Gustav Klimt
Disegni
L'esposizione presenta quarantotto disegni, provenienti dalla collezione Serge Sabarsky, che mostrano aspetti poco noti di Gustav Klimt, artista geniale e riservato.
dal 28/01/2004 al 25/04/2004
Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli al Lingotto - Torino
info: Via Nizza, 230; tel. 011 00 62 008 o tel. 011 00 62 713
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
sabato 7 febbraio 2004
Marco Bellocchio sulla stampa francese
Lospettacolo.it
[News] - 6 febbraio 2004
LA FRANCIA APPLAUDE BELLOCCHIO
L'uscita nei cinema del suo "Buongiorno, notte" è stato salutato in maniera entusiastica
Grande accoglienza dalla critica francese per "Buongiorno, notte", uscito nelle sale il 4 febbraio preceduto da un'intera pagina di "Le Monde".
Raramente un film italiano ha suscitato tanto clamore da parte dei critici francesi, che questa volta colgono anche l'occasione di criticare le polemiche che hanno accompagnato il film in Italia.
Tre pagine su Liberation, due su Le Figaro che dedica un toccante ritratto a Maya Sansa, e ovazione all'unanimità, anche dai giornali minori e settimanali.
Accorati plausi a Marco Bellocchio per aver fatto un'opera estremamente personale, e per aver tentato di dare un volto alla figura stereotipata del terrorista.
[News] - 6 febbraio 2004
LA FRANCIA APPLAUDE BELLOCCHIO
L'uscita nei cinema del suo "Buongiorno, notte" è stato salutato in maniera entusiastica
Grande accoglienza dalla critica francese per "Buongiorno, notte", uscito nelle sale il 4 febbraio preceduto da un'intera pagina di "Le Monde".
Raramente un film italiano ha suscitato tanto clamore da parte dei critici francesi, che questa volta colgono anche l'occasione di criticare le polemiche che hanno accompagnato il film in Italia.
Tre pagine su Liberation, due su Le Figaro che dedica un toccante ritratto a Maya Sansa, e ovazione all'unanimità, anche dai giornali minori e settimanali.
Accorati plausi a Marco Bellocchio per aver fatto un'opera estremamente personale, e per aver tentato di dare un volto alla figura stereotipata del terrorista.
la sentenza del Sant'Uffizio contro Galileo Galilei
Testo trascritto da Angela Cerinotti
ricevuto da Emiliano Eusepi
estratto dal sito "Minerva" dell'Università di Torino
http://www.minerva.unito.it
Roma, 22 giugno 1633
Noi:
Gasparo Borgia; Felice Centini, detto cardinal d'Ascoli; Guido Bentivoglio; Desiderio Scaglia, detto di Cremona; Antonio Barberini, detto di S. Onofrio; Laudivio Zacchia, detto di S. Sisto; Berlinghiero Gessi; Fabrizio Verospi; Francesco Barberini e Marzio Ginetti;
Cardinali di Santa Romana Chiesa per la misericordia di Dio, Inquisitori generali specificamente deputati dalla Santa Sede Apostolica contro il veleno dell'eresia in tutta la Repubblica Cristiana;
poiché tu, Galileo, fu Vincenzo Galilei, fiorentino, dell'età di settant'anni, fosti nel 1615 denunziato presso questo Sant'Uffizio come colui che riteneva vera la falsa dottrina, insegnata da alcuni, secondo la quale il Sole è al centro del mondo e immobile e la Terra compie anche un moto diurno; avevi discepoli ai quali insegnavi la stessa dottrina; tenevi sulla stessa corrispondenza con alcuni matematici di Germania; avevi dato alle stampe alcune lettere intitolate Delle macchie solari, in cui esponevi tale dottrina come vera; rispondevi alle obiezioni che ti venivano talvolta mosse producendo passi della Sacra Scrittura interpretati a modo tuo; sei stato estensore di una lettera, successivamente presentataci, che si diceva essere stata inviata da te a uno che era stato tuo discepolo, in cui, essendovi sottoscritta la teoria di Copernico, sono contenute varie posizioni contrarie al vero significato e all'autorità della Sacra Scrittura; volendo perciò questo Sacro Tribunale rimediare al disordine e al danno che ne derivavano e andavano accrescendosi con pregiudizio della Santa Fede, per ordine di Nostro Signore e degli Eminentissimi e Reverendissimi Signori Cardinali di questa Suprema Inquisizione, furono valutate dai Teologi specificatamente deputati a farlo le enunciazioni relative alla stabilità del Sole e al moto della Terra in questi termini:
che il Sole sia centro del mondo e non si muova dalla sua sede è una proposizione falsa e assurda da un punto di vista filosofico ed eretica, perché espressamente contraria alla Sacra Scrittura;
che la Terra non sia centro del mondo ne immobile, ma che sia dotata anche di un moto diurno è proposizione parimenti assurda e falsa in filosofia e considerata in teologia quanto meno erronea nella Fede.
Volendosi tuttavia allora mostrare benevolenza nei tuoi confronti, fu decretato nella Sacra Congregazione tenutasi il 25 febbraio 1616 che l'Eminentissimo Cardinale Bellarmino ti ordinasse di abbandonare del tutto la suddetta falsa dottrina, di non insegnarla ad alcuno ne difenderla o parlarne, e che, se tu non ti fossi adeguato a questi precetti, dovessi essere incarcerato. In esecuzione dello stesso decreto, il giorno successivo, nel palazzo e alla presenza del suddetto Cardinale Bellarmino, dopo essere stato da Lui benignamente avvisato e ammonito, ti fu ufficialmente comunicato dal Commissario del Sant'Uffizio di quel tempo, alla presenza di un notaio e di testimoni, che dovevi del tutto abbandonare la suddetta falsa teoria e che per l'avvenire non avresti dovuto crederla, ne difenderla, ne insegnarla in qualunque modo, ne a voce ne per iscritto e, avendo tu promesso di ubbidire, fosti congedato.
E affinchè si togliesse di mezzo definitivamente una dottrina così pericolosa e non continuasse a serpeggiare con grave rischio per la verità cattolica, venne emesso un decreto della Sacra Congregazione dell'Indice con cui furono proibiti i libri che trattano tale dottrina e venne dichiarata falsa e contraria alla Sacra e divina Scrittura.
Ma essendo ultimamente qui pervenuto un libro, stampato a Firenze l'anno scorso, la cui intestazione rivelava che tu ne eri l'autore, recitando il titolo Dialogo di Galileo Galilei delli due Massimi Sistemi del mondo, Tolemaico e Copernicano; essendo altresì stata informata la Sacra Congregazione che con la stampa di codesto libro prendeva ogni giorno più piede e andava sempre più diffondendosi la falsa teoria del moto della Terra e della stabilità del Sole, il suddetto libro venne diligentemente analizzato e fu verificata in esso un'esplicita trasgressione all'ordine che ti era stato impartito, poiché in esso tu prendevi le difese della teoria già condannata e come tale a te direttamente dichiarata, benché nel libro tu ti ingegnassi con espedienti capziosi a far credere che la lasci sussistere come ipotesi ancora da provare, il che è comunque un errore gravissimo, non potendo essere in nessun modo probabile un'opinione già dichiarata e definita in contrasto con la Sacra Scrittura.
Perciò su nostro ordine fosti convocato da questo Sant'Uffizio, in cui, dopo averlo esaminato, riconoscesti come composto e dato alle stampe da te il suddetto libro. Confessasti che, dieci o dodici anni fa, dopo essere stato precettato come sopra si è detto, ti accingesti alla sua stesura; che chiedesti l'autorizzazione a stamparlo, senza tuttavia far presente a coloro che te la concessero che avevi ricevuto il precetto di non credere, ne difendere, ne insegnare in qualunque modo tale dottrina.
Confessasti parimenti che l'esposizione del libro in più punti è in forma tale che il lettore potrebbe ritenere gli argomenti addotti a sostegno della falsa teoria vengano presentati in modo così efficace da farli piuttosto assumere come stringenti che accantonare, scusandoti letteralmente di essere incorso in un errore tanto lontano dalla tua intenzione, per aver scritto in forma di dialogo e per la naturale inclinazione a compiacersi delle proprie sottigliezze e del mostrarsi più arguto del comune nel trovare, anche per proposizioni false, ingegnosi e all'apparenza non improbabili argomenti a sostegno.
Ed essendoti stato assegnato un termine utile a predisporre la tua difesa, presentasti un documento autografo dell'Eminentissimo Cardinale Bellarmino, da te richiesto, come dicesti, per difenderti dalle calunnie dei tuoi nemici, che ti accusavano di aver abiurato e di essere stato punito dal Santo Uffizio, in cui si dice che non avevi abiurato e nemmeno che ti era stata comminata una pena dal Sant'Uffizio, ma che ti era semplicemente stata resa nota la dichiarazione fatta da Nostro Signore e pubblicata dalla Sacra Congregazione dell'Indice in cui si dice che la dottrina del moto della Terra e della stabilità del Sole è contraria alle Sacre Scritture e perciò non si può né difendere né abbracciare. Perciò, non facendo menzione il documento di altri due commi del precetto a te impartito, vale a dire insegnare e in qualunque modo, si deve credere che nel corso di 14 o 16 anni tè ne eri dimenticato e che per questa ragione avevi taciuto sul precetto ricevuto quando chiedesti l'autorizzazione a stampare il libro. Aggiungevi che il tutto non mirava a scusare l'errore, ma a farlo giudicare frutto non di cattiva intenzione, ma di vana ambizione. Ma questo documento, da te spontaneamente prodotto per difenderti, ha ulteriormente aggravato la tua posizione perché, dicendosi in esso che la suddetta teoria è contraria alla Sacra Scrittura, hai comunque avuto l'ardire di parlarne, di difenderla e di cercare di convincere circa la sua probabilità; ne valgono i pretesti da te artificiosamente e furbescamente addotti onde scusare la licenza che ti sei presa per non aver notificato il precetto ricevuto.
Sembrando a noi che tu non avessi detto tutta la verità sulla tua intenzione, abbiamo ritenuto necessario sottoporti a un rigoroso esame nel quale, senza però pregiudizio di quanto hai confessato e di quanto è emerso contro di te nella valutazione dell'intenzione, come sopra è stato detto, rispondesti cattolicamente.
Pertanto, visti e attentamente valutati gli elementi a tuo carico in questo processo, comprese le tue ammissioni e le tue giustificazioni, nonché tutto ciò che si doveva prendere in considerazione e valutare, siamo giunti contro di te a un verdetto definitivo, qui di seguito riportato.
Invocato dunque il nome di Nostro Signore Gesù Cristo e della sua gloriosissima Madre sempre Vergine Maria; per questa nostra sentenza definitiva in una seduta con funzione di tribunale, su consiglio e parere dei Maestri di Sacra Teologia e Dottori della legge sacra e di quella umana, nostri esperti, proferiamo in questo scritto nella causa e cause condotte prima di noi tra Marco Carlo Sinceri, Dottore dell'una e dell'altra legge, Procuratore fiscale di questo Sant'Uffizio da una parte e te soprannominato Galileo Galilei, reo qui presente, inquisito, processato e confesso come sopra si è detto dall'altra:
diciamo, pronunciamo, sentenziamo e dichiariamo
che tu, nominato Galileo, per le ragioni emerse nel processo e da te come sopra confessate, ti sei attirato il sospetto da parte di questo Santo Uffizio di essere veramente eretico, cioè di avere mantenuta e creduta vera una dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, vale a dire che il Sole è centro per la Terra e non si muove da oriente a occidente, mentre al contrario la Terra si muove e non è centro del mondo, e di aver ritenuto possibile mantenere e difendere come probabile una teoria dopo che questa è stata dichiarata e definita contraria alla Sacra Scrittura; e che di conseguenza sei incorso in tutti i provvedimenti e nelle pene previste dalla legge sacra e dalle altre disposizioni generali e particolari assunte e promulgate contro simili colpevoli. Da esse ricaviamo che tu possa essere assolto purché prima, con cuore sincero e autentica fede, in nostra presenza tu abiuri, maledica e respinga i suddetti errori ed eresie, e qualunque altro errore o eresia contraria alla Chiesa Cattolica e Apostolica, nel modo e nella forma che ti saranno da noi prescritti.
