in cui si è trovata accompagnando suo padre da una clinica all’altra. Che succede oggi a un paziente psichiatrico?
Nella pratica, che io ho vissuto come figlia ma anche come persona che stava lì con altri parenti e con altri pazienti, le cliniche sono luoghi in cui negli anni ci si reincontra: i pazienti saltellano da una clinica all’altra e questo vuole dire non solo che i problemi si ripropongono, ma anche che il circuito in cui si transita è sempre lo stesso! Questo è secondo me ciò che va spezzato: a cominciare dai giovani. Parlando per esempio di lavoro, una volta che il paziente venga abbastanza compensato, si dovrebbe tentare a reinserire la persona in un ambito di lavoro, di studio o di impegno sociale; a reimmetterla in un contesto di normalità.
Compensazione, normalità, reinserimento… Perché non parla mai di guarigione?
Bisogna prendere atto dei limiti oggettivi nella medicina ufficiale. Lo dico con molta serenità. Con questo stesso atteggiamento guardo alla malattia mentale e al disagio psichico. Mi sto occupando ultimamente di mobbing e da me vengono professori, primari di reparti ospedalieri, general manager, non solo operai massacrati dal datore di lavoro. Sono persone sanissime che fino a tre anni fa se sentivano parlare di disagio psichico ridevano; poi si sono ritrovati ad aver paura a chiudere gli occhi! Allora, secondo lei, quello era matto pure prima? Secondo me no. Voglio dire che siamo portatori del nostro benessere ma anche della nostra malattia…
Lo psichiatra Massimo Fagioli sostiene che alla nascita siamo tutti sani. E che semmai ci si ammala dopo, nei rapporti con gli altri…
Certo. Fagioli per me su quella cosa è stato grandioso, perché questo bambino patologico e mostruoso di Freud era una idea insopportabile! Quello che voglio dire io è che proprio perché siamo sani portiamo dentro di noi la malattia.
Ma Fagioli dice che ci si ammala, non che portiamo dentro di noi la malattia!
Guardi che il mio pensiero non è in antitesi con quello di Fagioli, che condivido. È solo che io lo dico in un modo diverso, nel senso che se esotericamente non può esistere il bianco senza il nero, non può esistere una persona assolutamente sana che non abbia anche dentro di sé coscienza e riconoscimento della malattia, intesa esattamente come l’altra faccia della salute.
Però lo psichiatra almeno deve essere sano, altrimenti come fa a curare gli altri?
Eh no! Questo è un pensiero utopistico. Perché parliamo di un essere umano e come tale non può essere perfettamente sano, altrimenti non è un essere umano. Come può un essere umano non avere le stesse caratteristiche di un altro essere umano? Lo psichiatra può solo avere delle conoscenze, delle tecniche, degli strumenti, in questo senso, che possono consentire l’attuarsi di una relazione terapeutica con un paziente, di scambio…
Insisto: uno che si occupa della realtà mentale altrui non dovrebbe avere la propria in condizioni di sanità?
Come le ho detto all’inizio, io ho la mia idea di sanità. Per me uno sano è uno funzionale, se funziona è sano. Cionondimeno potrebbe essere uno che qualche disturbo ce l’ha, non psicotico ovviamente, ma che qualche aspetto suo personale che so di nevrosi ce l’ha… Bisogna capire cosa si intende per sanità. Certo io uno psichiatra depresso non lo vedo bene a fare lo psichiatra. Nonostante questo, penso che molti dei colleghi che conosco e dei medici che ho conosciuto prima come figlia di un paziente e poi come psicologa, di problemi ne abbiano una valanga…

sinistra
Bertinotti, please...

Liberazione 25.2.05
«Io ateo?
Non mi nego la ricerca»
Bertinotti e la religione

Nel partito, nel partito che dirige, ovviamente si può professare qualsiasi religione, qualsiasi credo. Ma lui, il segretario, che rapporto ha con la religione? Alla vigilia del congresso di Venezia di Rifondazione comunista, il settimanale Panorama pubblica una lunga intervista a Fausto Bertinotti. Un colloquio che esula un po' dai temi della contingenza politica e cerca di disegnare il personaggio Fausto Bertinotti.
Partendo da una domanda secca: il segretario di Rifondazione si può definire "ateo"? La risposta è molto articolata. Questa: «Se me lo avesse chiesto quando avevo venti anni, oppure quando ne avevo trenta, le avrei risposto senza esitazione: sì».
Ma ora, le cose sono un po' diverse. Più sfumate. Fausto Bertinotti dice che «oggi, pur non essendo credente, eviterebbe risposte così definitive».
Il suo rapporto con la fede, con l'universo dei valori del cattolicesimo ma anche di altre religioni è insomma un terreno di esplorazione. «No, non credo che sia il segno di chi ha oggi un'incertezza, ma di chi non vuole negarsi la ricerca».
Ricerca che non è affidata solo alle letture, allo studio. In questa intervista il segretario della Rifondazione comunista racconta anche di «frequentare le cerimonie religiose e non senza un coinvolgimento emotivo». Perché? Cosa la incuriosiscei? Da cosa deriva quel suo «coinvolgimento emotivo»? La sua risposta è questa: «Per me la religione e la politica sono entrambe ricerca di liberazione». In questo senso: la religione è una «liberazione ultraterrena». La seconda, la politica, la lotta politica sono gli strumenti di una liberazione «terrena». Due filosofie, due modi di leggere la vita, due sfere. Che possono andare d'accordo - «si tratta sempre dell'idea di liberazione», aggiunge ancora il segretario di Rifondazione - se non addirittura incontrarsi. «Oggi poi si è aggiunto a legarci il grande tema della pace».
E da questo passaggio al discorso sul senso del Pontificato di Papa Karol Wojtyla, il passo è breve. Del resto, il leader del Prc non si sottrae alle domande in questione.
E dice: «Dalla voce di questo Papa, che è passato per fasi diverse a testimonianza del fatto che tutte le forze vive subiscono cambiamenti arriva oggi una parola di pace. In questo senso il ruolo di Giovanni Paolo II è enorme e la sua parola contro la guerra è stato un passaggio fondamentale per evitare che il conflitto iracheno diventasse uno scontro di civilità».
Dai riconoscimenti sul ruolo che il papa ha giocato nel mondo - provando a prevenire tutti i conflitti, da quello in Afghanistan a quello in Iraq - alla voglia di conoscerlo. Insomma, chiosa il giornalista, al segretario del Partito della Rifondazione comunista piacerebbe incontrarlo a tu per tu? «Penso che una conversazione con il Pontefice, con il capo di quella Chiesa che ha voluto interpretare la sua parola contro la guerra, sarebbe umanamente una grande opportunità». Anche se, naturalmente, Bertinotti sa perfettamente quali sono i mille motivi che ancora potrebbero ostacolare un incontro di questo genere. «Sarebbe una grande opportunità, ripeto. Sorvegliata, naturalmente, dalla consapevolezza del ruolo che si riveste e che a me sembra poter essere ancora una ragione d'impedimento».


