giovedì 14 ottobre 2004

la religione americana

Il Gazzettino 14.10.04
NEW YORK - È legittimo mettere una copia dei dieci comandamenti in un'aula di tribunale o un monumento che raffigura le tavole della legge nella piazza pubblica che sta tra parlamento e corte statali? Oppure è un simbolo innegabilmente religioso che viola la separazione tra stato e chiesa?
Gianna Pontecorboli

Dopo venticinque anni di silenzio sui temi religiosi, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso ora di prendere in considerazione una disputa che ricorda da vicino quella del crocefisso nelle classi delle scuole pubbliche italiane. I nove giudici che compongono la Corte dovranno decidere nei prossimi mesi chi ha ragione tra due stati che, messi di fronte al problema, hanno preso direzioni opposte. In Texas, infatti, il parlamento locale ha ricevuto in dono dal Fraternal Order of Eagles, un gruppo religioso, una pesante statua con l'iscrizione dei dieci comandamenti e ha deciso di sistemarla nel parco che sta di fronte alla Corte Suprema del Texas, a Austin. Quando un senzatetto locale, Thomas Van Orden, si è rivolto al tribunale per far togliere la statua i giudici gli hanno dato torto. «I dieci comandamenti - hanno stabilito - hanno sia un messaggio religioso che un messaggio secolare. Simboleggiano un giusto governo tra gente libera». In Kentucky, un analogo tribunale non ha invece appoggiato i rappresentanti di due contee, che avevano deciso di appendere delle copie dei dieci comandamenti nelle aule della corte locale e ha ordinato loro di appendere ai muri anche la Magna Carta e la dichiarazione di indipendenza americana. «Specialmente in una corte, la gente non deve sentirsi diversa perchè non partecipa alla visione religiosa prevalente» ha sostenuto l'Associazione per le libertà civili del Kentucky. Adesso, la Corte Suprema dovrà ascoltare gli argomenti delle parti in primavera e probabilmente decidere entro l'estate prossima. La questione, però, rischia di far riaffiorare delle polemiche mai sopite. Già nel 1980, infatti, i nove giudici avevano deciso di far togliere le copie dei dieci comandamenti dalle aule scolastiche. In Alabama, lo scorso anno, il presidente della Corte Suprema statale, Roy Moore, aveva clamorosamente sfidato l'ordine federale di rimuovere un analogo monumento. Per la sua ribellione, Moore ha perso il lavoro ma i suoi sostenitori non hanno perso tempo, ieri, a cantare vittoria. «Dio risponde alle preghiere» ha dichiarato Jimmie Green, un ex giudice del Kentucky che ha rifiutato di togliere personalmente dal muro del suo corridoio il testo delle tavole della legge, «non c'e' ragione migliore per andare in galera che difendere un documento sacro».

la cultura ungherese in mostra a Roma
...e uno sterminio annullato

Liberazione 14.10.04
Un olocausto dimenticato
Aperta a Roma una mostra d'arte per ricordare lo sterminio degli ebrei ungheresi. Una tragedia per anni ignorata dalla stessa nazione magiara
Il ricordo di Charles Farkas, figlio di Istvàn, uno degli artisti più rappresentativi, scomparso durante la detenzione: «Non abbiamo mai voluto riconoscere le nostre colpe e le abbiamo attribuite ai tedeschi. In Bulgaria invece la popolazione fermò i nazisti e gli ebrei si salvarono»
di Vittorio Bonanni

