L'Eco di Bergamo 5.6.04
Adolescenti, il dramma nascosto
«Dietro i tentativi di suicidio la morte vista come una prova estrema» Il Crisis Center di Milano: i campanelli d'allarme non sempre sono evidenti
di S. P.
Chiudi il libro, sconvolto, sull'esperienza del Crisis Center di Milano per i tentati suicidi in adolescenza, apri la tv ed eccola, la 14enne valtellinese volata nel fiume dopo aver mandato un sms disperato all'amica. Il libro che raccoglie le esperienze di tre anni di lavoro del Centro diretto da Gustavo Pietropolli Charmet – psichiatra, presidente del Caf e dell'Istituto Minotauro – è stato presentato a Bergamo, al teatro Alle Grazie, per iniziativa di Laboratorio di ricerca sulla famiglia, Sinapsi e Medas. Alla presentazione anche il direttore generale degli Ospedali Riuniti Stefano Rossattini e quello dell'Asl Silvio Rocchi e, per la scuola, Maria Carla Marchesi (Csa, l'ex provveditorato).
Charmet calcola che solo a Milano ogni anno almeno un migliaio di adolescenti tenti il suicidio. Nascosti nelle casistiche del pronto soccorso, ridotti a ragazzata da genitori sconvolti, questi segnali gravissimi di sofferenza vengono rimossi dagli adulti. Ma non dai ragazzi, che, nella metà dei casi, ci riprovano. E questa volta il 40% riesce nel tragico intento di scomparire. È possibile prevenire i tentativi di suicidio? Secondo Charmet non esistono campanelli d'allarme tipici. Il trasformare fisiologiche fantasie di morte in progetto suicida è cosa lunga, che cresce lentamente nel tempo, in una zona quasi tra sonno e veglia, tra sogno e realtà, della quale lo stesso adolescente non si rende conto fino in fondo. Illuso che del corpo, fonte di guai e vergogna, ci si possa sbarazzare restando comunque in qualche modo se stessi. La morte come prova estrema, iniziazione di una fiaba terribile che libera, per il coraggio dimostrato, da tutti gli ostacoli, annichilisce tutti gli avversari (soprattutto i più amati), riconquista l'apprezzamento, l'onore, il valore.
Può capitare a tutti? Sì, le condotte non devianti, il successo scolastico, la popolarità tra i compagni, la storia amorosa non sono di per sé garanzia e antidoto. Perché tutto dipende da come le situazioni e le occasioni sono vissute. Sono più le ragazze (7 a 1 il rapporto con i maschi) che tentano il suicidio, ma sono più i maschi (5 contro 1 femmina) che lo portano a termine. Perché sono abituati a trattare il loro corpo con aggressività, a metterne alla prova la forza. E i mezzi che scelgono per farla finita sono diretti: la corda, la pistola, il salto nel vuoto. Le ragazze ricorrono a metodi esteticamente meno rovinosi: pastiglie, veleni. Benedette quindi le norme italiane che limitano il porto d'armi, che fanno inserire emetici nei detersivi, che riducono i dosaggi dei farmaci. Che altro si può fare? Costituire – come ha fatto l'Ufficio scolastico della Lombardia, il Csa di Bergamo è pronto a fare altrettanto – un protocollo di intervento in caso di morti accidentali o suicidi fuori e dentro la scuola. Per essere pronti a arginare l'angoscia, incanalare il lutto, evitare che dalla glorificazione del compagno perduto si passi all'imitazione da parte di altri studenti in crisi. Soprattutto, sembra di capire, è meglio che noi adulti cerchiamo di tornare tutti più normali, non più travolti dalle richieste a noi stessi e agli altri. Con qualche divieto accettato in più, con qualche rivalsa in meno. Tutti, perché la causa dell'aumento di suicidi tra gli adolescenti è nell'aria che si respira, non dietro l'uscio di una particolare famiglia problematica e diversa.