Gazzetta del Sud venerdì 25 febbraio 2005 Anno 54
Una conversazione col pontefice? volentieri
Bertinotti: vent'anni fa ero ateo, oggi sono alla ricerca
Raffaele Marmo

ROMA – È ateo Fausto Bertinotti? «Se me lo avesse chiesto a 20 oppure a 30 anni, avrei risposto senza esitazione: sì. Oggi, pur non essendo credente, eviterei risposte così definitive. Non è il segno di chi ha oggi un'incertezza, ma di chi non vuole negarsi la ricerca», dice il segretario del Prc a Panorama, accettando per la prima volta di parlare del suo rapporto con la fede e con il mondo cattolico. Così Bertinotti rivela a sorpresa di «frequentare le cerimonie religiose e non senza un coinvolgimento emotivo». E spiega che per lui «la religione e la politica sono entrambe ricerca di liberazione». Una «liberazione ultraterrena» la prima, una liberazione «terrena» la seconda. «Ma si tratta sempre dell'idea di liberazione – dice ancora. Oggi poi si è aggiunto a legarci il grande tema della pace». Il leader di Rifondazione parla infine di Giovanni Paolo II. «Dalla voce di questo Papa, che è passato per fasi diverse a testimonianza del fatto che tutte le forze vive subiscono cambiamenti – dice – arriva oggi una parola di pace. In questo senso il ruolo di Giovanni Paolo II è enorme e la sua parola contro la guerra è stato un passaggio fondamentale per evitare che il conflitto iracheno diventasse uno scontro di civilità». A Bertinotti piacerebbe incontrarlo a tu per tu? «Penso che una conversazione con il Pontefice, con il capo di quella Chiesa che ha voluto interpretare la sua parola contro la guerra, sarebbe umanamente una grande opportunità. Sorvegliata, naturalmente, dalla consapevolezza del ruolo che si riveste e che a me sembra poter essere ancora una ragione d'impedimento».
Monsignor Tonini, è sorpreso delle rivelazioni di Bertinotti? «Assolutamente no. Conoscendolo da anni, l'ho sempre trovato molto spontaneo, sensibile e immediato. Con interessi che vanno al di là della politica. Ha punti di vista che sembrano implacabili, poi, però, si vedono i cangiamenti, gli ammorbidimenti. Adesso che lui dice così, io posso solo dire che sono contento e che l'accompagno».
Era già a conoscenza di quest'ansia di ricerca del leader comunista? «Tra noi c'è una vera amicizia. Ci siamo incontrati diverse volte, abbiamo parlato di tante cose. Ma mi sono ben guardato dall'intrattenermi sulla sua ricerca di fede. Io non sono il controllore o il misuratore di questa febbre. La scoperta è un dato intimo, privato, della singola persona, in questo caso di Bertinotti. Bisogna aspettare l'ora giusta».
Quando ha conosciuto Bertinotti? «Lo incontrai a un convegno della Cisl. Gli dissi che volevo parlargli. Fu subito disponibile. Da allora ci siamo visti altre volte. Discutevamo della scuola cattolica: lui, però, era per la scuola pubblica, unica in tutto il Paese. Ricordo anche che mi contattarono dalla sua segreteria quando stava andando alla Camera per votare contro Prodi. Lo chiamai al telefono: non riuscii a convincerlo a non farlo».

La Stampa 25 Febbraio 2005
IL LEADER DEL PRC REPLICA ALL’EDITORIALE DI GORBACIOV
intervista
Bertinotti: l’Urss non era riformabile
«Certo la perestrojka era da incoraggiare, ma soltanto una volta ho creduto a una riforma del socialismo reale: nella Primavera di Praga»
Riccardo Barenghi

ROMA. STAVOLTA cominciamo dalla fine. Dalla fine dell’intervista con Fausto Bertinotti dedicata all’articolo di Mikhail Gorbaciov pubblicato ieri dalla «Stampa». Perché è fallita la perestrojka, se l’Urss fosse riformabile o no, se i Paesi del socialismo reale avrebbero potuto uscire dal comunismo senza finire in braccio al capitalismo. Ne abbiamo parlato fino a questo momento, per un’ora, ma per sapere quello che il segretario di Rifondazione Comunista pensa di tutto ciò bisogna avere un attimo di pazienza. Perché è alla fine dell’intervista che gli chiediamo di commentare un’altra intervista, quella concessa ieri da Piero Fassino al Corriere della Sera e così intitolata: «La nuova Europa di centrosinistra sarà stretta alleata dell’America». Bertinotti non l’ha ancora letta, la legge «in diretta». Borbotta, scuote la testa, non crede ai suoi occhi.
Eppure Fassino sottolinea tre novità che anche lei ha notato, le elezioni irachene, la nuova politica di Sharon, il nuovo atteggiamento di Bush. Non bastano alla sinistra italiana per riaprire «le relazioni diplomatiche» con gli Stati Uniti?
«Non cogliere le novità politiche è da stupidi. Altra cosa è sovrapporgli un involucro ideologico e di realpolitik, involucro che si può anche scegliere (ovviamente non parlo per me) ma non legarlo a fatti contingenti. I quali vanno presi in se stessi e richiedono una nuova capacità di iniziativa europea. Dopo di che, non vedo affatto un rovesciamento della politica di Bush, vedo una sua difficoltà e dunque un atteggiamento conseguente, ma non certo la cancellazione della sua dottrina basata sulla guerra preventiva e sul governo unipolare del mondo. Io, al contrario di Fassino, penso che l’Europa abbia bisogno di più autonomia dagli Usa. Anzi, penso che i suoi interessi politici, geopolitici, economici, coincidano con un declino della potenza americana».
Secondo Fassino però il governo del futuro, qualora l’Unione di cui il suo partito fa parte vincesse le elezioni, sarà un alleato di ferro degli Usa.
«Al leader dei Ds voglio solo dire che uno schieramento progressista filoamericano è una contraddizione in termini. O è progressista o è filoamericano».
Ricominciamo dall’inizio e torniamo a vent’anni fa, quando appunto Gorbaciov salì al potere di un Urss ormai sfiancata. Lui oggi sostiene che la sua perestrojka era l’unico mezzo per riformare il sistema sovietico, non più comunista ma neanche capitalista, democratico ma anche socialista. E’ d’accordo?
«Ho trovato l’articolo di Gorbaciov molto interessante, discorsivo, non ideologico, ben strutturato, che dà un’idea compiuta della sua perestrojka. Spiega che nacque da una crisi, la crisi di consenso al sistema, la chiama “l’allontanamento delle masse dall’idea del socialismo”. Da qui il tentativo di curare la malattia del sistema introducendo elementi di democrazia misti a elementi di socialismo. Ma dice anche che l’oggetto della sua riforma non era solo e neanche soprattutto il comunismo, ma proprio l’Unione Sovietica. Quando viene meno quell’oggetto, con la caduta del Muro, viene meno la riforma».
All’epoca lei aveva creduto possibile quella scommessa?
«Sinceramente no. Ovviamente era da incoraggiare, anche sperare che funzionasse. Ma l’ultima volta, che poi è stata anche la prima, quindi l’unica volta che ho creduto possibile riformare il comunismo reale è stata la Primavera di Praga nel ’68. Perché al movimento intellettuale, sociale e infine politico che nacque in Cecoslovacchia faceva da sponda tutto quel che stava succedendo nel nostro mondo, ossia una rivolta operaia e studentesca anticapitalistica. I due mondi, tenuti congelati insieme dalla guerra fredda, si scaldavano insieme. Ma da quella parte sono arrivati i carri armati sovietici, e Praga è rimasta sola».
Soffocata quella stagione, fallito il tentativo di Gorbaciov, il comunismo crolla su se stesso. Trionfa il capitalismo, si afferma (almeno in teoria) la democrazia. Lei nonostante sia leader di un partito che ancora si chiama comunista, sembra tuttavia aver accettato il binomio capitalismo-democrazia?
«Neanche per sogno. Ovviamente la mia idea di comunismo, tanto diversa, direi opposta a quella che si è realizzata, non la vedo dietro l’angolo. Vedo però che la crisi del sistema capitalistico mondiale è oggi fortissima, viviamo ormai in un terremoto costante (guerre, terrorismo, globalizzazione selvaggia con tutte le loro conseguenze) che fa parlare di crisi di civiltà. O se vogliamo di scontro tra civilità, che non sono l’Islam e l’Occidente ma due modelli sociali, alternativi tra loro e trasversali ai continenti, alle religioni, alle etnie, alle culture. E’ uno scontro lungo, molto lungo, che certo non si risolve con la vecchia idea della presa del potere. Semmai con la democrazia».
Ma la democrazia c’è, almeno nel nostro mondo. E non da ieri.
«Ma io non penso alla democrazia solo come sistema di rappresentanza, di formazione democratica della decisione (avrebbe detto Norberto Bobbio). Penso alla democrazia come motore di un cambiamento del sistema. Graduale, conflittuale naturalmente, ma partecipativa, fatta di persone e proposte. Che per esempio metta sul mercato ma contro il mercato, alcuni beni comuni, aria, acqua, terra fuoco. Oggi la rivoluzione è questa, una democrazia incompatibile col capitalismo».

