Corriere della Sera 22.3.05
Verso l’immortalità con Edoardo Boncinelli
Ida Bozzi
Immortalità, meraviglie della scienza e nuove frontiere della biomedicina: tre incontri al Museo di Scienza e Tecnologia , uno al mese, per parlare degli argomenti e delle curiosità della scienza di oggi. L’occasione è il ciclo «Meraviglia e razionalità», conversazioni con il biologo, fisico, genetista Edoardo Boncinelli per la presentazione di tre suoi nuovi libri. Si comincia oggi con l’incontro «Verso l’immortalità» (ore 18.30, Sala Conte Biancamano, via Olona 6/bis, ingresso libero fino ad esaurimento posti) , in cui lo studioso, partendo dal libro omonimo (pubblicato da Cortina) parlerà dell’allungamento della vita media negli ultimi decenni, delle possibilità attuali della scienza di prolungare la giovinezza, tra ritrovati della medicina e novità della ricerca, e del sogno fantascientifico - o forse no - dell’immortalità. Tra i prossimi incontri in calendario, il 26 aprile su «La poesia della scienza» e il 24 maggio su «Sani per scelta. Malati per caso», sui rapporti tra scienza e società e sulla biomedicina.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
martedì 22 marzo 2005
inaugurato il nuovo carcere per tossici a Castelfranco Emilia
Redattore Sociale 22.3.05
CARCERE
Casa di reclusione per tossicodipendenti di Castelfranco Emilia.
Il Cnca non condivide l'iniziativa: ''Non serve un carcere modello ma un ripensamento del sistema. Preoccupa la trasformazione dell'educatore in guardia carceraria''
ROMA – Il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca) prende le distanze “da un’iniziativa di cui ha appreso notizia solo dai giornali: la proposta governativa di avvio di una nuova sperimentazione nell’area carcere e tossicodipendenze da attuarsi a Castelfranco Emilia, a partire dal prossimo mese di aprile e gestita da un “certo” privato sociale”.
Per la Federazione, “il silenzio su tale iniziativa sarebbe complice verso modalità che non solo non si condividono e nelle quali non ci si lascerà coinvolgere, ma nei riguardi delle quali è urgente una forte azione di contrasto”.
Il Cnca, a partire dalle numerose esperienze attive da anni nelle carceri italiani e svolte in collaborazione con gli operatori pubblici sia dell’area sanitaria che della Giustizia, esprime dunque preoccupazione per tale proposta e chiede l’avvio di una riflessione seria sulla questione carcere e tossicodipendenza, a partire dai seguenti punti.
“Da anni il Cnca, insieme a tutte le realtà che operano negli istituti di pena italiani, pone la questione carcere tra le priorità dell’intervento sociosanitario nel nostro paese. Si registrano punte di una gravità eccezionale: le numerose morti in carcere, le overdose, le varie forme di abbandono o l’assenza di interventi organici e strutturali per la scarsità delle risorse sia professionali sia economiche investite, fino a giungere alla totale assenza di interventi in alcune situazioni specifiche. Le persone tossicodipendenti in carcere risultano superare le 15.000 unità ogni anno; appare, quindi, necessario attivare un piano organico di interventi più che nuove progettazioni “spot” isolate, non ripetibili e di forte profumo elettorale e politico”.
Secondo punto toccato dal Cnca: “Le poche informazioni disponibili sull’esperienza di Castelfranco ci descrivono un capovolgimento della filosofia dell’intervento delle comunità in carcere, con l’assunzione di responsabilità contenitive e di supporto alla detenzione da parte degli operatori sociali. Tale trasferimento del percorso delle comunità e del ruolo degli operatori in un percorso per detenuti, pur se tossicodipendenti, comporta una rinuncia ai fondamenti stessi del percorso terapeutico, cioè la libera scelta e la responsabilità della persona nell’avvio e nel prosieguo del programma rieducativo - principi che il Cnca ritiene ineludibili nei propri interventi. In sé, la presenza degli educatori non modifica da sola la valenza puramente contenitiva che il carcere attualmente esplica. Ci preoccupa la proposta di trasformazione dell’educatore in guardia carceraria e del percorso terapeutico in lavoro in carcere. Riteniamo piuttosto che il lavoro sia estremamente utile ed efficace in contesti di affidamento e detenzione alternativa alla struttura carceraria stessa (la comunità o i servizi territoriali)”.
“Vogliamo poi con estrema franchezza esprimere anche viva preoccupazione per il ruolo improprio e inaccettabile che alcune organizzazioni del privato sociale hanno deciso di condividere nell'esperienza di Castelfranco Emilia – continua la nota del Cnca -. Riteniamo che si rischi una altissima ambiguità in cui le dimensioni educativa e trattamentale, come talvolta è già successo, si convertano in un’esperienza gravemente coercitiva, in una logica puramente dissuasiva, creando forte ambivalenza tra luoghi della giustizia e messaggi pseudo-trattamentali. I rischi che vediamo nell’iniziativa di Castelfranco Emilia ci paiono amplificati anche dal fatto che tale esperienza viene affidata a realtà del privato sociale di cui non condividiamo i dichiarati metodi di dissuasione e di contenimento, a volte estremi, che si vorrebbero legittimati dal fatto che il fine giustifica i mezzi”.
