venerdì 31 ottobre 2003

"Addio al passato" di Marco Bellocchio
anche a Firenze e a Napoli

Libertà venerdì 31.10.03
"Addio del passato" - Il documentario girato a Piacenza verrà distribuito nei cinema italiani
Bellocchio: il film su Verdi in tour
di Daniela Bisogni


"Addio del passato", il documentario di Marco Bellocchio girato a Piacenza, in varie località cittadine (tra le quali il Teatro Municipale, la zona Infrangibile, e Villa Sant'Agata) tra gli amanti de La Traviata. Soprattutto, l'operazione ha visto protagonisti molti artisti, musicisti e addetti ai lavori piacentini. Il film è stato presentato al Festival di Venezia 2002 e sta godendo di una inaspettata e dignitosa distribuzione nelle sale. Lo hanno già proiettato il cinema Lumière di Bologna, il Politecnico Fandango di Roma, l'Anteo di Milano mentre al Massimo di Torino si vedrà a partire dalla fine di novembre.
«Il film di Bellocchio - ha rivelato Fabrizio Grosoli di Fandango, tra i promotori dell'iniziativa - rientra nella distribuzione di 25 documentari in una ventina sale italiane, che sono in continuo aumento. Abbiamo chiesto a Sergio Pelone della Filmalbatros di darci le copie del documentario di Bellocchio, concludendo un accordo in base alla percentuale degli incassi, senza minimi garantiti, come per la quasi maggioranza delle altre produzioni: cioè non non ci guadagnamo quasi nulla, proprio per promuovere l'iniziativa».
Le altre sale italiane che, a partire da fine novembre, proietteranno il film di Bellocchio sono: l'Abc di Bari, l'Ariston di Catania, lo Spaziouno di Firenze, il Sivori di Genova, l'Astra di Padova, il Modernissimo di Napoli, il Cinema Zero di Pordenone, l'Azzurra e l'Ariston di Trieste, il Giorgione di Venezia, il Santa Lucia di Lecce, la sala Truffaut di Modena, il Fulgor di Rimini e il Nuovo Filmstudio di Savona.
[...]

dal Ticino: effetti del Ritalin sui bambini

Ticino.news.ch (quotidiano online)
Farmaci ai bambini
Le nuove droghe delle multinazionali


Nel 1986, nel Massachussets, un ragazzo di 14 anni uccide a mazzate (da baseball) un suo compagno di scuola. Rod, questo il nome del ragazzo, era sotto effetto della stimolante droga psicotropa Ritalin, che prendeva da ben 7 anni. Sia i genitori di Rod che il loro avvocato erano certi che l’omicidio era una diretta conseguenza degli effetti collaterali del Ritalin. Si trattava dell’ennesimo bambino diagnosticato con “problemi mentali” alle quale i soliti addetti ai lavori hanno prescritto farmaci discutibili, molto discutibili. Un trend che sino ad oggi non ha dato cenni di voler terminare.

Il Ritalin è classificato dall’Amministrazione americana dei Cibi e dei Farmaci (Food and Drug Administration) sotto la stessa categoria di cocaina, morfina, e oppio (anfetamina). Questa classificazione, conosciuta come Scheda 2, di cui il Ritalin fa parte, viene indicata dalla FDA come “di alto potenziale per abusi” e che un “abuso di questa sostanza può portare a seria dipendenza”. Le droghe della Scheda 2 che possono essere legalmente prescritte, sono tra le più pericolose. Non è un caso che in Stati Uniti il Ritalin, usato in combinazione con il Talwin, in alcune città è maggiormente responsabile di crimini comuni che qualsiasi altra droga. Nonostante l’ammissione del fatto che si tratti di uno psicofarmaco pericoloso, viene comunemente prescritto anche alle nostre latitudini. Se alcuni pensassero che vi è una relazione diretta tra l’assunzione di psicofarmaci da parte di bambini e ragazzi, e le purtroppo famose stragi nelle scuole, beh, non sarebbe un peccato mortale..

A George e al suo fratello gemello di 11 anni fu prescritto di prendere lo psicofarmaco Ritalin, nel 1973, dopo che furono diagnosticati iperattivi. George disse che molto presto cominciò a sperimentare degli effetti collaterali, e dopo un mese smise semplicemente di prenderlo senza dirlo a nessuno. “Mi sentivo come uno zombi”, diceva, “dovevo semplicemente smettere”. Il fratello invece continuò a prendere il Ritalin per due anni, e George disse: “Mio fratello Jerry cominciava davvero ad essere depresso”. Poco tempo dopo, Jerry si impiccò. George disse che questò suicidio, addebitabile al Ritalin, creò notevole sconforto ai suoi 3 fratelli minori e alla familia. L’intera familia è stata resa vittima dalla psichiatria. Ed oggi non si è da meno, psichiatri per bambini, dottori che dovrebbero ristudiarsi la medicina, quella vera, e aitanti pedagoghi nelle scuole, si adoperano nello spacciare droghe per farmaci ai nostri bambini.

Il Ritalin viene solitamente prescritto dagli psichiatri ai bambini diagnisticati iperattivi. Il “manuale” psichiatrico di diagnosi indica come sintomi iperattivi qualsiasi normale comportamento che un qualsiasi bambino ha e ha sempre avuto: 1.  2. ha difficoltà a restare seduto quando gli è richiesto, 3. viene facilmente distratto da stimoli esterni, 4. è impaziente nell’attendere il suo turno durante un gioco o in situazioni di gruppo, 5. spesso risponde alle domande prima che siano terminate del tutto, 6. ha difficoltà nel seguire insegnamenti dati da altri.., 7. ha difficoltà nel concentrare la sua attenzione giocando, 8. spesso va da un’attività incompleta all’altra, 9. ha difficoltà nel giocare quietamente, 10. spesso parla troppo, 11. spesso interrompe o invade attività di altri, o giochi di altri bambini, 12. spesso sembri non ascoltare quello che gli viene detto, 13. spesso perde cose utili ai suoi giochi o per la scuola, o per la casa, [...]
Il Manuale di diagnosi psichiatrico (DMS) indica che il bambino che ha otto o più di queste caratteristiche è un bambino iperattivo. A questo punto il Ritalin viene preso in considerazione per la “cura”. L’unica cosa che non viene presa in considerazione è che queste caratteristiche corrispondono al 99% dei bambini di questo mondo!  

A cura di Lucio La Chimia
info@kulturapop.com
www.kulturapop.com

Margherita Hack:
«la maggioranza della gente in Italia se ne frega della religione»

l'Unità 30.10.2003
«Il principio della laicità dello Stato non è mai stato rispettato»


FIRENZE La decisione di togliere il crocifisso dalle scuole del giudice dell’Aquila ha dato inizio a una serie di reazioni a catena che sembrano non trovare fine. Con un generale sdegno del provvedimento che trova approvazione un po’ in tutte le parti politiche. Tra le voci contro c’è invece la scienziata Margherita Hack, tra l’altro membro del comitato di presidenza dell’Unione degli atei e degli agnostici razionalisti. Per lei il provvedimento è un atto dovuto.
Perché?
«Ma perché mi pare che l’Italia sia uno stato laico e dunque è ovvio che non ci debba essere nessuno simbolo religioso nelle scuole: non c’è una religione di stato e dunque non ce ne deve essere nemmeno una preferita a un’altra. Tutt’al più ci dovrebbe essere una storia comparata di tutte le religioni, ma certamente non l’ora di religione cattolica. Oggi la società è cambiata, è diventata multietnica e multirazziale e non è un fatto che può essere ignorato».
Ma il crocifisso è il simbolo della nostra cultura.
«E questo cosa vuol dire! Anche se questa è la nostra cultura non si cancella mica se viene tolto un crocifisso. La cultura rimane, è qualcosa che viene assimilata fin da piccoli e rimane il fatto che a scuola si insegnano altre cose. Poi, se qualcuno vuole mandare i bambini a catechismo, o a scuole di religione, lo può sempre fare, non a caso gli ebrei e i musulmani hanno la loro scuola».
E i cattolici?
«Se la facciano. Ripeto, in Italia non esiste una religione di stato e non ci si può rifare a leggi del 1924 che poi sono state superate dal Concordato successivo e da altri articoli. Senza contare che la diversità della società di oggi rende impossibile qualsiasi raffronto con il passato. Oggi non c’è nessun motivo perché ci debba essere un simbolo religioso. Come succede in Francia, del resto, senza provocare lo sdegno di nessuno».
Piena solidarietà al giudice dunque.
«Assoluta. Ha agito benissimo e trovo assurde tutte queste critiche, così come trovo pazzesco che il ministro Castelli lo vada a sottoporre a un provvedimento disciplinare. È una vera pazzia».
C’è chi ci vede una questione di rispetto.
«Proprio non capisco. Nessuno vieta a chi è cristiano di rispettare il crocifisso, liberissimo di farlo, ma perché si deve imporre anche a chi non ci crede? Sono delusa anche per i politici che si sono affrettati subito a contestare questa decisione. Anche dai Ds mi aspettavo una reazione diversa».
Anche il presidente Ciampi ha preso una posizione netta.
«Sì, ma questo ormai non mi stupisce più. Con tutto il rispetto, il presidente Ciampi ha dimostrato più volte di essere debole di fronte a certi avvenimenti. Mi riferisco anche alla legge Cirami e al lodo Schifani. Che bisogno aveva di firmare subito?».
Comunque gli italiani che vanno all’estero rispettano la cultura del paese in cui si trovano.
«Già, ma questa gente lavora e vive qua. Questa è una questione di principio e in uno stato laico non ci devono essere simboli religiosi. Finché c’era una singola religione come nel ‘24 il crocifisso non dava noia a nessuno: tutta la popolazione era italiana, il 99% era cattolica e l’1% che rimaneva era comunque cristiano. Ma ora ci sono sempre più islamici, ebrei, buddisti, induisti e questa storia del simbolo religioso non ha più senso.
È vero che questa polemica è nata in un momento particolare.
«Esattamente. Questo tizio, poi, sembra anche abbastanza antipatico e arrogante. Ma il fatto in sé non deve distogliere dal problema reale che si pone».
Che fa nascere manifestazioni e dibattiti in tutto il paese.
«Mi sembra tutto così ridicolo, tanto più che la maggioranza della gente in Italia se ne frega della religione. Mi sembra piuttosto un’occasione per dare adito al razzismo, un pretesto che permette di scatenare le antipatie contro il diverso. E da questo punto di vista questo Smith non ha certo fatto un buon servizio alla sua comunità. Quanto meno lo poteva dire in un altro modo, ma almeno un vantaggio c’è stato».
Quale?
«Che finalmente è stato messo nero su bianco su un punto fondamentale: non è mai stato fatto rispettare il principio della laicità dello stato».

giovedì 30 ottobre 2003

Lidia Menapace: crocefissi e fondamentalismi

Liberazione giovedì 30.10.03
Cristo strumentalizzato per resuscitare nazionalismo, fondamentalismo ed emozioni inconsulte
Sul crocefisso, scontro di inciviltà
di Lidia Menapace


Molti mi sembrano i segni inquietanti di un progressivo scivolamento fuori dalla legalità costituzionale democratica. Cito alla rinfusa: la consuetudine - vere prove generali di presidenzialismo - da parte di Berlusconi di interloquire direttamente e senza possibilità di contraddittorio, dagli schermi televisivi, in questioni ancora da decidere: con ciò si cancella il parlamento, le varie giurisdizioni dei poteri e la formazione dell'opinione pubblica, alla faccia dello sbandierato principio di sussidiarietà e l'importanza dei corpi intermedi, non parliamo poi di federalismo! Ancora a caso: la assoluta mancanza di proporzioni tra le notizie. Dieci milioni di lavoratori e lavoratrici che scioperano sono subito cancellati e nessuno li intervista o rappresenta, perché scoppia la questione del crocefisso e del resto anche la puntualissima inchiesta sulle nuove Br (a una appassionata lettrice di gialli - come sono - le coincidenze sono sempre un po' sospette). Infine il voto di fiducia posto su una questione cruciale come la finanziaria, che strangola il dibattito parlamentare, alla faccia del proclamato "liberalismo" del presidente!

Per capire la faccenda del crocefisso bisogna tenere conto di un processo che vuole e per il quale è necessario suscitare ondate di nazionalismo, di fondamentalismo religioso e di emozioni inconsulte allo scopo di favorire sia leggi restrittive sia un diffuso malessere e sentimento di insicurezza, cancellare le facce dei veri crocefissi contemporanei uomini donne bambine bambini immigrati: insomma intorbidire le acque. Se Bush chiederà armi e soldi e uomini per la sua illegale guerra e occupazione dell'Iraq l'opinione teledipendente già allenata ai condoni fiscali ed edilizi sarebbe forse abbastanza incline a dire di sì al condono bellico.