il disturbo bipolare

Yahoo! Salute 24.2.05
Sfugge alla diagnosi il disturbo bipolare
Il Pensiero Scientifico Editore
Curati per depressione, ma affetti da disturbo bipolare: questo è ciò che accade frequentemente a pazienti la cui condizione clinica è stata sottovalutata dal medico di base. Ne parla il Journal of the American Medical Association.
Antonella Sagone

Il disturbo bipolare comporta forti sbalzi di umore, con periodi di depressione alternati a stati maniacali o ipomaniacali. Il paziente con questo disturbo presenta una peggiore qualità della vita e consistenti difficoltà nella sfera sociale, familiare ed affettiva, e necessita per tutta la vita di cure farmacologiche specifiche volte a stabilizzare l’umore; queste cure sono differenti da quelle utilizzate per curare la sola depressione, anzi, gli antidepressivi dati come monoterapia possono in questi pazienti innescare gli episodi maniacali.
Poiché i soggetti affetti da disturbi dell’umore generalmente si rivolgono per prima cosa al loro medico di base, i ricercatori hanno voluto accertare in quale misura quest’ultimo identifichi correttamente il problema e offra adeguate indicazioni terapeutiche. I soggetti studiati, 1157 pazienti fra i 18 e i 70 anni, sono stati esaminati nell’arco di due anni e sottoposti a una serie di questionari volti ad accertare i disturbi dell’umore e il disagio psichico. Attraverso questo screening sono stati identificati 81 pazienti affetti da disturbo bipolare, tuttavia soltanto l’8,4 per cento aveva ricevuto una diagnosi in tal senso dalle strutture di medicina primaria, e ancora meno (6,5 per cento) aveva avuto la prescrizione dei farmaci appropriati. Circa la metà di questi soggetti aveva ricevuto in effetti una diagnosi e una terapia per la sola depressione.
I ricercatori sottolineano la gravità del problema di una diagnosi inappropriata nel disturbo bipolare: questi pazienti necessitano di un aiuto specifico, e bisogna sottolineare che ben il 68,2 per cento dei soggetti identificati con lo screening ha riferito di aver sofferto di almeno un episodio di depressione grave, di un disturbo d’ansia o di aver assunto sostanze d’abuso. “Occorre impegnarsi per la formazione dei medici di base”, osservano gli autori, “riguardo allo screening, alla gestione e alla farmacoterapia dei pazienti con disturbo bipolare”.

Fonte: Das AK, Olfson M, Gameroff MJ et al. Screening for bipolar disorder in a primary care practice. JAMA 2005;293:956-63.

ipotesi della psichiatria americana
potrebbe essere tutta colpa del piombo (e perché no?)

Yahoo! Salute venerdì 25 febbraio 2005
Il piombo induce il cervello al crimine?
Il Pensiero Scientifico Editore
Paola Mariano

L’inquinamento da piombo può avere esiti funesti sul cervello dei giovani inducendoli a comportamenti aggressivi e anti-sociali che possono sfociare in crimini violenti. È quanto riferito da un pioniere degli studi sugli effetti del piombo sul cervello umano, Herbert Needleman della University of Pittsburgh School of Medicine, al Meeting Annuale della American Association for the Advancement of Science (AAAS) a Washington.
Allarma il fatto che bastano concentrazioni molto basse di piombo, e ben al di sotto dei valori limite consentiti dalle legislazioni nazionali, per produrre danni neurologici importanti, ha dichiarato lo psichiatra. Sulla base del suo ultimo studio presentato in quest’occasione, l’esperto ha azzardato l’inquietante ipotesi che dal 18 al 38 per cento dei crimini commessi in tutta la delinquenza nella contea Allegheny in Pennsylvania, che include Pittsburgh, potrebbe essere addebitato ad avvelenamento da piombo.
Le accuse mosse al piombo come minaccia per la salute umana non sono nuove: risale agli anni ’70 la prima mossa dallo stesso Needleman, che aveva scoperto come basse concentrazioni di piombo nelle ossa dei bambini erano associate a un minor quoziente intellettivo dei piccoli. Recenti sono invece i legami trovati tra piombo e défaillance di memoria, secondo uno studio riportato sull’American Journal of Epidemiology (vedi “Più piombo nelle ossa meno memoria”) e tra esposizione al piombo in gravidanza e rischio schizofrenia nel nascituro (vedi “Piombo e rischio schizofrenia”).
Il piombo è molto diffuso nell’ambiente, prima lo si ritrovava nelle vernici, nella benzina, nelle tubature e in molti materiali da costruzione, ma è tuttora presente come contaminante del suolo. Nel suo ultimo studio Needleman ha dimostrato che quantità di piombo più alte della media si ritrovano nelle ossa di 190 individui condannati per atti criminosi in Pennsylvania. Il piombo, ha concluso l’esperto, è velenoso per il cervello già quando si trova nelle ossa in piccole quantità, rilevabili con la fluorescenza a raggi X ma che non danno sintomi riconoscibili di avvelenamento.

depressione post-parto

Adnkronos 25.2.05 - 14:31
GRAVIDANZA: CESAREO PROGRAMMATO NON EVITA DEPRESSIONE POST-PARTO

Roma, 25 feb. (Adnkronos Salute) - Il parto cesareo programmato, per evitare complicazioni, non mette al riparo le neo mamme dal rischio di soffrire di depressione post-parto. Questa la conclusione di uno studio britannico dell'università di Bath, condotta su 14 mila donne. ''La percentuale di donne che soffre di depressione dopo la nascita del bebè è pari al 15%, sia che si tratti di parto naturale che di cesareo. Non solo. Il dato è in perfetta linea - spiegano i ricercatori sul British Medical Journal - anche con la percentuale della popolazione colpita da sindrome depressiva. Quindi, le modalità del parto e la presenza o meno di complicazioni non incidono sensibilmente''. Più di una ricerca, in passato, aveva messo in relazione le complicanze durante il parto con le maggiori probabilità di sviluppare depressione. ''Ma non esiste un legame diretto né significativo. Piuttosto - commentano - a fare la differenza sono i servizi e l'assistenza alle neomamme, sin dai primi giorni dopo la nascita del figlio''. (Chs/Adnkronos Salute)

tricotillomania

La Stampa 23.2.05
Il piacere di strapparsi i capelli
E’ UNA PATOLOGIA CHIAMATA TRICOTILLOMANIA, ABITUDINE COMPULSIVA CON ORIGINI PSICOLOGICHE TUTTORA CONTROVERSE. SE NE DISCUTE IN USA