“Preoccupa anche l’assenza, nella proposta governativa, di una progettualità condivisa con la rete territoriale e lo scavalcamento delle competenze pubbliche territoriali – conclude la Federazione -. Riteniamo, invece, che vadano sviluppate progettazioni e percorsi condivisi con tutte le componenti sia pubbliche sia private che con il carcere collaborano: enti locali, Sert, comunità, associazioni, operatori della giustizia. Le numerose seppur faticose esperienze all’oggi avviate – a Milano, a Roma, a Firenze – ci insegnano come sia possibile un approccio diverso, tra carcere e territorio, tra pena e cura, tra reato e tossicodipendenza. Non servono le “pseudo carceri modello”; il carcere non può essere il nuovo scenario dello scontro politico, serve un progetto vero e complessivo con interventi organici e strutturali che prevedano un ricorso ben più significativo e integrato alle misure alternative alla detenzione”.
Corriere della Sera 22.3.05
CASTELFRANCO EMILIA (Modena) - Per Roberto Castelli, ministro leghista alla Giustizia, è un fiore all’occhiello. Per l’opposizione è fumo negli occhi. Adesso l’Italia ha il primo carcere a custodia attenuata per i tossicodipendenti e un nuovo fronte di polemiche. Una struttura pilota per il governo, con meno inferriate e più riabilitazione. Un lager, un ghetto, una San Patrignano con le sbarre per il popolo anti. Una quarantina di «disobbedienti» ha bloccato la via Emilia per protestare, altri 150 manifestanti (un Coordinamento che riunisce Prc, Verdi, Cgil, Social Forum modenese) hanno scelto il contrasto morbido: striscioni e slogan. I primi hanno fatto arrabbiare gli automobilisti costretti a quasi 2 ore di blocco del traffico. I secondi hanno irritato i due ministri intervenuti all’inaugurazione. Carlo Giovanardi, responsabile per i Rapporti con il Parlamento, ha stigmatizzato il «furore ideologico» e la «disinformazione» attorno all’iniziativa. «Chi la paragona ad Auschwitz non sa di cosa parla». Roberto Castelli, contento per la realizzazione del carcere light per tossici, è stato pesante con un giornalista di Repubblica (preannuncio di querela) «reo» di aver indicato San Patrignano come modello di riferimento della struttura. Per il Guardasigilli, nessun appalto esclusivo alla Comunità fondata da Vincenzo Muccioli. «San Patrignano ha molti meriti, ma non vuol dire che gli daremo la gestione privatistica dell’istituto».
Per la prima volta un istituto penitenziario è inaugurato da due ministri. «Dimostrazione di quanto al governo stiano a cuore le politiche per i tossicodipendenti», ha detto Castelli. Per gli oppositori (che hanno manifestato anche a Roma, sotto il ministero della Giustizia) è stato uno spot elettorale.
Il problema droga in carcere è enorme: il 30% dei detenuti è tossico, il 40% di chi è in cella ha commesso reati legati alla droga. Castelli dice che la risposta dello Stato non può essere solo cella più chimica: «A lungo andare condanna i tossicodipendenti alla disperazione». Castelfranco sarà un’esperienza pilota: l’amministrazione penitenziaria chiama a collaborare le agenzie antidroga. La struttura è ricavata in un fortilizio voluto da Papa Urbano VIII. A vederla ha poco del carcere e molto della comunità: stanze a 2 o 3 letti con bagno, acqua calda e tv. Gli ospiti, tutti uomini, saranno un’ottantina: i primi 40 arriveranno dal 1° aprile. Scontano condanne a più di 4 anni e perciò non sono ammessi ai servizi sociali esterni. I detenuti lavoreranno in laboratori, stalle, serre, campi, ma ci sarà molta severità nel recupero. Chi sgarra torna in una cella tradizionale.
CARCERE
Casa di reclusione per tossicodipendenti di Castelfranco Emilia.
Il Cnca non condivide l'iniziativa: ''Non serve un carcere modello ma un ripensamento del sistema. Preoccupa la trasformazione dell'educatore in guardia carceraria''
ROMA – Il Coordinamento Nazionale Comunità di Accoglienza (Cnca) prende le distanze “da un’iniziativa di cui ha appreso notizia solo dai giornali: la proposta governativa di avvio di una nuova sperimentazione nell’area carcere e tossicodipendenze da attuarsi a Castelfranco Emilia, a partire dal prossimo mese di aprile e gestita da un “certo” privato sociale”.
Per la Federazione, “il silenzio su tale iniziativa sarebbe complice verso modalità che non solo non si condividono e nelle quali non ci si lascerà coinvolgere, ma nei riguardi delle quali è urgente una forte azione di contrasto”.
Il Cnca, a partire dalle numerose esperienze attive da anni nelle carceri italiani e svolte in collaborazione con gli operatori pubblici sia dell’area sanitaria che della Giustizia, esprime dunque preoccupazione per tale proposta e chiede l’avvio di una riflessione seria sulla questione carcere e tossicodipendenza, a partire dai seguenti punti.
“Da anni il Cnca, insieme a tutte le realtà che operano negli istituti di pena italiani, pone la questione carcere tra le priorità dell’intervento sociosanitario nel nostro paese. Si registrano punte di una gravità eccezionale: le numerose morti in carcere, le overdose, le varie forme di abbandono o l’assenza di interventi organici e strutturali per la scarsità delle risorse sia professionali sia economiche investite, fino a giungere alla totale assenza di interventi in alcune situazioni specifiche. Le persone tossicodipendenti in carcere risultano superare le 15.000 unità ogni anno; appare, quindi, necessario attivare un piano organico di interventi più che nuove progettazioni “spot” isolate, non ripetibili e di forte profumo elettorale e politico”.