E affinché questo tuo grave e dannoso errore e la trasgressione di cui ti sei reso colpevole non restino del tutto impuniti, e tu possa essere più cauto per l'avvenire e di esempio agli altri, onde si astengano da simili colpe, ordiniamo che con pubblico editto sia proibito il libro dei Dialoghi di Galileo Galilei.
Ti condanniamo al carcere formale in questo Sant'Uffizio a nostro arbitrio; e come penitenza per la salute della tua anima ti imponiamo di recitare per i prossimi tre anni una volta la settimana i sette Salmi penitenziali, riservandoci la facoltà di moderare, cambiare, togliere del tutto o in parte le pene e penitenze suddette.
Così diciamo, pronunciamo, sentenziamo, dichiariamo, ordiniamo e ci riserviamo di agire in ogni altro modo e forma migliore, avendone la possibilità e il dovere.
Così ci pronunciamo noi sottoscritti Cardinali:
F. Cardinale d'Ascoli, G. Cardinale Bentìvoglio, Fr. D. Cardinale di Cremona, Fr. A. Cardinale di S. Onofrio, B. Cardinale Gessi, F. Cardinale Verospi, M. Cardinale Ginetti
estratto dal sito "Minerva" dell'Università di Torino
http://www.minerva.unito.it
Roma, 22 giugno 1633
Noi:
Gasparo Borgia; Felice Centini, detto cardinal d'Ascoli; Guido Bentivoglio; Desiderio Scaglia, detto di Cremona; Antonio Barberini, detto di S. Onofrio; Laudivio Zacchia, detto di S. Sisto; Berlinghiero Gessi; Fabrizio Verospi; Francesco Barberini e Marzio Ginetti;
Cardinali di Santa Romana Chiesa per la misericordia di Dio, Inquisitori generali specificamente deputati dalla Santa Sede Apostolica contro il veleno dell'eresia in tutta la Repubblica Cristiana;
poiché tu, Galileo, fu Vincenzo Galilei, fiorentino, dell'età di settant'anni, fosti nel 1615 denunziato presso questo Sant'Uffizio come colui che riteneva vera la falsa dottrina, insegnata da alcuni, secondo la quale il Sole è al centro del mondo e immobile e la Terra compie anche un moto diurno; avevi discepoli ai quali insegnavi la stessa dottrina; tenevi sulla stessa corrispondenza con alcuni matematici di Germania; avevi dato alle stampe alcune lettere intitolate Delle macchie solari, in cui esponevi tale dottrina come vera; rispondevi alle obiezioni che ti venivano talvolta mosse producendo passi della Sacra Scrittura interpretati a modo tuo; sei stato estensore di una lettera, successivamente presentataci, che si diceva essere stata inviata da te a uno che era stato tuo discepolo, in cui, essendovi sottoscritta la teoria di Copernico, sono contenute varie posizioni contrarie al vero significato e all'autorità della Sacra Scrittura; volendo perciò questo Sacro Tribunale rimediare al disordine e al danno che ne derivavano e andavano accrescendosi con pregiudizio della Santa Fede, per ordine di Nostro Signore e degli Eminentissimi e Reverendissimi Signori Cardinali di questa Suprema Inquisizione, furono valutate dai Teologi specificatamente deputati a farlo le enunciazioni relative alla stabilità del Sole e al moto della Terra in questi termini:
che il Sole sia centro del mondo e non si muova dalla sua sede è una proposizione falsa e assurda da un punto di vista filosofico ed eretica, perché espressamente contraria alla Sacra Scrittura;
che la Terra non sia centro del mondo ne immobile, ma che sia dotata anche di un moto diurno è proposizione parimenti assurda e falsa in filosofia e considerata in teologia quanto meno erronea nella Fede.
Volendosi tuttavia allora mostrare benevolenza nei tuoi confronti, fu decretato nella Sacra Congregazione tenutasi il 25 febbraio 1616 che l'Eminentissimo Cardinale Bellarmino ti ordinasse di abbandonare del tutto la suddetta falsa dottrina, di non insegnarla ad alcuno ne difenderla o parlarne, e che, se tu non ti fossi adeguato a questi precetti, dovessi essere incarcerato. In esecuzione dello stesso decreto, il giorno successivo, nel palazzo e alla presenza del suddetto Cardinale Bellarmino, dopo essere stato da Lui benignamente avvisato e ammonito, ti fu ufficialmente comunicato dal Commissario del Sant'Uffizio di quel tempo, alla presenza di un notaio e di testimoni, che dovevi del tutto abbandonare la suddetta falsa teoria e che per l'avvenire non avresti dovuto crederla, ne difenderla, ne insegnarla in qualunque modo, ne a voce ne per iscritto e, avendo tu promesso di ubbidire, fosti congedato.
E affinchè si togliesse di mezzo definitivamente una dottrina così pericolosa e non continuasse a serpeggiare con grave rischio per la verità cattolica, venne emesso un decreto della Sacra Congregazione dell'Indice con cui furono proibiti i libri che trattano tale dottrina e venne dichiarata falsa e contraria alla Sacra e divina Scrittura.
Ma essendo ultimamente qui pervenuto un libro, stampato a Firenze l'anno scorso, la cui intestazione rivelava che tu ne eri l'autore, recitando il titolo Dialogo di Galileo Galilei delli due Massimi Sistemi del mondo, Tolemaico e Copernicano; essendo altresì stata informata la Sacra Congregazione che con la stampa di codesto libro prendeva ogni giorno più piede e andava sempre più diffondendosi la falsa teoria del moto della Terra e della stabilità del Sole, il suddetto libro venne diligentemente analizzato e fu verificata in esso un'esplicita trasgressione all'ordine che ti era stato impartito, poiché in esso tu prendevi le difese della teoria già condannata e come tale a te direttamente dichiarata, benché nel libro tu ti ingegnassi con espedienti capziosi a far credere che la lasci sussistere come ipotesi ancora da provare, il che è comunque un errore gravissimo, non potendo essere in nessun modo probabile un'opinione già dichiarata e definita in contrasto con la Sacra Scrittura.
Perciò su nostro ordine fosti convocato da questo Sant'Uffizio, in cui, dopo averlo esaminato, riconoscesti come composto e dato alle stampe da te il suddetto libro. Confessasti che, dieci o dodici anni fa, dopo essere stato precettato come sopra si è detto, ti accingesti alla sua stesura; che chiedesti l'autorizzazione a stamparlo, senza tuttavia far presente a coloro che te la concessero che avevi ricevuto il precetto di non credere, ne difendere, ne insegnare in qualunque modo tale dottrina.
Confessasti parimenti che l'esposizione del libro in più punti è in forma tale che il lettore potrebbe ritenere gli argomenti addotti a sostegno della falsa teoria vengano presentati in modo così efficace da farli piuttosto assumere come stringenti che accantonare, scusandoti letteralmente di essere incorso in un errore tanto lontano dalla tua intenzione, per aver scritto in forma di dialogo e per la naturale inclinazione a compiacersi delle proprie sottigliezze e del mostrarsi più arguto del comune nel trovare, anche per proposizioni false, ingegnosi e all'apparenza non improbabili argomenti a sostegno.
Ed essendoti stato assegnato un termine utile a predisporre la tua difesa, presentasti un documento autografo dell'Eminentissimo Cardinale Bellarmino, da te richiesto, come dicesti, per difenderti dalle calunnie dei tuoi nemici, che ti accusavano di aver abiurato e di essere stato punito dal Santo Uffizio, in cui si dice che non avevi abiurato e nemmeno che ti era stata comminata una pena dal Sant'Uffizio, ma che ti era semplicemente stata resa nota la dichiarazione fatta da Nostro Signore e pubblicata dalla Sacra Congregazione dell'Indice in cui si dice che la dottrina del moto della Terra e della stabilità del Sole è contraria alle Sacre Scritture e perciò non si può né difendere né abbracciare. Perciò, non facendo menzione il documento di altri due commi del precetto a te impartito, vale a dire insegnare e in qualunque modo, si deve credere che nel corso di 14 o 16 anni tè ne eri dimenticato e che per questa ragione avevi taciuto sul precetto ricevuto quando chiedesti l'autorizzazione a stampare il libro. Aggiungevi che il tutto non mirava a scusare l'errore, ma a farlo giudicare frutto non di cattiva intenzione, ma di vana ambizione. Ma questo documento, da te spontaneamente prodotto per difenderti, ha ulteriormente aggravato la tua posizione perché, dicendosi in esso che la suddetta teoria è contraria alla Sacra Scrittura, hai comunque avuto l'ardire di parlarne, di difenderla e di cercare di convincere circa la sua probabilità; ne valgono i pretesti da te artificiosamente e furbescamente addotti onde scusare la licenza che ti sei presa per non aver notificato il precetto ricevuto.
Sembrando a noi che tu non avessi detto tutta la verità sulla tua intenzione, abbiamo ritenuto necessario sottoporti a un rigoroso esame nel quale, senza però pregiudizio di quanto hai confessato e di quanto è emerso contro di te nella valutazione dell'intenzione, come sopra è stato detto, rispondesti cattolicamente.
Pertanto, visti e attentamente valutati gli elementi a tuo carico in questo processo, comprese le tue ammissioni e le tue giustificazioni, nonché tutto ciò che si doveva prendere in considerazione e valutare, siamo giunti contro di te a un verdetto definitivo, qui di seguito riportato.
Invocato dunque il nome di Nostro Signore Gesù Cristo e della sua gloriosissima Madre sempre Vergine Maria; per questa nostra sentenza definitiva in una seduta con funzione di tribunale, su consiglio e parere dei Maestri di Sacra Teologia e Dottori della legge sacra e di quella umana, nostri esperti, proferiamo in questo scritto nella causa e cause condotte prima di noi tra Marco Carlo Sinceri, Dottore dell'una e dell'altra legge, Procuratore fiscale di questo Sant'Uffizio da una parte e te soprannominato Galileo Galilei, reo qui presente, inquisito, processato e confesso come sopra si è detto dall'altra:
diciamo, pronunciamo, sentenziamo e dichiariamo
che tu, nominato Galileo, per le ragioni emerse nel processo e da te come sopra confessate, ti sei attirato il sospetto da parte di questo Santo Uffizio di essere veramente eretico, cioè di avere mantenuta e creduta vera una dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, vale a dire che il Sole è centro per la Terra e non si muove da oriente a occidente, mentre al contrario la Terra si muove e non è centro del mondo, e di aver ritenuto possibile mantenere e difendere come probabile una teoria dopo che questa è stata dichiarata e definita contraria alla Sacra Scrittura; e che di conseguenza sei incorso in tutti i provvedimenti e nelle pene previste dalla legge sacra e dalle altre disposizioni generali e particolari assunte e promulgate contro simili colpevoli. Da esse ricaviamo che tu possa essere assolto purché prima, con cuore sincero e autentica fede, in nostra presenza tu abiuri, maledica e respinga i suddetti errori ed eresie, e qualunque altro errore o eresia contraria alla Chiesa Cattolica e Apostolica, nel modo e nella forma che ti saranno da noi prescritti.
E affinché questo tuo grave e dannoso errore e la trasgressione di cui ti sei reso colpevole non restino del tutto impuniti, e tu possa essere più cauto per l'avvenire e di esempio agli altri, onde si astengano da simili colpe, ordiniamo che con pubblico editto sia proibito il libro dei Dialoghi di Galileo Galilei.