KELLY cominciò a strapparsi le ciglia all'età di 13 anni. Lo faceva ogni volta che ricrescevano. Le sue palpebre erano glabre e la madre la portò a comprare ciglia finte che Kelly si appiccicava alle palpebre ogni mattina prima di andare a scuola. Non riusciva a smettere. «Quando cominciai a strapparmi le ciglia, mi sembrò estremamente interessante», racconta Kelly Chick, che oggi è un medico di 34 anni di Philadelphia. «Non avevo idea che potesse danneggiarmi fisicamente e mentalmente». Kelly Chick è una delle tante persone affette da tricotillomania (dal greco trix, capelli, e tillein, tirare), un disturbo di tipo autolesivo: l'abitudine compulsiva di strapparsi capelli, ciglia, sopracciglia o peli da altre parti del corpo causando visibili zone glabre. Secondo una stima del Trichotillomania Learning Center, organizzazione no-profit che collega pazienti e ricercatori che studiano il disturbo, solo in America l'1-2 percento della popolazione (cioè tra i 4 e gli 11 milioni di persone) sarebbe affetto da tricotillomania. Ma dopo 20 anni di ricerca negli Stati Uniti, non vi è accordo sulla causa. Chi soffre di tricotillomania non riesce a smettere perché prova piacere o sollievo nello strapparsi i capelli o i peli, e si sente teso subito prima o nel tentativo di evitare di farlo. Ma quando la perdita di capelli è notevole, le persone affette si sentono a disagio con se stesse e con gli altri. Spesso la mania si manifesta durante l'adolescenza. Sembra più frequente tra le donne, ma forse solo perché ne parlano più facilmente. Il manuale diagnostico della American Psychiatric Association definisce la tricotillomania una mania ripetitiva simile ai disturbi del controllo degli impulsi, come la piromania o la cleptomania. Tali disturbi sono caratterizzati dall'incapacità di controllare l'impulso di arrecare danno a se stessi o ad altri. Alcuni medici credono però che la tricotillomania sia più simile a manie ripetitive come mangiarsi le unghie; altri la curano con gli stessi metodi usati per la dipendenza da droghe leggere. La psicologa Claudia Miles ritiene che strapparsi i capelli agisca sul corpo come una droga, stimolando la produzione di un maggior livello di endorfine e dando così piacere. Lo faceva lei stessa dall'età di 3 a 28 anni. «La gente non vuole smettere - dice - perché è piacevole. Strapparti i capelli, se hai la tricotillomania, è come mangiare caramelle». Inizialmente il disturbo fu notato in pazienti con manie ossessive-compulsive; alcuni medici l'associarono a traumi dell'adolescenza: la National Mental Health Association non esclude tuttora la possibilità di tali connessioni. Depressione e scarsa stima di sé spesso accompagnano la tricotillomania, ma Ruth Golomb del Behavior Therapy Center di Greater Washington ha osservato che nei bambini la mania si manifesta spesso in assenza di altri disturbi, per cui la depressione potrebbe esserne conseguenza anziché causa. Alcuni ricercatori stanno conducendo studi di visualizzazione dell'attività del cervello in vivo con tecniche imaging per dimostrare che dietro il disturbo vi è una vulnerabilità genetica del sistema nervoso. Secondo Fred Penzel del Western Suffolk Psychological Services, la tricotillomania potrebbe essere una forma di autoregolazione in persone con una predisposizione genetica. Quando sono stressate, ansiose o frustrate, concentrandosi sull'atto di strapparsi i capelli, queste persone troverebbero un modo per rilassarsi. Quando invece si sentono annoiate o inattive, strapparsi i capelli (che sono anche ricchi di terminazioni nervose) consentirebbe loro di stimolare il sistema nervoso. Oggi la tricotillomania è spesso minimizzata, dice Charles Mansueto del Behavior Therapy Center, e spiega che le compagnie farmaceutiche, un'importante fonte di fondi per la ricerca, non sono interessate a investire perché i farmaci non sempre sono efficaci: alcuni antidepressivi a volte funzionano, dice Miles, ma ci sono anche pazienti che peggiorano o che non hanno alcun effetto. La terapia comportamentale invece si è rivelata promettente: il metodo consiste nell'identificare le occasioni scatenanti (fisiche, emotive, abitudinarie, intenzionali o ambientali) per aiutare a controllare la mania.

archeologia mediterranea

La Stampa 25 Febbraio 2005
LE ULTIME SCOPERTE ARCHEOLOGICHE AL LARGO DI ALESSANDRIA D’EGITTO RESTITUISCONO LE TRACCE ORIGINARIE DI ANTICHE LEGGENDE
Dal fondo del mare, il mito di Elena e Paride
I PRECEDENTI DI OMERO
di Aristide Malnati

ALESSANDRIA D’EGITTO. DAL profondo dei fondali del Mediterraneo riaffiorano consistenti tracce di antichi siti, sede di remote vicende che si perdono nel mito. Queste scoperte ci portano nelle profondità marine al largo di Alessandria d'Egitto, città fondata nel 332 a.C. da Alessandro il Macedone e motore principale del progetto di globalizzazione politica e culturale da lui avviato. Qui tuttavia la precedente civiltà dei faraoni egizi aveva edificato imponenti avamposti commerciali e marittimi, che anzi influenzarono Alessandro e i suoi architetti nella ricerca del luogo dove fondare la futura città.
Ecco che ora questi antichi resti riemergono con le loro monumentali vestigia dall'oblio del tempo e offrono nella loro successione stratigrafica testimonianza diacronica di tutte le fasi storiche della loro esistenza. Recentemente l'archeologo subacqueo francese Frank Goddio ha completato l'avventurosa ma sistematica esplorazione della rada costiera per parecchie miglia tra il porto eunostos e Abukir; e ha riscontrato la presenza di resti di edifici, santuari, palazzi e mura di vario spessore: la mappatura prontamente eseguita mostra i contorni, non ancora ben definiti a causa della torbidità delle acque limacciose, di un ampio centro urbano.
Quale? La misteriosa città-fantasma sottomarina ha finalmente un nome: Herakleion, di cui parlano già le fonti classiche da Erodoto a Strabone. È una piccola targa d’oro del III secolo a.C. a rivelare l'identità del sito: il reperto rinvenuto qualche settimana fa a 12 metri di profondità e prontamente tradotto da Jonathan Cole, direttore del Centro di Archeologia Subacquea di Oxford, riporta un documento pubblico con tanto di nome di luogo (Herakleion appunto).
Così la realtà storica sempre meglio acclarata si innerva su arcane radici mitologiche, trae dal mito la sua scaturigine, il suo volto antico, si perde in quella complessa rete di elementi religiosi, a loro volta però indissolubilmente fusi con avvenimenti reali. Uno storico del calibro di Erodoto (metà del V secolo a.C.) fu il primo a tentare di dipanare questa intricata matassa, andando a ritroso nel tempo alle origini di molti miti greci, egizi e persino di quelli diffusi nell'antico Vicino Oriente; e nel farlo compì un processo di razionalizzazione sicuramente indebito (oggi sono ben altri gli strumenti con cui si recuperano le radici ancestrali delle saghe arcaiche), ma di straordinario fascino e per noi utilissimo, in quanto foriero di preziose notizie e di aneddoti storici non altrimenti testimoniati. E proprio lo storico di Alicarnasso nella sua opera (Storie, libro II, 112-120) cita Herakleion legandola al percorso, per lui reale, compiuto da Elena e Paride, teneri innamorati in fuga dalle ire di Menelao, sposo tradito. Partiti, anzi precipitosamente scappati, i due amanti sarebbero stati spinti da un vento impetuoso e invincibile verso le coste egizie e precisamente all'altezza di Herakleion, presso la foce del braccio canopico del Nilo. Qui avrebbero riparato nel tempio principale del villaggio, dove il culto di Khonsu, il figlio del dio-Sole Amon, si era fuso con quello di Eracle, in un mirabile esempio di sincretismo religioso quasi mille anni prima dell'ellenismo.
Giunto poi a Menfi, sede centrale del potere, Paride, in quanto traditore dell'ospite Menelao, avrebbe ricevuto ingiunzione di espulsione e sarebbe stato costretto a prendere il largo senza l'amata rapita. Una versione del mito differente da quella omerica, per cui Elena sarebbe stata a fianco dell'amante sulla rocca di Troia e lì, testimone della disfatta da lei stessa innescata, avrebbe costituito la parte più preziosa del bottino di guerra di Menelao, suo primo sposo. Questo a dimostrare la fluidità di un mito, le cui molteplici versioni hanno dato adito a varie interpretazioni narrative; interpretazioni tutte penalizzanti per Elena con l'eccezione della famosa e intensa poesia di Saffo, per cui la giovane sposa di Menelao ha palesato l'onestà e il coraggio di seguire gli impulsi irrazionali del cuore.
Ora questa realtà archeologica, teatro del mito nella versione erodotea e comunque sede di importanti commerci tra mondo greco ed Egitto ben prima di Alessandro il Grande, acquista una sua fisionomia e una sua consistenza; e rinverdisce grazie a lavori congiunti di missioni francesi e inglesi, unite in mutua collaborazione proprio in prossimità di Abukir, luogo simbolo di un'antica rivalità oggi superata nel nome della ricerca storica.
In merito al mito di Elena e Paride e più in generale di tutto il ciclo troiano recenti scoperte confermano la leggenda materia dell'epos omerico. Un centinaio di tavolette d'argilla incise in Lineare B, venute alla luce presso la greca Tebe, contengono toponimi, onomastici e nomi di popoli che sarebbero più tardi ricorsi nell'Iliade e nell'Odissea. Sono documenti del XIII secolo a. C. e mostrano come già allora i principali eroi dei due poemi (a iniziare da Achille) fossero conosciuti; e dunque come il tessuto connettivo del mito, su cui nei secoli successivi avrebbero lavorato gli aedi, fosse già stato elaborato in età micenea. Inoltre nelle tavolette sono leggibili parecchi toponimi di città in rapporti commerciali con Troia; e molte di esse sono nominate nel II canto dell'Iliade, nel cosiddetto «catalogo delle navi». Questi elementi proverebbero l'appartenenza antica del canto (da alcuni filologi ritenuto spurio) al corpus originario del poema, in quanto il suo contenuto sarebbe di elaborazione antichissima.