Si tratta peraltro di uno scontro di "inciviltà": la prova pericolosamente evidente è l'appoggio che il "fronte cattolico libanese" dà alla crociata a favore del crocefisso. Come è noto i falangisti cattolici libanesi sono violenti terroristi e fondamentalisti. Averne la solidarietà è pura vergogna.

Ciò detto veniamo ai fatti: su richiesta di un signore musulmano noto per essere un vero provocatore e assai poco rappresentativo degli islamici che vivono nel nostro paese, ma molto intervistato nelle TV, il magistrato ordina che sia rimosso il crocefisso in un'aula di scuola elementare di un piccolo centro abruzzese, aula frequentata dal figlio del citato signore. Non invidio il bambino, costretto a sopportare le bizze del padre e probabilmente oggetto di curiosità indiscrete e pesanti: il primo dovere delle autorità scolastiche e amministrative è di garantire il massimo di serenità ai bambini, il che si fa, tra l'altro, non sbandierando per giorni a ogni telegiornale meriti e virtù dei crocefissi. Tuttavia la vicenda illustra bene la "cultura" del nostro paese. L'ultima scoperta non è che bisogna ristabilire un clima di convivenza e amicizia nelle scuole, ma che forse il crocefisso è di proprietà del Vaticano e quindi non si potrebbe rimuoverlo senza il benestare del confinante stato confessionale. Ma come mai le leggi di uno stato confessionale hanno vigore e applicazione in uno stato laico? resta vera la rabbiosa definizione dell'Italia che dava un noto laico d'altri tempi: «Questa repubblica monarchica di preti!».

Trovo di esemplare equilibrio la parola di Scialoja che rappresenta molti musulmani del nostro paese quando dichiara che non avrebbe sollevato la questione, ma adesso una risposta gli è dovuta. Le risposte sono arrivate, ma non capisco perché tutti quelli e quelle che sono a favore della laicità dello stato italiano e vorrebbero cogliere l'occasione per levare i crocefissi dalle aule delle scuole pubbliche magari su richiesta, gradualmente, con discussione e non d'imperio, arrivino tutte e solo a me, anche quelle che portano in cima la dizione "Comunicato stampa", tanto da intasarmi la e-mail e nessuna, nemmeno mezza, arrivi ai Tg. Mah! sembrerebbe una censura, o no? E dire che i più indignati sono credenti associazioni cattoliche gruppi di insegnanti cristiani della scuola repubblicana, cattolici singoli giuristi teologi personaggi di fede, mentre persone sulla cui conformità alle norme più note ed elementari della morale cattolica si può dubitare perché le loro posizioni sono note, si stracciano le vesti e piangono calde lacrime di coccodrillo a tutela dell'esposizione dei crocefissi.

Da un po' di tempo l'ostentazione di croci d'oro e diamanti (o similoro e cristalli) sul petto di signore dedite all'intrattenimento mi dava un po' fastidio, meno le croci e crocette appese a un orecchio a mo' di ornamento, magari insieme a mezzalune o a simboli magici, da una cultura giovanile che esprime simbolicamente indifferenza o curiosità generica per il fenomeno religioso. Tutto ciò dimostra una progressiva laicizzazione e banalizzazione dei simboli religiosi, fenomeno cui non si risponde con superstizione rilanci di integrismi e altre sciocchezze pericolose o ordinanze e rilanci a comando. Dirò allora che in uno stato laico i luoghi pubblici non debbono mostrare nessun simbolo religioso di nessuna religione (o sennò di tutte), che informazioni religiose di tipo storico è giusto che vengano trasmesse con atteggiamento critico e non catechistico. Ad esempio la lettura e conoscenza dell'Antico Testamento, un libro di grandissimo valore storico estetico religioso è scarsa in Italia perché, secondo la tradizione cattolica non era ammessa la lettura diretta e il "libero esame" del testo. Sarebbe ora di avviare un liberissimo esame, che allargherebbe gli orizzonti e le cognizioni.

In ogni caso mi auguro che riusciamo a fare argine alle ondate di fondamentalismo che ci arrivano e che albergano anche dentro di noi. Il fondamentalismo è molto infettivo e bisogna difendersene fin da subito, mai rispondendo sullo stesso piano. E' meglio cogliere il tono conciliante e critico di Scialoja, imparare che nell'Islam, come nel Cristianesimo, che sono fenomeni di proporzioni e durata millenarie, vi sono moltissime varianti e sfumature, per trovare ambiti di discorso e di comprensione. Altrimenti si rischia di rimanere travolti da una irrazionalità crescente che produce minacce razzismi esclusioni. Insomma davvero: evitiamo scontri di inciviltà.

Mark Rothko (*)

La Repubblica giovedì 30.10.03 Pagina 44 - Cultura
ROTHKO E LA TELA INFINITA
la mostra del centenario
A un secolo dalla nascita, una selezione di capolavori del pittore morto suicida che voleva rappresentare le emozioni
Voleva che lo spettatore si perdesse nei suoi quadri guardandoli da vicino
BASILEA
FABRIZIO D'AMICO


(*) informazioni e immagini su e di MARK ROTHKO possono essere viste QUI

Cade quest´anno il centenario della nascita di Mark Rothko: ed è ancora una volta la Fondazione Beyeler di Basilea, dopo la grande mostra del 2001, a dedicargli un ricordo, intenso ed emozionante: quattro sale raccolgono venticinque suoi dipinti, da un primo del 1938, Entrance to subway, a cui s´usa far risalire il primo snodo rilevante della sua ricerca, sino agli acrilici ultimi, datati fra '69 e '70, l´anno del suicidio. Contemporaneamente, alla Beyeler, è allestita una fin troppo ampia mostra sull´opera tarda di Paul Klee, relativa a quel suo ultimo decennio che lo vide rifugiato nella natia Svizzera dopo la condanna nazista dell´»arte degenerata»: un tempo in cui parte degli studi ha riconosciuto, fors´anche sull´onda emotiva di quell´esilio e della malattia che lo condurrà alla morte nel 1940, uno dei vertici dell´arte di Klee.
Ma è una non banale coincidenza, quest´omaggio parallelo a due fra gli artisti del secolo trascorso più intensamente amati prima di tutto dai loro colleghi pittori, d´ogni tempo e latitudine, sino ad oggi: due pittori che hanno poco o nulla, all´apparenza, da spartire, se non - cruciale - quella primazia riconosciuta da entrambi al pensiero sulla mano; e, assieme, quel rifuggire il messaggio univoco implicito nella propria opera, che pur volevano capace di parlare all´uomo. Klee dipinse, e scrisse sull´atto del dipingere, per insegnare a guardare il mondo, mai per narrarlo. Vent´anni dopo la sua morte, al culmine d´una fama divenuta presto universale, Rothko, che aveva da tempo abbandonato una rabdomantica e imperfetta figurazione surrealista per una pittura di pura effusione cromatica, dichiarò, paradossalmente, di «non essere un pittore astratto». Di essere disinteressato a sondare semplicemente una sintassi possibile di forme e di colori. «Quel che m´interessa è soltanto la rappresentazione delle emozioni fondamentali dell´uomo - tragedia, estasi, destino»; meglio: di suscitare nel riguardante, attraverso la sua opera, la percezione acuita di quelle emozioni.
Il modo in cui lo spettatore avrebbe fruito della sua pittura è sempre stato al centro delle preoccupazioni di Rothko (che ha con ciò anticipato un´attitudine poi divenuta canonica in ambito concettuale); al punto che attraverso l´evolversi delle sue indicazioni e dei suoi interventi relativi all´allestimento delle sue mostre o delle sale museali a lui dedicate (quella, ad esempio, della Tate Gallery di Londra con i Seagram murals) si può seguire, e talora anticipare, l´evoluzione stessa della sua pittura, che proprio dal rapporto che avrebbe cercato con il mondo sarebbe stata influenzata. Raccomandò ad esempio, partecipando nel 1952 alla mostra 15 Americans al Museum of Modern Art di New York, una disposizione molto ravvicinata delle sue tele e un´illuminazione, per esse, forte e clamorosa. In occasione della sua prima retrospettiva (1961, sempre al Moma), alla quale sovrintese personalmente e con grande impegno d´energie mentali, volle invece un´illuminazione molto bassa, così che le opere, anche adesso l´un l´altra ravvicinate, apparissero come fuochi di luce baluginanti nel buio. Già allora dunque, pur esponendo tele datate dal '45 al '60, e dunque di differente temperatura stilistica, s´era affacciata in lui l´idea che la sua opera dovesse mirare ad essere un organismo plastico unitario, dotato di vita e di capacità di parola autonoma rispetto agli elementi da cui era costituito.
Nella sua pittura, voleva che ci si perdesse: raccomandava perciò una visione ravvicinatissima dei suoi grandi dipinti - «a 45 centimetri»: cosa di fatto oggi purtroppo impossibile, per un allarme che scatta o un custode che ti guarda in cagnesco - così che l´occhio giungesse a smarrire i confini esatti del dipinto: rinunziando così ad un´esperienza puramente estetica, o lucidamente cognitiva, per attingerne una emotiva, esistenziale, interamente coinvolgente. Per questo, ancora, dopo l´esperienza dell´antologica di New York, Rothko fu soprattutto interessato a rispondere a poche, grandi commissioni che prevedessero la possibilità di immaginare ampie serie di suoi dipinti stabilmente collocati in spazi pubblici: sin quando, alla maggiore di quelle commissioni, riguardante una cappella - che egli volle multiconfessionale - a Houston, Rothko destinò ogni sua energia dal '64 al '67, ed oltre: sino al tempo, praticamente, in cui le condizioni di salute non gli impedirono di continuare quel lavoro sulla grande dimensione che ormai prediligeva. In quella cappella, inaugurata appena dopo la sua morte, Rothko aveva cercato quella che Dore Ashton chiamerà «un´espressione della divinità senza un Dio»; e in essa darà figura compiutamente a quel luogo che cercava, creato dal colore - rosso, bruno, nero - e svelato dalla poca luce che lentamente lo avvolge e lo trascina nello spazio della contemplazione, affine ma più complesso di quello unicamente pertinente alla pittura.
A metà del suo ultimo decennio, e in coincidenza con il lavoro per la cappella di Houston, Rothko, partito dalla pittura e senza tradirla, giunge dunque ad immaginare una spazialità che concettualmente esorbita dai suoi canonici confini, e tanto più da quella nozione di superficie commentata da linee e colori che una ormai antica coscienza moderna le aveva attribuito. È entro quel suo tempo che, forse, trova una plausibile giustificazione la sua volontà d´essere qualcosa di diverso da «un pittore astratto»; ed è per quel suo tempo, che l´ha portato lontano da quel colore respirante che era stato il suo straordinario tesoro negli anni Cinquanta, che egli rimane ancora oggi, ad oltre trent´anni dalla morte, e in un´epoca che sembra aver rinunciato così vastamente alla specificità del linguaggio pittorico, così attuale, così universalmente amato.
Ma Rothko non s´è fermato su quello spalto, assalito da un´ansia che lo trascinava in qualche misura al di là della pittura. È vero invece che negli ultimi anni - amari, tormentati: nonostante la fama crescente - Rothko torna a ragionare sui termini più casti, e fin più agri, della sua prassi antica. E vengono, in numero ristretto, i Black on Gray Paintings: diciotto dipinti in tutto, sei dei quali sono oggi raccolti a Basilea in un´ultima, strepitosa sala che ripete, con ancora maggior respiro, quella finale della grande mostra di Washington, New York e Parigi del 1998-´99. Sono immagini che dicono, nel pittore non più giovane e malato, l´insorgere di una lucida volontà di un nuovo avvio: stavolta rigorosamente ancorato alla superficie, lontano da quell´intento di frastornarne la nuda apparenza che aveva innescato la sua pittura d´un tempo, ansimante fra un fondo profondissimo dell´immagine e una prima pelle emozionata, e quasi ferita, del dipinto. I colori di un tempo, il giallo e l´arancio, l´azzurro ed il verde, già sopiti dal montare dei bruni scurissimi, dei rossi intrisi di nero, dei viola annottati degli anni Sessanta, scompaiono. E insieme s´eclissano quelle forme imperfettamente geometriche, quei rettangoli smangiati che sembravano galleggiare come in un amnio nel manto del colore tremante del fondo. Solo, adesso, un grigio o un bruno sormontato da un corpo unito e sordo di nero. Un filo appena percepibile di bianco margina appena l´immagine; un´altra sottile strusciata di pennello designa la linea di demarcazione fra i due corpi cromatici. È l´orizzonte: di questi che altro non sono, altro non potrebbero nominarsi, se non paesaggi dell´anima. Nudi, spogli paesaggi, tirati in una grande dimensione che ormai non aspira più al monumentale, che non cerca vertigini o brusche impennate d´orgoglio. Ed è come se Rothko, in questi quadri ciechi di profondità e di spessori, avesse persino rinunciato a cercare, come aveva fatto per tanti anni, un rapporto con l´altro; quadri costruiti da un nulla, sublime e muto; quadri che davvero annunciano una morte.