«Iquadri che possiamo vedere in questa esposizione sono nati negli anni più bui della storia dell'Ungheria. In quegli anni, quando nei confronti di ebrei ungheresi furono commessi peccati terribili da altri ungheresi: li umiliavano nella loro dignità umana, li hanno privati dei loro beni, hanno tolto loro gli appartamenti, i loro oggetti di valore, i loro negozi, li costringevano nel ghetto, li hanno deportati nei campi di lavoro, e nei campi di annientamento della Germania o li hanno uccisi in Ungheria.» Questa denuncia è del filosofo magiaro Zoltàn Endreffy, esponente dell'associazione Pax Romana che si occupa del dialogo interreligioso. Lo studioso ha ricordato lunedì scorso il massacro degli ebrei ungheresi (di settecentomila che erano ne sopravvissero solo duecentomila) durante la presentazione della mostra "L'Olocausto nell'arte ungherese", visibile a Roma fino al 5 novembre presso l'Accademia d'Ungheria a Palazzo Falconieri, al quale ha fatto seguito il giorno seguente la conferenza di carattere storico "Olocausto sessant'anni dopo".
E' stata proprio questa ricorrenza, appunto i sessant'anni, a spingere l'Accademia ha realizzare questa serie di iniziative che vede comunque nell'esposizione di dipinti, disegni e sculture realizzati da artisti magiari tra il 1938 e il 1946 il momento certamente più significativo e toccante.
I quadri esposti non sono solo una testimonianza di tempi terribili. Sono anche il prodotto di un momento artistico importante, quell'arte figurativa ungherese i cui esponenti, nel 1938-39, furono deportati, costretti ai lavori forzati o semplicemente annientati, come Imre Amos, definito il "Chagall magiaro" o Istvàn Farkas, pittore esistenzialista di spicco fra le due guerre, un artista che conobbe un grande successo internazionale. Il figlio Charles era presente all'inaugurazione: «Io stesso sono stato in un campo di lavoro tedesco in Jugoslavia - dice Charles Farkas - da dove sono scappato.» «Molti artisti rappresentati qui - dice l'ideatore della fondazione Farkas parlando dell'esposizione - hanno realizzato dei disegni proprio durante la detenzione nei campi e in qualche modo sono riusciti a portarli fuori. I quadri esposti sono comunque di diversi periodi: si parte dal 1938, quando venne promulgata la prima legge razziale in Ungheria, fino ai giorni nostri, perché ci sono degli artisti che hanno trasformato in quadri dei ricordi, delle impressioni.» Questa mostra è importante perché «da noi non c'è stata una catarsi come in Germania. Gli ungheresi non hanno mai voluto riconoscere le loro colpe. E invece se è successo quello che è successo la colpa è degli stessi ungheresi, perché, per esempio, in Bulgaria, dove i tedeschi volevano fare la stessa cosa, la popolazione disse che non potevano imporre le loro leggi. E infatti gli ebrei bulgari sono stati salvati.»
Come dicevamo Istvàn Farkas è stato un grande pittore, che conobbe in Francia successo e fama, soprattutto negli anni '20-'30. Il figlio lo ricorda così: «Io sono stato con mio padre fino all'età di sette-otto anni perché poi i miei genitori si sono separati. Ci vedevamo uno o due volte la settimana e passavamo l'estate con lui. Noi siamo nati a Parigi perché lui svolgeva prevalentemente la sua attività lì e tenne aperto il suo studio fino al 1939, prima dello scoppio della guerra.» Farkas comprò anche una casa lungo le sponde del lago Balaton, in Ungheria, dove andava per dipingere. «Ora è diventata un museo - dice Charles - ed è divenuta la sede della Fondazione Istvàn Farkas, presente anche negli Stati Uniti.»
Questa iniziativa dell'Accademia d'Ungheria si inserisce in un contesto di revisione di un periodo storico praticamente rimosso per decenni dalla nazione magiara: «Finora - dice Katalin S. Nagy, storico dell'arte - non è avvenuta la revisione collettiva del periodo 1938-1945. Nel 1946/47 hanno organizzato alcune mostre in memoria dei martiri, ma dopo decenni di silenzio è arrivata l'ora per gli storici ungheresi di far vedere, riscoprire, i valori delle opere d'artisti ebrei ungheresi.»

Cinema
Due tempi all'inferno

Per ricordare lo sterminio degli ebrei ungheresi la manifestazione organizzata dall'Accademia d'Ungheria ha previsto anche la proiezione del film "Due tempi all'inferno" di Zoltàn Fàbri, realizzato nel 1961. E' ambientato nella primavera del 1944, quando in un campo di lavoro in Ucraina gli ufficiali tedeschi costrinsero i prigionieri ungheresi, indeboliti sia nel corpo che nello spirito, a giocare una partita di calcio in occasione del compleanno di Hitler. L'epilogo è drammatico: gli ungheresi, malgrado tutto, vincono ma pagano a caro prezzo la loro affermazione e il loro entusiasmo. Vengono infatti uccisi sullo stesso campo di calcio. L'autore (1917-1994), è stato uno dei rappresentanti di spicco del cinema ungherese. Il film "Due tempi all'inferno" è giudicato uno dei suoi lavori migliori. Nel 1981 la trama del suo film venne ripresa da John Huston, nel film "Fuga per la vittoria", dove però la storia ha un lieto fine. Nella versione americana vi hanno lavorato attori come Michael Caine, Sylvester Stallone, Max von Sydow e Pelé.