in mostra a Torino
le immagini del «Male»

La Stampa 25 Febbraio 2005
NELLE DUE ALI DELL’EDIFICIO JUVARRIANO UNA CARRELLATA DI 350 OPERE DAL ‘400 AD OGGI
Sangue, supplizi e corpi decollati
Dipingere il Male assoluto, la grande scommessa
di Marco Vallora
Torino:
Orrori di ieri e di oggi
Il Male. Esercizi di pittura crudele

Solo se accompagnati i ragazzi sotto i 14 anni potranno vedere la mostra che apre il 26 febbraio alla Palazzina di Caccia di Stupinigi e al Museo del Cinema. Gli organizzatori, infatti, considerano molte delle 180 opere in esposizione poco adatte ai giovanissimi. Ci sono immagini di mostri, di demoni, dannati e peccatori, e poi teste mozzate, cadaveri sezionati, allegorie della morte, incubi. Insomma, tutte le manifestazioni del Male come è stato rappresentato nell’arte europea dal Medioevo a oggi, da Beato Angelico a grandi nomi del Novecento e fino ai contemporanei. Ancora crudeltà e sadismo, ma dei giorni nostri, al Museo del Cinema, con video, fotografie, fumetti e film, - dai video delle decapitazioni in Iraq alle fotografie delle stragi alla proiezione di film come "Arancia Meccanica" di Stanley Kubrick. Fino al 26 giugno 2005.
DOMANI SUL CORRIERE
Inserto Speciale sulla Pittura crudele
Domani, in edicola con il «Corriere», un inserto gratuito di otto pagine sarà dedicato alla mostra «Il male. Esercizi di Pittura crudele» che si inaugura alla Palazzina di Stupinigi (Torino). Nel supplemento, oltre a una panoramica sulle opere in esposizione curate da Vittorio Sgarbi, un intervento del filosofo Emanuele Severino, la fisiognomica come interpretazione del brutto, il male visto attraverso il mondo del fumetto e la rinascita culturale di Torino
MA è possibile «dipingere» il Male? O scriverlo, musicarlo (ci ha provato, tra i tanti, oltre al Tartini del Trillo del Diavolo, ovviamente, e poi Offenbach con Berlioz, lo Schumann demonico del Manfred, che non a caso attirò il «satanico dicitore» Carmelo Bene). Ma si può manifestarlo, materializzarlo, ammansirlo con l'Arte? Se si lascia afferrare-dipingere, è ancora Male? È la domanda che ci si pone scendendo agli Inferi di questa mostra, ricchissima di capolavori ed un po' disorientante nell'assunto, che si pne appunto sotto il marchio, inquietante ed infamante, de «Il Male». (Preferiamo, in fondo, il sottotitolo un po' più rapsodico e conseguente di «Esercizi di Pittura Crudele»: che fa un po' compito in classe, un po' Queneau e Perec, e molto Ignazio di Loyola. Anche se il segno barthesiano di cerimonialità gesuitica e penitente viene semplicemente, aritmeticamente ribaltato).
Perchè disorientante e perché è dubbio pensare che il Male si lasci rappresentare così docilmente? È un problema che si era già posto il surrealista eterodosso e seguace nicciano e sadiano Georges Bataille, torbido sondatore di abissi umani, che però si era forse reso conto, con i suoi romanzi L'azzurro del cielo e Madame Edwarda, quanto fosse rischioso, e spesso quasi ridicolo, far vedere, far parlare la cattiveria umana, la rivolta sessuale, la ribellione sociale. Ecco qui, ab initio, l'ammaccato e compassionevole Cristo Passo di Fra Giovanni da Fiesole, detto non a caso il Beato Angelico, il pittore più serafico del mondo, anche se viveva nella Firenze esacerbata e protestataria di Fra Savonarola. Capace di dipingere, sù negli affreschi, in modo «divino», prescindendo da occhio umano, tanto la sua opera era riservata allo sguardo di Dio. Ebbene: certo il suo Cristo è intriso di dolore e di avvilimento, uno straccio d'uomo con gli occhi iniettati di sangue, pronto a crollare. Ma dove è qui, «pittoricamente», il Male? Sta, semmai, nelle premesse, nei gesti dei torturatori (che ora però sono assenti) sta nella coscienza di chi ha letto i Vangeli e «sa» perché quel volto sia ridotto così: ma non lo vede, lo immagina soltanto.
Appunto: volentieri il Male si annuncia simbolicamente, riverbera (attraverso i disastri della guerra) ma non è dipinto materialmente, non si mostra: si lascia evocare. C'è più Male in una xilografia di Vallotton, detta Omicidio, in cui la stanza rigorosamente vuota odora di turpe delitto, o in un oggetto crudele di Mona Hatoum, che in mille macabre rappresentazioni pompiers di sadismo pittorico. E il Male, ma ha davvero a che fare con le vanitas e le anatomie, la melanconia e i ciechi? Spesso la crudeltà la si evince invece da elementi esterni, da quello che Genette avrebbe chiamato il paratesto. La vera, reale cerimonia del Male, si ha per esempio (come è più che evidente, qui, con la tavola di Martirio di Taddeo di Bartolo) con la damnatio memoriae, quando i fedeli si accaniscono sulla pittura per oltraggiare, e ferire e cancellare i volti di aguzzini e demoni: appunto, perché non degni d'essere rappresentati, perché il Male, sino ad una certa epoca, non si deve vedere, mettere in scena, non ne ha alcun diritto (sino ovviamente al qui benissimo rappresentato Novecento dell'Espressionismo e della Nuova Oggettività, in cui diventa un topos addirittura imprescindibile. O al Seicento borromaico e testoriano, dei supplizi a gogò e delle decollazioni di Cairo, della Gentileschi, di Caravaggio e Caracciolo: è ovvio, sangue, schizzi, ungi arrota e sprizza, che nemmeno il Puccini più sadico, evocato da Arbasino in un testo memorabile).
Ma siamo sicuri che anche lì è in gioco il Male assoluto, o un Bene relativo dell'Epoca, che noi non sappiamo, non vogliamo più riconoscere? Si pensi al celebre Martirio di Santa Caterina di Lelio Orsi: ma la teatrale macchina di tortura, non pareva già un sontuoso, raggiante altare barocco? Prima di tutto, bisognerà pur indossare degli «occhiali» storici: per gli uomini di fede, perfino il supplizio dei martiri, è un momento di edificazione e di riscatto dal peccato, per cui il Male entra in scena, se entra, non per dominare, per pavoneggiarsi, per affermarsi, diabolicamente, contro Dio, ma per permetter loro la grazia della Salvazione (come il bacio di Giuda: religiosamente e pacatamente ogni volta rappresentato). Così con il magnifico ritratto di Antonello da Messina di Cefalù, da cui Vittorio Sgarbi partiva, nel saggio del catalogo Skira: tipico volto mediterraneo, che Valdo Fusi definì «traumatizzante ritratto di mafioso». Ma siamo poi sicuri che non si tratti d'una nostra proiezione retroattiva, filmico-sciasciana, e magari anche un po' razzistica, mentre quello poteva essere «allora» un volto tranquillamente neutro e magari d'un sant'uomo od onesto mercante? Non possiamo proiettare sul passato i nostri comodi fantasmi di inquieti moderni, per far tornare i conti espositivi. E infine, che cosa è il Male sado-maso per Sgarbi? Infliggere dolore, ricevere offese, subire torti, tramare tranelli, andare in guerra, cacciare, tradire, picchiare, sbudellare, esser cieco, suicidarsi, dedicarsi alla magia, indossare un volto lombrosiano: che sono poi tutti temi della mostra. Ma tutto questo, non si chiama anche e semplicemente Vita, se solo togliamo l'altro aspetto, edificante? Ben venga Messerschmidt, per esempio, il grande scultore illuminista, maestro delle smorfie. Ma se il titolo è lo Sternuto, dove sta il Male: nella smorfia che torce il bronzo o nel raffreddore che incalza? Anche i teorici del Bello e del Sublime, in epoca neoclassica (però già abitata dai fantasmi demonici di Milton, di Byron, di Fuessli e di Blake) sapevano che, nel momento stesso in cui l'arte si dedica a rappresentare, a descrivere, a magnetizzare (usiamo questo termine così settecentesco) il Negativo, il Perfido, il Terribile, eran consapevoli che l'Arte fosse più forte, vincendo su tutto. Ed il Male, in parte, si dilegua. O s'imbelletta, ormai innocuo.
Prendiamo qui, per esempio, la fosca Apparizione del Fantasma del Padre di Amleto di Fuessli della Fondazione Magnani... ma anche qui, il male è già stato (l'uccisione del Re) e verrà poi (quando Amleto, finalmente, riuscirà a vendicarsi cruentemente) però il Male, in questa scena, si presenta con una maschera-metafora ambigua, che per di più è riparatoria. Perché il fantasma viene a chiedere giustizia e non «fa» male a nessuno, salvo alla cattiva coscienza di Gertrude. Meglio sarebbe stato, allora, mostrare quei perfidi schizzi domestici, in cui Fuessli si vendicava della moglie sadica e torturante, mettendole addosso dei cappellini, questi sì malvagi e perfidi, e delle capigliature crudeli: vera manifestazione pittorica di Male coniugale.
Una spiegazione terribile la potrebbe suggerire soltanto Zoran Music, qui presente con una straziante rappresentazione del campo di sterminio, cui è sopravvissuto. Dialogando con Jean Clair egli ha spiegato perché, a differenza di letterati come Primo Levi o Robert Antelme, i pittori hanno avuto un tabù maggiore, nel rappresentare il Male assoluto. Lo ha ammesso, con orrore: quando, in prigionia, disegnando di nascosto, si rese conto della «bellezza» paradossale, mostruosa, pittorica, di quelle cataste funeree di moribondi e cadaveri, capì che era giusto smettere. La pittura, forse, non può permettersi il lusso di dipingere il Male.