Edoardo Sanguineti su Ulisse

Il Giornale di Brescia mercoledì 29.10.03
Edoardo Sanguineti al S. Barnaba
L’ARCAICO ULISSE CHE VIENE DAL NORD
COLLEZIONI DISPERSE
di Alberto Ottaviano


Inutile cercare in Ulisse anticipazioni dell’uomo moderno occidentale, scorgere nell’eroe di Omero l’interprete di una prima razionalità che tenta di emanciparsi dal mito, vedere nell’Odissea il prototipo del romanzo borghese. Le vicende omeriche avvengono in realtà in un mondo pre-logico, dove ancora non c’è coscienza dell’unità del soggetto; non c’è nulla di razionale nella metis (l’astuzia) di Ulisse, nulla che abbia a che fare con la logica. Addirittura - secondo l’ipotesi avanzata in un recente saggio - le vicende cantate da Omero sarebbero racconti di aedi scandinavi trasposti nel mondo mediterraneo: quanto di più lontano possibile quindi dalla linea di pensiero greco-romana poi sfociata nella razionalità dell’uomo dei nostri giorni. A stroncare qualsiasi valorizzazione della modernità di Ulisse è stato Edoardo Sanguineti, che ha tenuto ieri il quarto incontro dei Pomeriggi in San Barnaba dedicati all’eterno ritorno del mito. Con una densa relazione mantenuta decisamente su toni alti, il poeta e studioso - già protagonista della neo-avanguardia - ha compiuto una cavalcata lungo i sentieri delle interpretazioni di Ulisse, soffermandosi in particolare sul modo in cui l’eroe è stato proposto negli stessi poemi omerici, in Dante e in Joyce. Alla conclusione della conversazione di martedì della scorsa settimana, quando Eva Cantarella aveva parlato di Penelope, avevamo colto in qualche ascoltatore del San Barnaba una certa delusione, perché la relatrice - con alcune battute sulla fedeltà di Ulisse, con le sue ipotesi sugli ambigui comportamenti di Penelope - era parsa banalizzare la vicenda raccontata da Omero: insomma la Cantarella sarebbe stata troppo facile. Potremmo dire che quegli ascoltatori sono stati ieri accontentati: saltando da Adorno a Defoe, da Petronio a Pound, da De Sanctis a Giordano Bruno - e leggendo lunghe citazioni - Sanguineti ha messo a dura prova l’attenzione del foltissimo pubblico (qualcuno ha lasciato la sala in anticipo) con una conversazione di cui è decisamente difficile riferire tutti i passaggi. Il relatore comincia col confutare l’interpretazione che dell’Ulisse di Omero hanno dato Adorno ed Horkheimer: per i due esponenti della Scuola di Francoforte l’eroe sarebbe un anticipato trionfo del logos , l’espressione dell’illuminismo colto nel suo primo concretarsi, qualcuno che mette in crisi il mondo del mito; l’Odissea sarebbe così vicina al settecentesco romanzo di avventura. Ma una lettura romanzesca di Omero è assolutamente deformante,  contesta Sanguineti; non si può guardare a Ulisse come a un Robinson Crusoe. C ome parlare di moderno eroe della razionalità se nel mondo omerico ancora c’è un’assoluta inconsistenza del soggetto: soltanto a partire da Aristotele nascono
nell’antica Grecia le categorie razionali e muore il mondo magico. Dante poi, sottolinea Sanguineti, nel proporre il suo Ulisse
suscita nel lettore un meccanismo devastante e perfido, lo stesso meccanismo che si verifica per Francesca da Rimini nel celebre episodio. Il lettore finisce per commuoversi di fronte all’Ulisse del «fatti non foste a viver come bruti» e per essere anch’egli trascinato a superare le colonne d’Ercole, a violare i limiti per fondarsi sulle sole forze umane. Joyce, da parte sua, è interessato alla struttura del mito, ma del contenuto non resta quasi più nulla. L’Ulisse dello scrittore è in realtà un anti-Ulisse privo ormai di qualsiasi nostalgia per il mito omerico. Con Joyce, nota Sanguineti, l’eterno ritorno del mito si conclude per sempre. Il relatore chiude riferendo della suggestiva ipotesi, cui accennavamo all’inizio, avanzata nello studio di un ingegnere nucleare sulla geografia omerica: è una geografia che non corrisponde al mondo mediterraneo; è inutile cercare dov’era Troia. Il sospetto è che Ulisse venga dal Nord: Omero sarebbe l’espressione nel mondo greco di leggende della Scandinavia. Una conferma potrebbe venire dall’archeologia, ma scavando a Nord, dove aveva vita un mondo arcaico.

Emanuele Severino su filosofia e politica

Corriere della Sera giovedì 30.10.03
Cari democratici,
diffidate dei filosofi
di EMANUELE SEVERINO


A quanti non sopportano l’aria di superiorità di buona parte del pensiero filosofico consiglierei la lettura di "Verità e progresso" del filosofo americano Richard Rorty (Feltrinelli). Per lui la democrazia è il bene supremo dell’uomo. Se gli intellettuali non servono a rafforzarla, si faccian da parte. Poiché soprattutto i filosofi hanno contribuito a indebolirla, l’invito va rivolto soprattutto a essi. Anche scienza e tecnica, per Rorty, debbono stare al servizio della democrazia. Le preoccupazioni di Rorty sono motivate. Dopo la sconfitta del totalitarismo di destra e sinistra, sta facendosi innanzi anche una profonda delegittimazione della politica democratica. Non intendo quella (deprecabile, che però non è la fine del mondo) dovuta al comportamento degli avversari politici che, come in Italia, si delegittimano a vicenda.
Mi riferisco invece alla delegittimazione costituita dalla tendenza, deprecata da Rorty, dove la competenza tecnico-scientifica mira a guidare le comunità democratiche - e dalla quale, aggiungo, quelle islamico-teocratiche si illudono ancora di non essere guidate.
Gli Stati Uniti mostrano un sintomo significativo di tale tendenza planetaria. Si servono sempre più della loro ricchezza per essere potenti; mentre prima si servivano della loro potenza per difendere la loro ricchezza. Dalla volontà di esser forti per portare la democrazia nel mondo, alla volontà di portare la democrazia nel mondo per esser forti.
Ma una democrazia che si serve della tecno-scienza e la guida è qualcosa di essenzialmente diverso da una democrazia che è al servizio della tecno-scienza e ne è guidata. La delegittimazione autentica della politica democratica è appunto il passaggio di quest’ultima dal ruolo di guida a quello di servitore. Quando una struttura sociale (come il capitalismo democratico) deve la propria sopravvivenza a un certo strumento (come l’apparato scientifico-tecnologico), è inevitabile che tale struttura eviti di indebolirlo e anzi ne accresca sempre di più la potenza per resistere e prevalere sui propri avversari - che ieri erano, per le democrazie, i totalitarismi e oggi sono il terrorismo e, alla base di esso, la povertà di gran parte dei popoli. A questo punto tale struttura non assume più come scopo i propri valori, ma il potenziamento indefinito del proprio strumento.
Tuttavia questo rovesciamento può avvenire solo se scienza e tecnica sanno che la crescita della loro potenza non ha davanti a sé alcun limite assoluto; e questo sapere esse non se lo possono dare da sole, ma lo ricevono dall’esterno, cioè dal risultato essenziale della filosofia contemporanea. Che nella totalità della realtà quel limite non possa esistere - che non esista alcun ordine immutabile al di sopra del divenire del mondo - non può essere la scienza a dirlo: lo dice la filosofia del nostro tempo.
I democratici alla Rorty hanno ragione di diffidare dei filosofi, perché costoro, dopo aver evocato i fondamenti del totalitarismo politico, hanno evocato anche quel senso della realtà che legittima la scienza e la tecnica a oltrepassare ogni limite e a porsi alla guida (anche) della democrazia capitalistica, che in tal modo resta delegittimata: nella misura in cui pretende di stare essa alla guida di tutto il resto.
In questa situazione, preoccuparsi della democrazia significa incominciare a domandarsi che cosa essa possa essere quando, da scopo e guida, diventa mezzo e strumento per il crescente potenziamento della tecnica legittimata dalla filosofia. Diventa pertanto sempre più obsoleto chiedersi che cosa possono fare gli intellettuali per salvaguardare la sovranità e l’autonomia della politica democratica. Certo, gli «intellettuali» che si limitano a ereditare la superficie della filosofia del nostro tempo, e che non sanno nulla della relazione profonda tra scienza, tecnica e filosofia, fanno ben poco per vincere le battaglie di retroguardia in favore della politica democratica.
Di questi intellettuali è giusto dire, come è stato detto su queste colonne, che hanno un ruolo conservatore e che si accodano a quelli che essi ritengono gli orientamenti politici prevalenti. Ma chi ha portato alla luce gli «orientamenti» - politici e non politici -, se non i veri intellettuali?
E, anche qui, quale grande concezione politica non è riconducibile al sapere che è stato portato alla luce da quegli intellettuali che sono i filosofi autentici? Pericle non parla forse agli Ateniesi dando ascolto ad Anassagora? L’illuminismo non sta alla radice della rivoluzione americana e francese? Il marxismo, che è uno sviluppo di quest’ultima, non è la base della rivoluzione sovietica?
Socrate e Gesù (anche il suo messaggio è profonda filosofia) sono dei conservatori rispetto alle società che li hanno condannati, o non sono anch’essi grandi anticipatori dei tempi? Tutto questo non significa che la filosofia non sia dannosa. Perfino Gesù diceva di essere venuto a portare la spada.
In un certo senso la filosofia sta alla radice di tutto ciò che è dannoso. Ma chi sono i danneggiati se non gli «orientamenti» che, guidati anch’essi dalla filosofia, non hanno saputo resistere al suo evolversi? Che cosa sono se non le forme perdenti rispetto a quelle vincenti della volontà di potenza?

mercoledì 29 ottobre 2003

a Venezia, sembra tanto tempo fa...

(una segnalazione di Emiliano Eusepi)

cineuropa.org, settembre 2003


due brevi video - uno con stralci degli interventi di Marco Bellocchio e di Roberto Herlitzka alla Sala Grande del Festival del cinema di Venezia in occasione della prima presentazione di "Buongiorno, notte", l'altro con Pier Giorgio Bellocchio - ed una scheda sul film sono reperibili su questo sito.

Per i video occorre avere Real Player installato sulla propria macchina (disponibile anche in versione gratuita sulla rete: all'indirizzo www.real.com)

Per raggiungere la pagina dove si trovano questi materiali si può cliccare QUI

nell'aula 1 di Lettere e Filosofia:
Bellocchio e la letteratura

Corriere dela Sera, ed di Roma 29.10.03
LA SAPIENZA
Bellocchio e la letteratura


Quarto appuntamento nell’ambito del seminario su «Cinema e letteratura». Alle 16 incontro con Marco Bellocchio (foto) sul tema «Letteratura, cinema, televisione». Il regista di «Buongiorno, notte» sarà intervistato da Paolo Bertetto.

martedì 28 ottobre 2003

"Buongiorno, notte" in Sudafrica ed in India

IL CINEMA ITALIANO "VOLA" ALL'ESTERO

(AGI) - Washington, 28 ott. - Il cinema italiano piace in tutto il mondo. A testimoniare il momento d'oro sono le vendite all'estero delle pellicole di casa nostra e la partecipazione ai festival internazionali. Tra i film più amati, spicca "Il cuore altrove", di Pupi Avati, che è stato richiesto anche in Brasile, Canada, Hong Kong e Australia. Trionfo condiviso con "La meglio gioventù", di Marco Tullio Giordana, che parteciperà ai festival di Ghent, in Belgio, di Haifa, Londra e Stoccolma.
Anche "L'ora di religione", di Marco Bellocchio, parteciperà a diverse rassegne cinematografiche, tra cui quelle organizzate in Sudafrica e in India.