Adonis, il poeta, sui monoteismi

Liberazione 14.10.04
Intervista al poeta siriano Adonis, che ieri ha inaugurato il RomaPoesia 2004
«Nell'uso politico della religione, l'origine di tanti orrori»
«Naturalmente rispetto la fede del singolo individuo. Ma parlando dal punto di vista storico, il monoteismo ha creato dittature, guerre, razzismo e tutto quello che è contro l'essere umano».

Ha scelto di farsi chiamare Adonis, come un dio ellenico, in realtà il suo nome è Ali Ahmad Sa'id Isbir, per tutti comunque è uno dei più grandi poeti arabi contemporanei, oltre che esponente di spicco della cultura internazionale. Da qualche tempo è in odore di premio Nobel per la letteratura, ma di questo non sembra curarsi troppo, gli basta scrivere, pubblicare le sue raccolte di versi e continuare a dare scandalo con le sue posizioni di grande apertura, persuaso - oggi come negli anni '50 quando fondò la rivista "Shi'r" - della necessità di affermare valori essenziali universalmente condivisi. La sua rivisitazione dei miti, della storia e della cultura araba attraverso un nuovo approccio metodologico lo ha portato a diventare un punto di riferimento per le generazioni più giovani ma anche un autore inviso ai fondamentalisti.
Nato nel 1930 nel villaggio di Qassabin in Siria, Adonis ha studiato e si è laureato all'università di Damasco, ha lavorato a Beirut e da qualche tempo vive a Parigi. Di ritorno dalla Buchmesse di Francoforte, da tre giorni si trova in Italia, dove ha partecipato al festival "Mediterranea", organizzato dalla Provincia di Roma insieme al suo amico di sempre, il grande poeta israeliano Natan Zach, con cui ieri sera ha aperto anche l'ottava edizione del "RomaPoesia - Festival della parola", organizzato anche quest'anno dall'assessorato alla Cultura del comune di Roma all'Auditorium Parco della Musica.
«Innanzi tutto voglio dire che alla manifestazione di Francoforte sono stato invitato dalla Lega araba, ma lì rappresentavo solo me stesso, non il mio paese», così esordisce il poeta Adonis, mettendo subito in chiaro le cose.
Che cosa può dirci della Buchmesse tedesca. Secondo lei, sono importanti questi incontri fra poeti e letterati di tutto il mondo?
Non è semplicemente importante, ma direi che è sempre più necessario incontrarsi. Non solo fra noi arabi, ma anche con gli scrittori degli altri paesi rappresentati a Francoforte.
Lei è famoso anche per essere un poeta laico all'interno della cultura araba: che giudizio dà oggi della rinascita dei fondamentalismi, sia che si tratti di fondamentalismo cristiano, islamico o ebraico?
L'ho già detto più volte e lo ripeto: per me il fondamentalismo è un segno della decadenza della religione stessa. Si parla moltissimo del ritorno delle religioni e si discute spesso di questo fenomeno. Secondo me, però, non si tratta di un fenomeno di ritorno ma è il segno della fine delle religioni. Inoltre si deve considerare che questo fenomeno non è assolutamente un ritorno di tipo spirituale, ma semmai di tipo politico che utilizza la religione come strumento per difendere interessi economici e politici. Dunque è decisamente un segno nefasto sia per la religione che per lo spirito religioso.
Qual è il suo rapporto con la religione o con il suo credo?
Fino ad ora abbiamo parlato di religione e non di fede. Io ho un grandissimo rispetto per la fede, qualsiasi essa sia, anche la fede di quelle persone che credono, per esempio, in una pietra. La religione invece, come fenomeno istituzionalizzato o politicizzato, diventa una forza nefasta per l'essere umano stesso. Per questo quando parlo di religione voglio precisare la distinzione tra religione di tipo istituzionale e fede del singolo individuo che rispetto profondamente.
Recentemente lei si è espresso in termini molto critici sul monoteismo affermando che sarebbe necessario cambiarlo. Cosa voleva dire?
Il monoteismo è la negazione dell'altro e di tutti di coloro che non credono a quello in cui il monoteista crede. Abbiamo tre monoteismi e tre concezioni di dio, quindi anche dio è plurale, secondo questa visione. Parlando poi da un punto di vista storico, il monoteismo ha creato dittature, guerre, razzismo e tutto quello che praticamente è contro l'essere umano.
Dopo l'11 settembre si parla sempre di più di scontro di civiltà fra Oriente e Occidente. Lei che cosa ne pensa?
E' la prova che questo scontro è profondamente religioso, come dicevo prima. La poesia, la pittura, la scultura, la musica, l'amore non parlano mai di scontro di civiltà. Tutto quello che è essenziale non fa parte di questo scontro anzi tutti i popoli sono uniti dalla poesia, all'arte, dalla musica e dall'amore: un'altra prova che il monoteismo è legato agli interessi militari, economici e politici.
La poesia dunque può contribuire a costruire una società basata sull'unione e la comunicazione fra i popoli?
Certo, ma non la poesia come poema in sè ma come visione del mondo, come creazione di un nuovo modo di relazionarsi fra gli uomini, ma anche fra gli uomini e l'universo e fra la lingua e le cose. Essere creativo in senso poetico può dare una nuova immagine alla nostra vita di relazione umana.
In questi anni il terzo mondo, privato di ogni mezzo di sussistenza, preme alle porte dell'Europa. Come pensa si possa risolvere questo grave problema.
Se rimaniamo sul piano della creatività non esiste un terzo mondo. Il terzo mondo supera nella creatività anche i paesi più sviluppati. Prendiamo l'America latina, è chiaro che supera di gran lunga il Nord America su questo piano. Sono dunque le forze politiche e militari di questa parte del mondo, che noi chiamiamo Occidente, che creano i problemi di miseria, povertà e ingiustizia.
Dunque il futuro è nell'integrazione della parte povera del mondo con il cosiddetto Occidente?
Credo che il nostro futuro sarà meticcio. L'unica soluzione è un "meticciato" umano e culturale.