Ti condanniamo al carcere formale in questo Sant'Uffizio a nostro arbitrio; e come penitenza per la salute della tua anima ti imponiamo di recitare per i prossimi tre anni una volta la settimana i sette Salmi penitenziali, riservandoci la facoltà di moderare, cambiare, togliere del tutto o in parte le pene e penitenze suddette.
Così diciamo, pronunciamo, sentenziamo, dichiariamo, ordiniamo e ci riserviamo di agire in ogni altro modo e forma migliore, avendone la possibilità e il dovere.
Così ci pronunciamo noi sottoscritti Cardinali:
F. Cardinale d'Ascoli, G. Cardinale Bentìvoglio, Fr. D. Cardinale di Cremona, Fr. A. Cardinale di S. Onofrio, B. Cardinale Gessi, F. Cardinale Verospi, M. Cardinale Ginetti
Cina: il renminbi contro il dollaro
Il Riformista 7 Febbraio 2004
G7. A BOCA RATON I GRANDI CERCANO ARCANI RIMEDI
La vera guerra delle monete è tra il dollaro e il renminbi
Mentre i ministri finanziari del G7 (Usa, Canada, Giapone, Germania, Francia, Italia e Gran Bretagna) atterrano a Boca Raton, in Florida, l'euro riparte lancia in resta contro il dollaro e sfonda quota 1,27.
[...]
La nuova guerra delle monete sarà senza dubbio il tema vero del G7, [...] Ma [...] i veri campioni di questa disfida non sono l'euro e il dollaro, quanto piuttosto il renminbi e il dollaro, come spiega Francesco Giavazzi, docente alla Bocconi, ai microfoni di Radiotremondo. «Il problema di fondo - dice - è che gli Stati Uniti spendono troppo e la Cina consuma troppo poco. Il rapporto di cambio è la febbre, ma l'origine della malattia è nel riaggiustamento macroeconomico in corso». La sorte dell'euro, dunque, è una variabile dipendente. «Se la Cina cominciasse a consumare, cambierebbero gli equilibri mondiali, ma cambierebbe anche la struttura politica cinese perché si fomerebbe una classe media che spinge per regole di mercato e per una maggiore democrazia». Gli andamenti delle monete sono sono mai spiegabili solo con la tecnica, come scriveva Marc Bloch. Per sua natura, la moneta è lo specchio dell'economia, della società, di grandi trasformazioni storiche. E oggi viviamo nel bel mezzo di uno si questi grandi mutamenti, insistono sia Giavazzi sia Brunetta. I governi possono accompagnarli, possono rendere meno brusca la transizione, ma nessuno, nemmeno quello della prima potenza mondiale, è in grado di opporsi. E possiamo stare sicuri che le conclusioni del G7 non smentiranno questa regola aurea.
[...]
G7. A BOCA RATON I GRANDI CERCANO ARCANI RIMEDI
La vera guerra delle monete è tra il dollaro e il renminbi
Mentre i ministri finanziari del G7 (Usa, Canada, Giapone, Germania, Francia, Italia e Gran Bretagna) atterrano a Boca Raton, in Florida, l'euro riparte lancia in resta contro il dollaro e sfonda quota 1,27.
[...]
La nuova guerra delle monete sarà senza dubbio il tema vero del G7, [...] Ma [...] i veri campioni di questa disfida non sono l'euro e il dollaro, quanto piuttosto il renminbi e il dollaro, come spiega Francesco Giavazzi, docente alla Bocconi, ai microfoni di Radiotremondo. «Il problema di fondo - dice - è che gli Stati Uniti spendono troppo e la Cina consuma troppo poco. Il rapporto di cambio è la febbre, ma l'origine della malattia è nel riaggiustamento macroeconomico in corso». La sorte dell'euro, dunque, è una variabile dipendente. «Se la Cina cominciasse a consumare, cambierebbero gli equilibri mondiali, ma cambierebbe anche la struttura politica cinese perché si fomerebbe una classe media che spinge per regole di mercato e per una maggiore democrazia». Gli andamenti delle monete sono sono mai spiegabili solo con la tecnica, come scriveva Marc Bloch. Per sua natura, la moneta è lo specchio dell'economia, della società, di grandi trasformazioni storiche. E oggi viviamo nel bel mezzo di uno si questi grandi mutamenti, insistono sia Giavazzi sia Brunetta. I governi possono accompagnarli, possono rendere meno brusca la transizione, ma nessuno, nemmeno quello della prima potenza mondiale, è in grado di opporsi. E possiamo stare sicuri che le conclusioni del G7 non smentiranno questa regola aurea.
[...]
Giappone
(una mostra a Milano)
una segnalazione di Filippo Trojano
Ukiyoe - Il mondo fluttuante
La mostra ripercorre in sei diverse sezioni tematiche (Teatro, Tradizione, Natura, Paesaggio, Vita di città, Beltà femminili) le immagini e le rappresentazioni del mondo fluttuante, 'ukiyo'. Più di cinquecento opere, suddivise tra dipinti, libri illustrati, stampe provenienti dalle principali collezioni pubbliche europee e mondiali, illustrano la trasformazione, tra il XVII e la metà del XIX secolo, della società e della cultura giapponese che si formò intorno alla città di Edo, divenuta poi Tokyo www.ukiyoe.it
dal 07/02/2004 al 30/05/2004
al Palazzo Reale Milano
Piazza Duomo, 12
ufficio stampa: Flavia Fossa Margutti
cell. +39 348 7400788 email: flavia.fossamargutti@tiscali.it
Il Messaggero Sabato 7 Febbraio 2004
Giappone, l’onda dei piaceri
di GIUSEPPINA ROCCA
LASCIARSI trasportare dalla voluttà, dalle sensazioni, percepire gli odori, i sapori, i colori, la natura. O piuttosto, come scrisse Asai Ryoi nel suo Ukiyo monogatari: «Fluttuare lungo la corrente di un fiume come un secco guscio di zucca». Leggermente, con sensualità, nella speranza di superare le malinconie e i dolori da cui siamo afflitti.
C’è un doppio paravento a otto ante all’entrata di Palazzo Reale di Milano dove oggi si apre una imponente mostra sull’arte del Giappone tra il Sei e la prima metà dell’Ottocento. E’ un’opera celebre che illustra nei particolari il mondo segreto dei piaceri che legavano l’uomo di Edo, la moderna Tokyo, alla città della notte e alle sue mille attrazioni: dalle case di piacere al teatro ai bagni pubblici, alle danze e alle cortigiane, vere protagoniste di quei secoli. Una società nuova, effimera, che segna il trapasso dalla compostezza aristocratica di spada samuraica alla licenziosità delle donne di piacere e a quella stagione che vede il trionfo in scena del Kabuki e dei suoi attori.
Intitolata “Ukiyoe. Il mondo fluttuante”, l’esposizione è la più completa rassegna allestita fuori dai confini del Giappone, anche grazie al suo curatore Gian Carlo Calza, docente di Storia dell’arte dell’Asia Orientale alla Ca’ Foscari. Divisa in sei sezioni (teatro, tradizione, natura, paesaggio, vita di città, beltà femminile), raccoglie quasi cinquecento opere tra dipinti, incisioni, libri illustrati, cartelloni teatrali, provenienti esclusivamente da musei pubblici, venti (proprio per fugare ogni dubbio sull’autenticità), con alcuni pezzi inediti. E’ in gran parte un materiale fragile e sensibile alle variazioni microclimatiche che dovrà essere sostituito nel corso della mostra, il 4 di aprile, con altri pezzi di uguale valore. Ci sono i paesaggi di Hutagawa Hiroshige, il bellissimo Acquazzone improvviso su Ohashi arrivato dal Guimet di Parigi, cuore delle raccolte asiatiche. E ci sono naturalmente i lavori di Katsushika Hokusai, Peonia semplice e canarino, ma soprattutto La (grande) onda presso la costa di Kanagawa che non ci si stanca mai di ammirare. Come spiega Calza oggi in Occidente quell’onda è stata saccheggiata, è diventata un’icona dell’immaginario collettivo. Non c’è infatti quotidiano o periodico che non la pubblichi per rappresentare qualsiasi evento, perfino il crollo di Borsa. Sono proprio le stampe dell’Ukiyoe, dei valori effimeri, che colpirono dopo la metà dell’Ottocento i nostri artisti - a cominciare da Manet, Monet, Degas e perfino Van Gogh - di cui sono rimasti segni tangibili, soprattutto nell’Art Nouveau e a piene mani nella grafica, dando luogo a una nipponizzazione strisciante. Eppure, il Giappone con i suoi simboli così lontani dall’Occidente, rimane una enorme montagna da scalare, come le famose Vedute del Fuji, sempre del maestro Hokusai e di cui si può ammirare la celebre Giornata limpida col vento del sud del 1830-32. Continua Calza: «E’ impossibile risalire alle radici di questa influenza, ma credo che si debba soprattutto alla filosofia zen se abbiamo cambiato la nostra visione delle cose. In questo senso, esempi celebri sono Jack Kerouac e John Cage, nelle sue vesti non di musicista ma di pittore. E se non proprio dallo zen è comunque una cultura sviluppatasi intorno alla cerimonia del tè. E’ lì che l’amore per un fiore singolo ha preso il posto in Occidente della dozzina di rose rosse».
Con questa mostra, invece, il Giappone è più vicino. Se ne riescono a cogliere le pecularietà, aiutati dal percorso tematico allestito cronologicamente. E’ così che nella prima sezione si scoprono i riti del kabuki e degli attori la cui bravura si misurava nella capacità di coinvolgere il pubblico e di tenerlo agganciato fuori dalle scene. La trama si basava su testi antichi, rielaborata secondo le esigenze di un racconto moderno. «La classicità in ogni campo in Giappone non è mai stata abbandonata», spiega Calza che ci accompagna in questo giro della mostra. «Antico e moderno sono due strade parallele. Ad esempio, oggi esiste un movimento per la rinascita della cultura del tè. E quindi si trovano grandi architetti o grafici che si dedicano alla sua reinterpretazione architettonica, grafica ed estetica».
Ricchi costumi, acconciature elaborate, volti dipinti, scene di grande effetto, drammaticità, storie di scuole-famiglie i cui attori trasmettevano per ereditarietà il nome. Il più famoso artista teatrale, Sharaku, è passato alla leggenda, per le 150 stampe create in meno di un anno, da maggio del 1794 al principio del 1795 prodotte dal più conosciuto editore dell’epoca: Tsutaya. La riproducibilità rimane una caratteristica di tutte le stampe giapponesi, grazie a una tecnica particolare che ne protegge la qualità.
L’ultima sezione invece è dedicata alle donne, alle cortigiane, simbolo supremo del piacere, e alle giovani che incarnavano l’ideale di bellezza dell’epoca. Donne fortemente sensuali, monumentali, flessuose, incantate, quasi inconsistenti, secondo il periodo storico a cui si riferiscono. Fino a riacquistare una presenza materiale e fisica che si evidenzia con la scoperta del corpo. Mai però messo a nudo. Non ci sono Veneri paragonabili alle nostre. Un particolare che emerge chiaramente dalle opere dell’artista sovrano della beltà femminile, Utamaro, la cui vita è legata indissolubilmente ai quartieri di piacere. Alcune volte con l’impiego limitato dei colori, altre con una notevole ricchezza cromatica e uso di effetti speciali riesce ad assumere la leadership di quest’arte rivolta al mondo femminile di cui il suo Canto del guanciale è la massima espressione. Modelle preferite erano le camerierine dei locali di Edo, giovani dal volto espressivo, come oggi se ne possono trovare a Tokyo, nei quartieri popolari. E le geishe? Una delusione, non ci sono: nell’epoca dell’Ukijoe erano solo una modesta appendice delle cortigiane. La loro influenza si andò affermando dopo. «Ce ne sono alcune a Kyoto, ma nel complesso sono in via di estinzione, sostituite da figure meno appariscenti», conclude Calza. «Seguono il concetto della tradizione che si rinnova continuamente, anche loro sono in via di trasformazione. La stanno reinventando in termini moderni».