281011 OTT 03

il premio Grinzane a Marco Bellocchio

libero.it 28.10.03 - 16:50
CINEMA: BELLOCCHIO PREMIATO A STRESA AL FESTIVAL GRINZANE


Stresa, 28 ott. (Adnkronos) - Anteprime, incontri con gli autori, convegni: si inaugura domani a Stresa la prima edizione del Festival Grinzane Cinema, organizzato dal Premio Grinzane Cavour d'intesa con l'Assessorato al Turismo della Regione Piemonte e il sostegno della Direzione Cinema del Ministero per i Beni e le Attivita' Culturali e della Martini Rossi. Sedi della manifestazione il Palazzo Congressi, il Grand Hotel del Iles Borromees, il Grand Hotel Regina Palace a Stresa e Villa Carlotta a Belgirate. ''Il Festival nasce per indagare i legami tra cinema e letteratura, due generi abituati a fondersi senza perdere ciascuno la propria identita' e indipendenza e per promuovere i rapporti tra cinema ed editoria'', dichiara Giuliano Soria, presidente del Premio Grinzane Cavour, che ha voluto al suo fianco per questa nuova iniziativa, come consulente artistico, Stefano Della Casa. Grinzane Cinema si concludera' sabato prossimo con l'assegnazione di due premi: uno per il miglior film italiano tratto da un libro e uno per la migliore opera letteraria trasposta su pellicola. Quest'anno la giuria cinematografica (Alain Robbe-Grillet, Liliana Cavani, Masolino D'Amico, Anna Galiena, Peter Lilienthal) premiera' il regista Marco Bellocchio per 'Buongiorno, notte' (2003), tratto dal romanzo di Anna Laura Braghetti e Paola Tavella 'Il prigioniero' (Feltrinelli, 2003). (Red/Pe/Adnkronos)

quanti sono i cattolici in Italia?

Franco Garelli, sociologo cattolico che insieme ad altri suoi coleghi ha curato una voluminosa indagine per la conferenza episcopale, prova a delimitare l'area di quanti possano dirsi veramente cattolici nell'Italia di oggi. «I credenti militanti» - spiega - «coloro che fanno parte di gruppi, associazioni, movimenti e danno grande rilevanza all'esperienza comunitaria della fede sono circa un 10 per cento. I praticanti assidui, che però non avvertono l'esigenza di una vita religiosa collettiva e di una visibilità, sono un altro 15-20 per cento.

(da un articolo di Marco Politi su Repubblica Cultura di qualche tempo fa)

...e nel mondo?

Secondo i dati percentuali tratti da una fonte cristiana (2001 World Christian Trends), nel mondo i cattolici sarebbero il 17,5%, il dato è simile a quanto sostiene anche l’annuario statistico della chiesa cattolica: tale cifra è però assolutamente inverosimile, basata com’è sul numero dei battezzati (accettando questo dato, per esempio, i cattolici in Italia risulterebbero 56 milioni!)

(dati reperibili QUI)

«O si pensa o si crede» (Arthur Schopenhauer)
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Le Nuove Edizioni Romane
e la Libreria Amore e Psiche

comunicano che

giovedì 30 ottobre

uscirà la sesta edizione di

BAMBINO DONNA E TRASFORMAZIONE DELL'UOMO

di Massimo Fagioli


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MARCO BELLOCCHIO
MERCOLEDI 29 OTTOBRE
alla Facoltà di Lettere e Filosofia
della "Sapienza"

(ricevuto da Tonino Scrimenti)


Università degli Studi di Roma "La Sapienza" - MIUR
Dipartimento di Italianistica e Spettacolo - Ufficio Scolastico Regionale Lazio
Associazione degli Italianisti – Sezione Didattica - Istituto Regionale di Ricerca Educativa
Cinema e letteratura.

Incontri con gli autori

Università degli Studi “La Sapienza”, Facoltà di Lettere e Filosofia, Aula I
MIUR, Sala della Comunicazione, Viale Trastevere 76a (*)
Roma, 13, 22, 24, 29 ottobre 2003
  
Quarto incontro (dopo A.Camilleri, i Taviani e F.Rosi):


Mercoledì 29 ottobre - Facoltà di Lettere e Filosofia, Aula I
ore 16.00
MARCO BELLOCCHIO
intervistato da Paolo Bertetto

E' stato invitato Giovanni Profita – Direttore Generale Cinema, Ministero Beni Attività Culturali 
seguirà una discussione         

Gli incontri si svolgeranno anche in collegamento con Cinedays Europe 2003 ( 10-24 ottobre- sito web cinedays.org, raggiungibile cliccando QUI), iniziativa di valorizzazione del patrimonio cinematografico europeo promossa dalla Commissione Europea - Direzione Generale dell'Educazione e della Cultura.  

Ha collaborato il Gruppo di studio e ricerca Irre-Scuola-Università “Linguaggi letterari”, con la partecipazione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali-Direzione Generale PSAD, dell’ANAC, dell’Associazione Culturale “Ombre Elettriche”.  

Coordinamento scientifico: Michela Costantino, Giulio Ferroni, Silvia Tatti. 

Segreteria: IRRE del Lazio. Via Guidubaldo del Monte, 54 – 00197 Roma - Tel. 06-809671 - Fax 06-8070791 - e-mail: istituto@irre.lazio.it - web page: www.irre.lazio.it
  

Il programma è visibile sul sito dell’IRRE del Lazio
e sul sito del  Dipartimento di Italianistica e Spettacolo

(*)L’accesso alla Sala della Comunicazione del MIUR sarà consentito soltanto a chi è iscritto al corso e risulta nell’elenco che l’IRRE del Lazio consegnerà al MIUR in data 22 ottobre (al momento dell’accesso sarà necessario esibire documento di riconoscimento).
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- Continua a PARMA fino al 5 novembre la mostra dei dipinti e dei disegni di
MARCO BELLOCCHIO

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le immagini dell'Affresco
di Massimo Fagioli

(oltre che alla Libreria AMORE E PSICHE)
sono adesso visibili in rete,
su mawivideo.it

clicca QUI



(segnalato da Silvia Iannaco)
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lunedì 27 ottobre 2003

anche alla Libreria AMORE E PSICHE
la registrazione video del dibattito
di martedì 21 ottobre

Ora è possibile vedere anche in libreria - oltre che sulla rete, QUI - la registrazione dell'intervento di Marco Bellocchio al dibattito seguito alla proiezione del film "Buongiorno notte", tenutosi presso la Facoltà di Scienze della comunicazione d Roma martedì 21.10.03.
 
gli orari:
lunedì 15.00-20.00
dal martedì alla domenica 10.00-20.00


(segnalazione di Tonino Scrimenti)
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Class di ottobre

CLASS ottobre 2003, in edicola (€ 4,50)
con una fotografia di Massimo Fagioli

(ricevuto da Daniela Venanzi)

La psicoanalisi stimola o ditrugge la creatività? Per Bertolucci, Beckett o Fellini la terapia è stata una manna. Per Pasolini un Impaccio. E per Bellocchio...
SE IL GENIO FINISCE SUL LETTINO
di Alessandra Gaeta


Dopo anni di crisi creativa, Marco Bellocchio ha rotto il sortilegio l'anno scorso con L'ora di religione, considerato il miglior film italiano della passata stagione. Un successo bissato con il recente Buongiorno, notte.
Il regista, presente al Festival di Venezia, si è visto sfuggire il Leone d'oro, ma un premio più importante l'ha ottenuto: ha vinto su se stesso. Sul suo modo, cioé di essere uomo e artista chiuso, isolato e complesso, che lo ha costretto per anni a vivere nella penombra. Oggi, a sessant'anni compiuti, Bellocchio gode di una seconda giovinezza creativa: «Sento di avere raggiunto una maggiore libertà e se oggi sono quello che sono è anche grazie a un'esperienza che, al contrario di quello che molti hanno spesso sostenuto, non mi ha né soffocato né distrutto.
L'esperienza di cui parla Bellocchio è il suo rapporto con Massimo Fagioli, lo psicoanalista che lo ha aiutato a superare la depressione e che lo ha seguito fino al 1996, dopo dieci anni di terapia di gruppo. Il sodalizio tra i due era stato lungamente criticato da stampa e pubblico: in molti disapprovavano l'eccessivo coinvolgimento dell'analisi nella sua vita artistica e, dopo la partecipazione di Fagioli alla sceneggiatura del Diavolo in corpo, si era parlato di una vera e propria sopraffazione sul regista da parte del terapeuta. Bellocchio ha sempre respinto queste critiche, sostenendo che l'analisi aveva in realtà rivitalizzato la sua freschezza espressiva.