filosofia a Milano...

Corriere della Sera 14.10.04
RASSEGNE / Da lunedì tornano gli incontri del Parenti e si allargano al Dal Verme e a Sant’Ambrogio
Va’ pensiero, è di moda la filosofia
Si comincia con Platone: sul palco Cacciari e Radice, Reale e Krämer

Se la poesia fa il pienone (con Dante, Petrarca e adesso Omero), la filosofia non sarà da meno. La Milano intellettuale si prepara a una stagione di grandi numeri con il ritorno degli incontri a cura di Pier Lombardo Culture, organizzati dal Teatro Franco Parenti che in questa edizione si allargano a nuovi e più capienti spazi come il Teatro Dal Verme e la Basilica di Sant’Ambrogio. Come nota Massimo Cacciari, tra i curatori degli incontri assieme a Salvatore Natoli, «la filosofia nasce sempre nei momenti di crisi», ma è anche vero che nessun serio tentativo di pensare il futuro può prescindere da un rapporto vivo con il passato: «l’eredità non è mai un dato, ma sempre un compito», insegnava Derrida. Il ripensamento dei classici è allora uno dei cardini attorno a cui ruotano gli appuntamenti di quest’anno, a cominciare da quello in programma lunedì prossimo al Dal Verme, «Platone e l’Europa» (via San Giovanni sul Muro, ore 18, ingresso libero) . Sul palco, sette tra i massimi conoscitori europei del filosofo: Cacciari, Hans Krämer e Thomas Szlezák dell’Università di Tubinga, Maurizio Migliori, Roberto Radice, Giovanni Reale e Mario Vegetti, quest’ultimo docente di Storia della filosofia antica all’Università degli Studi di Pavia.
«Esistono delle domande alle quali le persone pensano di poter trovare delle risposte nella filosofia, e questo è forse il principale motivo di questo "assalto" alle conferenze e agli incontri, quando magari nelle aule universitarie le lezioni sono seguite da quattro gatti», dice Vegetti. «Spesso però la filosofia non può rispondere a domande tipo "Come si fa a essere felici?", anche se è in grado di fornire delle intuizioni atemporali che sono in grado di raggiungere l’uomo contemporaneo. Prendiamo Platone: la sua idea che dall’uomo dipenda la determinazione del proprio destino è immutata e affascinante: vuol dire che si può ricostruire il mondo e rifare la società». E il legame tra Platone e l’Europa? «Naturalmente Platone non poteva conoscere l’Europa, ma il suo lascito culturale è fondamentale per l’identità europea. Per esempio Platone è convinto che il requisito principale dei governanti è non avere alcuna proprietà privata perché, come spiega nella "Repubblica", altrimenti il governante sarebbe portato a fare i suoi interessi».
Ancora Platone sarà al centro di un incontro su «Fedone o della immortalità» (il 14 marzo), nell’ambito della mini-rassegna «Snodi» con tre messinscena di Carlo Rivolta. Tra gli altri appuntamenti, «Ambrogio o della tolleranza» (il 28 febbraio in Sant’Ambrogio, costruito intorno alle lettere di Simmaco al Vescovo di Milano) e «Momo o della dissacrazione» (il 18 aprile), opera di Leon Battista Alberti sul rapporto tra dei e politica.
E se Giordano Bruno sarà il soggetto della dissertazione in programma il 26 ottobre al Dal Verme, i contemporanei Vittorio Sgarbi e Tahar Ben Jalloun si confronteranno mercoledì prossimo sul tema «Si può tradire per amicizia?».

