lunedì 24 maggio 2004

Annelore Homberg e Simona Maggiorelli
da AVVENIMENTI in edicola:
i torturatori

AVVENIMENTI 21.5.04

La lucida follia degli aguzzini
di Annelore Homberg*


Le immagini delle torture in Iraq costringono a prendere atto, per l’ennesima volta, di quello che l’essere umano può infliggere a un altro essere umano. Siamo costretti, almeno per un po’, a vedere ciò che sapevamo già. Vi è una ferocia lucidamente organizzata che viene attuata non solo da dittature del terzo mondo ma anche da paesi evoluti e industrializzati.
Se è cosi, come abbiamo sentito nel dibattito di questi giorni, se queste atrocità non spariscono nemmeno nelle condizioni evolute delle democrazie parlamentari, allora il vero problema è la natura umana. Nell’uomo ci sarebbe una dimensione barbara e bestiale e questo nucleo non sarebbe eliminabile.
Altri, più sofisticati, dicono che le persone non hanno un’identità propria, hanno un’identità solo se vengono riconosciute dal loro gruppo, quindi fanno di tutto, anche delle atrocità, pur di rimanere nel gruppo di appartenenza. Altri ancora hanno tirato fuori la vecchia storia del gruppo che toglie le inibizioni, così nella massa l’individuo si troverebbe a fare cose che da solo non farebbe mai.
Come psichiatri riteniamo che nessuno si dovrebbe accontentare delle affermazioni che ho appena citato. Prima di tutto, non è affatto necessario ritenere che le atrocità commesse esprimano il male nascosto nell’essere umano o che siano la prova di avvenuta regressione all’animalità. Gli animali non torturano; è specifico dell’uomo che può diventare disumano. Va fatta una lunga ricerca sulle realtà interne che sostengono tale disumanità e troveremmo, con sopresa, che il motivo ultimo non è né l’odio né il sadismo né la paura dei superiori. Troveremmo una strana storia di persone lucide. L’uomo può arrivare a una realtà psichica alterata a tal punto che non riconosce più, interiormente, l’altro essere umano come tale. Per questo annullamento dell’altro come essere umano lo può poi trattare, razionalmente, come un oggetto, come mero mezzo per raggiungere altri obiettivi, come verme da schiacciare, come insetto da eliminare.

*Psichiatra e psicoterapeuta


Cartoline da Bagdad
Come souvenir, le sevizie di guerra dei soldati «pacificatori»
di Simona Maggiorelli