"psichiatria" tolemaica
ancora dalla Sopsi

Repubblica 25.2.05
I dati dal convegno, in corso a Roma, della Società italiana di Psicopatologia
Sempre meno capaci di affrontare situazioni complicate
Piccole paure quotidiane
Caccia alla formula anti-ansia

In Italia ne soffre l'8 per cento degli adulti. Così si combattono
di MARIO REGGIO

ROMA - Gli psichiatri la chiamano "ansia sociale". Crescono le persone che hanno paura di mostrarsi in pubblico, parlare con gente che non conoscono, guardare i propri interlocutori negli occhi. In Italia, affermano gli psichiatri, la fobìa colpisce l'8 per cento degli adulti ed è sempre più frequente nei bambini. Il dato è stato reso pubblico nel corso del decimo congresso della Società italiana di Psicopatologia che si è aperto a Roma il 22 febbraio e si concluderà domani.
Da cosa nasce questa nuova patologia? Secondo gli esperti, i modelli sociali diffusi hanno provocato una crescita progressiva dell'insoddisfazione personale, una minore capacità di adattamento alle nuove situazioni, una ridotta tolleranza alle frustrazioni. In sostanza siamo sempre meno capaci a sopportare ed affrontare le situazioni dolorose.
Un nuovo fenomeno che colpisce in primo luogo le donne, costrette dai nuovi e più pesanti ruoli sociali a misurarsi con il mondo esterno, che le bombarda giornalmente con messaggi che parlano sempre di successo, bellezza e benessere economico. Tutti elementi indispensabili per essere felici.
Ma la fobìa sociale, sempre più spesso, si manifesta con segnali chiari fin dall'infanzia. Quali sono? Il bambino si rifiuta sistematicamente di stare con gli altri, partecipare alle feste, farsi interrogare a scuola. Cosa dovrebbero fare i genitori? Secondo gli psichiatri la fobìa sociale può essere normalmente curata, ma se viene sottovalutata rischia di portare a gravi forme di depressione e a disturbi psichici con il passare degli anni.
Il nodo del problema, comunque, resta il mutamento del rapporto tra i genitori e i figli. "La famiglia tradizionale non esiste più, oggi siamo in presenza di aggregati familiari - afferma il professor Amato Amati, ordinario di Psichiatria all'università di Catanzaro, e moderatore del seminario sulla "nuova normalità" assieme al professor Massimo Biondi, docente di Psichiatria alla Sapienza - nella vecchia famiglia era normale che i genitori ponessero limiti rigidi entro i quali i figli erano costretti a muoversi. I figli erano portati a distruggerli per superarli e crescere".
"Oggi questo non accade più, siamo alla ricerca di nuovi equilibri fra il rispetto, le trasgressioni e i valori. L'eccessivo buonismo fa male ai bambini. Oggi i modelli di riferimento cambiano con grande velocità, in media ogni 4 o 5 anni, contro i 25 del passato. E questo accresce l'ansia nei ragazzi. Un tempo si viaggiava su comodi binari - conclude - oggi dobbiamo imparare a guidare un fuoristrada".
E con il mutamento della struttura sociale e familiare aumentano i bambini "difficili". Uno su dieci tra quelli in età prescolare che presentano diversi livelli di disturbo nei comportamenti. "Il più delle volte si possono escludere difetti della sfera cognitiva - commenta la psichiatra Sandra Maestro dell'Università di Pisa - o particolari patologie organiche, mentre riscontriamo una forte tendenza a crisi di rabbia, collera e opposizione".

Repubblica 25.2.05
L'intervista al professor Stefano Pallanti,
ordinario di Psichiatria all'Università di Firenze
L'esperto: "Allenarsi alle difficoltà fin da piccoli"
ma. re.