Sull'influenza, positiva o negativa della psicoanalisi sulla creatività possono testimoniare la loro esperienza personaggi come Bernardo Bertolucci, Federico Fellini, Gabriele Lavia, Ferdinando Camon, Andrea Zanzotto, Giorgio Manganelli, Umberto Saba, Woody Allen, Hermann Hesse, Samuel Beckett e molti altri scrittori, registi, attori, poeti e artisti. «L'analisi è un allenamento all'espressione», sostiene lo scrittore Ferdinando Camon, paziente di Cesare Musatti. «Chi passa la vita a scrivere, cioè a esprimere non può convivere con la repressione». Ecco dunque spiegati i motivi di tanta affluenza negli studi psicoanalitici da parte di personalità creative.
Per Sigmund Freud, l'uomo felice non fantastica, solo l'insoddisfatto lo fa. Secondo il padre della psicoanalisi, l'insoddisfatto è colui che isola e segrega nella propria interiorità le sue fantasie e i suoi sogni per paura di esternarli. La primitiva libertà di fantasticare di un bambino non è concessa all'adulto perché da lui non ci si attende più che continui a giocare, quindi a fantasticare, ma che agisca nella vita reale. Una tale segretezza di sentimenti, a lungo andare, provoca l'insorgere di nevrosi, dalle quali si può guarire solo confessando su un lettino i propri desideri insoddisfatti, che Freud chiama «le forze promotrici delle fantasie».
«Quando Samuel Beckett si presentò al dottor Wilfred Ruprecht Bion, aveva pesanti sintomi di angoscia, che egli stesso descrisse nella prima seduta: palpitazioni, aritmie cardiache, sudori notturni, tremito, panico, senso di soffocamento e, negli attacchi più acuti, paralisi totale». Nella sua biografia su Beckett, lo storico James Knowlson dà ampio spazio alla terapia dello scrittore e al suo rapporto con lo psicoanalista Bion. Grazie all'analisi riduttiva, un metodo che mira a scoprire i legami dinamici tra sintomi e cause scatenanti maturati nel passato, il drammaturgo dublinese riuscì a controllare alcuni dei suoi impulsi psichici più devastanti (frustrazione e violenza repressa) ma soprattutto a utilizzare fruttuosamente il suo solipsismo nel lavoro creativo.
Anche diversi grandi scrittori italiani si sono rivolti alla psicoanalisi. Umberto Saba, per esempio, dopo una forte depressione, ricorse all'allievo di Freud, Edoardo Weiss, che ebbe in cura anche Italo Svevo. Allo psicoanalista triestino, Saba dedicò 11 piccolo Berto, rac c opto fortemente caratterizzato da elementi freudiani, che interruppe un suo periodo di stasi creativa.
Un'esperienza analoga l'ha vissuta il poeta Andrea Zanzotto: dopo due anni di terapia, che lo hanno aiutato a stemperare angosce e fobie, è diventato un cultore della psicoanalisi. L'influenza di Lacan è stata fondamentale nella sua opera: «Tutto il formicolio di idee, incroci e ibridazioni lacaniane uri ha certo insegnato qualcosa, ed è stato all'orizzonte del allo fare», dichiara Zanzotto, «ma nello stesso tempo ho avvertito la necessità di prendere distanza da questo inghippo che aveva, insieme, l'aspetto roseo del surrealismo e l'aspetto negromantico di un certo tipo di esistenzialismo».
Uno dei più illustri allievi di Jung fu il tedesco Ernst Bernhard, che ebbe in cura il fior fiore del inondo intellettuale italiano. Esule volontario dalla Germania per il dilagare del nazismo, guidato da un sogno premonitore raccontato a Jung , riparò in Italia nel 1938. Nel dopoguerra riceveva nel suo studio romano di via Gregoriana 12, a Trinità dei Monti, Natalia Ginzburg, Bobi Bazlen, Giorgio Manganelli e Federico Fellini. Quest'ultimo, dietro consiglio dello psicoanalista tedesco, iniziò a tenere un diario dove riportava, sotto forma di disegni, tutti i suoi sogni. Quando Bernhard morì, Fellini gli dedicò Il viario di G. Mastorna, il soggetto di un film che però non riuscì mai a girare, ma che realizzò come libro a fumetti con l'aiuto di Milo Manara.
Anche il grande Alfred Hitchcock consacrò alla psicoanalisi vari film, tra i quali lo ti salverò, un giallo incentrato sui disturbi della niente, che nacque per volere del produttore David Selznick, da anni paziente freudiano, e dallo sceneggiatore Ben Hecht, anch'egli frequentatore di uno studio psicoanalitico.
Al teorico della comunicazione intrapsichica Franco Fornari deve molto invece Gabriele Lavia: a seguito dell'incontro con Fornari, il suo modo di accostarsi al teatro è molto cambiato: «La sua teoria koinemica mi aveva affascinato», spiega l'attore e regista teatrale, «per Fornari all'interno del linguaggio parlato intervengono unità di comunicazione intrapsichiche che possono essere anche inconsce, vuoi per chi parla, vuoi per chi ascolta. Bisogna riuscire a trovarle e a decodificarle per capire il piano psicologico a cui fare riferimento. I famosi koineimi sono nove: il padre, la madre, il bambino, gli organi sessuali, la castrazione, la nascita, la morte, il proprio corpo e la nudità. Essi determinano il ruolo o i ruoli che di volta in volta assumono colui che parla e colui che ascolta. La teoria ha la sua applicazione nel dialogo, nelle parole. E che cos'è il teatro se non dialogo, parole, gesti?».
Nonostante le innumerevoli testimonianze sugli effetti benefici della psicoanalisi nella vita creativa, sono molti gli artisti che la guardano con sospetto. Uno dei motivi principali, come spiega il filosofo Umberto Galimberti, è «la paura di ricordare e la ripetizione interiore dei conflitti traumatici del passato. Ma anche il timore di perdere il genio creativo». Eh, già. Saul Bellow ha confessato di aver dovuto interrompere l'analisi perché non riusciva più a scrivere una sola parola. Più traumatica è stata invece l'esperienza di Pier Paolo Pasolini, in cura da Cesare Musatti, raccontata dal suo amico Ferdinando Camon: «Pasolini resisté poche sedute, poi urtò contro il problema dell'omosessualità: Musatti lo portava ad affrontare l'omosessualità come cultura, Pasolini voleva lasciarla da parte come natura, e alla fine, piuttosto di entrare in crisi, si ritirò. La sua analisi finì e con essa, ne sono convinto, cominciò a finire la sua vita. Oso pensare che, se avesse continuato, oggi, forse, sarebbe qui». Ma qui, oggi, non c'è neppure una delle dive più amate del cinema, Marilyn Monroe. Non sono bastati cinque psicoanalisti (Anna Freud, Margaret Herz Hohenber, Marianne Rie Kris, Ralph S. Greenwood e Milton Wexler) per evitarle una tragica sorte. E non solo l'analisi non l'ha liberata dalla sofferenza, ma i periodi più intensi delle sue varie terapie coincidono con le sue peggiori interpretazioni cinematografiche.
«Lo avevo detto io!», potrebbe gridare Vladimir Nabokov, uno dei più intransigenti critici di Freud e di qualsiasi tipo di psicoterapia. per lo scrittore russo, infatti, si tratta solo di < operazioni sciocche e disgustose che non potrei prendere in considerazione nemmeno per scherzo. Il freudismo, e tutto ciò che ha contaminato con le sue implicazioni e i suoi metodi grotteschi, mi sembra uno dei raggiri più ignobili che la gente possa praticare su se stessa e sugli altri. Lo respingo in blocco, insieme ad alcuni altri ingredienti medievali tuttora adorati dagli ignoranti, dai conformisti o dai malati gravi». Come dirlo a Woody Allen che dell'analisi ha fatto uno stile di vita e di lavoro?
Tra entusiasti e detrattori, però, si possono trovare anche delle vie di mezzo. Ambivalente e ricco di alti e bassi, per esempio, il rapporto tra due giganti della cultura del Novecento: Hermann Hesse e Carl Gustav jung. Lo scrittore che ha combattuto tutta la vita con diversi problemi personali e disturbi psicosomatici, trascorse nel 1916 un soggiorno di cura nella clinica Sonnmatt presso Lucerna, sottoponendosi a trattamento psicoterapeutico con Joseph B. Lang, discepolo di Jung. Attraverso di lui conobbe meglio le opere del padre della psicologia analitica, prima Trasformazione e simboli della libido e poi altri libri. Hesse continuò a leggere i saggi di Jung per alcuni anni, finché fu interessato alla psicologia del profondo. Si arrivò poi anche a incontri tra lo psicoterapeuta di Zurigo e lo scrittore che risiedeva a Montagnola. Jung riconosce che Hesse ha fatto proprio ed elaborato il suo pensiero in alcuni romanzi come Derniau, Siddharta, Il lupo della steppa e Narciso e Boccadoro.
Col tempo, però, il legame tra i due si allenta ed Hesse comincia ad avere seri dubbi sull'utilità dell'analisi nel processo creativo. Lo scrittore, in una lettera all'amico Emanuel Meier, ricorda un'impressione di quando, agli inizi degli anni 20, tenne una conferenza al Club di Zurigo e fece alcune sedute terapeutiche con Jung: «Fu allora che cominciai a capire che per gli analisti è davvero impossibile avere un rapporto autentico con l'arte, mancano tutti dell'organo necessario».

l’Istituto di Sessuologia Clinica di Roma

La Repubblica Salute 23.10.03
Più i maschi al telefono del sessuologo


Al ritmo di quasi 800 richieste d’aiuto l’anno, il servizio di consulenza telefonica dell’Istituto di Sessuologia Clinica di Roma (via Savoia 78, www.sessuologiaclinica.it) fa il punto dopo 5 anni di attività. E mentre nell’incontro dal titolo tutt’altro che immaginifico ("La sessuologia nei corsi di laurea in Psicologia. La sessualità tra normalità e patologia") si affrontano gli aspetti scientifici (integrazione delle figure di riferimento, formazione psicologica del sessuologo), vengono anche snocciolati alcuni dati sulle consulenze telefoniche.
Così si scopre che il 60,2% delle richieste viene dagli uomini (39,8% dalle donne), l’età media è 31 anni. Il 73,2% non ha mai richiesto una consulenza specialistica. Il 29,7% delle richieste riguarda le disfunzioni sessuali maschili, l’11,7 quelle femminili. Richieste di rassicurazione sulla propria normalità (34,7%), generiche informazioni (21,6%), problemi relazionali (18,2%), difficoltà psicologiche (9,5%) danno il quadro delle telefonate; il 26,4% vuole informazioni su problematiche mediche. Quali le principali disfunzioni? Nei maschi l’eiaculazione precoce (41,7%), la disfunzione erettile (40,9%), il calo di desiderio (8,4%); nelle donne la mancanza di orgasmo (coitale o completa: 45,8%), il vaginismo (21,8%), il calo del desiderio (19,2%).
I dati confermano quelli di un’indagine paneuropea (su 7 paesi, promossa dall’Inserm di Parigi) secondo cui i pazienti maschi si rivolgono al sessuologo per eiaculazione precoce e disfunzione erettile, le donne per difficoltà a raggiungere l’orgasmo e vaginismo.

«i neonati, in ogni parte del mondo...»

Il Tempo domenica 26 ottobre 2003
FIGLI & PSICHE
di Enza Ferri


I NEONATI di ogni parte del mondo hanno gli occhi di cielo, blu profondo. Più tardi la formazione della melanina favorirà il colore individuale. Dal loro mondo intrauterino fatto di suoni ovattati, luce soffusa e quiete, vengono spinti in una nuova realtà accecante, fredda e rumorosa. Il loro primo vagito più che un saluto alla vita, è una richiesta di aiuto.
Il pianto, insieme alla suzione, ai movimenti oculari ed alla prensione della mano, sono il piccolo bagaglio di atti riflessi con i quali i neonati, da una completa dipendenza si avvieranno alla scoperta-assimilazione del mondo reale, affettivo ed emotivo circostante. Intorno alla culla di un neonato si prova un senso di mistero e meraviglia sempre nuova, perché in quella culla come in un seme, sono racchiuse tutte le potenzialità della vita. Il loro sbocciare dipenderà dal «terreno» emotivo che accoglierà quel seme. Il neonato non è in grado di andare verso la sua fonte di nutrimento e sicurezza ed è con il pianto che cerca di attirarla. Il pianto di base o di fame, di disagio e di paura sono segnali che indicano un bisogno di cibo o di attenzione e contatto. I piccoli, che poche ore prima si trovavano in un ambiente ovattato, dove percepivano la regolarità nel battito del cuore materno vivono, dopo la nascita, una sorta di solitudine e paura, per questo ricercano di essere «stretti al cuore» e non vale il non volerli «viziare». Piuttosto che «spezzare» l’insistenza della richiesta, basterà almeno il contatto della mano sul corpo per non lasciarli soli e per placare questo tipo di bisogno. Il primissimo periodo della vita del neonato, è di simbiosi con la madre e, sono i primi rapporti e contatti, che determineranno le future condotte di «fiducia-sfiducia». Non c’è un solo periodo dopo la nascita, in cui il lattante è un essere «amorfo», in realtà la sua crescita comincia con il nascere. Per questo, le due funzioni primitive del mangiare ed espellere sono tanto importanti, sia dal punto di vista della crescita che, attraverso l’amore e la cura, per quella emotiva. Il periodo che va dalla nascita allo sviluppo del linguaggio, è contraddistinto da uno sviluppo mentale straordinario e decisivo per la futura evoluzione psichica della personalità di base emotivo-affettiva. La prima intelligenza viene definita «senso-motoria», infatti i piccoli nel primo anno di vita riferiscono a sé tutto ciò che li circonda e, in questo egocentrismo naturale, la realtà è tutta da «succhiare», «toccare», «scuotere» e «gettare a terra».
Da questi elementari atti riflessi di «causa-effetto», si formeranno gesti più organizzati: la suzione volontaria del dito, volgere la testa verso un richiamo, mettere a fuoco le pupille verso un oggetto e afferrare quelli più vicini con movimenti sempre più precisi e coordinati. Il senso dell’udito sarà l’ultimo a svilupparsi ed i piccoli, mostreranno grande attenzione alle parole, ai suoni dolci, alle «nenie»... Il sorriso dell’adulto sarà uno dei segnali di sicurezza per i neonati e, dopo la quinta settimana di vita, il loro stesso sorriso comincerà ad esprimere socievolezza di fronte al volto di un adulto o alla voce dei genitori. Ma è il contatto, la più forte trasmissione biologica di sicurezza per i piccoli. Il massaggio del neonato (accarezzare con leggera pressione e con tutte e due le mani il viso, il corpo, le braccia, le mani, le gambe, i piedi), aumenterà il legame affettivo sia nel piccolo che nei genitori.
Anche se il primo legame dei piccoli sarà di simbiosi con la madre, importantissimo sarà quello con il padre, del quale riconosceranno il sorriso, la voce, l’odore, il contatto delle mani più grandi e da lui verrà sicurezza. Il neonato, adagiato nelle mani di papà, rivolto verso il suo viso che gli sorride mentre parla dolcemente, è in un «centro» di perfetta beatitudine. Sarà «un’impronta» e si rinnoverà ogni volta che quelle stesse mani, si poseranno sulle spalle del futuro ragazzo.