Arrestati di notte e portati via così come si trovavano. Spesso, presi ancora nel sonno dai soldati della coalizione che usavano fare rastrellamenti nelle case private di Bagdad e nei villaggi per scovare nemici. I settemila stipati nel carcere di Abu Ghraib, tutti terroristi sospetti secondo le forze militari angloamericane. Da rinchiudere, torturare, ridurre in condizioni umilianti, sottoporre a sevizie. Qualche volta fino alla morte, come è accaduto al ventottenne Baha Mousa, ucciso di botte. Più spesso fiaccati da elettrodi a mani, piedi e genitali; spezzati dallo stillicidio di umiliazioni come l’essere incappucciati e ammassati, nudi, l’uno sull’altro, ridotti a masturbarsi con in testa mutande femminili, costretti a mimare scene di sesso orale fra uomini, sotto la luce dei flash e dei sorrisi fatui di soldatesse e soldati, certi dell’impunità.
Dal 70 al 90 per cento dei casi, si legge nel dossier della Croce Rossa internazionale, i prigionieri di Abu Ghraib e di altri carceri da campo sono persone arrestate per errore. Intanto le sevizie gratuite documentate da centinaia di foto e di cd rom, modello souvenir da riportare a casa insieme ai ritratti sotto la palma o con il cammello, cominciano a circolare, a far conoscere al mondo questa orrenda galleria degli orrori firmata dai «pacificatori», per usare l’espressione di Fini. Una brutta faccenda che si fatica a comprendere, così diffusa, sistematica, comprovata, al di là della manciata di foto false che sono costate la poltrona al direttore della testata inglese The Mirror. Un fenomeno che fa tornare alla mente tristi episodi di storia fascista. Le foto d’epoca in Eritrea, con i militari italiani che ostentavano come trofeo il cadavere evirato di un uomo o si facevano ritrarre accanto a donne con il seno scoperto. Ma dal cassetto delle cose più brutte della nostra memoria escono anche le “foto ricordo” delle sevizie compiute dagli italiani in Somalia e arrivando a l’altro ieri, la violenza sessuale usata come arma, in Kosovo, nel Congo, in Rwanda. E in tante altre guerre “dimenticate”.
Nella terza puntata della sua ficcante inchiesta sul New Yorker, Seymour Hersh documenta come le sevizie, fin dal febbraio 2003, non fossero affatto il risultato della mente perversa di alcune cosiddette «mele marce», come la soldatessa Lynndie, pollice alzato e sorriso compiaciuto davanti alle sue malcapitate vittime accatastate in rappresentazioni fetish, costrette a strisciare, trascinate per ore con una cinghia al collo. Hersh ricostruisce che si trattava della messa in pratica di un preciso cliché (lo stesso generale americano Antonio Taguba, del resto, nel suo dossier parlava già delle sevizie come «systemic problems») secondo il protocollo «verde rame», di cui la prima regola era «prendi chi ti pare e fai quel che ti pare», in ottemperanza alla dottrina «della guerra senza limiti», varata dal ministro della Difesa americano Rumsfeld. «La stessa - scrive ancora Hersh - che è stata messa a punto e sperimentata in Afghanistan e a Guantanamo». Strumento principe: sevizie, stupri veri o mimati, abusi sessuali di ogni tipo, per calpestare la sfera più intima dell’altro, per entrare subito, con prepotenza, nella sua sfera più intima, nel suo mondo psichico, nella sua mentalità, nel suo modo di sentire. «Per un arabo e un iracheno in particolare - commenta lo scrittore Youvnis Tawfik, dissidente del regime di Saddam e fondatore del centro di cultura araba di Torino - l’essere sottoposto a situazioni come quelle che abbiamo visto, denudato e oltraggiato, è un dramma. Peggio che essere fisicamente torturati. Peggio che rischiare di morire. Nella cultura islamica - spiega Tawfik -il corpo è specchio dell’anima, fa parte della propria intimità. Anche quando un uomo lavora può mostrare al massimo le braccia nude o il torace, non di più». Una cultura e una concezione del corpo, per certi versi chiusa e conservatrice, ammette lo scrittore iracheno, ma che, «diversamente che in Occidente sottintende un’integrità di corpo e mente», per cui « il nudo non è un fatto solo fisico». Aspetti che i soldati torturatori hanno sfruttato lucidamente. «Lo scopo delle sevizie - denuncia Tawfik - non era estorcere informazioni, ma rompere, calpestare la dignità degli iracheni. Spezzare l’orgoglio e la volontà del popolo iracheno». E aggiunge: «Anche per un laico come me che vivo all’estero, che sono entrato in contatto con tante culture diverse, è stato un dolore vivo vedere quelle immagini. In questo voler sbeffeggiare la virilità degli uomini iracheni, vi ho visto una rivalsa degli americani sulle proprie frustrazioni sessuali, utilizzate per affermare con violenza la propria superiorità. Un messaggio chiaro diretto non solo agli iracheni, ma a tutti gli arabi».