Ukiyoe - Il mondo fluttuante
La mostra ripercorre in sei diverse sezioni tematiche (Teatro, Tradizione, Natura, Paesaggio, Vita di città, Beltà femminili) le immagini e le rappresentazioni del mondo fluttuante, 'ukiyo'. Più di cinquecento opere, suddivise tra dipinti, libri illustrati, stampe provenienti dalle principali collezioni pubbliche europee e mondiali, illustrano la trasformazione, tra il XVII e la metà del XIX secolo, della società e della cultura giapponese che si formò intorno alla città di Edo, divenuta poi Tokyo www.ukiyoe.it
dal 07/02/2004 al 30/05/2004
al Palazzo Reale Milano
Piazza Duomo, 12
ufficio stampa: Flavia Fossa Margutti
cell. +39 348 7400788 email: flavia.fossamargutti@tiscali.it
Il Messaggero Sabato 7 Febbraio 2004
Giappone, l’onda dei piaceri
di GIUSEPPINA ROCCA
LASCIARSI trasportare dalla voluttà, dalle sensazioni, percepire gli odori, i sapori, i colori, la natura. O piuttosto, come scrisse Asai Ryoi nel suo Ukiyo monogatari: «Fluttuare lungo la corrente di un fiume come un secco guscio di zucca». Leggermente, con sensualità, nella speranza di superare le malinconie e i dolori da cui siamo afflitti.
C’è un doppio paravento a otto ante all’entrata di Palazzo Reale di Milano dove oggi si apre una imponente mostra sull’arte del Giappone tra il Sei e la prima metà dell’Ottocento. E’ un’opera celebre che illustra nei particolari il mondo segreto dei piaceri che legavano l’uomo di Edo, la moderna Tokyo, alla città della notte e alle sue mille attrazioni: dalle case di piacere al teatro ai bagni pubblici, alle danze e alle cortigiane, vere protagoniste di quei secoli. Una società nuova, effimera, che segna il trapasso dalla compostezza aristocratica di spada samuraica alla licenziosità delle donne di piacere e a quella stagione che vede il trionfo in scena del Kabuki e dei suoi attori.
Intitolata “Ukiyoe. Il mondo fluttuante”, l’esposizione è la più completa rassegna allestita fuori dai confini del Giappone, anche grazie al suo curatore Gian Carlo Calza, docente di Storia dell’arte dell’Asia Orientale alla Ca’ Foscari. Divisa in sei sezioni (teatro, tradizione, natura, paesaggio, vita di città, beltà femminile), raccoglie quasi cinquecento opere tra dipinti, incisioni, libri illustrati, cartelloni teatrali, provenienti esclusivamente da musei pubblici, venti (proprio per fugare ogni dubbio sull’autenticità), con alcuni pezzi inediti. E’ in gran parte un materiale fragile e sensibile alle variazioni microclimatiche che dovrà essere sostituito nel corso della mostra, il 4 di aprile, con altri pezzi di uguale valore. Ci sono i paesaggi di Hutagawa Hiroshige, il bellissimo Acquazzone improvviso su Ohashi arrivato dal Guimet di Parigi, cuore delle raccolte asiatiche. E ci sono naturalmente i lavori di Katsushika Hokusai, Peonia semplice e canarino, ma soprattutto La (grande) onda presso la costa di Kanagawa che non ci si stanca mai di ammirare. Come spiega Calza oggi in Occidente quell’onda è stata saccheggiata, è diventata un’icona dell’immaginario collettivo. Non c’è infatti quotidiano o periodico che non la pubblichi per rappresentare qualsiasi evento, perfino il crollo di Borsa. Sono proprio le stampe dell’Ukiyoe, dei valori effimeri, che colpirono dopo la metà dell’Ottocento i nostri artisti - a cominciare da Manet, Monet, Degas e perfino Van Gogh - di cui sono rimasti segni tangibili, soprattutto nell’Art Nouveau e a piene mani nella grafica, dando luogo a una nipponizzazione strisciante. Eppure, il Giappone con i suoi simboli così lontani dall’Occidente, rimane una enorme montagna da scalare, come le famose Vedute del Fuji, sempre del maestro Hokusai e di cui si può ammirare la celebre Giornata limpida col vento del sud del 1830-32. Continua Calza: «E’ impossibile risalire alle radici di questa influenza, ma credo che si debba soprattutto alla filosofia zen se abbiamo cambiato la nostra visione delle cose. In questo senso, esempi celebri sono Jack Kerouac e John Cage, nelle sue vesti non di musicista ma di pittore. E se non proprio dallo zen è comunque una cultura sviluppatasi intorno alla cerimonia del tè. E’ lì che l’amore per un fiore singolo ha preso il posto in Occidente della dozzina di rose rosse».
Con questa mostra, invece, il Giappone è più vicino. Se ne riescono a cogliere le pecularietà, aiutati dal percorso tematico allestito cronologicamente. E’ così che nella prima sezione si scoprono i riti del kabuki e degli attori la cui bravura si misurava nella capacità di coinvolgere il pubblico e di tenerlo agganciato fuori dalle scene. La trama si basava su testi antichi, rielaborata secondo le esigenze di un racconto moderno. «La classicità in ogni campo in Giappone non è mai stata abbandonata», spiega Calza che ci accompagna in questo giro della mostra. «Antico e moderno sono due strade parallele. Ad esempio, oggi esiste un movimento per la rinascita della cultura del tè. E quindi si trovano grandi architetti o grafici che si dedicano alla sua reinterpretazione architettonica, grafica ed estetica».
Ricchi costumi, acconciature elaborate, volti dipinti, scene di grande effetto, drammaticità, storie di scuole-famiglie i cui attori trasmettevano per ereditarietà il nome. Il più famoso artista teatrale, Sharaku, è passato alla leggenda, per le 150 stampe create in meno di un anno, da maggio del 1794 al principio del 1795 prodotte dal più conosciuto editore dell’epoca: Tsutaya. La riproducibilità rimane una caratteristica di tutte le stampe giapponesi, grazie a una tecnica particolare che ne protegge la qualità.
L’ultima sezione invece è dedicata alle donne, alle cortigiane, simbolo supremo del piacere, e alle giovani che incarnavano l’ideale di bellezza dell’epoca. Donne fortemente sensuali, monumentali, flessuose, incantate, quasi inconsistenti, secondo il periodo storico a cui si riferiscono. Fino a riacquistare una presenza materiale e fisica che si evidenzia con la scoperta del corpo. Mai però messo a nudo. Non ci sono Veneri paragonabili alle nostre. Un particolare che emerge chiaramente dalle opere dell’artista sovrano della beltà femminile, Utamaro, la cui vita è legata indissolubilmente ai quartieri di piacere. Alcune volte con l’impiego limitato dei colori, altre con una notevole ricchezza cromatica e uso di effetti speciali riesce ad assumere la leadership di quest’arte rivolta al mondo femminile di cui il suo Canto del guanciale è la massima espressione. Modelle preferite erano le camerierine dei locali di Edo, giovani dal volto espressivo, come oggi se ne possono trovare a Tokyo, nei quartieri popolari. E le geishe? Una delusione, non ci sono: nell’epoca dell’Ukijoe erano solo una modesta appendice delle cortigiane. La loro influenza si andò affermando dopo. «Ce ne sono alcune a Kyoto, ma nel complesso sono in via di estinzione, sostituite da figure meno appariscenti», conclude Calza. «Seguono il concetto della tradizione che si rinnova continuamente, anche loro sono in via di trasformazione. La stanno reinventando in termini moderni».
la maschera
La Stampa Tuttolibri 7.2.04
DALL’AFRICA AL GIAPPONE, TRAVESTIMENTI E SIMBOLI DELLA NOSTRA IDENTITÀ:
UNA MOSTRA A TORINO
di Marco Aime
SARÀ perché non ci bastiamo, perché questa identità unica che ci viene attribuita dalla società a volte ci sta un po' stretta, sarà per questo che usiamo le maschere. Dai teatri greci dell'antichità alle danze rituali di tutti i continenti troviamo figure che si presentano al pubblico con un volto che non è il loro, che li porta fuori da sé. La maschera diventa un intermediario tra chi parla, chi danza, chi prega e chi assiste e il volto che presenta a volte trascende l'umano. Sono diventate celebri alcune maschere africane, divenute una sorta di muse ispiratrici per artisti come Picasso, Legér, Brancusi. Maschere che scompongono il volto umano in parti separate che assumono forme e linee autonome rispetto al corpo originario. Gli occhi diventano coni sporgenti che sembrano voler fuggire dalla piattaforma del volto, la bocca un parallelepipedo slanciato all'infuori, le orecchie dei tubi tesi a captare chissà quale suono o melodia. Quel volto che guardiamo ci fa capire di essere stato umano, ma anche che lo sguardo dell'artista lo ha portato su un percorso diverso. Dopo aver letto il viso umano nel suo insieme, l'autore lo ha spezzato, frantumato. Poi il suo sguardo è andato oltre, restituendoci solo alcuni cenni essenziali per mantenere quell'aria di famiglia necessaria alla comprensione. Ma quella maschera ci porta in un'altra dimensione, dove la percezione muta. Non è solo un nascondere il viso: basterebbe un fazzoletto, un velo. La maschera nasconde un viso per riproporne un altro. Come le maschere da danza degli indiani della costa del Nordovest americano che, come spiega Lévi-Strauss, «si aprono come due battenti per mettere in mostra un secondo volto e, in alcuni casi, un terzo dietro il secondo, tutti segnati dall'impronta del mistero e dell'austerità, attestano l'onnipresenza del sovrannaturale ed il pullulare dei miti». Ecco perché presso molti popoli questo oggetto rappresenta un medium necessario in molte cerimonie rituali. Allontanandoli da loro stessi, con una finzione che diviene realtà, la maschera spinge certi specialisti rituali verso il mondo degli antenati e delle divinità, in un tempo mitico che non è degli uomini. Proprio per questo occorre disumanizzarsi, abbandonare il corpo che ci accompagna quotidianamente, camuffarlo con abiti, gesti e un volto che non ci sono consueti. La maschera è un'eccezione. Abbandonare il solito corpo, ma non il corpo. Perché la maschera non vive di per sé stessa, non è una scultura, nasce per essere indossata ed è nel suo connubio con la carne e i muscoli degli uomini che trova il suo soffio vitale. Ondeggiante nei movimenti di una danza, la maschera esprime tutto il suo carico di segni, il suo repertorio evocativo. Appoggiata per terra, al muro di un’abitazione o relegata nella teca di un museo, conserva solo il suo valore estetico, cessa di essere parte attiva di una comunità e diventa arte o, peggio, bene culturale. La maschera non è solo legata al rituale, al mondo del sacro. Con il suo campionario di segni, la maschera è un codice, esprime un linguaggio. Indossata, diventa un'estensione del corpo e lo aiuta a comunicare. Nel museo etnografico di Porto Novo, nel Benin, sono conservate maschere bellissime, dalle fogge bizzarre, vere e proprie sculture a soggetto. Alcune, le più vecchie, rappresentano simboli religiosi, mitici, altre, più recenti, raffigurano motti e proverbi. La maggior parte di queste sono a carattere satirico. C'è il fanfarone con una grossa pancia, un missionario sospettato di frequentare donne scolpito in pose equivoche, il colono con aria tronfia e ridicola, il pagano convertitosi al cristianesimo, la donna che accompagna due bambini vestiti da coloni e l'adultero con un viso che ricorda la parte del corpo che più utilizza per meritarsi l'accusa di libertino. Poi, ne appare una sulla cui cima c'è un dottore in camice bianco, con una siringa in mano e una paziente sdraiata sul lettino. Viene utilizzata in performances eseguite nei villaggi per sensibilizzare la gente sulle vaccinazioni. Funziona perché la maschera appartiene all'immaginario locale, è percepita come una cosa familiare. Solo attraverso un codice condiviso e tradizionale è possibile veicolare un messaggio attuale come una campagna di vaccinazione. Ecco l'incredibile capacità d'innovazione e l'ironia della tradizione africana. Da noi, è il Carnevale il tempo dei capovolgimenti, del mondo all'incontrario. Storicamente in questo periodo prequaresimale tutto era concesso e, dietro al presunto anonimato concesso dalla maschera, avveniva il capovolgimento dei valori: i poveri la facevano ai ricchi, i moralisti venivano presi di mira. La maschera, che del carnevale è forse il simbolo più conosciuto, serviva all'inizio soltanto a celare il volto della persona, ma è andata via via assumendo un carattere sempre più spiccato fino a diventare protagonista assoluta della festa. Come a Schignano, un piccolo paese della Val d'Intelvi, sui monti del Lago di Como, dove le maschere si sono divise la piazza formando due partiti opposti: i "belli" e i "brutti". Scolpite con il legno di noce, le maschere vengono preparate da scultori locali che ogni anno rinnovano questa antica tradizione. Si dice che le prime maschere dei "belli" siano state portate a Schignano dal Perù dagli emigranti locali qualche secolo addietro. Spicca tra i "belli" il mascarun: con il suo abito riccamente decorato, ricorda il signorotto spagnolo a cui è legata con una corda la ciocia, una figura femminile rappresentata da un uomo travestito; è la donna resa schiava dal signore che in questa occasione si unisce ai "brutti" e copre di insulti il suo padrone. Ecco il tema più antico del carnevale che torna a galla: per una volta nell'anno, il servo può insultare il padrone, le regole si capovolgono. Se i "belli", che sfilano orgogliosi del loro fascino rappresentano il potere, la ricchezza e il benessere, i "brutti", con danze animalesche, urla e corse che li fanno sembrare dei pazzi, ricordano la povertà che affliggeva queste valli del Comasco, il tempo in cui si era costretti ad emigrare per sopravvivere. Maschere, finzioni, travestimenti che però ci riportano a una realtà dura e reale, a un passato non ancora troppo lontano da poter essere pensato senza una certa rabbia o un certo timore e che, forse, diventano accettabili solo perché camuffati e volti in burla, ridicolizzati. Come quando si ride forte per esorcizzare una paura.