imputabilità e inimputabilità

denaro.it 29.9.04
Nuova disciplina dell’imputabilità
Nell’ambito del progetto di riforma del Codice Penale ad opera della Commissione ministeriale presieduta dal professor Carlo Federico Grosso, notevole rilievo assume la disciplina dell’imputabilità con i suoi molteplici aspetti innovativi.
di Luciano Martino

Apprezzabile è la scelta favorevole al mantenimento della distinzione tra soggetti imputabili e inimputabili, come quella, compiuta sul piano della tecnica legislativa, di rinunciare a definire in positivo il concetto di imputabilità, limitandosi a disciplinarne le condizioni che la escludono o la diminuiscono. La scelta nasce dalla constatazione del carattere meramente pleonastico della formula adoperata dal legislatore del ’30 nell’art. 85 c.p., oltre che dall’incertezza che fin dalle origini rende incerti i suoi confini . La menzione separata delle due capacità (di intendere e di volere) suscita riserva, tenuto conto che, alla luce delle moderne conoscenze psicologiche, intelligenza e volontà appaiono come funzioni influenzantesi vicendevolmente. Parallelamente, si è avviato un processo di ampliamento dell’imputabilità anche alla sfera affettiva, poiché la tradizionale separazione della personalità psichica in tre elementi distinti — sentimento, intelligenza e volontà —ha segnato il passo di fronte all’affermazione del principio di indivisibilità della psiche umana. La disciplina in esame, quindi, ha dato rilievo alle critiche, da tempo manifestate, sull’opportunità del mantenimento di una formula così generica per indicare l’imputabilità che, come tutti i concetti “disposizionali”, è più facilmente individuabile in negativo. Sono rimaste, invece, deluse le speranze di quanto avevano suggerito che, in sede di riforma, si desse all’imputabilità una collocazione all’interno del reato, e segnatamente nel titolo II relativo alla colpevolezza, superando in questo modo la sistematica del codice attuale. Il progetto ministeriale ne colloca, al contrario, la disciplina nel titolo IV dedicato alla pena. Apprezzabile appare, sul duplice piano della scelta di principio e della tecnica normativa, l’opzione a favore di un “modello aperto” di individuazione delle ipotesi di non imputabilità d’impiego di una clausola definitoria aperta per il dichiarato fine di realizzare un flessibile adeguamento al mutare (al progresso) delle conoscenze scientifiche e in genere delle concezioni pertinenti, cosicchè si aprirebbe la strada alla rilevanza dei diversi paradigmi della malattia mentale prospettati dalla scienza psichiatrica. L’attuale disciplina, nelle intenzioni dei compilatori del codice penale del ’30 , avrebbe dovuto circoscrivere l’ambito di applicabilità della norma ai soli casi in cui il vizio di mente afferisse ad una forma patologica, riconducibile, in base alla sintomatologia presentata, a ben precise tavole nosografiche. Senonchè, la scelta operata a quel tempo, incentrata su un modello c.d. medico o biologico della malattia mentale, ha via via perduto il monopolio nell’ambito della psichiatria per lasciare spazio ad un paradigma di tipo psicologico prima e di tipo sociologico successivamente. In questo senso la Commissione propone di allargare i presupposti dell’incapacità di intendere e di volere, affiancando al tradizionale riferimento all’infermità di mente la espressa menzione di “altro grave disturbo della personalità” Questa scelta estensiva, oltre ad essere in linea con l’orientamento dei codici più recenti, ben riflette la consapevolezza proprio di quel pluralismo motodologico che oggi connota il sapere psichiatrico, una volta entrato in crisi il paradigma medico-nosografico quale unico o prevalente criterio selettivo di disturbi psichici atti a incidere sulla capacità di colpevolezza e di pena. Una ricodificazione che vada al passo con i tempi non potrebbe pretendere di imporre concezioni o modelli che risultano obsoleti alla stregua dell’evoluzione del sapere scientifico. Peraltro, la nuova opzione codificatoria, se ambisce a guidare la prassi applicativa futura, deve riuscire a contemperare apertura all’evoluzione scientifica e capacità orientativa dei giudici. Ed occorre, altresì, che il modello di disciplina proposto, rifletta soluzioni capaci di riscuotere il consenso della grande maggioranza degli psichiatri e degli psicologi. In tal senso, si riscontrano dubbi e incertezze da parte della scienza psichiatrica sull’utilizzo dell’espressione “disturbo della personalità”, sottolineando che si tratta di un termine riduttivo e ampliativo