Secondo punto toccato dal Cnca: “Le poche informazioni disponibili sull’esperienza di Castelfranco ci descrivono un capovolgimento della filosofia dell’intervento delle comunità in carcere, con l’assunzione di responsabilità contenitive e di supporto alla detenzione da parte degli operatori sociali. Tale trasferimento del percorso delle comunità e del ruolo degli operatori in un percorso per detenuti, pur se tossicodipendenti, comporta una rinuncia ai fondamenti stessi del percorso terapeutico, cioè la libera scelta e la responsabilità della persona nell’avvio e nel prosieguo del programma rieducativo - principi che il Cnca ritiene ineludibili nei propri interventi. In sé, la presenza degli educatori non modifica da sola la valenza puramente contenitiva che il carcere attualmente esplica. Ci preoccupa la proposta di trasformazione dell’educatore in guardia carceraria e del percorso terapeutico in lavoro in carcere. Riteniamo piuttosto che il lavoro sia estremamente utile ed efficace in contesti di affidamento e detenzione alternativa alla struttura carceraria stessa (la comunità o i servizi territoriali)”.
“Vogliamo poi con estrema franchezza esprimere anche viva preoccupazione per il ruolo improprio e inaccettabile che alcune organizzazioni del privato sociale hanno deciso di condividere nell'esperienza di Castelfranco Emilia – continua la nota del Cnca -. Riteniamo che si rischi una altissima ambiguità in cui le dimensioni educativa e trattamentale, come talvolta è già successo, si convertano in un’esperienza gravemente coercitiva, in una logica puramente dissuasiva, creando forte ambivalenza tra luoghi della giustizia e messaggi pseudo-trattamentali. I rischi che vediamo nell’iniziativa di Castelfranco Emilia ci paiono amplificati anche dal fatto che tale esperienza viene affidata a realtà del privato sociale di cui non condividiamo i dichiarati metodi di dissuasione e di contenimento, a volte estremi, che si vorrebbero legittimati dal fatto che il fine giustifica i mezzi”.
“Preoccupa anche l’assenza, nella proposta governativa, di una progettualità condivisa con la rete territoriale e lo scavalcamento delle competenze pubbliche territoriali – conclude la Federazione -. Riteniamo, invece, che vadano sviluppate progettazioni e percorsi condivisi con tutte le componenti sia pubbliche sia private che con il carcere collaborano: enti locali, Sert, comunità, associazioni, operatori della giustizia. Le numerose seppur faticose esperienze all’oggi avviate – a Milano, a Roma, a Firenze – ci insegnano come sia possibile un approccio diverso, tra carcere e territorio, tra pena e cura, tra reato e tossicodipendenza. Non servono le “pseudo carceri modello”; il carcere non può essere il nuovo scenario dello scontro politico, serve un progetto vero e complessivo con interventi organici e strutturali che prevedano un ricorso ben più significativo e integrato alle misure alternative alla detenzione”.
© Copyright Redattore Sociale
Corriere della Sera 22.3.05
CASTELFRANCO EMILIA (Modena) - Per Roberto Castelli, ministro leghista alla Giustizia, è un fiore all’occhiello. Per l’opposizione è fumo negli occhi. Adesso l’Italia ha il primo carcere a custodia attenuata per i tossicodipendenti e un nuovo fronte di polemiche. Una struttura pilota per il governo, con meno inferriate e più riabilitazione. Un lager, un ghetto, una San Patrignano con le sbarre per il popolo anti. Una quarantina di «disobbedienti» ha bloccato la via Emilia per protestare, altri 150 manifestanti (un Coordinamento che riunisce Prc, Verdi, Cgil, Social Forum modenese) hanno scelto il contrasto morbido: striscioni e slogan. I primi hanno fatto arrabbiare gli automobilisti costretti a quasi 2 ore di blocco del traffico. I secondi hanno irritato i due ministri intervenuti all’inaugurazione. Carlo Giovanardi, responsabile per i Rapporti con il Parlamento, ha stigmatizzato il «furore ideologico» e la «disinformazione» attorno all’iniziativa. «Chi la paragona ad Auschwitz non sa di cosa parla». Roberto Castelli, contento per la realizzazione del carcere light per tossici, è stato pesante con un giornalista di Repubblica (preannuncio di querela) «reo» di aver indicato San Patrignano come modello di riferimento della struttura. Per il Guardasigilli, nessun appalto esclusivo alla Comunità fondata da Vincenzo Muccioli. «San Patrignano ha molti meriti, ma non vuol dire che gli daremo la gestione privatistica dell’istituto».
Per la prima volta un istituto penitenziario è inaugurato da due ministri. «Dimostrazione di quanto al governo stiano a cuore le politiche per i tossicodipendenti», ha detto Castelli. Per gli oppositori (che hanno manifestato anche a Roma, sotto il ministero della Giustizia) è stato uno spot elettorale.
Il problema droga in carcere è enorme: il 30% dei detenuti è tossico, il 40% di chi è in cella ha commesso reati legati alla droga. Castelli dice che la risposta dello Stato non può essere solo cella più chimica: «A lungo andare condanna i tossicodipendenti alla disperazione». Castelfranco sarà un’esperienza pilota: l’amministrazione penitenziaria chiama a collaborare le agenzie antidroga. La struttura è ricavata in un fortilizio voluto da Papa Urbano VIII. A vederla ha poco del carcere e molto della comunità: stanze a 2 o 3 letti con bagno, acqua calda e tv. Gli ospiti, tutti uomini, saranno un’ottantina: i primi 40 arriveranno dal 1° aprile. Scontano condanne a più di 4 anni e perciò non sono ammessi ai servizi sociali esterni. I detenuti lavoreranno in laboratori, stalle, serre, campi, ma ci sarà molta severità nel recupero. Chi sgarra torna in una cella tradizionale.