La Stampa Tuttolibri 7.2.04
Nel teatro No rappresenta
Angelo Z. Gatti
IL No, il teatro classico giapponese originato dalle danze sacre eseguite nei templi shintoisti e buddhisti e un tempo riservato alla corte e ai samurai (cui era proibito assistere al più popolare kabuki), fa uso di maschere come l’antico teatro greco. Il No, definito «dramma lirico» di recitativo, canto, musica e danza, è un’azione scenica non realistica e stilizzata, di pura forma evocativa e poetica, e la maschera, nel creare il senso di mistero e di distacco dal mondo terreno, ne accentua l’aspetto antinaturalistico e la forte valenza simbolica. Dal XV secolo quando Zeami, lo Shakespeare giapponese, codifica con i suoi «Trattati» il No e lui stesso ne è autore e interprete, abili e raffinati artigiani dedicano grande attenzione alla scultura di maschere, che oggi sono di legno, sono dipinte e intagliate a mano. Ce ne sono una settantina di tipi: la koomote, la notissima maschera dall’espressione dolce che rappresenta la fanciulla all’alba della vita, lo spirito dei fiori o gli amanti morti in gioventù e che, essendo di piccole dimensioni, non copre per intero il viso dell’attore; la waka-onna, la donna tra i 20 e i 25 anni; la hannya, il demone della gelosia femminile, bianca o rossa a seconda dell’età del personaggio; la ja, spettrale e terrificante, sempre la gelosia, ma più esasperata... Solo l’attore protagonista, lo shite, porta la maschera (a volte anche l’intermediario, il waki, quando impersona una donna), e sta nella sua professionalità, educata in anni di studio e di addestramento, e nelle sue capacità artistiche il saperne superare la fissità: un leggero quasi impercettibile movimento del viso, con il gioco di luci e di ombre sul palcoscenico, fa mutare l’espressione al personaggio, dalla gioia all’infelicità, dalla serenità al corruccio, dall’allegria alla tristezza. Del resto No significa «abilità», «talento».
DALL’AFRICA AL GIAPPONE, TRAVESTIMENTI E SIMBOLI DELLA NOSTRA IDENTITÀ:
UNA MOSTRA A TORINO
di Marco Aime
SARÀ perché non ci bastiamo, perché questa identità unica che ci viene attribuita dalla società a volte ci sta un po' stretta, sarà per questo che usiamo le maschere. Dai teatri greci dell'antichità alle danze rituali di tutti i continenti troviamo figure che si presentano al pubblico con un volto che non è il loro, che li porta fuori da sé. La maschera diventa un intermediario tra chi parla, chi danza, chi prega e chi assiste e il volto che presenta a volte trascende l'umano. Sono diventate celebri alcune maschere africane, divenute una sorta di muse ispiratrici per artisti come Picasso, Legér, Brancusi. Maschere che scompongono il volto umano in parti separate che assumono forme e linee autonome rispetto al corpo originario. Gli occhi diventano coni sporgenti che sembrano voler fuggire dalla piattaforma del volto, la bocca un parallelepipedo slanciato all'infuori, le orecchie dei tubi tesi a captare chissà quale suono o melodia. Quel volto che guardiamo ci fa capire di essere stato umano, ma anche che lo sguardo dell'artista lo ha portato su un percorso diverso. Dopo aver letto il viso umano nel suo insieme, l'autore lo ha spezzato, frantumato. Poi il suo sguardo è andato oltre, restituendoci solo alcuni cenni essenziali per mantenere quell'aria di famiglia necessaria alla comprensione. Ma quella maschera ci porta in un'altra dimensione, dove la percezione muta. Non è solo un nascondere il viso: basterebbe un fazzoletto, un velo. La maschera nasconde un viso per riproporne un altro. Come le maschere da danza degli indiani della costa del Nordovest americano che, come spiega Lévi-Strauss, «si aprono come due battenti per mettere in mostra un secondo volto e, in alcuni casi, un terzo dietro il secondo, tutti segnati dall'impronta del mistero e dell'austerità, attestano l'onnipresenza del sovrannaturale ed il pullulare dei miti». Ecco perché presso molti popoli questo oggetto rappresenta un medium necessario in molte cerimonie rituali. Allontanandoli da loro stessi, con una finzione che diviene realtà, la maschera spinge certi specialisti rituali verso il mondo degli antenati e delle divinità, in un tempo mitico che non è degli uomini. Proprio per questo occorre disumanizzarsi, abbandonare il corpo che ci accompagna quotidianamente, camuffarlo con abiti, gesti e un volto che non ci sono consueti. La maschera è un'eccezione. Abbandonare il solito corpo, ma non il corpo. Perché la maschera non vive di per sé stessa, non è una scultura, nasce per essere indossata ed è nel suo connubio con la carne e i muscoli degli uomini che trova il suo soffio vitale. Ondeggiante nei movimenti di una danza, la maschera esprime tutto il suo carico di segni, il suo repertorio evocativo. Appoggiata per terra, al muro di un’abitazione o relegata nella teca di un museo, conserva solo il suo valore estetico, cessa di essere parte attiva di una comunità e diventa arte o, peggio, bene culturale. La maschera non è solo legata al rituale, al mondo del sacro. Con il suo campionario di segni, la maschera è un codice, esprime un linguaggio. Indossata, diventa un'estensione del corpo e lo aiuta a comunicare. Nel museo etnografico di Porto Novo, nel Benin, sono conservate maschere bellissime, dalle fogge bizzarre, vere e proprie sculture a soggetto. Alcune, le più vecchie, rappresentano simboli religiosi, mitici, altre, più recenti, raffigurano motti e proverbi. La maggior parte di queste sono a carattere satirico. C'è il fanfarone con una grossa pancia, un missionario sospettato di frequentare donne scolpito in pose equivoche, il colono con aria tronfia e ridicola, il pagano convertitosi al cristianesimo, la donna che accompagna due bambini vestiti da coloni e l'adultero con un viso che ricorda la parte del corpo che più utilizza per meritarsi l'accusa di libertino. Poi, ne appare una sulla cui cima c'è un dottore in camice bianco, con una siringa in mano e una paziente sdraiata sul lettino. Viene utilizzata in performances eseguite nei villaggi per sensibilizzare la gente sulle vaccinazioni. Funziona perché la maschera appartiene all'immaginario locale, è percepita come una cosa familiare. Solo attraverso un codice condiviso e tradizionale è possibile veicolare un messaggio attuale come una campagna di vaccinazione. Ecco l'incredibile capacità d'innovazione e l'ironia della tradizione africana. Da noi, è il Carnevale il tempo dei capovolgimenti, del mondo all'incontrario. Storicamente in questo periodo prequaresimale tutto era concesso e, dietro al presunto anonimato concesso dalla maschera, avveniva il capovolgimento dei valori: i poveri la facevano ai ricchi, i moralisti venivano presi di mira. La maschera, che del carnevale è forse il simbolo più conosciuto, serviva all'inizio soltanto a celare il volto della persona, ma è andata via via assumendo un carattere sempre più spiccato fino a diventare protagonista assoluta della festa. Come a Schignano, un piccolo paese della Val d'Intelvi, sui monti del Lago di Como, dove le maschere si sono divise la piazza formando due partiti opposti: i "belli" e i "brutti". Scolpite con il legno di noce, le maschere vengono preparate da scultori locali che ogni anno rinnovano questa antica tradizione. Si dice che le prime maschere dei "belli" siano state portate a Schignano dal Perù dagli emigranti locali qualche secolo addietro. Spicca tra i "belli" il mascarun: con il suo abito riccamente decorato, ricorda il signorotto spagnolo a cui è legata con una corda la ciocia, una figura femminile rappresentata da un uomo travestito; è la donna resa schiava dal signore che in questa occasione si unisce ai "brutti" e copre di insulti il suo padrone. Ecco il tema più antico del carnevale che torna a galla: per una volta nell'anno, il servo può insultare il padrone, le regole si capovolgono. Se i "belli", che sfilano orgogliosi del loro fascino rappresentano il potere, la ricchezza e il benessere, i "brutti", con danze animalesche, urla e corse che li fanno sembrare dei pazzi, ricordano la povertà che affliggeva queste valli del Comasco, il tempo in cui si era costretti ad emigrare per sopravvivere. Maschere, finzioni, travestimenti che però ci riportano a una realtà dura e reale, a un passato non ancora troppo lontano da poter essere pensato senza una certa rabbia o un certo timore e che, forse, diventano accettabili solo perché camuffati e volti in burla, ridicolizzati. Come quando si ride forte per esorcizzare una paura.