al tempo stesso, essendo limitato da un lato alle sole psicopatie, per cui resterebbero fuori le nevrosi, e valendo dall’altro e ricomprendere una serie di anomalie psichiche non altrimenti classificabili. Meglio sarebbe stato, secondo tali autori, l’utilizzo dell’espressione “altro grave disturbo mentale” o “ altro grave disturbo psichico”. Piuttosto, a nostro avviso, il punto è un altro: la inidoneità del requisito della gravità ad arginare un’interpretazione troppo lata dell’anomalìa psichica, in quanto qualsiasi formula terminologica, sia essa la “gravità” o il “valore di malattia”, si presta in concreto a facili manipolazioni. Diversamente dalla disciplina vigente, quella suggerita dal Progetto Grosso collega la non imputabilità alla impossibilità di “comprendere il significato del fatto o di agire in conformità in tale valutazione”. L’imputabilità sarebbe, quindi, definita in negativo e in chiave strettamente intellettualistica. Si tratta di una formula utilizzata da codice penale tedesco del 1975, e che è stata poi ripresa sia dal codice spagnolo che da quello portoghese. Nei §§ 20 e 21 del ST GB tedesco, in particolare, si parla di incapacità di comprendere “das Unrecht” del fatto e di agire in conformità a tale rappresentazione, sicchè il soggetto imputabile deve avere la consapevolezza del contenuto illecito del fatto commesso. Con ciò, naturalmente non deve intendersi la coscienza dell’antigiuridicità del fatto, valutata alla stregua della norma incriminatrice, la cui ignoranza, come è noto, è irrilevante ai sensi dell’art. 5 c.p., bensì il suo significato offensivo, nella dimensione fattuale concreta, pregiuridica. Il criterio di giudizio sull’imputabilità recepito dal legislatore della riforma è, dunque, di tipo misto o biologico — psicologico, non rinunciando, da un lato, alla diagnosi della malattia mentale e richiedendo, dall’altro, la valutazione del grado di incidenza del disturbo sulla comprensione del significato del fatto, contrariamente al sistema biologico puro, che lega la non imputabilità automaticamente alla diagnosi della malattia mentale, e al modello normativo puro, che, invece, prescinde dalla diagnosi della malattia mentale, valutando solo l’incidenza del disturbo sulla psiche del soggetto. Per quanto concerne il trattamento sanzionatorio dei non imputabili, la Commissione di studio, nel chiaro intento di applicare — nel caso concreto — la misura più adeguata alle specifiche esigenze di cura e di controllo, ha proposto una serie di misure “non punitive”, individuate ai fini di prevenzione speciale e denominate di “sicurezza e riabilitative”. Nell’art.96, comma 3, del progetto di riforma precisa poi che non si fa luogo all’applicazione e la misura viene revocata quando la sua finalità possa essere efficacemente perseguita con strumenti di carattere non penalistico. A differenza degli istituti orientati alla risocializzazione o alle terapie e simili, dunque, le misure di sicurezza e riabilitative costituirebbero l' estrema ratio, intervenendo solo allorchè si riscontrino “esigenze comprovate e prioritarie di prevenzione dei delitti più gravi”. Il progetto Grosso, in definitiva, mantiene un sistema di misure alternative alle pene vere e proprie, ma supera il sistema del c.d. “doppio binario”. Quanto alla tipologia delle misure di sicurezza, il progetto Grosso all’art. 97, comma 1, relativamente al non imputabile per infermità o altro grave disturbo della personalità: il ricovero in una struttura, con finalità terapeutiche,; l’obbligo di sottoporsi ad un trattamento ambulatoriale presso strutture sanitarie, nonché quello di sottoporsi a visita periodica presso strutture sanitarie e di presentazione periodica ai servizi sociali. Altra importante novità, per taluni versi dirompente, è, come detto, il superamento nel nuovo codice del sistema del doppio binario. Difatti, le nuove disposizioni escludono la possibilità di applicare, in aggiunta alla pena, una misura di sicurezza e prevedono che, quanto agli imputabili sia applicata una pena, ma con finalità rieducative, per i semimputabili una pena diminuita e orientata in senso risocializzante; mentre destinerebbe agli autori di reato prosciolti per non imputabilità, le misure di sicurezza come unica conseguenza sanzionatoria. Così facendo si è cercato di uniformare la disciplina delle misure di sicurezza e riabilitative al principio di proporzionalità. In questo senso ne sono fissati i limiti edittali, anche solo nel minimo, oltre ad alcuni presupposti oggettivi legati alla tipologia del reato commesso.