dopo il pronunciamento di Fassino sulla presunta "svolta" di Bush
La Gazzetta del Sud 22.3.05
Mussi gli ricorda la comune appartenenza comunista. Secondo Cossutta «ha preso un abbaglio»
Non è piaciuta a sinistra l'apertura del segretario diessino sulla nuova politica americana per i diritti civili
I compagni “strigliano” Fassino
Giuseppe Dalla Corte
ROMA – Il «no» alla guerra preventiva non può far archiviare, in primo luogo ai progressisti la domanda di «diritti umani, civili, politici» e sarebbe «paradossale» se proprio la sinistra non fosse «in prima linea» per l'affermazione della democrazia e di quei diritti. E' quanto scrive il segretario dei Ds, Piero Fassino, in un articolo per «l'Unità» di oggi, ribadendo la sua tesi della «politica preventiva». «Il rifiuto della dottrina della guerra preventiva (inaccettabile in linea di principio e foriera di instabilità e tensioni, come l'Irak ha drammaticamente dimostrato) non può farci archiviare una domanda che nell'era della globalizzazione si è fatta sempre più stringente: come possiamo promuovere diritti umani, civili, politici laddove essi vengono sistematicamente negati da orrende dittature e regimi antidemocratici? La sinistra democratica – sottolinea – deve e può misurarsi con questo nodo liberandosi di due idee vecchie e sbagliate: che si possano scindere le libertà civili dai diritti economici e sociali, e che la sovranità nazionale possa essere una soglia invalicabile di fronte a gravi violazioni dei diritti umani». In sostanza Fassino ribadisce, precisandolo, il pensiero espresso in un'intervista a «La Stampa» nella quale, accogliendo l'invito di Casini, aveva invitato ad affrontare con meno timidezza il tema delle libertà e della democrazia nelle aree del mondo in cui mancano. Ribadiva, in pratica, un'apertura di credito nei confronti del presidente Usa George Bush autore, a suo dire, di una svolta. Ma proprio questo atteggiamento ha provocato la durissima reazione dei “compagni” che lo hanno aspramente criticato. «Che si pensi che Bush e gli Stati Uniti possano garantire i regimi democratici attraverso la guerra, è cosa che sorprende e alla quale non possono credere nemmeno i bambini dell'asilo. Ma che una posizione di questo tipo sia stata assunta in sostanza dal segretario nazionale dei Ds, Piero Fassino, è cosa che colpisce molto amaramente». Armando Cossutta commenta così le osservazioni del segretario dei Ds sulla politica estera dell'amministrazione americana. Fassino, in sintesi, ritiene che la sinistra europea debba porsi comunque il tema della diffusione della democrazia nel mondo e non lasciare questo obiettivo in mano ai repubblicani d'oltreoceano e nell'intervista aveva parlato della necessità di una «maggiore intransigenza dell'Occidente verso chi nega i valori di libertà». «A questa stregua – osserva Cossutta – si finirebbe per giustificare la partecipazione dell'Italia alla guerra americana in Irak e la permanenza del nostro contingente militare in quella terra. Mi pare che sia stato preso un abbaglio». «La democrazia – sottolinea il presidente del Pdci – non si esporta con i missili, ma è proprio con i missili e con una guerra tipicamente coloniale che gli Usa e Bush si sono impadroniti del petrolio iracheno e hanno imposto il loro dominio in una zona strategica del mondo, per il presente e per il futuro». «Credo che l'intervento di Fassino sia stato un po' uno scivolone e soprattutto non credo che possa mai voler dire che la guerra di Bush può avere avuto elementi utili alla democrazia». Così il presidente dei Verdi, Alfonso Pecoraro Scanio. «La guerra non è mai un elemento che aiuta la democrazia, io – sottolinea Pecoraro – mi aspetto un'intransigenza vera del governo americano quando la vedrò con la Repubblica cinese che tiene il Tibet in schiavitù e manda la pena di morte a chi fa semplicemente delle attività quasi sportive o quando lo farà con lo stato arabo che taglia le mani a chi ruba o impedisce le donne anche a guidare le auto». Anche il coordinatore del correntone Ds, Fabio Mussi, prende le distanze dalle affermazioni del segretario Piero Fassino e di Umberto Ranieri sulla guerra. In un articolo per Aprileonline, Mussi paventa anche il rischio del riemergere ad occidente della teoria sovietica della «sovranità limitata». Dopo aver osservato che Fassino starebbe piegando verso la sinistra di governo alla Blair «che si muove all'ombra dei neocons americani» anziché quella alla Zapatero, Mussi afferma di condividere «il fatto che “democrazia, diritti e libertà debbano essere difesi con intransigenza”». Ma «chiedo che si dica più chiaramente – aggiunge Mussi – che la guerra non è una forma, seppure estrema, di “intransigenza democratica”. La guerra è violenza, arbitrio e impero». Mussi ricorda a Fassino ed a Ranieri che «apparteniamo tutti alla generazione di comunisti che si è opposta radicalmente alla dottrina sovietica della sovranità limitata e all'idea di una esportazione del socialismo sui cingoli dei carri armati». «Non sono disposto ora – aggiunge – ad adeguarmi alla nuova dottrina di un mondo a sovranità limitata, e all'idea di una esportazione della democrazia sulle ali dei cacciabombardieri».