Che le sevizie siano un fatto lucido e studiato a tavolino lo sostiene anche Anteo Di Napoli di Medici contro le torture, un’associazione di internisti, ginecologi, psichiatri, nata in Italia come costola di Amnesty International (perché Amnesty per mandato non può fare attività clinica) e che si occupa del recupero delle vittime delle torture. «Per esperienza diretta - dice Di Napoli - posso dire che qualche forma di abuso sessuale viene sempre esercitata durante le torture, l’essere denudati abbassa immediatamente le difese, mette in una posizione più fragile, dà accesso all’intimo. E le torture sessuali, spesso, sono quelle che lasciano i segni psichici più forti, più difficili da scoprire». Medici contro le torture ha base a Roma e a fare ricorso alle loro cure sono soprattutto persone che vengono dalle regioni africane dei Grandi laghi e dall’Est. «Spesso si rivolgono a noi come medici di base, perché hanno dolori all’addome, mal di testa perenne perché non riescono a dormire. Denunciano sempre qualche sintomo fisico le donne, ma soprattutto gli uomini abusati non rivelano mai di aver subito torture violenze sessuali, lo scopri poi, se riesci ad agganciarli in un rapporto, rispondendo a queste loro prime richieste, perché la violenza sessuale viene spesso perpetrata in modo da distruggere interiormente l’altro, da procurargli un trauma perenne».
Il quadro della diffusione di questo tipo di violenze è ancora oggi più che drammatico. Basta leggere i recenti dossier fatti dalle organizzazioni non governative e da associazioni per i diritti umani. In Congo, racconta una ricerca sul campo di Medici senza frontiere pubblicata due mesi fa, «la violenza sessuale è un deliberato strumento di guerra, usato per destabilizzare e minacciare una parte della popolazione civile». Gli abusi e le violenze riguardano soprattutto le donne e, in particolare, le adolescenti. «Vengono scelte, dicono i medici dell’associazione - perché il danno e le umiliazioni subiti feriscono profondamente non solo loro, ma anche le loro famiglie e spesso l’intera comunità». E la pratica dello stupro spesso continua anche quando la guerra è finita. In Rwanda dalle 300mila alle 500mila donne sopravvissute al genocidio sono state stuprate. E la violenza carnale è diventa arma letale con la diffusione del contagio da Hiv, senza adeguate cure. In paesi come la Cecenia, il Pakistan e l’Afghanistan, dove lo stigma sociale dell’essere state stuprate è particolarmente pesante, le donne spesso vengono ripudiate e uccise. In Sudan, in Burundi e in Rwanda, riporta un dossier di Amnesty International diffuso lo scorso febbraio, le situazioni di violenza non conoscono tregua. In Rwanda, in particolare, dove il 60 per cento della popolazione vive sotto la soglia della povertà, anche la violenza domestica, non solo quella perpetrata dall’esercito, è andata aumentando. E l’essere violentate comporta per le donne la perdita di diritti civili e politici. «Spesso - raccontano i medici di Amnesty - sviluppano conflitti interiori al punto da avere sensi di colpa per essere sopravvissute allo stupro». Costrette ad aborti e a matrimoni forzati, molte volte sono spinte anche all’infanticidio. I fatti più drammatici riguardano la catena delle violenze che si riverbera poi sui figli, detti «enfants mauvais souvenir», oltraggiati in ogni modo. Il punto - ribadisce il dottor Anteo Di Napoli- è proprio questo. L’obiettivo del torturatore è distruggere la persona, in quanto persona e in quanto parte di un gruppo». E aggiunge: «Nella maggior parte dei casi, ci troviamo davanti a violenze praticate a freddo, in maniera lucida. Abbiamo assistito a casi di torturatori che ogni giorno alla stessa ora andavano a torturare una persona e poi magari tornavano a casa, a cena con i propri figli». Episodi sui quali, purtroppo, il nazismo ci ha lasciato ampia documentazione.
Si può pensare che tutti i militari delle SS fossero pazzi o che lo siano tutti i giovani soldati anglo americani sul fronte? «Non ho elementi per dirlo - conclude Di Napoli - ma in nove anni di lavoro contro le torture, e leggendo la vasta letteratura sull’argomento, mi sono fatto l’idea che non si diventa facilmente torturatori. Una cosa è la situazione di guerra con tutti i suoi orrori, un’altra è la tortura che devi compiere sull’altro con cui hai un rapporto, che conosci, che dipende totalmente da te ed è inerme. Lì c’è un salto enorme».