«un film al giorno è meglio del lettino»

La Repubblica lunedì 27 ottobre 2003, Pagina 29 - Cronaca
Recenti studi americani dimostrano che le pellicole per la psiche sono più efficaci di qualsiasi terapia. L´ultimo manuale esce tra qualche giorno
Un film al giorno meglio del lettino
Woody Allen per chi è triste, Frank Capra per chi è insicuro
Anche un thriller può avere capacità curative, basta che sia fatto a regola d´arte
"L'immaginario è senza fine. Comunica emozioni, trasforma il negativo in positivo"
di Ambra Somaschini


ROMA - A ciascuno il suo film. Ovvero come sostituire serate estenuanti di chiacchiere con l'amico del cuore, giornate di malumore, o addirittura di crisi nera con un film. Per rallegrarsi, innamorarsi, lamentarsi, separarsi, trovare lavoro, cambiare amici, perfino per traslocare. Detto così può sembrare persino troppo semplice, ma seri studi provano che il grande schermo aiuta la psiche. Così tanto da spingere a riflessioni fondamentali per le decisioni della vita. Al cinema meglio che sul lettino dello psicanalista, così sostiene un libro che esce il 31 ottobre per Feltrinelli: «Cinematherapy» di Nancy Peske e Beverly West. E mentre alla Sapienza di Roma si testano kit di pronto intervento cinematografico sugli allievi, a Firenze, nell´Istituto di Neuroscienze, mostrano "La vita è una cosa meravigliosa" di Frank Capra ai giovani per rassicurarli.
Una tendenza che arriva dall'America anni '90 per poi espandersi in Europa e chiudere il cerchio in India dove l'industria di Bollywood sulla collina di Delhi ormai consola gli animi di tutto il mondo. Poi nel '95 il dottor Gary Solomon pubblica un testo che descrive le proprietà terapeutiche di 200 film: il successo immediato inaugura un filone che fa uscire pubblicazioni a ritmo mensile.
Gli autori del libro in uscita, Peske & West, elencano ricette quotidiane di self-help attraverso una cascata di pellicole dai '30 in poi: «I film sono medicinali che possiamo autoprescriverci, ricostituenti lenitivi che, se somministrati correttamente, curano crisi d´identità e tristezze profonde».
"Love story" è troppo banale per piangere? Basta girare pagina e puntare su "La stanza di Marvin". Problemi con il fidanzato? Si programma la serie infinita di «E vissero felici e contenti», a cominciare da "Ufficiale e gentiluomo". Chi vuole viaggiare con la mente può affittare "La mia Africa" e "Witness", chi è stressato dal lavoro «Dalle 9 alle 5 orario continuato». Ha potenzialità curative anche il thriller, ma il calibro deve essere quello di «Brivido Caldo». Il vittimismo di "Thelma & Louise" aiuta a vincere la tristezza, "Singing in the rain" migliora le giornate peggiori, "Lezioni di piano" incita al rinnovamento interiore. Le vie del cinema sono infinite.
«L'immaginario filmico è potente, comunica emozioni e vissuti, trasforma la percezione negativa di quanto avverrà in positiva - spiega Vincenzo Mastronardi, docente di psicopatologia forense a La Sapienza di Roma che sta scrivendo "Cinematerapia" in uscita per Armando Editore - alla fine riesce a farci evitare errori esistenziali. In amore ad esempio. Il piacere di sentirsi infatuati non rispetto alla persona ma al concetto di innamoramento porta a pentirsi amaramente per aver fatto una scelta sbagliata ("L'ultimo bacio") oppure ci trasforma in facili prede di legami molto rischiosi ("Attrazione fatale"). Esistono anche film per tutti gli usi come "I magnifici 7", mix di valori, fratellanza, giustizia, spinta al coraggio. Ma per chi ha bisogno di iniezioni di coraggio e grinta esistenziale, ecco "Pacemaker" e "The rock"».

domenica 26 ottobre 2003

R.Barilli: KANDINSKY a Milano
fino al 20 gennaio

l'Unità domenica 26.10.03
Alla Fondazione Mazzotta di Milano esposte, accanto a quelle dell'artista russo, opere di Klee, Marc, Macke e altri
KANDINSKY, IL CAVALIERE DELL'INCONSCIO
Una mostra sul movimento «Der Blaue Reiter» che aprì l'arte alle pulsioni dello spirto.
di Renato Barilli


informazioni QUI


La Fondazione Mazzotta di Milano presenta una mostra assai utile dedicata al Cavaliere Azzurro (a cura di M.M.Moller e T.Sparagni, fino al 20 gennaio). La ragione di questa utilità è dichiarata in catalogo da Gabriele Mazzotta che ricorda come solo trent'anni fa si sia avuta l'unica altra esposizione rivolta al fenomeno tedesco, qui in Italia, presso la Galleria d'arte moderna di Torino. Perché un'attenzione così scarsa laddove non si contano le rassegne sul Futurismo o sull'Espressionismo? Forse perché il Cavaliere Azzurro non è stato un «ismo», un movimento compatto, bensì una serie di incontri, di incroci, di attraversamenti, ad opera di protagonisti molto vari tra loro, di statura e di intenti. Quanto a statura, ce ne furono due di massimo livello, il russo Wassili Kandinsky, il protagonista i assoluto di quelle esperienze, e un deuteragonista entrato in scena un po' all'ultimo momento, ma destinato a crescere oltre misura, lo svizzero Paul Klee.
Il tutto si colloca a Monaco, la città tedesca in cui Kandinsky era andato a vivere dal 1902, contribuendo a farne con ciò la diretta sfidante della supremazia da riconoscersi a Parigi, nel cammino entusiasmante delle avanguardie storiche. E proprio a Monaco, o nei dintorni come Murnau, e negli anni cruciali tra il '10 e il '12, il pittore russo conduce quella sua progressione implacabile che lo porta a lasciarsi alle spalle le ultime parvenze naturalistiche, a sfondare il Velo di Maia steso sulle cose, a scoprire che sotto quelle forme fin troppo note si spalanca un universo straripante, insondabile. È sarà l'approdo a un'astrazione tutta affidata al mondo della biologia, quasi a dimostrare che la vita viene dal mare, o magari da quel mare iterno ad ogni essere vivente che è il liquido amniotico. Questa la marcia verso il basso, verso uno «spiritualismo nell'arte» che in realtà, per Kandinsky, altro non è se non l'inconscio, lo smisurato continente dell'Es, su cui da tempo Freud conduceva le sue indagini. Un altro russo, Malevich, in sintonia con l'olandese Mondrian, stava invece per impegnarsi in una progressione di senso contrario, verso le vette «supreme» (da cui il Suprematismo) del'astrazione geometrica più rarefatta e asfittica, ovvero le rinunce imposte dal Superego, sempre per dirla con Freud.
In mezzo ci stanno i comprimari che Kandinsky si trascina dietro nell'esperienza del Cavaliere Azzurro, che è un binomio di origine e paternità incerte, dove comunque il Cavallo sta a rappresentare quell'idea di energia selvaggia e incontenibile che era già stata cara al nostro Boccioni, mentre l'Azzurro è il colore dello «spirituale», e indica l'obbligo di smaterializzare l'energia animale e terrena implicita nell'altro termine. Il tutto doveva sfociare in una rivista, di cui uscì appena un numero, accompagnato da due sole esposizioni, a cavallo appunto tra l'11 e il '12.
Tutti gli altri comprimari, ad eccezione di Klee, erano da meno del superbo condottiero, a cominciare dalla devota compagna che egli ebbe in quegli anni monacensi, Gabriele Münter, che come tutti gli altri non riuscì a saltar fuori dalle panie della figurazione, limitandosi a «primitivizzarla», secondo il codice dell'Espressionismo. Sia detto di passaggio che attorno al Cavaliere Azzurro si svolse un'intensa vicenda di «coppie», come una precedente rassegna torinese ha dimostrato qualche tempo fa. E i maschi in quell'occasione non fecero una bella figura, lo stesso Kandinsky, costretto nel '14 a rientrare in Russia per lo scoppio della Grande Guerra, ne approfittò per troncare i rapporti con la compagna, che non si riebbe dal trauma. Accanto a loro c'era la coppia russa Jawlenski-Werefkin, e anche in quel caso lei, Marianne Werefkin si accollò uno spirito di sopportazione per paur di perdere l'amante, senza però riuscire a trattenerlo a sè. Per fortuna in questo caso il senno del poi ha premiato la donna sul compagno infedele, dato che Jawlenski, oggi, ci appare come una delle presenze più deboli di quel sodalizio, limitto a condurre un fauvismo esteriore, a fior di pelle, laddove il primitivismo di lei si nutre di lieviti parossistici di grande forza, anche se pur sempre condannati a infilare vie secondarie.
Lo scudiero che Kandinsky ebbe accanto a sè in quegli anni cruciali fu Franz Marc, destinato a morire in guerra nel '16, a soli 36 anni; e forse Marc è il più scoperto e perfino ingenuo, nel partire dall'energia animale di cavalli e di cervi, tentando di ricavare da loro la forza per andare oltre, ma senza riuscirvi, a differenza del grande Cavaliere che lo guidava: anche perché, prima di sparire vittima della guerra, Marc rimase irretito dalle scomposizioni cubiste, fu incerto cioé se procdere oltre nella spinta energetica, o se invece appoggiarla agli schemi della macchina. Schemi, questi, accettati con più convinzione dall'altro scudiero del gruppo, August Macke, anche lui destinato a scomparire presto sul fronte. Ma almeno Macke si identificava con uno spirito analitico e descrittivo cui si addicevano i quadratini policromi della scomposizione cubista. E poi egli ebbe il merito di aprire in tal modo la strada a Klee, pronto a giocare su ogni tasto, a condurre il grande en pleine di tutti i codici formalisti, mescolandoli tra loro, agitandoli al grande fuoco di un'energia primaria pronta ad assumere mille volti.

Viterbo

Il Messaggero Domenica 26 Ottobre 2003
RASSEGNA SUL CINEMA
Dopo il film, un’ora d’interessante dibattito col regista Bellocchio


Successo di pubblico e approfondito ed interessante dibattito finale con il regista al cinema Galleria per ”Buongiorno notte”, il film di Marco Bellocchio sul rapimento Moro, ispirato al romanzo ”Il prigioniero” di Anna Laura Braghetti. L’iniziativa, messa in atto da ”Digitavecchia” e giunta alla sua terza edizione, ha fatto di nuovo centro. Marco Bellocchio, fiancheggiato da Pino Quartullo e dall’instancabile e brava Maria Zeno, ha dato vita alla fine della proiezione, per oltre un’ora, ad un approfondito scambio di idee, sul significato e sul messaggio lanciato dal suo film, con il pubblico in sala, composto soprattutto da tantissimi giovani.

Washington

"Buongiorno, notte" è stato presentato nella capitale degli Stati Uniti nel corso del Festival cinematografico «Washington-Italia», giunto quest'anno alla sua seconda edizione.

sabato 25 ottobre 2003

il premio Grinzane a Marco Bellocchio

Libertà 24.10.03
Grinzane Cinema: vince Bellocchio


Torino - Il regista Marco Bellocchio e lo scrittore cileno Antonio Skarmeta sono i vincitori della 1ª edizione del Festival Grinzane Cinema, con il critico cinematografico Tullio Kezich che ha ricevuto il premio speciale Martini. A Bellocchio è andato il premio per il miglior film italiano, “Buongiorno notte” tratto da un libro, “Il prigioniero” di Anna Laura Braghetti e Paola Tavella. Il premio per la migliore opera letteraria trasposta su pellicola è stato assegnato a Skarmeta con «Ardiente Paciencia».

(c) 1998-2002 - LIBERTA'

Liberazione 24.10.03
Bellocchio vince il Premio Grinzane Cinema


Annunciati ieri i vincitori della prima edizione del Festival Grinzane Cinema. Il Premio per il miglior film italiano tratto da un libro va a Marco Bellocchio per "Buongiorno, notte", tratto da "Il prigioniero" (Feltrinelli, 2003) di Anna Laura Braghetti e Paola Tavella. Il Premio per la migliore opera letteraria trasposta su pellicola va a Antonio Skármeta per "Ardiente Paciencia" (Garzanti, 1983), da cui è stato tratto il film omonimo (Cile, 1983) e "Il Postino" di Michael Radford (Italia, 1994). Il Festival si svolgerà a Stresa, dal 29 ottobre al 1° novembre.