ROMA - "Il prossimo traguardo della psichiatria è stabilire i confini delle "nuove normalità". Ogni situazione, ogni mutamento sociale e storico ha le sue controindicazioni, produce le sue condizioni "estreme". Occorre individuarle e trovare le giuste terapie". Stefano Pallanti, ordinario di Psichiatria all'Università di Firenze è uno degli esperti dell'ansia sociale.
Perché sono le donne le più esposte?
"Ora giocano alla pari anche nei rapporti di forza che caratterizzano la nostra cultura, quindi si sono dovute adeguare anche sul piano della competizione".
Quali sono i sintomi dell'ansia?
"Si può fare un parallelo con il Parkinson. In questo caso il sistema della dopamina ha un rallentamento e produce segnali di rigidità e rallentamento nei movimenti. Anche l'ansia sociale si evidenzia con un tremore inconscio quando si ha intenzione di entrare in relazione con un'altra persona".
Ma i problemi possono evidenziarsi anche nei bambini?
"Oggi un bambino impara due o tre lingue con facilità, sappiamo che fa bene perché aumenta lo spessore della corteccia del linguaggio. Le può imparare anche da adulto, ma non avrà mai la stessa naturalezza. Succede lo stesso per la capacità di creare relazioni con gli altri. Se un bambino non ha seguito un allenamento sentimentale alla comunicazione, una volta adolescente avrà molte difficoltà. Quando sarà fuori dalle protezioni familiari potrà avere risposte poco incoraggianti e sentirsi un essere antisociale".
Cosa è cambiato negli ultimi decenni?
"Fino agli anni 70 un bambino aveva modo di fare esperienze che oggi non sono più concesse. S'incontrava con gli adulti, con i suoi coetanei in strada, aveva un rapporto a tutto campo. Esistevano limiti ben precisi nei ruoli e non gli era chiesto di essere troppo spontaneo. Oggi, saltate le regole, rischia di non sentirsi accettato. Quindi scattano prima l'aggressività e poi la rabbia".

http://www.repubblica.it/2005/b/sezioni/scienza_e_tecnologia/antiansia/prof/prof.html

http://www.repubblica.it/2005/b/sezioni/scienza_e_tecnologia/antiansia/antiansia/antiansia.html

ancora la Sopsi...
bambini difficili

Gazzetta del Sud 25.2.05
Piccoli sempre più “difficili” e incapaci di tollerare le frustrazioni
Psichiatria, un bimbo su dieci ha disturbi
Ferdinando De Francisci

ROMA – I «bambini difficili» sono sempre di più: un piccolo su dieci in età prescolare, vale a dire fino ai cinque anni, presenta infatti disturbi del comportamento di vario grado. Non si tratta di una patologia vera e propria bensì di un segnale, comunque, da non sottovalutare. L'avvertimento a genitori e insegnanti arriva dagli psichiatri riuniti in occasione del decimo congresso della Società italiana di psicopatologia (Sopsi): bambini difficili, affermano, anche perché sempre più rabbiosi e aggressivi. I disturbi del comportamento – ha sottolineato la psichiatra Sandra Maestro dell'Università di Pisa – riguardano il 10-15% dei bambini tra 0 e 5 anni e rappresentano il motivo principale di consultazione dello specialista nel 75-80% dei casi relativi a piccoli in età prescolare. Il più delle volte – ha però precisato l'esperta – si possono escludere difetti della sfera cognitiva o particolari patologie organiche, mentre si riscontra appunto una forte tendenza a crisi di rabbia, collera e opposizione». Una carica di aggressività – ha aggiunto il neuropsichiatra infantile Filippo Muratori – «che rende questi piccoli, come si lamentano molti genitori cercando l'aiuto dello specialista, estremamente difficili da educare». Ma il problema potrebbe essere ben più grave: «Sono proprio i bambini oggi difficili – ha affermato Muratori – quelli con più probabilità domani di sviluppare condotte a rischio, dalla fuga alla microdelinquenza». «Ma da dove nasce la rabbia e l'aggressività dei piccoli? «Può esserci una componente biologica – ha sottolineato Muratori – ma forte è senza dubbio anche il condizionamento sociale». Un fattore di rischio, per esempio, può essere la presenza di madri giovani e sole, senza una figura paterna: «In questo caso infatti – ha detto l'esperto – il bambino si trova a confrontarsi con un modello spesso debole e troppo fragile, che non è in grado di contrapporsi adeguatamente a lui». Ma il vero nodo, secondo lo psichiatra, è che oggi i bambini «sono sempre più intolleranti alle frustrazioni: non accettano i "no", non sopportano di poter sbagliare, ed è proprio il dover fronteggiare la frustrazione che spesso scatena in loro rabbia e violenza». E la responsabilità è anche dei genitori, «incapaci di educare i piccoli al dolore e alla delusione, poiché in vari casi essi stessi incapaci di tollerare tali emozioni». Per queste ragioni, affermano gli esperti, è in crescita l'esercito dei bimbi difficili. Che si contrappone all'altra metà dell'universo dei disturbi comportamentali dei piccoli: quello dei bambini timidi, ansiosi e depressi. Due modelli di comportamento, avvertono gli specialisti, entrambi spia di un malessere spesso profondo. «Incapacità di fare fronte alle frustrazioni, dunque, ma anche mancanza di punti fermi e limiti: «L'eccessivo buonismo fa male ai bambini – ha sottolineato lo psichiatra Amato Amati dell'Università di Catanzaro – ed è invece necessario che i genitori impongano limiti precisi». E dagli psichiatri arriva un consiglio preciso: essere fermi e abituare i bambini alle frustrazioni. Come? A volte semplicemente rimandando la soddisfazione di un desiderio o di una richiesta perché non vinca, concludono gli esperti «la filosofia perversa del tutto e subito che impera nella società moderna».

bambini obesi

Stampa 25 Febbraio 2005
INDAGINE DELLA REGIONE SULLE ABITUDINI DEGLI STUDENTI. ECCESSIVO CONSUMO DI DOLCI, SNACK E MERENDINE
Obesità: a rischio i ragazzi di 10 anni
Nel menù degli adolescenti poca frutta e verdura
Massimo Mathis

«Un bambino in soprappeso o obeso è un futuro adulto ammalato di cuore, circolazione, diabete». Parola di Giorgio Calabrese, esperto nutrizionista e docente all’Università Cattolica di Piacenza. «In Piemonte - dice Calabrese - questo fenomeno non è più frequente delle altre regioni, ma essendo una terra dove c’è una forte tradizione culinaria con il piacere di rispettare ricette tipiche che prevedono quasi esclusivamente cibi locali, determina spesso una situazione di errore nell’introduzione di grassi, specie di tipo saturo (burro, strutto, lardo) e tecniche di cucina dannose, come la frittura».
Come è possibile prevenire i problemi di peso? «Abituando il bambino a colazioni con frutta fresca di stagione e pranzo e cena con un menù che prevede anche verdure stagionali. Il ragazzo deve fare due break al mattino e pomeriggio, con buon latte magari parzialmente scremato, e deve alternare nei pasti carne rossa, bianca, pesce, uova e formaggi. Questa ‘’turnazione’’ è salutista e appagante il palato. Il tutto deve sempre essere accompagnato dal buon piatto di pasta o riso, legumi e cereali che danno energia e buon umore. In questo modo avremo meno adulti ammalati e più ragazzi sani».
Ma qual è la «fotografia» delle abitudini dei giovani piemontesi? Tanta tv e playstation, e poco sport. Sei ragazzi su dieci svolgono attività fisica moderata, solo un paio di giorni a settimana. Il 17% degli undicenni (il 13% dei tredicenni e quindicenni) occupa quotidianamente almeno un’ora in attività che richiedono dispendio di energie. Le ragazze sono mediamente più sedentarie. Il dato emerge da una ricerca di «HBSC- Regione Piemonte» (coordinato con il progetto Internazionale Health Behaviours in School-aged Children), «Pnp» (Progetto Nutrizione Piemonte) e le attività di educazione alla salute promosse dall’Ufficio scolastico regionale, che ha messo sotto la lente le abitudini alimentari di 5 mila studenti di I e III media e II superiore.
Si tratta della versione regionale dello studio patrocinato dall’Organizzazione mondiale della Sanità che si propone di raccogliere informazioni sulla salute e sui comportamenti che la influenzano, tra i ragazzi di 11, 13 e 15 anni. «L'obiettivo - spiega Michela Audenino, del Settore Igiene e Sanità pubblica della Regione - è elaborare e diffondere informazioni utili a orientare interventi di promozione della salute, rivolti a queste fasce d’età». «Dall’indagine - osserva Renata Magliola dell’Asl di Chivasso che ha collaborato alla ricerca - risulta tra gli adolescenti una frequenza dei pasti principali abbastanza regolare (il 90% dei ragazzi consuma il pranzo tutti i giorni e il 93% la cena), con una minore propensione per la prima colazione (61%)». In ribasso il consumo giornaliero di frutta (42%) e verdura (34%), eccessivo il ricorso ai dolci (39%) e alle bevande gassate (20%). Complessivamente, i giovani piemontesi sono ben lontani dalle raccomandazioni internazionali anche in fatto di sport: al di fuori delle attività di educazione fisica scolastica, emerge un quadro di sedentarietà piuttosto diffuso. E fra i bambini e i ragazzi piemontesi è sempre più frequente l’obesità: il 24% sotto i 10 anni è soprappeso, l’11% è obeso.
Nel mirino gli snack e le merendine, che rappresentano lo spuntino ideale della maggioranza degli studenti. «I ragazzi - dice Manuela Miglio, preside dell’Istituto ‘’Bellini’’ di Novara - hanno la brutta abitudine di mangiare, nella ricreazione, pasti preconfezionati ricchi di grassi». «A scuola - spiega Silvano Gardinale, preside dell’Istituto ‘’Lombardi’’ di Vercelli - c’è il bar e spesso gli studenti preferiscono brioche e focacce». «In classe si parla dei problemi legati all’alimentazione - sostiene Loredana Lodolo, preside del ‘’Ferrini’’ di Verbania -, ma l’educazione in questo campo dovrebbe iniziare alla scuola materna».