Mussi gli ricorda la comune appartenenza comunista. Secondo Cossutta «ha preso un abbaglio»
Non è piaciuta a sinistra l'apertura del segretario diessino sulla nuova politica americana per i diritti civili
I compagni “strigliano” Fassino
Giuseppe Dalla Corte
ROMA – Il «no» alla guerra preventiva non può far archiviare, in primo luogo ai progressisti la domanda di «diritti umani, civili, politici» e sarebbe «paradossale» se proprio la sinistra non fosse «in prima linea» per l'affermazione della democrazia e di quei diritti. E' quanto scrive il segretario dei Ds, Piero Fassino, in un articolo per «l'Unità» di oggi, ribadendo la sua tesi della «politica preventiva». «Il rifiuto della dottrina della guerra preventiva (inaccettabile in linea di principio e foriera di instabilità e tensioni, come l'Irak ha drammaticamente dimostrato) non può farci archiviare una domanda che nell'era della globalizzazione si è fatta sempre più stringente: come possiamo promuovere diritti umani, civili, politici laddove essi vengono sistematicamente negati da orrende dittature e regimi antidemocratici? La sinistra democratica – sottolinea – deve e può misurarsi con questo nodo liberandosi di due idee vecchie e sbagliate: che si possano scindere le libertà civili dai diritti economici e sociali, e che la sovranità nazionale possa essere una soglia invalicabile di fronte a gravi violazioni dei diritti umani». In sostanza Fassino ribadisce, precisandolo, il pensiero espresso in un'intervista a «La Stampa» nella quale, accogliendo l'invito di Casini, aveva invitato ad affrontare con meno timidezza il tema delle libertà e della democrazia nelle aree del mondo in cui mancano. Ribadiva, in pratica, un'apertura di credito nei confronti del presidente Usa George Bush autore, a suo dire, di una svolta. Ma proprio questo atteggiamento ha provocato la durissima reazione dei “compagni” che lo hanno aspramente criticato. «Che si pensi che Bush e gli Stati Uniti possano garantire i regimi democratici attraverso la guerra, è cosa che sorprende e alla quale non possono credere nemmeno i bambini dell'asilo. Ma che una posizione di questo tipo sia stata assunta in sostanza dal segretario nazionale dei Ds, Piero Fassino, è cosa che colpisce molto amaramente». Armando Cossutta commenta così le osservazioni del segretario dei Ds sulla politica estera dell'amministrazione americana. Fassino, in sintesi, ritiene che la sinistra europea debba porsi comunque il tema della diffusione della democrazia nel mondo e non lasciare questo obiettivo in mano ai repubblicani d'oltreoceano e nell'intervista aveva parlato della necessità di una «maggiore intransigenza dell'Occidente verso chi nega i valori di libertà». «A questa stregua – osserva Cossutta – si finirebbe per giustificare la partecipazione dell'Italia alla guerra americana in Irak e la permanenza del nostro contingente militare in quella terra. Mi pare che sia stato preso un abbaglio». «La democrazia – sottolinea il presidente del Pdci – non si esporta con i missili, ma è proprio con i missili e con una guerra tipicamente coloniale che gli Usa e Bush si sono impadroniti del petrolio iracheno e hanno imposto il loro dominio in una zona strategica del mondo, per il presente e per il futuro». «Credo che l'intervento di Fassino sia stato un po' uno scivolone e soprattutto non credo che possa mai voler dire che la guerra di Bush può avere avuto elementi utili alla democrazia». Così il presidente dei Verdi, Alfonso Pecoraro Scanio. «La guerra non è mai un elemento che aiuta la democrazia, io – sottolinea Pecoraro – mi aspetto un'intransigenza vera del governo americano quando la vedrò con la Repubblica cinese che tiene il Tibet in schiavitù e manda la pena di morte a chi fa semplicemente delle attività quasi sportive o quando lo farà con lo stato arabo che taglia le mani a chi ruba o impedisce le donne anche a guidare le auto». Anche il coordinatore del correntone Ds, Fabio Mussi, prende le distanze dalle affermazioni del segretario Piero Fassino e di Umberto Ranieri sulla guerra. In un articolo per Aprileonline, Mussi paventa anche il rischio del riemergere ad occidente della teoria sovietica della «sovranità limitata». Dopo aver osservato che Fassino starebbe piegando verso la sinistra di governo alla Blair «che si muove all'ombra dei neocons americani» anziché quella alla Zapatero, Mussi afferma di condividere «il fatto che “democrazia, diritti e libertà debbano essere difesi con intransigenza”». Ma «chiedo che si dica più chiaramente – aggiunge Mussi – che la guerra non è una forma, seppure estrema, di “intransigenza democratica”. La guerra è violenza, arbitrio e impero». Mussi ricorda a Fassino ed a Ranieri che «apparteniamo tutti alla generazione di comunisti che si è opposta radicalmente alla dottrina sovietica della sovranità limitata e all'idea di una esportazione del socialismo sui cingoli dei carri armati». «Non sono disposto ora – aggiunge – ad adeguarmi alla nuova dottrina di un mondo a sovranità limitata, e all'idea di una esportazione della democrazia sulle ali dei cacciabombardieri».
la pillola dell'obbedienza
L'Unità 22 Marzo 2005
La Pillola dell’Obbedienza
I bambini e l’abuso del Ritalin
Anna Maria De Angelis
Domenica 20 marzo ore 12.00. Sono seduta al Bar in piazza del Colosseo per la manifestazione contro il Ritalin, la pillola dell’obbedienza che serve a sedare i bambini che hanno l’«argento vivo addosso».
Ci sono gli amici del Coordinamento dei Genitori Democratici, Psichiatria Democratica, medici, pubblici amministratori, tanti bambini e tanta gente «abile» e «diversabile». Uno degli slogan scritti sulle magliette è «Diversi da chi? Visto da vicino, nessuno è normale». Ho appena salutato e scambiato due parole con Giusy e Tiziana.
Tra “Bocca di Rosa”, “Ciao bella Ciao”, i colori, le riflessioni, l'allegria e la rabbia, nel pagare il caffè mi ritrovo un biglietto da visita che mi ha dato uno psichiatra durante un convegno sul disturbo mentale. Nel retro leggo: «Occorre dimostrare con i fatti che la malattia mentale non crea fossati invalicabili né impedisce rapporti autentici tra le persone», Giovanni Paolo II novembre 1996.