ADNKRONOS notizia del 23/10/200317:36
CINEMA: A LO CASCIO, BELLOCCHIO E RAI CINEMA IL PREMIO ROSSELLINI@MAIORI


Salerno, 23 ott. - (Adnkronos/Mak) - Luigi Lo Cascio "Miglior attore dell'anno". Il Premio speciale rossellini@maiori 2003 va quest'anno all'attore siciliano protagonista de 'La meglio gioventu'' di Marco Tullio Giordana, di 'Buongiorno Notte' di Marco Bellocchio e piu' recentemente della commedia 'Mio cugino' di Alessandro Piva. Oltre a Lo Cascio riceveranno il premio anche Marco Bellocchio ''Per l'insieme della sua opera filmica e per la particolare sensibilita' alle problematiche sociali del nostro tempo" e a RaiCinema ''Per il suo sostegno al cinema italiano'', si legge nelle motivazioni del premio. La cerimonia fissata per il 25 ottobre a Maiori (Salerno) conclude la quarta edizione del concorso annuale diretto dal figlio di Roberto Rossellini, Renzo, interamente dedicato a giovani autori di cortometraggi. Durante la settimana che precede la serata finale si sono tenuti 'Seminari di cinema', diretti da Renzo Rossellini, seguiti ogni anno da giovani studenti di cinema e appassionati, che vogliono essere un'occasione di formazione, un percorso didattico volto a lasciare una traccia. Sicuramente di spicco sono le sessioni di 'Critica cinematografica' con Cristina Piccino; 'Regia' con i registi Moumen Smihi, Farida Benlyazid e Yesim Ustaoglu; 'Recitazione' con l'attrice indiana Sharmila Tagore; "Lezione ipermediale sul film 'L'Amore' di Alessandro Pamini. (Mak/Adnkronos)

un articolo di Peter Schneider su "L'espresso":
Bellocchio e la storia del terrorismo

(segnalato da Sergio Grom)

L'Espesso
UOMINI DI PIOMBO
Libri, mostre, film. Dall'Italia alla Germania si torna a discutere di terrorismo. E si riaprono antiche ferite. Un grande scrittore tedesco spiega perché. Con una tesi provocatoria

È la "banalità del terrorismo.
I sedicenti eroi della liberazione erano dei piccoli borghesi dilettanti non all'altezza delle loro vittime

In Germania alcuni ex sessantottini radicali sono diventati ministri e sottosegretari


di Peter Schneider


Ogni generazione scrive di nuovo la storia e se ne conquista gli orrori, così come i momenti magici; e a volte, gli uni e glì altri appartengono alla storia che quella stessa generazione ha inscenato e vissuto. Avendo assìstito alla nascita della contestazione del 1968, tanto in Germania (a Berlino) quanto in Italia (a Trento), ho avuto modo di conoscere i capi storici di quei gruppi, che in Italia presero il nome di Brigate rosse e in Germania quello di Raf, Rote Armee Fraktion, quand'erano ancora, per così dire, «semplicí compagni». Perciò ho seguito con partecipazione, e anche con una certa inquietudine, il rinnovato dibattito sugli anni del terrore. Non è la prima volta che nella mia generazione si rícompone daccapo, attraverso opere letterarie e cinematografiche, il puzzle degli anni di piombo. E non sarà certo neppure l'ultima volta che nel corso di un'operazione del genere emerge un nuovo aspetto. finora ignorato o rimosso dall'opinione pubblica, e che sembra poter spiegare l'inconcepibile.
Si potrà comprendere, credo, il fastidio profondo che uno come me prova nell'osservare come il movimento del '68 sia sempre più messo in ombra dalle sue escrescenze omicide, la Raf e le Brigate rosse, tanto che alcuni idioti estremìsti finiscono per rimanere incisi nella memoria collettiva come i soli rappresentanti di quel movimento di ribellione.
Diamo uno sguardo al modo in cui si stanno rivisitando oggi i sequestri di persona e gli omicidi commessi trent'anni fa: eventi che ci appaiono, a distanza di tempo, come un incubo incomprensíbile, quasi una favola dell'orrore giunta fino a noi da epoche immemorabili. Su questi eventi si è riacceso, quasi contemporaneamente in Germania e in Italia, un aspro dibattito. A scaldare gli animi sono state, in Italia, due opere cinematografiche: il film in due parti "La meglio gioventù" di Marco Tullio, Giordana e "Buongiorno notte" di Marco Bellocchio. In Germania, il progetto di una mostra intitolata "Mythos Raf" (Il mito Raf) ha suscitato reazioni violente, tanto da determinare la sospensione dell'iniziativa, che pure era stata promossa con un contributo pubblico di 100 mila euro. I responsabili del finanziamento hanno dichiarato che avrebbero continuato a sostenere il progetto soltanto a condizione che lo spirito della mostra «si contrapponga nel modo più rigoroso a qualsiasi glorificazione o creazione di leggende». Gli organizzatori della mostra sono stati indotti a modificarne l'impostazione soprattutto dalle proteste dei familiari delle vittime. Secondo le voci che circolano in proposito, a questo punto l'intento non sarà più quello di documentare la storia della Raf attraverso immagini e documenti dell'epoca, bensì di adottare un punto di vista artìstico, analizzando il modo in cui questi eventi sono stati circondati da un'aura estetica e mitica. A mio parere un'operazione assurda, che otterrà esattamente ciò che i critici dei progetto volevano evitare.
A gettare altro olio sul fuoco è uscito poche settimane fa un libro dell'ex sessantottino Gerd Koenen, dal titolo: " Vesper, Ensslin, Baader" (Bernward Vesper era il primo marito di Gudrun Ensslin, assieme ad Andreas Baader e Ulrike Meinhof, fondatrice dalla Raf). L'autore può rivendicare il merito di aver fatto luce per la prima volta, con il distacco di un contemporaneo che vuole comprendere ma non perdonare, sul mondo dì tre "disperati": mentre i due ultimi si conquistarono fama mondiale con una serie di omicidi politici, Vesper (padre del figlio della Ensslin) cercò la sua propria "liberazione" dapprima nella letteratura, e infine nel suicidio.
In che cosa consiste la persistente inquietudine e il fascino suscitato dai "disperati" (tedeschi e italiani) di quegli anni? Perché si continua a riscrivere sempre di nuovo la loro storia? Credo che la risposta sia di una semplicità sbalorditiva. Il fatto è che i vari Curcio, Moretti, Gallinari, Maccari, Baader, Meinhof, Ensslin non erano "delinquenti comuni" come i governi cercavano allora di far credere ai loro cittadini traumatizzati. La tendenza degli interpreti ufficiali, dettata dal panico, di accreditare una versione semplicistica di quei crimini a sfondo politico si è rivelata addirittura controproducente. I cittadini sapevano, o intuivano che se questi criminali si erano resi responsabili di rapine, sequestri di persona, torture e omicidi, non lo avevano fatto perché spinti da "bassi motivi", bensì in nome di un fine più elevato. Tutte le loro azioni, comprese le più infami e le più inaudite, erano intese come un servizio ai diseredati di tutto il mondo, e segnatamente di quello che allora si chiamava Terzo mondo. Con la protezione di questa specie di scudo morale fai-da-te, portato sul petto e sul cuore, all'improvviso tutto sembrava permesso. Anche far fuori la guardia dei corpo di un "obiettivo da centrare". E persino le bassezze perpetrate all'interno dei gruppo, fino all'esecuzione dei «traditori». Gli autori di questi sedicenti delitti "morali" o "altruistici" ne traevano un guadagno soggettivo, sotto forma di un'immane sbornia di potere: sui politici, sui media, sugli intellettuali che se li contendevano; potere sul sesso, potere sulla morte. Su quella dei nemici come sulla propria. Ogni giorno poteva essere l'ultimo.
La sorprendente analogia del revival italiano e tedesco dei dibattito sul trauma degli anni '70 consiste per l'appunto nello smontaggio dell'aureola morale degli autodesignati liberatori del mondo. Parafrasando un celebre titolo di Hanna Arendt, potremmo parlare di un esame ravvicinato della "Banalità dei terrorismo". Chi guarda a quanto accadeva all'interno di questi gruppi può constatare che i sedicenti eroi delia liberazione mondiale erano in realtà nient'altro che piccoli borghesi, tossicodipendenti e dilettanti, non all'altezza delle loro vittime. Ciò non significa affatto che le loro motivazioni morali fossero fittizie.
Di fatto, non erano i "Rebels without a cause" (ribelli senza una causa) messi in scena da Elia Kazan. I loro moventi si rivelano piuttosto come il risultato di un grottesco errore di valutazione e di una spietata automanipolazione. L'analisi della realtà sottesa al culto dell'azione liberatoria era sbagliata, il loro linguaggio schematico e privo di vita. La loro prassi era criminale, la vita interna dei gruppi repressiva e squallida.
Nel suo libro, Koenen descrive come Baader si era improvvisamente trasformato, dal momento della sua entrata nella clandestinità, da comunissimo tanghero da osteria in una specie di divo. Nel mondo alla rovescia della lotta metropolitana armata, le cui formule erano fornite dalle intelligentìssime Ensslin e Meinhof, il più brutale era re: vinceva chi si diimostrava più pronto a colpire o a puntare l'arma. I più sensibili, i più intelligenti passavano in sottordine. Baader era solito apostrofare con il termine "Fotze" (fregna) le donne dei gruppo, che a loro volta si chiamavano in questo modo a vicenda. L'aspetto più straordinario dell'opera di demitizzazione sia di Bellocchio sia di Koenen sta nella rinuncia a brandire discorsi moralistici di qualunque tipo. Entrambi osservano con distacco i loro personaggi, li fanno vedere all'opera e mettono così a nudo la loro banalità, lasciando che si condannino da sé.
I paralleli, certo interessanti, tra queste due operazioni, condotte rispettivamente a nord e a sud delle Alpi, rischiano però di portare a una conclusione errata. Le radici del terrorismo italiano e di quello tedesco non sono identiche, e i due fenomeni hanno avuto dimensioni diverse. In Germania, il terrorismo di sinistra non ha mai coinvolto più di 200 o 300 militanti attivi, più qualche decina di migliaia di simpatizzanti, mentre i militanti delle Brigate rosse e di altri gruppi apparentati erano parecchie migliaia, con centinaia di migliaia di simpatizzanti. In Germania, il trauma dei fascismo e di Auschwitz e le fantasie sulla reiterazione della storia hanno costituito i motivi determinanti della decisione di intraprendere la lotta armata. In Italia, almeno secondo le mie osservazioni, a fare da detonatore sono stati invece alcuni eventi di grande attualità in quel periodo: l'attentato di Piazza Fontana, quello di Brescia e di Bologna (riconducibili al terrorismo di estrema destra), le circostanze della morte di Pinelli, precipitato da una finestra della Questura di Milano, e il pericolo (immaginario o reale?) di un colpo di Stato di destra.
In entrambi i casi, pure del tutto diversi tra loro, si è visto come un certo numero di giovani intellettuali impegnati, e inizialmente anche intelligenti, siano stati capaci di fare, per una serie di buone e condivisibili ragioni, cose tremende e assolutamente deliranti.
Trovo peraltro sorprendente che nel rinnovato dibattito sul terrorismo degli anni '70 sia mancato un raffronto con l'attuale terrorismo islamista. Come se si fosse trattato di un fenomeno folcloristico specifico dell'Europa. Forse coloro che pure hanno demistificato il terrorismo europeo, non hanno compreso fino in fondo il problema. A un esame più ravvicinato si dimostrerà che i guru dei terrorismo isiamista non si distinguono più di tanto dai loro precursori europei (vedi box sotto). Nell'uno e nell'altro caso, non sono stati i poveri del mondo a credere nel terrorismo come via verso un mondo migliore, bensì i rampolli privilegiati dei ceti borghesi: intellettuali megalomani, manipolatori e avidi di potere fino al delirio, che si propongono come liberatori con slogan del tipo: "Qualunque contribuente americano è un legittimo obiettivo militare". E il fatto che nei rispettivi contesti abbiano suscitato di volta in volta un'eco diversa rientra in un altro capitolo.
Vorrei aggiungere ancora qualche parola in merito al dibattito interno europeo. A mio parere, l'aspetto più importante sta nel diverso atteggiamento della società tedesca e di quella italiana rispetto all'eredità della contestazione del '68. In Germania, quasi tutti i terroristi a suo tempo condannati per omicidi o per altri reati sono ormai liberi, e alcuni ex sessantottini radicali sono diventati nel frattempo ministri, sottosegretari, deputati. Trent'anni fa Joschka Fischer, non contento di riempirsi la bocca di slogan violenti, era passato alle vie di fatto - com'è stato dimostrato - in uno scontro con la polizia. Oggi è di gran lunga il più popolare dei politici tedeschi. L'Italia ha invece un premier che dopo la caduta del Muro di Berlino e il crollo dell'impero sovietico, continua a predicare la lotta contro il comunismo. Chi riuscirebbe a immaginare un Adriano Sofri, che trent'anni fa ha indubbiamente giocato con l'idea della violenza rivoluzionaria, ma secondo me (anche se i tribunali italiani lo hanno condannato), non l'ha mai messa in pratica uscire dal carcere e assumere la carica di ministro degli Esteri?
(traduzione di Elisabetta Horvat)

Sfogliando l'album di famiglia
In un libro una sorprendente antologia di testi sul terrorismo