le diete vegetariane
«fanno male ai bambini»?
o c'è dietro la MacDonald Co.?

Le Scienze 24.02.2005
La diete vegetariane fanno male ai bambini
La carne contiene sostanze nutritive non fornite da altri alimenti

Secondo Lindsay Allen, ricercatrice dell'Agricultural Research Service del Dipartimento dell'Agricoltura degli Stati Uniti (USDA-ARS), i genitori che sottopongono i propri bambini a diete vegetariane strette, impedendo loro di nutrirsi di carne e latticini, compiono un'operazione "immorale" che potrebbe danneggiare il loro sviluppo. I cibi di origine animale possiedono infatti alcune sostanze nutritive che non si trovano altrove.
"Ci sono sufficienti studi - ha dichiarato Allen al convegno dell'American Association for the Advancement of Science di Washington - che mostrano come i figli delle madri che evitano tutti i cibi animali nascono più piccoli, crescono molto lentamente e presentano ritardi nello sviluppo, forse permanenti. Quando si parla di bambini piccoli, di donne incinte o di madri che allattano, rinunciare a questi cibi è addirittura immorale".
La ricercatrice si è dichiarata critica in particolare verso quei genitori che impongono ai figli uno stile di vita cosiddetto "vegano", evitando cioè ogni cibo di origine animale (non solo carne, ma anche uova, latte, formaggio). Una ricerca da lei condotta fra bambini africani in età scolastica suggerisce che anche piccole dosi giornaliere di carne sono sufficienti a fornire sostanze nutritive quali vitamine B12, zinco e ferro.

© 1999 - 2004 Le Scienze S.p.A.

frasi d'Autore

Corriere della Sera 25.2.05
Raccolte in un libro duemila frasi d’autore: da Aristofane agli striscioni dei tifosi. Faulkner: «Twain, scrittore da strapazzo»
«Dante? Una iena tra le tombe». Firmato Nietzsche
Cristina Taglietti

Dante? «Un’iena che scrive poesie tra le tombe». Almeno secondo Nietzsche. E Mark Twain? «Uno scrittore da strapazzo, capace di affascinare solo i superficiali e i pigri». Così lo descrisse Faulkner che ebbe una parola buona anche per Henry James, definito «una delle più simpatiche vecchiette che abbia mai conosciuto». Emilio Salgari, invece, era per Giosuè Carducci «uno scribacchino fanfarone di poca letteratura e di troppi aggettivi», mentre Palmiro Togliatti bollò Giuseppe Prezzolini come una «meretrice vecchia, venduta su tutti i marciapiedi». Quella dell’insulto è un’arte antica, coltivata anche da molti uomini illustri, declinabile in vari modi: può essere sguaiata, beffarda, acida, spesso di cattivo gusto, ma, come diceva Arthur Schopenhauer, maestro della tecnica, «se l’avversario è stato grossolano, lo si deve superare proprio in questo campo». Oggi non è più auspicabile proseguire nell’ escalation che il filosofo riteneva necessaria in caso di mancata soddisfazione verbale («Gli schiaffi sono sanati dalle bastonate, queste dalle sferzate: contro queste ultime raccomando, come rimedio eccellente, lo sputare in faccia. Solo nel caso in cui non si riesca più a giungere in tempo con tali mezzi, si deve ricorrere inevitabilmente a una decisione sanguinaria»), ma l’offesa, scritta o orale, rimane la principale forma di difesa.
Un campionario politicamente scorretto delle ingiurie possibili è l’antologia di Alfredo Accatino, Gli insulti hanno fatto la storia , in libreria lunedì prossimo da Piemme (pagine 351, euro 14,90), un’epopea lunga duemila offese che mescola alto e basso e mette insieme scrittori, compositori, attori, starlette, comici, da Aristofane agli striscioni dei tifosi. Un’antologia ragionata che cataloga gli insulti familiari, le invidie cinematografiche, le stroncature, le offese politiche, le prese in giro, le maldicenze sessuali, i pettegolezzi privati, che tratta l’insulto come un vero e proprio genere letterario, ricco di virtuosismi e sperimentazioni verbali.
Se qualcuno può anche essere d’accordo con Ennio Flaiano secondo il quale «per scrivere un romanzo bisogna essere spinti dalla noia ma per scrivere un romanzo come Via col vento la noia non basta, occorre quella fiduciosa caparbietà che soltanto certe signore posseggono e che, quand’è bene applicata, arricchisce la società di opere pie, concorsi gastronomici e eserciti di salvezza», nella miscellanea rientrano anche giudizi artistici e letterari che in certi casi sembrano vere e proprie cantonate. Non può essere letto diversamente Voltaire che definì l’ Amleto «un dramma volgare e barbaro, che non sarebbe tollerato neanche dal più basso popolino di Francia... l’opera di un selvaggio ubriaco», o il giudizio di Virginia Woolf sul capolavoro di Joyce: «Ho finito l’ Ulisse e credo che abbia fatto cilecca. È un libro prolisso. È torbido. È pretenzioso. È bastardo, non nel senso ovvio, ma nel senso letterario». Fa sorridere, a posteriori, anche il rifiuto opposto da una casa editrice a Rudyard Kipling: «Mi dispiace signor Kipling ma lei proprio non conosce l’uso della lingua inglese...».
L’antologia illumina rivalità professionali (Renoir su Manet: «Non ha proprio talento quel ragazzo. Ditegli, per favore, di smetterla con il dipingere») anche postume (El Greco: «Michelangelo era un brav’uomo ma non sapeva disegnare»; Borges: «Guy de Maupassant? Morì pazzo, ma era nato cretino»). Oscar Wilde, noto per il suo spirito caustico e poco benevolo, così liquidò Wagner: «Mi piace la musica di Wagner più di ogni altra cosa. È così rumorosa che si può parlare per tutto il tempo senza farsi sentire dagli altri». Senza appello anche la stroncatura di Puccini: «Non si può giudicare l’opera di Wagner dopo averla ascoltata una sola volta, e io non ho nessuna intenzione di ascoltarla una seconda». Mentre Vivaldi era, secondo Stravinskij, nient’altro che «un musicista noioso, che ha scritto seicento volte lo stesso concerto», lo stesso Stravinskij era, nel giudizio di Prokofiev, un «Bach con le note sbagliate».
All’insulto, più o meno velato, non si sottrassero nemmeno i sovrani e neppure nei momenti di lutto, se è vero che ai funerali del marito, re Edoardo VII, la regina Alexandra commentò lapidaria: «Ora almeno so dov’è».