La Stampa Tuttolibri 7.2.04
Nel teatro No rappresenta
Angelo Z. Gatti
IL No, il teatro classico giapponese originato dalle danze sacre eseguite nei templi shintoisti e buddhisti e un tempo riservato alla corte e ai samurai (cui era proibito assistere al più popolare kabuki), fa uso di maschere come l’antico teatro greco. Il No, definito «dramma lirico» di recitativo, canto, musica e danza, è un’azione scenica non realistica e stilizzata, di pura forma evocativa e poetica, e la maschera, nel creare il senso di mistero e di distacco dal mondo terreno, ne accentua l’aspetto antinaturalistico e la forte valenza simbolica. Dal XV secolo quando Zeami, lo Shakespeare giapponese, codifica con i suoi «Trattati» il No e lui stesso ne è autore e interprete, abili e raffinati artigiani dedicano grande attenzione alla scultura di maschere, che oggi sono di legno, sono dipinte e intagliate a mano. Ce ne sono una settantina di tipi: la koomote, la notissima maschera dall’espressione dolce che rappresenta la fanciulla all’alba della vita, lo spirito dei fiori o gli amanti morti in gioventù e che, essendo di piccole dimensioni, non copre per intero il viso dell’attore; la waka-onna, la donna tra i 20 e i 25 anni; la hannya, il demone della gelosia femminile, bianca o rossa a seconda dell’età del personaggio; la ja, spettrale e terrificante, sempre la gelosia, ma più esasperata... Solo l’attore protagonista, lo shite, porta la maschera (a volte anche l’intermediario, il waki, quando impersona una donna), e sta nella sua professionalità, educata in anni di studio e di addestramento, e nelle sue capacità artistiche il saperne superare la fissità: un leggero quasi impercettibile movimento del viso, con il gioco di luci e di ombre sul palcoscenico, fa mutare l’espressione al personaggio, dalla gioia all’infelicità, dalla serenità al corruccio, dall’allegria alla tristezza. Del resto No significa «abilità», «talento».
la cultura islamica nel medioevo
La Stampa Tuttolibri 7.2.04
Quegli arabi erano nemici fraterni
Un grande affresco della cultura islamica nel Medioevo, le scuole religiose e filosofiche, l’arte e la poesia: un mondo poliedrico e autonomo, ma non antitetico all’Occidente
di Giuseppe Cassieri
SEMBRA non vi siano dubbi sulla necessità di liquidare senza rimpianti la visione occiduocentrica di cui siamo portatori, sani e insani, e penetrare con adeguati strumenti ricognitivi all’interno del fenomeno Islam. Fenomeno tra i più complessi che si presentino agli storici di ogni disciplina, spesso ridotto a greve fantasma etnico-religioso e connesse ricadute geopolitiche. L’affollamento dei titoli sulla «questione» islamica non inganni. Certo, è sintomo di accresciuto interesse per uno scenario fino a ieri approssimativo o esotico, ma le pubblicazioni, magari calde e minuziose, si ispirano per la maggior parte all’immediatezza degli avvenimenti che scorrono sotto i nostri occhi, «carotano» situazioni drammatiche di forte impatto emotivo (guerre, guerriglie, attacchi terroristici), ma sempre a pelo d’acqua, con qualche pregiudiziale di scorta; mentre vorremmo capire più a fondo il determinarsi di una civiltà artificiosamente contrapposta, anziché naturaliter giustapposta, un mondo diverso ma non antinomico, una parabola evolutiva autonoma ma non autarchica, e anzi integrativa (e per molti aspetti integrata). E’ questo, credo, il merito principale di un gigantesco volume della Salerno Editrice, La cultura arabo-islamica, a cura di Biancamaria Scarcia Amoretti, nella collana «Lo spazio letterario del Medioevo». Testo a più voci, con un ampio saggio introduttivo di Franco Cardini, «Nemici fraterni»: felice ossimoro che si propaga nelle quattro sezioni della materia trattata, a partire da «La specificità dell’Islam», ovvero il suo essere plurale, assai poco identificabile come avamposto di un Oriente antitetico all’Occidente, se si tiene conto delle società eterogenee assemblate nel «suo» Medioevo: Cristiani ed Ebrei, Arabi e Persiani, Turchi e Berberi, Spagnoli e Siciliani... Un gruppo di studiosi, che riducono al minimo le difficoltà tecniche del linguaggio comparativo e della traslitterazione, invitano il lettore a seguirli in un itinerario di circa sei secoli: dal 662 - l’anno in cui Muhammad lascia con un gruppo di compagni la Mecca - al 1258 che segna la fine del califfato abbaside. I temi, in larga misura affascinanti e alcuni imprescindibili, comprendono ad esempio l’immaginario artistico, l’uso sapientissimo della disputa, la superba tradizione speculativa, medica, matematica, i tesori di al-Andalus, la funzione enciclopedica della «madrasa» tra corte e città, tra massa e potere; la Toledo di Alfonso X il Saggio, la scuola irachena, il ciclo del Mi’rag che decanta l’ascensione celeste di Muhammad, e possibile influenza sulla Commedia dantesca; oralità e scrittura, e l’importanza della lingua araba che permette di accedere a esperienze culturali più lontane: Persia, India, Cina. Più in dettaglio, vorrei almeno segnalare gli ottimi saggi di Leonardo Capezzone su elaborazione e gestione del sapere, e i luoghi deputati: la Moschea, la Corte, la Cancelleria. E l’intero capitolo sul concetto di adab. Termine che si approssima a «educazione», «cultura», «urbanità», ma le trascende in una prospettiva etica della conoscenza. Senza trascurare l’analisi di Mauro Zonta sulle modalità di trasmissione dei testi arabi in ebraico e la tradizione dei testi filosofici, scientifici e letterari. O le pagine di Dominique Urvoy sulla polemica confessionale in al-Andalus e sul ruolo dei convertiti. Ma, nella fitta trama del volume, mi attira qui particolarmente il contributo di Alberto Ventura sulla produzione mistica dell’Islam correlata al sufismo. Spesso distanti, ma non distaccati dalla dottrina coranica, i Sufi sviluppano in senso verticale, in senso ascetico, la riflessione sul messaggio divino, anche se non vantano una propria teologia. Così come, pur non vantando una propria filosofia, ci offrono le proiezioni più originali del pensiero islamico. Senza contare la letteratura esegetica, il vasto patrimonio poetico - talora assimilabile alla poesia trovadorica, stilnovistica - che pone al vertice l’arabo di Spagna Ibn al-’Arabì e il persiano Galalal-DinRumi; l’epica del martirio nella narrativa popolare e la sublimazione del martire per eccellenza, al-Hallag, condannato a morte dal califfo di Baghdad nel 922 perché teorico e praticante estremo della Unio mystica. Ma non è davvero secondario l’atteggiamento «ecumenico» del sufismo rispetto alle tendenze canoniche. Un atteggiamento di civile riguardo, di amorosa interazione «dall’alto» con le componenti di altre civiltà. «Interpretando la parte più flessibile dello spirito islamico - conclude l’autore - il sufismo ha toccato corde dalla risonanza universale». Parole auree, pressoché aliene nello scacco della realtà quotidiana, e tuttavia indispensabili se aiutano a propiziare il miracolo.
Quegli arabi erano nemici fraterni
Un grande affresco della cultura islamica nel Medioevo, le scuole religiose e filosofiche, l’arte e la poesia: un mondo poliedrico e autonomo, ma non antitetico all’Occidente
di Giuseppe Cassieri
SEMBRA non vi siano dubbi sulla necessità di liquidare senza rimpianti la visione occiduocentrica di cui siamo portatori, sani e insani, e penetrare con adeguati strumenti ricognitivi all’interno del fenomeno Islam. Fenomeno tra i più complessi che si presentino agli storici di ogni disciplina, spesso ridotto a greve fantasma etnico-religioso e connesse ricadute geopolitiche. L’affollamento dei titoli sulla «questione» islamica non inganni. Certo, è sintomo di accresciuto interesse per uno scenario fino a ieri approssimativo o esotico, ma le pubblicazioni, magari calde e minuziose, si ispirano per la maggior parte all’immediatezza degli avvenimenti che scorrono sotto i nostri occhi, «carotano» situazioni drammatiche di forte impatto emotivo (guerre, guerriglie, attacchi terroristici), ma sempre a pelo d’acqua, con qualche pregiudiziale di scorta; mentre vorremmo capire più a fondo il determinarsi di una civiltà artificiosamente contrapposta, anziché naturaliter giustapposta, un mondo diverso ma non antinomico, una parabola evolutiva autonoma ma non autarchica, e anzi integrativa (e per molti aspetti integrata). E’ questo, credo, il merito principale di un gigantesco volume della Salerno Editrice, La cultura arabo-islamica, a cura di Biancamaria Scarcia Amoretti, nella collana «Lo spazio letterario del Medioevo». Testo a più voci, con un ampio saggio introduttivo di Franco Cardini, «Nemici fraterni»: felice ossimoro che si propaga nelle quattro sezioni della materia trattata, a partire da «La specificità dell’Islam», ovvero il suo essere plurale, assai poco identificabile come avamposto di un Oriente antitetico all’Occidente, se si tiene conto delle società eterogenee assemblate nel «suo» Medioevo: Cristiani ed Ebrei, Arabi e Persiani, Turchi e Berberi, Spagnoli e Siciliani... Un gruppo di studiosi, che riducono al minimo le difficoltà tecniche del linguaggio comparativo e della traslitterazione, invitano il lettore a seguirli in un itinerario di circa sei secoli: dal 662 - l’anno in cui Muhammad lascia con un gruppo di compagni la Mecca - al 1258 che segna la fine del califfato abbaside. I temi, in larga misura affascinanti e alcuni imprescindibili, comprendono ad esempio l’immaginario artistico, l’uso sapientissimo della disputa, la superba tradizione speculativa, medica, matematica, i tesori di al-Andalus, la funzione enciclopedica della «madrasa» tra corte e città, tra massa e potere; la Toledo di Alfonso X il Saggio, la scuola irachena, il ciclo del Mi’rag che decanta l’ascensione celeste di Muhammad, e possibile influenza sulla Commedia dantesca; oralità e scrittura, e l’importanza della lingua araba che permette di accedere a esperienze culturali più lontane: Persia, India, Cina. Più in dettaglio, vorrei almeno segnalare gli ottimi saggi di Leonardo Capezzone su elaborazione e gestione del sapere, e i luoghi deputati: la Moschea, la Corte, la Cancelleria. E l’intero capitolo sul concetto di adab. Termine che si approssima a «educazione», «cultura», «urbanità», ma le trascende in una prospettiva etica della conoscenza. Senza trascurare l’analisi di Mauro Zonta sulle modalità di trasmissione dei testi arabi in ebraico e la tradizione dei testi filosofici, scientifici e letterari. O le pagine di Dominique Urvoy sulla polemica confessionale in al-Andalus e sul ruolo dei convertiti. Ma, nella fitta trama del volume, mi attira qui particolarmente il contributo di Alberto Ventura sulla produzione mistica dell’Islam correlata al sufismo. Spesso distanti, ma non distaccati dalla dottrina coranica, i Sufi sviluppano in senso verticale, in senso ascetico, la riflessione sul messaggio divino, anche se non vantano una propria teologia. Così come, pur non vantando una propria filosofia, ci offrono le proiezioni più originali del pensiero islamico. Senza contare la letteratura esegetica, il vasto patrimonio poetico - talora assimilabile alla poesia trovadorica, stilnovistica - che pone al vertice l’arabo di Spagna Ibn al-’Arabì e il persiano Galalal-DinRumi; l’epica del martirio nella narrativa popolare e la sublimazione del martire per eccellenza, al-Hallag, condannato a morte dal califfo di Baghdad nel 922 perché teorico e praticante estremo della Unio mystica. Ma non è davvero secondario l’atteggiamento «ecumenico» del sufismo rispetto alle tendenze canoniche. Un atteggiamento di civile riguardo, di amorosa interazione «dall’alto» con le componenti di altre civiltà. «Interpretando la parte più flessibile dello spirito islamico - conclude l’autore - il sufismo ha toccato corde dalla risonanza universale». Parole auree, pressoché aliene nello scacco della realtà quotidiana, e tuttavia indispensabili se aiutano a propiziare il miracolo.