perdibile:
anche il manifesto, irriducibile, insiste su Freud e la psicoanalisi

il manifesto 23.5.04
Lumi per orientarci in quelle tenebre della vita psichica

Un sentiero di lettura attraverso quattro libri di psicoanalisi che toccano i punti cardinali intorno ai quali è organizzata la nostra vita mentale. Forme dell'interpretare. Nuove prospettive nella teoria e nella clinica psicoanalitica, a cura di Paolo Fabozzi e Analisi dei sogni, curato di Fernando Riolo, sono usciti per Franco Angeli. Mentre l'editore Cortina pubblica La coscienza in psicoanalisi, di Alberto Semi e Curare con la psicoanalisi di Giuseppe Di Chiara
di ALBERTO LUCHETTI


«Desidererei avere un bel martello per romperle il cranio e vedere cosa c'è dentro». Per lo psicoanalista e romanziere francese Michel de M'Uzan, questa fantasia prima o poi, in una forma o in un'altra, attraversa la mente di chiunque si sottoponga ad una psicoanalisi. A dispetto delle apparenze, a suo avviso a motivarla non è tanto l'aggressività e nemmeno solo il desiderio di verificare che lì per lì si sia oggetto di un'attenzione esclusiva, ma soprattutto un'oscura curiosità riguardo il funzionamento mentale dell'altro. Per «curiosare» e interrogarsi, se non sul funzionamento mentale dell'analista, almeno su alcune dimensioni fondamentali del lavoro che si svolge nella situazione analitica possono essere utili tre libri recentemente pubblicati che, benché non coordinati tra loro, sembrano condividere alcuni intenti e alcune esigenze. Due di questi volumi sono a più voci e sono pubblicati dalla FrancoAngeli: Forme dell'interpretare. Nuove prospettive nella teoria e nella clinica psicoanalitica, in cui Paolo Fabozzi ha raccolto i contributi di nove psicoanalisti e Analisi dei sogni, a cura di Fernando Riolo, che propone gli articoli dei ventisei partecipanti all'ultimo Colloquio di Palermo. Il terzo è uscito per Raffaello Cortina con il titolo La coscienza in psicoanalisi, ed è invece opera di Alberto Semi.

Tre cardini del lavoro analitico
Partendo dalla concretezza dell'incontro analitico - nel quale «due persone parlano in una stanza», in una «sonata a quattro «mani, come dicono i titoli di due articoli di Luciana Nissim Momigliano - questi libri offrono, nell'insieme, una significativa rassegna dei problemi e degli orientamenti riguardo tre cardini solidali e indispensabili del lavoro che vi si svolge: l'interpretazione, l'analisi dei sogni e la coscienza. Quest'ultima, che dovrebbe essere il comune approdo delle prime due, ne è altresì una premessa, dal momento che - come puntualizza Semi - alla base del metodo psicoanalitico vi sono due attività che sono funzione del sistema cosciente, cioè le libere associazioni e il giudizio di realtà: l'unico giudizio che resta vigente dopo aver sospeso quelli di moralità, coerenza, pertinenza.
Non è possibile definire ed esaminare questi temi senza interrogarsi sul funzionamento psichico dell'essere umano, come mostrano gran parte dei saggi dei tre volumi. Ancora negli ultimi anni di vita Freud non mancò di rammaricarsi della rarità dei contributi tecnici e teorici sul sogno e sulla sua analisi, sottolineandone una volta di più l'importanza; e tornò a riaffermare la centralità, nell'azione terapeutica, dell'interpretazione, differenziandola dalla costruzione e precisando che non è affatto soggettiva e arbitraria nemmeno quando attinge a quanto di più soggettivo vi è nell'analista. E, infine, ribadì che, proprio perché la psicoanalisi è la scienza dell'inconscio, «la sola luce che nelle tenebre della vita psichica ci illumina e ci guida» resta la coscienza, pur essendo questa solo una qualità del mondo psichico e per giunta incostante e lacunosa. Tanto che, alla fin fine, il lavoro psicoanalitico consiste nel «colmare le lacune della percezione cosciente».
I saggi dei tre libri, partendo da prospettive anche diverse tra loro, permettono dunque di fare efficacemente il punto su questi argomenti, sulla scorta della copiosa elaborazione postfreudiana del secolo scorso e degli apporti che ne sono scaturiti. L'interpretazione - come illustrano il saggio di Fabozzi e i contributi nel volume da lui curato - proprio in quanto strumento principe del cambiamento terapeutico, ha via via assunto molte funzioni oltre quella di passaggio o trasformazione, sempre parziale, di un contenuto inconscio in uno cosciente mediante il nesso con una espressione verbale. Da un lato, nell'attività interpretativa è sempre più stato reclamato e dimostrato un coinvolgimento in toto della persona dell'analista, compresa la sua attività fantasmatica conscia e inconscia; e dall'altro lato, l'interpretazione è sempre più stata delineata come una funzione propria alla relazione che unisce analista e analizzando, anziché riferirsi ai singoli partner, al tempo stesso effetto e causa delle trasformazioni che vi intervengono e delle «interfantasmatizzazioni» che vi si configurano.