Penso a mio figlio. È a casa per il week end; da più di un anno è ospite di una comunità terapeutica in psichiatria. Voleva venire anche lui, indignato per questo farmaco terribile, ma ha preferito rimanere a casa per riposarsi.
Mi rigiro il biglietto tra le mani, do uno sguardo alla gente che si assiepa intorno al banchetto delle firme, penso con sconforto ai bambini possibili soggetti inermi e inconsapevoli di tanta malvagità quale è la sedazione farmacologica, quando si siede accanto a me un'amica dell'associazione sulla salute mentale a cui ambedue apparteniamo. Mi chiede come sta mio figlio, io le chiedo di sua sorella, ci confrontiamo su comuni riflessioni in merito al Ritalin e agli psicofarmaci e a come i pazienti psichiatrici siano sempre più sedati (e spesso non curati). Ci ripetiamo le infinite risposte che gli operatori danno a utenti e familiari; sono sintetizzabili in «non ci sono le risorse». Federica allora mi chiede se ho letto la notizia di quella madre che ha ucciso la figlia neonata.
Cala il silenzio. È difficile capire chi è diverso, chi ha bisogno di ascolto, noi lo sappiamo… e poi.. di fronte a questa tragedia… Ci salutiamo con dolcezza.
Perché noi familiari non siamo aiutati di più? Abbiamo bisogno di un linguaggio semplice che arrivi al cuore e alla intelligenza di tutti senza banalizzazioni, penso.
E ripenso alla frase di Giovanni Paolo II, «occorre con i fatti…» . Rileggo mentalmente la notizia terribile apparsa sulle pagine dei quotidiani locali e nazionali su questa donna che ha ucciso la figlia appena nata. L'ha uccisa con un coltello, all'alba, a Roma. Un medico le aveva dato dei sedativi di notte. Sembra che nessuno del Centro di Salute Mentale l'avesse visitata dal 2003. Certo mi dico, i familiari non hanno chiamato il 118. Ma come è difficile farlo… ci si vergogna… è normale… E poi la psichiatra le aveva consigliato di non avere figli… Ma quando? E aveva parlato con il compagno? I familiari erano stati coinvolti? E quanto? Quanto resi partecipi e consapevoli di un disturbo a cui non si può fare la TAC? Senza criminalizzazioni e con un po’ di conforto. Morta la piccola Ilaria e uccisa per sempre nell'anima, Maria la madre, con un nome evocatore. A volte penso che sia un destino ineluttabile. Ma non è vero.
Se il Centro di Salute Mentale fosse stato aperto anche di notte con tutte le informazioni sul caso…
Se qualcuno avesse cercato Maria…
Saluto Giusy, entro in macchina e torno a casa da mio figlio e dalla mia famiglia.
La Pillola dell’Obbedienza
I bambini e l’abuso del Ritalin
Anna Maria De Angelis
Domenica 20 marzo ore 12.00. Sono seduta al Bar in piazza del Colosseo per la manifestazione contro il Ritalin, la pillola dell’obbedienza che serve a sedare i bambini che hanno l’«argento vivo addosso».
Ci sono gli amici del Coordinamento dei Genitori Democratici, Psichiatria Democratica, medici, pubblici amministratori, tanti bambini e tanta gente «abile» e «diversabile». Uno degli slogan scritti sulle magliette è «Diversi da chi? Visto da vicino, nessuno è normale». Ho appena salutato e scambiato due parole con Giusy e Tiziana.
Tra “Bocca di Rosa”, “Ciao bella Ciao”, i colori, le riflessioni, l'allegria e la rabbia, nel pagare il caffè mi ritrovo un biglietto da visita che mi ha dato uno psichiatra durante un convegno sul disturbo mentale. Nel retro leggo: «Occorre dimostrare con i fatti che la malattia mentale non crea fossati invalicabili né impedisce rapporti autentici tra le persone», Giovanni Paolo II novembre 1996.
Penso a mio figlio. È a casa per il week end; da più di un anno è ospite di una comunità terapeutica in psichiatria. Voleva venire anche lui, indignato per questo farmaco terribile, ma ha preferito rimanere a casa per riposarsi.
Mi rigiro il biglietto tra le mani, do uno sguardo alla gente che si assiepa intorno al banchetto delle firme, penso con sconforto ai bambini possibili soggetti inermi e inconsapevoli di tanta malvagità quale è la sedazione farmacologica, quando si siede accanto a me un'amica dell'associazione sulla salute mentale a cui ambedue apparteniamo. Mi chiede come sta mio figlio, io le chiedo di sua sorella, ci confrontiamo su comuni riflessioni in merito al Ritalin e agli psicofarmaci e a come i pazienti psichiatrici siano sempre più sedati (e spesso non curati). Ci ripetiamo le infinite risposte che gli operatori danno a utenti e familiari; sono sintetizzabili in «non ci sono le risorse». Federica allora mi chiede se ho letto la notizia di quella madre che ha ucciso la figlia neonata.
Cala il silenzio. È difficile capire chi è diverso, chi ha bisogno di ascolto, noi lo sappiamo… e poi.. di fronte a questa tragedia… Ci salutiamo con dolcezza.
Perché noi familiari non siamo aiutati di più? Abbiamo bisogno di un linguaggio semplice che arrivi al cuore e alla intelligenza di tutti senza banalizzazioni, penso.