una scoperta archeologica nell'Essex
Il Messaggero Venerdì 6 Febbraio 2004
Archeologia: scoperta la tomba di un re sassone nell’Essex
La comunità archeologica britannica è in fermento per il ritrovamento dell'antica tomba di un re sassone risalente al VII secolo, a Sutton Hoo, lungo la costa dell'Essex e poco lontano dalla linea ferroviaria di Prittlewell. La tomba è praticamente intatta: manca solo il corpo del re, i cui resti, in tutti questi secoli si sono trasformati in polvere. Tra i tesori trovati dagli archeologi ci sono le fibbie di rame delle scarpe del sovrano, insieme ad altri 60 oggetti ben conservati, tra i quali, spille, bicchieri di vetro, coppe di legno e scodelle di rame, calderoni di bronzo e contenitori per cucinare, spade e scudi, oggetti personali e decorazioni giacevano appoggiati contro quelli che una volta erano i muri della stanza di 4 metri quadrati, che nei secoli e' stata interamente ricoperta dalla terra. Ma a rendere la scoperta veramente unica c'e' il fatto che tutti gli oggetti erano ancora nelle loro posizioni originarie, esattamente dove erano stati messi quasi 1.400 anni fa. In realta' la zona e' conosciuta per il suo valore archeologico. Gia' in passato il museo di Londra era stato contattato dalle autorita' locali per esaminare il sito, dopo che durante i lavori di costruzione della ferrovia, gli operai avevano trovato ossa, armi e spade. Ian Blair, responsabile degli scavi, definisce la scoperta ''assolutamente unica''. Ugualmente entusiasta Dave Lakin, manager del progetto, secondo il quale gli oggetti permettono di fare un tuffo nel passato, immergendosi nella vita e nella morte dei super ricchi di quel periodo. Trovate anche due croci d'oro, prova che il re si era convertito al cristianesimo. Per Lakin e' tuttavia interessante notare che, nonostante l'apparente conversione al Cristianesimo del re, e' stato sepolto con tutti gli oggetti che avrebbero potuto servirgli nell'aldila', un segno delle comunque radicate radici pagane. L'identità del re è sconosciuta. Gli esperti ritengono che possa trattarsi di Saebert, uno dei regnanti dell'Essex, che nel 604 abbracciò il cristianesimo o di Sigeberht II, che si convertì nel 653. Qualunque sia l'identita' del potente sovrano, resta il fatto che visse in un momento storico molto delicato, in cui gli insediamenti prendevano forma, si consolidavano ed i gruppi tribali cominciavano ad assumere la struttura della moderna societa'.
Archeologia: scoperta la tomba di un re sassone nell’Essex
La comunità archeologica britannica è in fermento per il ritrovamento dell'antica tomba di un re sassone risalente al VII secolo, a Sutton Hoo, lungo la costa dell'Essex e poco lontano dalla linea ferroviaria di Prittlewell. La tomba è praticamente intatta: manca solo il corpo del re, i cui resti, in tutti questi secoli si sono trasformati in polvere. Tra i tesori trovati dagli archeologi ci sono le fibbie di rame delle scarpe del sovrano, insieme ad altri 60 oggetti ben conservati, tra i quali, spille, bicchieri di vetro, coppe di legno e scodelle di rame, calderoni di bronzo e contenitori per cucinare, spade e scudi, oggetti personali e decorazioni giacevano appoggiati contro quelli che una volta erano i muri della stanza di 4 metri quadrati, che nei secoli e' stata interamente ricoperta dalla terra. Ma a rendere la scoperta veramente unica c'e' il fatto che tutti gli oggetti erano ancora nelle loro posizioni originarie, esattamente dove erano stati messi quasi 1.400 anni fa. In realta' la zona e' conosciuta per il suo valore archeologico. Gia' in passato il museo di Londra era stato contattato dalle autorita' locali per esaminare il sito, dopo che durante i lavori di costruzione della ferrovia, gli operai avevano trovato ossa, armi e spade. Ian Blair, responsabile degli scavi, definisce la scoperta ''assolutamente unica''. Ugualmente entusiasta Dave Lakin, manager del progetto, secondo il quale gli oggetti permettono di fare un tuffo nel passato, immergendosi nella vita e nella morte dei super ricchi di quel periodo. Trovate anche due croci d'oro, prova che il re si era convertito al cristianesimo. Per Lakin e' tuttavia interessante notare che, nonostante l'apparente conversione al Cristianesimo del re, e' stato sepolto con tutti gli oggetti che avrebbero potuto servirgli nell'aldila', un segno delle comunque radicate radici pagane. L'identità del re è sconosciuta. Gli esperti ritengono che possa trattarsi di Saebert, uno dei regnanti dell'Essex, che nel 604 abbracciò il cristianesimo o di Sigeberht II, che si convertì nel 653. Qualunque sia l'identita' del potente sovrano, resta il fatto che visse in un momento storico molto delicato, in cui gli insediamenti prendevano forma, si consolidavano ed i gruppi tribali cominciavano ad assumere la struttura della moderna societa'.
l'autodifesa di Galileo
Repubblica 7.2.04
"Abiuro, maledico e detesto i miei errori ed eresie"
Stamane a Torino si ripete, con libera interpretazione di un fatto reale, il processo al grande scienziato di cui pubblichiamo qui l'autodifesa
"Ho davanti agli occhi i sacrosanti vangeli che tocco con le mie mani e giuro di credere alla Santa Chiesa"
"Ho a lungo vissuto a testa alta come chi guarda il cielo a occhi aperti e quante cose ho visto nel telescopio"
di PIERGIORGIO ODIFREDDI
Oggi, mercoledi 22 giugno 1633, io Galileo Galilei, figlio di Vincenzo, di anni settanta, sono costituito personalmente in giudizio nella gran sala del convento di Santa Maria sopra Minerva in Roma. Vesto il camice bianco dei penitenti, e sto inginocchiato davanti a Voi, Eminentissimi e Reverendissimi Cardinali, inquisitori generali della Repubblica Cristiana contro l´eretica malvagità. Ho davanti agli occhi i Sacrosanti Vangeli, che tocco con le mie proprie mani, e giuro che ho sempre creduto, credo adesso, e con l´aiuto di Dio crederò per l´avvenire, tutto ciò che predica e insegna la Santa Cattolica e Apostolica Chiesa.
Sono stato denunciato nel 1615 a questo Santo Uffizio per aver tenuto per vera e insegnata la dottrina che il Sole stia immobile al centro del mondo, e che la Terra si muova di moto diurno, in opposizione alle Sacre e Divine Scritture che affermano che Giosuè fermò il Sole. Il 26 febbraio 1616 l´Eminentissimo Cardinal Bellarmino mi ha ordinato di abbandonare questa falsa opinione e di non insegnarla, e in sua presenza il Padre Commissario del Santo Uffizio mi ha benignamente avvisato e ammonito che altrimenti sarei stato incarcerato.
Contrariaramente al salutifero editto allora emanato dalla Sacra Congregazione dell´Indice, che proibiva i libri che trattano di questa falsa dottrina, io ho pubblicato lo scorso anno un Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, nel quale mi studio, con vari raggiri, di persuadere che il sistema copernicano sia indeciso e addirittura probabile. Confesso di aver scritto il libro in volgare e in forma dialogica, perché ogni persona potesse leggerlo e sapere che il Signor Dio, come gli ha dato gli occhi per vedere le opere Sue, gli ha anche dato il cervello per poterle capire.
Per aver tenuto e difeso per probabile un´opinione dichiarata contraria alla Sacra Scrittura, sono incorso nelle censure e pene dei Sacri Canoni e delle altre Costituzioni Generali e Particolari promulgate contro i delinquenti, ma il Santo Uffizio mi ha offerto l´assoluzione a patto che, a cuor sincero e con fede non finta, abiuri, maledica e detesti i suddetti errori ed eresie, e accetti come punizione la recita settimanale per tre anni dei Salmi penitenziali, gli arresti domiciliari a vita, e la proibizione perpetua del mio libro.
E io, Galileo Galilei, volendo levare dalla mente delle Eminenze Vostre e di ogni fedele cristiano il sospetto su di me giustamente concepito, con cuore sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto i suddetti errori ed eresie, accetto le punizioni giustamente inflittemi, e giuro che per l´avvenire non dirò o asserirò mai più, a voce o per scritto, cose sospette, e che denuncerò chiunque lo faccia. Ma sono conscio che, col mio collaborazionismo, tradisco la mia professione e commetto il peccato originale della nuova scienza, che più di ogni altro ho contribuito a far nascere.
Perché oggi sono inginocchiato di fronte a voi, Reverendissimi Padri, nella posizione del credente che guarda a terra con gli occhi chiusi. Ma a lungo ho vissuto a testa alta, nella posizione dello scienziato che guarda al cielo con gli occhi aperti. E quante cose ho visto attraverso il cannone, o occhiale, che ho costruito nel 1609, e che la sera del 14 aprile 1611 abbiamo convenuto, a cena sul Gianicolo dall´amico Principe Cesi, di chiamare telescopio! L´Eminentissimo Cardinal Bellarmino lo sapeva, perché non rifiutò, come altri, di guardarci dentro, per paura di vedere i monti e le valli della Luna, le fasi di Venere, i satelliti di Giove, le anomalie di Saturno, la rotazione e le macchie del Sole, le stelle delle Costellazioni e la Via Lattea.
Lo sapeva, e avrebbe dovuto gioire di questa mirabile compagine del Sole, dei pianeti e delle comete, che non avrebbe potuto essere senza consiglio e volere di un Ente intelligentissimo e potente. Un Ente che regge il tutto, non come Anima del mondo, ma come Signore di tutte le cose. Un Ente che dura sempre ed è presente ovunque, ed esistendo sempre ed ovunque, costituisce la durata e lo spazio, il tempo e l´infinità. Un Ente che non ha corpo, né forma, cosicché noi non lo possiamo vedere, né toccare, né intendere. Un Ente che non dobbiamo assolutamente adorare sotto forme sensibili, come già ordina un Suo proprio comandamento, che la nostra Santa Madre Chiesa ha invece scelto di ignorare.
Così come hanno scelto di acquistare tutte le cognizioni della natura, agiatamente e senza esporsi alle ingiurie dell´aria, col solo rivoltare poche carte, i teologi e i filosofi in libris, ritirati in studio a scartabellare indici e repertori per scrivere ciò di cui non intendono, così che non s´intende ciò che essi scrivono. E usurpano le Sacre Scritture e le opere dello Stagirita, perché è più facile coprirsi sotto lo scudo di un altro, che il comparire a faccia aperta. Ah, viltà d´ingegni servili, e vana presunzione di intendere il tutto, che non può che derivare dal non aver inteso mai nulla!
Calatevi per una volta dal trono della maestà biblica e peripatetica, per discutere intorno al mondo sensibile, e non sopra mondi di carta! Aprite la mente alle ragioni sottilissime, e perciò difficili a essere comprese, invece di rimaner persuasi dalla vana apparenza della falsità. Apprendete le scienze matematiche, che uguagliano la divina cognizione nella certezza obiettiva, perché arrivano a comprendere la necessità. Smettete di dimostrare solennemente ignotum per ignotius, e ricordate che affinché i calcoli tornino sullo zucchero e sulla seta, bisogna fare la tara della cassa e dell´involucro.
Imparate, dalla mia antica lettera a Sua Altezza Serenissima Madama Cristina di Lorena, Granduchessa di Toscana, che sebbene la Scrittura non può errare, possono nondimeno errare alcuni suoi interpreti ed espositori, che si fermano al puro significato delle parole. Perché nel mondano sistema tolemaico, se Giosuè avesse fermato il moto del Sole, avrebbe accorciato e fatto più breve il giorno, mentre per allungarlo avrebbe dovuto fermare il Primo Mobile! E´ nel mio sistema, invece, che per allungare il giorno avrebbe dovuto fermare il Sole, e dunque la Terra alla quale esso dà non soltanto la luce, ma anche il moto.