Diversi modi di studiare la coscienza
Benché questi due aspetti possano sembrare contraddittori, essi indicano, in realtà, che l'individualità e la soggettività di una persona stanno proprio nella storia delle sue relazioni. Il sognare, come affermano sia Riolo che molti tra coloro che hanno contribuito al libro da lui curato, si è rivelato invece sempre più un'attività psichica che non soltanto è determinata dall'inconscio e lo esprime, ma lo crea; inoltre è la fonte stessa, la premessa del pensiero e della percezione coscienti, in quanto «trasformazione di esperienze di natura sensoriale, emozionale e somatica in elementi visivi o protopensieri suscettibili di aggregarsi tra loro dando luogo a immagini e rappresentazioni idonee a divenire sia consce che inconsce». Infine, per quel che riguarda la coscienza - come nota Alberto Semi - essa ha uno strano posto nell'ambito della psicoanalisi, mentre attualmente occupa la ribalta di molte ricerche: se da un lato il complesso contributo freudiano sul tema ha rivelato una modernità insuperata, dall'altro lato non è affatto detto che la psicoanalisi, le neuroscienze e la filosofia della mente si occupino delle stesse cose pur usando identici termini per definirle. Per Semi siamo anzi «in una fase nella quale non sappiamo come ricostruire scientificamente la nostra unità [di individui] salvando il guadagno che la nostra storia ha prodotto», ed è altresì legittimo chiedersi come la coscienza, necessitando del nesso con la percezione delle parole, si stia modificando con l'attuale proliferare delle interazioni per immagini.
Una esigenza che i tre volumi sembrano condividere è quella di reagire alle semplificazioni che usurano i concetti e logorano le teorie, talvolta mentre li accolgono, finendo anche con lo svuotare le pratiche. Più di un contributo dei volumi, ad esempio, rettifica l'idea che aiutare una persona sofferente implichi il sacrificio del ricorso all'interpretazione, in particolare criticando la vulgata secondo la quale il famoso pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott sarebbe stato un interprete blando perché preoccupato di essere «sufficientemente buono» nell'offrire sostegno e contenimento affettivo. Al contrario, Winnicott affidava la possibilità di accogliere e sostenere la sofferenza psichica proprio alla profonda comprensione del suo nucleo, quando questo non era stato raggiunto dal paziente a causa del terrore di non poterlo affrontare da solo e per l'impossibilità di simbolizzarlo. Altri scritti criticano, invece, il luogo comune secondo cui la riflessione sull'influenza dei «fattori personali» nel lavoro dell'analista sarebbe una novità; è vero invece che essa è connaturata alla nascita stessa della psicoanalisi - basti pensare al fatto che la psicoanalisi scaturisce da un formidabile e originale sforzo autoanalitico di Freud, oltre che dall'esperienza clinica e dalla progressiva definizione di un nuovo metodo terapeutico, fondato sulla relazione di due persone. Da più parti si sottolinea, semmai, che il problema che oggi si pone è quello di arginare la eccessiva centralità dell'analista.