E ripenso alla frase di Giovanni Paolo II, «occorre con i fatti…» . Rileggo mentalmente la notizia terribile apparsa sulle pagine dei quotidiani locali e nazionali su questa donna che ha ucciso la figlia appena nata. L'ha uccisa con un coltello, all'alba, a Roma. Un medico le aveva dato dei sedativi di notte. Sembra che nessuno del Centro di Salute Mentale l'avesse visitata dal 2003. Certo mi dico, i familiari non hanno chiamato il 118. Ma come è difficile farlo… ci si vergogna… è normale… E poi la psichiatra le aveva consigliato di non avere figli… Ma quando? E aveva parlato con il compagno? I familiari erano stati coinvolti? E quanto? Quanto resi partecipi e consapevoli di un disturbo a cui non si può fare la TAC? Senza criminalizzazioni e con un po’ di conforto. Morta la piccola Ilaria e uccisa per sempre nell'anima, Maria la madre, con un nome evocatore. A volte penso che sia un destino ineluttabile. Ma non è vero.
Se il Centro di Salute Mentale fosse stato aperto anche di notte con tutte le informazioni sul caso…
Se qualcuno avesse cercato Maria…
Saluto Giusy, entro in macchina e torno a casa da mio figlio e dalla mia famiglia.
risultati della ricerca Usa:
per la felicità? amicizia e gratitudine...
Repubblica 21.3.05
Più bontà che farmaci, la frontiera della felicità
Gli scienziati americani alla ricerca di un salto di qualità ma si scopre che è più facile la lotta contro la depressione
LAURA KISS
C’è chi parla di nascita di una nuova scienza, chi invece sostiene che la ricerca della felicità sia connaturata nei geni dell’uomo. Fatto sta che nel mondo accademico della psichiatria e della psicologia c’è un nuovo fermento, una corsa generale per misurare il grado di felicità degli esseri umani. Finora la gran parte degli studiosi si è accontentata di studiare i fenomeni dell’infelicità come ansia, depressione, ossessione, nevrosi, paranoia. Il lavoro svolto finora dagli esperti è stato di cercare di portare pazienti affetti dal mal de vivre da una soglia di sofferenza di "5" al livello 0, ossia all’assenza del malessere. Oggi invece la sfida dei guru della psicologia è di riuscire a far provare ai propri pazienti cosa sia la felicità, quantificando il livello da raggiungere in un "+5".
Come si fa? Per prima cosa riunirsi all’ombra delle palme da cocco a guardare il mar dei Carabi messicano è sembrato a Martin Seligman, professore di psicologia all’università di Pennsylvania, un buon inizio. Ha convocato, come presidente dell’American Psychology Association, esimi colleghi con i quali per una settimana si è interrogato su cosa rende davvero soddisfatti e felici gli esseri umani. «La salute mentale dev’essere qualcosa di più che l’assenza di disturbi mentali», sostiene Seligman. «Fino a poco tempo fa le ricerche sulla felicità sono state davvero pochissime, tutti gli sforzi infatti si sono concentrati sullo studio dei fenomeni della sofferenza. Oggi ci stiamo interessando alle cause che possono rendere felici e stiamo scoprendo realtà davvero interessanti». Uno degli esperti convocati ad Akumal da Seligman si è addirittura conquistato il titolo di "Dottor Felicità": si tratta di Edward Diener, professore di psicologia dell’università dell’Illinois che da vent’anni studia le cause della felicità e dell’infelicità. Il primo risultato che è emerso dalle ricerche condotte da Diener e Seligman è che una volta soddisfatti i bisogni primari le persone non diventano più felici conquistando ulteriore benessere. Neppure la salute o il poter accedere ad una buona educazione universitaria aiutano a far aumentare il livello di felicità, tanto meno l’ottenimento di maggiori benefici materiali, perché molto spesso la gente dà per scontata l’acquisizione di questo status. E nemmeno la gioventù aiuta, anzi: una ricerca del Centro di controllo per la prevenzione delle depressioni del Ministero della salute americano ha rilevato che i ragazzi tra i 20 e i 24 anni sono tristi in media per 34 giorni al mese, mentre gli anziani tra i 65 e i 74 anni passano momenti di depressione soltanto per 23 giorni al mese.
Ma allora cos’è che ci può aiutare a diventare un po’ più felici? Non certo i farmaci, che aiutano a superare i momenti di crisi, nei casi di patologie gravi si rendono indispensabili ma non portano alla felicità. Sembra che il segreto sia in due parole: amicizia e gratitudine. I risultati delle ricerche raggiungono lo stesso risultato: chi condivide il proprio tempo con gli amici avendo obiettivi comuni riesce a sentirsi più felice e allo stesso tempo sviluppa un senso di gratitudine per la vita che sembra essere davvero la killer application per superare la depressione e provare gioia di vivere. Anche per Ruut Veenhoven professore di studi sulla felicità all’università Erasmus di Rotterdam e direttore del Journal of Happiness Studies i risultati delle ricerche portano alle medesime conclusioni, con alcune curiosità in più, come il fatto che chi beve uno o due bicchieri di vino al giorno sembra essere più felice di chi non lo fa o di chi abusa dell’alcool. Anche gli esercizi di gratitudine aiutano moltissimo, addirittura migliorano spesso lo stato di salute di chi li pratica e aumentano il livello di energia fisica e mentale diminuendo la percezione della fatica e del dolore, come risulta da studi condotti all’università di California da Robert Emmons. «Anche soltanto fare una visita ai nonni o ai genitori per alleviare la loro solitudine ha effetti benefici sull’umore di chi la fa: i risultati durano anche per un mese».