«Il terrorismo moderno è pubblicità di morte per fine di potere. (...) si fa pubblicità alla morte come ai vestiti e alle sigarette». Parole di Alberto Moravia, scritte oltre trent'anni fa su "L'espresso" del 24 settembre 1972, in un'intervista realizzata da Dacia Maraini Si era allora, all'indomani della strage di Monaco: atleti israeliani sequestrati e massacrati durante i giochi olimpici dai terroristi venuti dal mondo arabo e islamico, dai palestinesi di Settebre nero. Oggi che lo, spettro dei terrorismo è tornato di nuovo a dominare il nostro immaginario (il terrorismo internazionale come cronaca, quello interno come dibattito e soggetto di libri e film) le parole dì Moravia sona citate nel volume "Terrorismo e terroristi" a cura di Marco Fossati che sta per essere pubblicato dall'editore Bruno Mondadori.
Quella di Fossati è un'antologia di testi sorprendente. E che aiuta a capire e a conoscere la storia e la genesi del terrorismo nonché la matrice comune dei terrorismo islamico e di quello europeo. Si va da Giuseppe Flavio passando per Robespierre e Lenin, fino ad Adriano Sofri che di Giuseppe Flavio è un cultore.
Gli accostamenti tra i vari autori citati sono sbalorditivi. Così la descrizione di Giuseppe Flavio dell'operato dei sicari - «briganti che portavano pugnali nascosti nel seno» - terroristi zeloti ebrei tra il 66 e il 70, è messa in parallelo con il racconto che Marco Polo fornisce 1200 anni dopo della setta degli Assassini (analizzata recentemente da Bernard Lewis) sulla montagna del Libano. Giuseppe Mazzini nella "Guerra per bande" anticipa sia la tattica della espropriazioni proletarie praticata dal giovane rivoluzionario Stalin (di cui precursore, una volta al potere é invece il francese Saint Just citato pure nel libro, sia, quando parla dell'"apostolato armato dell'insurrezione", la strategia del Che Guevara. Leggendo il frammento del "Catechismo del rivoluzionario" di Sergei Necaev, anarchico nihilista russo dell'800, sembra ascoltare Mario Moretti, versione "Buongiorno, notte" dì Marco Bellocchio.
E ancora, Emilio Lussu spiega che il tirannicidio, quindi il terrorismo individuale, è sbagliato politicamente ma giustificato moralmente, mentre Luigi Longo loda i "vendicatori spietati" dei Gap. Lelio Basso, sempre su "L'espresso" e sempre nel settembre 1972, parla dell'ipocrisia di chi intitola le piazze a Guglielmo Oberdan e Felice Orsini, per poi condannare i palestinesi di Monaco, che comunque sono meno feroci degli americani in Vietnam e delle dittature sud-americane. Non a caso Rossana Rossanda, nel marzo 1978, ricordava come il terrorismo facesse parte dell'album dì famiglia della sinistra: anche quel testo, più attuale che mai, lo troverete nel libro curato da Fossati.
W.G.

venerdì 24 ottobre 2003

"disturbi alimentari"

L'Unità 24.10.2003
Bulimia, anoressia e le loro sorelle
di Luca Sciortino


C'è una guerra che non si vede e che si combatte in tutto l'Occidente. Con i suoi morti. È la guerra dei giovani contro il cibo. «Sono in netto aumento le persone che hanno un rapporto alterato o patologico con gli alimenti. In particolare, le persone bulimiche», ha affermato Gian Luigi Luxardi, psicoterapeuta e responsabile del Centro per i Disturbi Alimentari dell'Asl Friuli Occidentale, «Per le anoressiche, dopo un forte incremento, abbiamo avuto negli anni '90 una stabilizzazione di questo fenomeno, anche se compaiono nuove varianti».
Su una popolazione di 100 mila persone di sesso femminile e di età compresa tra i 12 e i 25 anni (cioè l'età a rischio), 100 sono anoressiche e 300 sono bulimiche. Le donne coprono da sole il 96 per cento dei soggetti che hanno rapporti patologici con il cibo. Complessivamente il 5-6 per cento della popolazione femminile in età a rischio ha un disturbo del comportamento alimentare di qualche tipo, percentuale che può salire al 10 per cento se si considerano tutte quelle situazioni che hanno forte probabilità di divenire patologiche. E purtroppo, in un anno, si ha una mortalità del 0,5 per cento tra i casi di soggetti che necessitano interventi di urgenza.
«Quando si parla di disturbi del comportamento alimentare ci si riferisce a tutte quelle situazioni nelle quali il modo in cui ci nutriamo è tale da compromettere la qualità della nostra vita - spiega Luxardi - l'anoressia e la bulimia nervosa sono soltanto i disturbi più noti. Ve ne sono molti altri che vengono raggruppati sotto la sigla EDNOS (Disturbi del Comportamento Alimentare non Altrimenti Specificati). Tra questi rientra la sindrome “mastica e sputa” : sono persone che masticano in continuazione il cibo ma non lo inghiottono. O il Disturbo da alimentazione incontrollata: i soggetti ingeriscono una grandissima quantità di cibo, anche in momenti in cui non hanno fame».
Ma ultimamente accanto a questi disturbi, altri se ne diffondono, come la «potomania», cioè un comportamento alimentare che consiste nel bere enormi quantità di acqua. «Si tratta per la verità di un disturbo diffuso da sempre tra le anoressiche, ma sta diventando sempre più frequente - fa notare Luxardi - ci sono ragazze che, pur di evitare di ingerire il cibo, arrivano a bere fino a 25 litri al giorno. Lo stomaco si dilata a dismisura, provocando fortissime coliche e c'è perfino un rischio elevato di coma e di morte».
C'è poi la bramosia di cibarsi di cibi sani o quella di avere un corpo muscoloso, tutti fenomeni che assumono talvolta aspetti patologici sino a divenire vere e proprie sindromi.
Negli stadi avanzati, alcuni sintomi di questi disturbi sono facilmente riconoscibili, ad esempio «i comportamenti ossessivi nei riguardi del cibo, le abbuffate seguite dal vomito nel caso della bulimia o la perdita di peso rilevante nel caso dell'anoressia» . Ma negli stadi iniziali è facile confondere i sintomi con i comportamenti «normali», tipici del nostro contesto sociale. Per questo Luxardi tiene a puntualizzare che segnali da cogliere sono: «l'aumento di autostima quando non si mangia, l'assunzione di regole alimentari rigide (nel caso dell'anoressia) e l'alternanza di periodi in cui si mangia poco con periodi in cui si mangia molto (nel caso della bulimia)».
Ma quali sono le cause dei disturbi del comportamento alimentare? Secondo Luxardi non si può parlare di una sola causa, semmai di molte concause: «Vi sono dei fattori predisponenti come la bassa autostima, il perfezionismo, ma senza dubbio gioca un ruolo fondamentale la cultura nella quale si vive, che esalta la magrezza, il culto del corpo e la valorizzazione dell'apparenza; i disturbi di comportamento alimentare sono di fatto diffusi soprattutto nel mondo occidentale». Non vi sono risposte chiare invece su quanto la famiglia contribuisca allo scatenarsi di un disturbo alimentare, ma, continua lo psicoterapeuta, «alcuni atteggiamenti dei genitori, come l'iperprotettività o l'ipercoinvolgimento nei confronti della figlia, possono contribuire al mantenimento del disturbo».
In questi ultimi anni, man mano che il rapporto alterato con il cibo assumeva sempre più le connotazioni di un vero e proprio problema sociale, sono aumentati i trattamenti specifici, calibrati sulla persona. «Di sicuro, occorre esperienza e conoscenza in più aree differenti fra loro», dice Luxardi, che spiega: «se vi sono le condizioni per una psicoterapia, è bene che questa sia coordinata all'interno di un équipe che sappia alternare interventi nutrizionali, pedagogici e psicologici; a volte comunque, a causa delle condizioni fisiche o psicologiche gravi è necessario un ricovero in una clinica. In ogni caso bisogna integrare la psicoterapia con una cura riabilitativa capace di restituire al soggetto il desiderio del cibo».
Ritornare a una vita normale è comunque possibile, e anzi molte delle pazienti reagiscono bene alle cure e guariscono in tempi relativamente brevi.
Uno studio compiuto in alcuni centri specialistici italiani rivela che entro sei anni guarisce il 70% dei soggetti ed entro tre anni il 50%. Purtroppo resta un 30% che, anche se migliora, continua ad alternare a periodi di «vita normale» periodi di ricaduta.
«Guarire» comunque, sottolinea Luxardi, «significa non soltanto recuperare peso, ma comprendere profondamente quanto è accaduto».

giovedì 23 ottobre 2003

mawivideo.it:
Marco Bellocchio al Centro Congressi di Ateneo
martedì 21 ottobre

(comunicazione di Tonino Scrimenti)

Roma. Il pomeriggio di martedì 21 ottobre - come era stato comunicato su questo blog - presso il Centro Congressi di Ateneo di via Salaria 113, a Roma, la facoltà di Sociologia ha inaugurato un ciclo di incontri dal titolo "Appuntamenti con la memoria".
Per l'occasione, sul tema "La memoria tra arte e il documento", Marco Bellocchio ha presentato "Buongiorno, notte" e Sergio Zavoli il suo documentario "Le tre Vie".
È seguito un dibattito, che si è rivelato molto interessante, tra i due autori e il prof. Alberto Abruzzese, ordinario di Sociologia delle comunicazioni di massa.

L'invito recitava così: «Tema di discussione: la differenza tra le modalità narrative utilizzate dal racconto cinematografico e dal documentario nella trasmissione della memoria storica e il valore dei documenti audiovisivi come testimonianza delle delicate connessioni che legano memoria sociale, individuale e collettiva»

Una troupe ha ripreso il dibattito, ed esso è ora disponibile per la visione e l'ascolto sul sito di Matteo Fago e di William Santero mawivideo.it (adesso anche con un bellissimo disegno!), per raggiungere il quale si può cliccare QUI

il Festival della Scienza a Genova

Corriere della Sera 23.10.03
IL FENOMENO
«Paura e grande attrazione Per noi italiani è un mondo ai confini con la magia»


La scienza corre, sforna scoperte i cui significati sono sempre più sofisticati e talvolta lontani dalla comprensione. Eppure c’è un’attrazione per questo mondo che è sotto gli occhi di tutti: i quotidiani se ne occupano, le riviste di settore crescono, i programmi tv si moltiplicano e, adesso, debutta addirittura un Festival della scienza. «Ma forse è proprio perché si sente il bisogno di capire di più che l’interesse aumenta» dice Emanuela Arata dell’Istituto nazionale di Fisica della materia e presidente del Festival genovese. «L’Italia è il Paese più antiscientifico d’Europa - dice - è c’è tanto bisogno di informazione per sciogliere quelle paure che la scienza in alcuni casi può far nascere proprio per la sua eccessiva sofisticatezza. Persino lo scienziato da noi è una figura anomala. Quei pochi che parlano spesso dissertano su tutto contribuendo più all’immagine del mago che del ricercatore. Invece attraverso il Festival vogliamo offrire un’idea corretta dove gli esperti raccontano ciò che sanno e compete loro». E’ sicuramente il modo giusto per rendere i messaggi più chiari e decifrabili, l’era dei tuttologi è da superare se si vuol capire davvero ciò che succede. «Lo scienziato - continua Arata - nei Paesi stranieri è visto come una persona che fa un mestiere normale anche se spesso più interessante. E’ una visione corretta perché solo così un giovane può giudicarla una prospettiva praticabile, un lavoro a cui ambire e prepararsi. Ed è un modo per combattere pure il calo nelle iscrizioni alle facoltà scientifiche».
Nonostante tutto nella scienza rimane però un po’ di magia, indispensabile per accendere il fascino di un mondo da conquistare. Un mondo che possiamo costruire noi, con le nostre scoperte e invenzioni diventando fabbricanti del futuro. «E’ vero, una certa magia esiste - continua Arata - anche perché spesso il confine del possibile nella ricerca non è chiaro e diventa labile. Qui deve scattare la responsabilità dello scienziato evitando di presentarla in una dimensione irreale».
Ma accade che sommersi da fiumi di scienza si fugga nell’irrazionale, nell’esoterico, nel magico più estremo. «Questa inclinazione è forse una componente antropologica dell’uomo - commenta Vittorio Bo, direttore del Festival - e solo una corretta informazione può sconfiggere atteggiamenti di rivolta, di rifiuto alla comprensione. L’iniziativa genovese vuol creare una sorta di abbecedario attraverso mostre, conferenze, giochi e spettacoli capaci di far capire come scienza e tecnologia siano parte della nostra vita quotidiana e non un mondo irraggiungibile. Dimostreremo che persino la magia di Harry Potter può essere più reale, più scientifica, di quanto immaginiamo».
Nulla è incomprensibile nella scienza, basta trovare il modo giusto per raccontarla. E’ questa la semplice verità che il festival genovese vuol diffondere. E per conquistare un risultato e sciogliere falsi miti, fa ricorso ad ogni mezzo: dal cinema al teatro, dal gioco alle mostre; ma soprattutto alla parola degli scienziati.