Quella lettera fu il mio primo errore, basato sull´illusione che i rapporti fra la nuova scienza e la vecchia fede potessero essere regolati sulla base di ciò che avevo appreso dall´Eminentissimo Cardinal Baronio: che l´intenzione dello Spirito Santo è di insegnarci come si vada al cielo, e non come vada il cielo. Il mio ultimo errore fu l´aver ceduto alle richieste del Maestro del Sacro Palazzo, concludendo il libro con la mirabile e angelica dottrina del Santissimo Padre, Nostro Signore Urbano VIII: che Dio avrebbe potuto e saputo disporre diversamente gli orbi e le stelle in modo da salvare i fenomeni, perché la possibilità che le cose accadano altrimenti da quanto la scienza ha escogitato, non implica contraddizione.
La stessa dottrina, che la scienza sia ipotetica e non assoluta, fu usata nell´apocrifa Epistola preliminare all´opera di Niccolò Copernico. Ma giustamente Giordano Bruno chiamò «asino ignorante e presuntuoso» chi ve la attaccò, perché dove non arrivano le ipotesi matematiche, meno ancora arriveranno le puerizie scurrili e le scempie inezie. Ingiustamente invece io abiuro, perché concedendo oggi ai Reverendissimi Padri che Iddio ha fatto l´universo più proporzionato alla piccola capacità del loro cervello, che all´immensa e infinita Sua potenza, stabilisco un esempio che altri scienziati ignavi potranno seguire domani e sempre.
Ho creduto di poter salvare la fede, benché fossi un pubblico peccatore, padre di due figlie illegittime che ho costretto a farsi suore dopo averne ripudiato la madre, mia concubina. Ma ho finito per condannare la scienza, benché fossi il suo pubblico difensore, inventore del suo metodo e scopritore delle sue prime leggi. Delle mie opere giudicherà il Tribunale della Ragione, e io non avrò mai per male che mi si palesino i veri errori che ho commesso, a partire dalla teoria delle maree.
Della mia abiura giudicherà invece il Tribunale della Storia. L´ho compiuta per vigliacca paura delle macchine che mi avete mostrato, e della spada che sottomise lo spirito superbo del Nolano. Il Martire sarà ricordato nei secoli da chi ha a cuore la verità, il suo Eminentissimo Boia sarà santificato da chi l´ha calpestata, ma per me non ci saranno che rimpianti, e il mesto ricordo di un´occasione perduta. L´intelligenza, voi che non l´avete, non ve la potete dare. Ma io, il coraggio, neppure.
"Abiuro, maledico e detesto i miei errori ed eresie"
Stamane a Torino si ripete, con libera interpretazione di un fatto reale, il processo al grande scienziato di cui pubblichiamo qui l'autodifesa
"Ho davanti agli occhi i sacrosanti vangeli che tocco con le mie mani e giuro di credere alla Santa Chiesa"
"Ho a lungo vissuto a testa alta come chi guarda il cielo a occhi aperti e quante cose ho visto nel telescopio"
di PIERGIORGIO ODIFREDDI
Oggi, mercoledi 22 giugno 1633, io Galileo Galilei, figlio di Vincenzo, di anni settanta, sono costituito personalmente in giudizio nella gran sala del convento di Santa Maria sopra Minerva in Roma. Vesto il camice bianco dei penitenti, e sto inginocchiato davanti a Voi, Eminentissimi e Reverendissimi Cardinali, inquisitori generali della Repubblica Cristiana contro l´eretica malvagità. Ho davanti agli occhi i Sacrosanti Vangeli, che tocco con le mie proprie mani, e giuro che ho sempre creduto, credo adesso, e con l´aiuto di Dio crederò per l´avvenire, tutto ciò che predica e insegna la Santa Cattolica e Apostolica Chiesa.
Sono stato denunciato nel 1615 a questo Santo Uffizio per aver tenuto per vera e insegnata la dottrina che il Sole stia immobile al centro del mondo, e che la Terra si muova di moto diurno, in opposizione alle Sacre e Divine Scritture che affermano che Giosuè fermò il Sole. Il 26 febbraio 1616 l´Eminentissimo Cardinal Bellarmino mi ha ordinato di abbandonare questa falsa opinione e di non insegnarla, e in sua presenza il Padre Commissario del Santo Uffizio mi ha benignamente avvisato e ammonito che altrimenti sarei stato incarcerato.
Contrariaramente al salutifero editto allora emanato dalla Sacra Congregazione dell´Indice, che proibiva i libri che trattano di questa falsa dottrina, io ho pubblicato lo scorso anno un Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, nel quale mi studio, con vari raggiri, di persuadere che il sistema copernicano sia indeciso e addirittura probabile. Confesso di aver scritto il libro in volgare e in forma dialogica, perché ogni persona potesse leggerlo e sapere che il Signor Dio, come gli ha dato gli occhi per vedere le opere Sue, gli ha anche dato il cervello per poterle capire.
Per aver tenuto e difeso per probabile un´opinione dichiarata contraria alla Sacra Scrittura, sono incorso nelle censure e pene dei Sacri Canoni e delle altre Costituzioni Generali e Particolari promulgate contro i delinquenti, ma il Santo Uffizio mi ha offerto l´assoluzione a patto che, a cuor sincero e con fede non finta, abiuri, maledica e detesti i suddetti errori ed eresie, e accetti come punizione la recita settimanale per tre anni dei Salmi penitenziali, gli arresti domiciliari a vita, e la proibizione perpetua del mio libro.
E io, Galileo Galilei, volendo levare dalla mente delle Eminenze Vostre e di ogni fedele cristiano il sospetto su di me giustamente concepito, con cuore sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto i suddetti errori ed eresie, accetto le punizioni giustamente inflittemi, e giuro che per l´avvenire non dirò o asserirò mai più, a voce o per scritto, cose sospette, e che denuncerò chiunque lo faccia. Ma sono conscio che, col mio collaborazionismo, tradisco la mia professione e commetto il peccato originale della nuova scienza, che più di ogni altro ho contribuito a far nascere.
Perché oggi sono inginocchiato di fronte a voi, Reverendissimi Padri, nella posizione del credente che guarda a terra con gli occhi chiusi. Ma a lungo ho vissuto a testa alta, nella posizione dello scienziato che guarda al cielo con gli occhi aperti. E quante cose ho visto attraverso il cannone, o occhiale, che ho costruito nel 1609, e che la sera del 14 aprile 1611 abbiamo convenuto, a cena sul Gianicolo dall´amico Principe Cesi, di chiamare telescopio! L´Eminentissimo Cardinal Bellarmino lo sapeva, perché non rifiutò, come altri, di guardarci dentro, per paura di vedere i monti e le valli della Luna, le fasi di Venere, i satelliti di Giove, le anomalie di Saturno, la rotazione e le macchie del Sole, le stelle delle Costellazioni e la Via Lattea.
Lo sapeva, e avrebbe dovuto gioire di questa mirabile compagine del Sole, dei pianeti e delle comete, che non avrebbe potuto essere senza consiglio e volere di un Ente intelligentissimo e potente. Un Ente che regge il tutto, non come Anima del mondo, ma come Signore di tutte le cose. Un Ente che dura sempre ed è presente ovunque, ed esistendo sempre ed ovunque, costituisce la durata e lo spazio, il tempo e l´infinità. Un Ente che non ha corpo, né forma, cosicché noi non lo possiamo vedere, né toccare, né intendere. Un Ente che non dobbiamo assolutamente adorare sotto forme sensibili, come già ordina un Suo proprio comandamento, che la nostra Santa Madre Chiesa ha invece scelto di ignorare.
Così come hanno scelto di acquistare tutte le cognizioni della natura, agiatamente e senza esporsi alle ingiurie dell´aria, col solo rivoltare poche carte, i teologi e i filosofi in libris, ritirati in studio a scartabellare indici e repertori per scrivere ciò di cui non intendono, così che non s´intende ciò che essi scrivono. E usurpano le Sacre Scritture e le opere dello Stagirita, perché è più facile coprirsi sotto lo scudo di un altro, che il comparire a faccia aperta. Ah, viltà d´ingegni servili, e vana presunzione di intendere il tutto, che non può che derivare dal non aver inteso mai nulla!
Calatevi per una volta dal trono della maestà biblica e peripatetica, per discutere intorno al mondo sensibile, e non sopra mondi di carta! Aprite la mente alle ragioni sottilissime, e perciò difficili a essere comprese, invece di rimaner persuasi dalla vana apparenza della falsità. Apprendete le scienze matematiche, che uguagliano la divina cognizione nella certezza obiettiva, perché arrivano a comprendere la necessità. Smettete di dimostrare solennemente ignotum per ignotius, e ricordate che affinché i calcoli tornino sullo zucchero e sulla seta, bisogna fare la tara della cassa e dell´involucro.
Imparate, dalla mia antica lettera a Sua Altezza Serenissima Madama Cristina di Lorena, Granduchessa di Toscana, che sebbene la Scrittura non può errare, possono nondimeno errare alcuni suoi interpreti ed espositori, che si fermano al puro significato delle parole. Perché nel mondano sistema tolemaico, se Giosuè avesse fermato il moto del Sole, avrebbe accorciato e fatto più breve il giorno, mentre per allungarlo avrebbe dovuto fermare il Primo Mobile! E´ nel mio sistema, invece, che per allungare il giorno avrebbe dovuto fermare il Sole, e dunque la Terra alla quale esso dà non soltanto la luce, ma anche il moto.
Quella lettera fu il mio primo errore, basato sull´illusione che i rapporti fra la nuova scienza e la vecchia fede potessero essere regolati sulla base di ciò che avevo appreso dall´Eminentissimo Cardinal Baronio: che l´intenzione dello Spirito Santo è di insegnarci come si vada al cielo, e non come vada il cielo. Il mio ultimo errore fu l´aver ceduto alle richieste del Maestro del Sacro Palazzo, concludendo il libro con la mirabile e angelica dottrina del Santissimo Padre, Nostro Signore Urbano VIII: che Dio avrebbe potuto e saputo disporre diversamente gli orbi e le stelle in modo da salvare i fenomeni, perché la possibilità che le cose accadano altrimenti da quanto la scienza ha escogitato, non implica contraddizione.
La stessa dottrina, che la scienza sia ipotetica e non assoluta, fu usata nell´apocrifa Epistola preliminare all´opera di Niccolò Copernico. Ma giustamente Giordano Bruno chiamò «asino ignorante e presuntuoso» chi ve la attaccò, perché dove non arrivano le ipotesi matematiche, meno ancora arriveranno le puerizie scurrili e le scempie inezie. Ingiustamente invece io abiuro, perché concedendo oggi ai Reverendissimi Padri che Iddio ha fatto l´universo più proporzionato alla piccola capacità del loro cervello, che all´immensa e infinita Sua potenza, stabilisco un esempio che altri scienziati ignavi potranno seguire domani e sempre.
Ho creduto di poter salvare la fede, benché fossi un pubblico peccatore, padre di due figlie illegittime che ho costretto a farsi suore dopo averne ripudiato la madre, mia concubina. Ma ho finito per condannare la scienza, benché fossi il suo pubblico difensore, inventore del suo metodo e scopritore delle sue prime leggi. Delle mie opere giudicherà il Tribunale della Ragione, e io non avrò mai per male che mi si palesino i veri errori che ho commesso, a partire dalla teoria delle maree.
Della mia abiura giudicherà invece il Tribunale della Storia. L´ho compiuta per vigliacca paura delle macchine che mi avete mostrato, e della spada che sottomise lo spirito superbo del Nolano. Il Martire sarà ricordato nei secoli da chi ha a cuore la verità, il suo Eminentissimo Boia sarà santificato da chi l´ha calpestata, ma per me non ci saranno che rimpianti, e il mesto ricordo di un´occasione perduta. L´intelligenza, voi che non l´avete, non ve la potete dare. Ma io, il coraggio, neppure.
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