Più bontà che farmaci, la frontiera della felicità
Gli scienziati americani alla ricerca di un salto di qualità ma si scopre che è più facile la lotta contro la depressione
LAURA KISS
C’è chi parla di nascita di una nuova scienza, chi invece sostiene che la ricerca della felicità sia connaturata nei geni dell’uomo. Fatto sta che nel mondo accademico della psichiatria e della psicologia c’è un nuovo fermento, una corsa generale per misurare il grado di felicità degli esseri umani. Finora la gran parte degli studiosi si è accontentata di studiare i fenomeni dell’infelicità come ansia, depressione, ossessione, nevrosi, paranoia. Il lavoro svolto finora dagli esperti è stato di cercare di portare pazienti affetti dal mal de vivre da una soglia di sofferenza di "5" al livello 0, ossia all’assenza del malessere. Oggi invece la sfida dei guru della psicologia è di riuscire a far provare ai propri pazienti cosa sia la felicità, quantificando il livello da raggiungere in un "+5".
Come si fa? Per prima cosa riunirsi all’ombra delle palme da cocco a guardare il mar dei Carabi messicano è sembrato a Martin Seligman, professore di psicologia all’università di Pennsylvania, un buon inizio. Ha convocato, come presidente dell’American Psychology Association, esimi colleghi con i quali per una settimana si è interrogato su cosa rende davvero soddisfatti e felici gli esseri umani. «La salute mentale dev’essere qualcosa di più che l’assenza di disturbi mentali», sostiene Seligman. «Fino a poco tempo fa le ricerche sulla felicità sono state davvero pochissime, tutti gli sforzi infatti si sono concentrati sullo studio dei fenomeni della sofferenza. Oggi ci stiamo interessando alle cause che possono rendere felici e stiamo scoprendo realtà davvero interessanti». Uno degli esperti convocati ad Akumal da Seligman si è addirittura conquistato il titolo di "Dottor Felicità": si tratta di Edward Diener, professore di psicologia dell’università dell’Illinois che da vent’anni studia le cause della felicità e dell’infelicità. Il primo risultato che è emerso dalle ricerche condotte da Diener e Seligman è che una volta soddisfatti i bisogni primari le persone non diventano più felici conquistando ulteriore benessere. Neppure la salute o il poter accedere ad una buona educazione universitaria aiutano a far aumentare il livello di felicità, tanto meno l’ottenimento di maggiori benefici materiali, perché molto spesso la gente dà per scontata l’acquisizione di questo status. E nemmeno la gioventù aiuta, anzi: una ricerca del Centro di controllo per la prevenzione delle depressioni del Ministero della salute americano ha rilevato che i ragazzi tra i 20 e i 24 anni sono tristi in media per 34 giorni al mese, mentre gli anziani tra i 65 e i 74 anni passano momenti di depressione soltanto per 23 giorni al mese.
Ma allora cos’è che ci può aiutare a diventare un po’ più felici? Non certo i farmaci, che aiutano a superare i momenti di crisi, nei casi di patologie gravi si rendono indispensabili ma non portano alla felicità. Sembra che il segreto sia in due parole: amicizia e gratitudine. I risultati delle ricerche raggiungono lo stesso risultato: chi condivide il proprio tempo con gli amici avendo obiettivi comuni riesce a sentirsi più felice e allo stesso tempo sviluppa un senso di gratitudine per la vita che sembra essere davvero la killer application per superare la depressione e provare gioia di vivere. Anche per Ruut Veenhoven professore di studi sulla felicità all’università Erasmus di Rotterdam e direttore del Journal of Happiness Studies i risultati delle ricerche portano alle medesime conclusioni, con alcune curiosità in più, come il fatto che chi beve uno o due bicchieri di vino al giorno sembra essere più felice di chi non lo fa o di chi abusa dell’alcool. Anche gli esercizi di gratitudine aiutano moltissimo, addirittura migliorano spesso lo stato di salute di chi li pratica e aumentano il livello di energia fisica e mentale diminuendo la percezione della fatica e del dolore, come risulta da studi condotti all’università di California da Robert Emmons. «Anche soltanto fare una visita ai nonni o ai genitori per alleviare la loro solitudine ha effetti benefici sull’umore di chi la fa: i risultati durano anche per un mese».
Martedì 22 marzo - ore 17.30
Sala del D.L.F. Via Alamanni n. 6r - FIRENZE
Difendiamo la Costituzione della Repubblica
Quale impegno della Regione Toscana?
Incontro pubblico
con le forze politiche democratiche e con i candidati alle elezioni regionali
Introduce
Il Prof. Alessandro PIZZORUSSO
(docente di diritto costituzionale all’Università di Pisa)
Sono stati invitati le segreterie dei partiti:
D.S., Margherita, S.D.I., Comunisti Italiani, Verdi, Rifondazione Comunista, Italia dei Valori ed i candidati alle elezioni regionali.
TUTTI I CITTADINI SONO INVITATI A PARTECIPARE
COMITATO UNITARIO PER LA DIFESA DELLA COSTITUZIONE - FIRENZE
Info: "Aequa Firenze" aequafirenze@inwind.it
"Il Ponte", via L. Manara 10-12, 50135 Firenze, tel. 055-6235455
ilponteed@iol.it
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Sala del D.L.F. Via Alamanni n. 6r - FIRENZE
Difendiamo la Costituzione della Repubblica
Quale impegno della Regione Toscana?
Incontro pubblico
con le forze politiche democratiche e con i candidati alle elezioni regionali
Introduce
Il Prof. Alessandro PIZZORUSSO
(docente di diritto costituzionale all’Università di Pisa)
Sono stati invitati le segreterie dei partiti:
D.S., Margherita, S.D.I., Comunisti Italiani, Verdi, Rifondazione Comunista, Italia dei Valori ed i candidati alle elezioni regionali.
TUTTI I CITTADINI SONO INVITATI A PARTECIPARE
COMITATO UNITARIO PER LA DIFESA DELLA COSTITUZIONE - FIRENZE
Info: "Aequa Firenze" aequafirenze@inwind.it
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