Il lavoro onirico
Altri autori denunciano poi l'insistente riproporsi di una modalità di analisi del sogno che, anziché seguire - come insegnava Freud - i molteplici e divergenti fili delle libere associazioni e le loro impreviste rivelazioni per arrivare al desiderio infantile che ne è il motore, usa le immagini oniriche come metafore per tradurlo in un significato astratto, in un'allegoria del pensiero del paziente e della relazione analitica. In questo modo, si torna ad una concezione prefreudiana del lavoro onirico inteso come un'attività riflessiva il cui funzionamento ricalcherebbe quello della coscienza vigile, e si emargina ancora una volta quella sessualità pulsionale che continua a fare scandalo e che Freud aveva giustamente posto a fondamento dello psichismo umano. Nella concezione di questa psiche, Semi invece confuta l'equivalenza di monismo e riduzionismo (la realtà è una sola quindi le attività psichiche devono essere ricondotte ad attività cerebrali). Nei bei capitoli conclusivi, egli ci ricorda inoltre che l'ipotesi dualistica (ci sono due realtà distinte, una fisica ed una psichica), se oggi è insostenibile, è stata tuttavia una tappa importante del lungo lavoro dell'animo umano per far presa sulla realtà. Così come una tappa fondamentale è stata quella celebrata dalla nascita di Giano bifronte, che rappresentava in un fondamento estrinseco e trascendente «l'oscura coscienza che tutti gli esseri umani hanno la capacità di pensare allo stesso modo un simbolo»: una cosa che oggi ci sembra scontata, ma che un tempo deve essere apparsa prodigiosa.
A monte, diversi contributi puntualizzano come la possibilità di analizzare e interpretare sia strettamente legata all'instaurazione di una situazione concreta, di una cornice spazio-temporale costante in cui poter applicare correttamente il metodo psicoanalitico: del resto anche un biologo molecolare, ricorda Semi, pur avendo disponibili tutte le conoscenze indispensabili, non potrà dire di stare compiendo un'esperienza di biologia molecolare quando è a passeggio con il cane. I tre volumi sono accomunati inoltre dal mostrare che, in un'epoca in cui sembra esservi una diffusa insofferenza per la storia, combinata con una superficiale e irriflessiva adesione a tutto ciò che di apparentemente nuovo si propone all'orizzonte, sono essenziali il recupero e la conoscenza della sostanza del proprio passato. Non per il bisogno di costruirsi nostalgicamente una versione ideologica dei propri fondamenti e della propria ragion d'essere al fine di corroborare un'identità vacillante di fronte al «nuovo». Bensì per accogliere ciò che è veramente nuovo ancorandolo a quanto nel passato lo preparava e distinguendolo dalle novità solo apparenti, che nel passato erano già state esaminate, discusse e talvolta definitivamente smentite. Lo mostrano accuratamente molti degli approfondimenti e degli spunti proposti nei contributi dei tre volumi. Lo segnala anche questa citazione di Freud - menzionata da Semi - il quale, controbattendo al tentativo di screditare lo sforzo scientifico nella misura in cui è vincolato alle particolarità della nostra mente, si rivela un moderno epistemologo e un consapevole sostenitore della coevoluzione e codeterminazione del nostro organismo e del suo ambiente (alla Varela, per intenderci).

Tra noi e il mondo esterno
Scrive infatti Freud che non si può prescindere dal fatto che «la nostra organizzazione, che è poi il nostro apparato psichico, si è sviluppata proprio nello sforzo di esplorare il mondo esterno, e deve quindi aver realizzato nella propria struttura un certo grado di congruenza; essa stessa è parte costitutiva di quel mondo che dobbiamo esplorare e consente benissimo tale ricerca; il compito della scienza è assolutamente circoscritto se ci limitiamo a fargli dire come il mondo deve apparirci in ragione del carattere particolare della nostra organizzazione; [...] il problema di una natura dell'universo non riferita al nostro apparato psichico percettivo è, infine, una vuota astrazione, priva di qualsiasi interesse pratico».
Se poi alla lettura degli approfondimenti su questi tre strumenti del lavoro analitico - interpretazione, analisi dei sogni, coscienza - si volesse affiancare un punto di vista più globale, si può ricorrere ad un altro libro, sempre recentemente pubblicato da Raffaello Cortina e scritto da Giuseppe Di Chiara, Curare con la psicoanalisi, che percorre infatti i diversi momenti di un tragitto analitico: dal momento della diagnosi, ai diversi passaggi che conducono alla fine del trattamento. Segnalando i numerosi contributi della psicoanalisi italiana, nel libro di Di Chiara è privilegiata in particolare la prospettiva narratologica - non da tutti condivisa, ma qui presentata in modo calibrato e problematizzato - secondo cui un aspetto fondamentale del percorso analitico è il recupero di un testo e di una storia passati, spesso inespressi e talvolta purtroppo irrecuperabili, attraverso la costruzione comune di una nuova storia e di una nuova narrazione. Giacché inevitabilmente «il presente dell'interpretazione» - come afferma de M'Uzan citato da Di Chiara - «si radica nel passato della cura, nel passato del paziente come in quello dell'analista».