unioni legali

ricevuto

Da METRO
(quotidiano metropolitana di Roma - http://www.metroitaly.it/flash/quotidiano/roma.pdf) 14.10.04:
"Permettiamo ai gay un'unione legale"
di MARIO FURLAN, Fondatore dei City Angels

I gay sono una lobby: lo sostengono alcuni per spiegare la bocciatura di Rocco Buttiglione a commissario europeo seguita alle sue critiche contro il comportamento omosessuale. I gay sono dei pervertiti, dei viziosi, gente senza morale che si lascia andare ad atti contro natura: lo pensano ancora in parecchi. Come se essere attratti da persone del proprio sesso fosse una scelta, anziché una predisposizione biologica. Questa, infatti, sarebbe la tesi dell'Organizzazione Mondiale della Sanità: gay si nasce. Il loro cervello presenterebbe, infatti, alcune diversità rispetto a quello degli eterosessuali. Si nasce, non si diventa. Posso portare la mia piccola testimonianza: mi è più volte capitato di essere corteggiato da uomini, anche molto attraenti. Ma ho sempre rifiutato. Perché mi piacciono soltanto le donne. L'idea di essere sfiorato da un altro maschio mi provoca repulsione. Non c'è nessun merito, nessuna virtù in questa mia inclinazione: nessun pregiudizio omofobico, sono semplicemente nato eterosessuale, e così morirò. Eppure molti continuano a disprezzare i gay come se l'esserlo fosse una colpa. Noi City Angels abbiamo scortato un ragazzo omosessuale che veniva picchiato da bulletti per il solo fatto di essere "diverso". Caso limite? Forse. Ma quanti gay vengono presi in giro, insultati, derisi o semplicemente fatti oggetto di battute equivoche, strizzatine d'occhio, risatine? Quanti vengono, magari subdolamente, e soprattutto nei piccoli centri, emarginati perché colpevoli di amare seguendo il loro impulso? Il risultato è che il loro tasso di suicidi è nettamente più alto di quello degli altri. E che il razzismo nei loro confronti è ancora tollerato. Non si può, giustissimamente, dare dello sporco negro a un africano o del naso adunco a un ebreo senza venire querelati: è un segno di civiltà. Eppure molti si sentono liberi di dare del frocio, culattone, finocchio o ricchione a un gay senza che nulla accada. In Francia questi insulti sono puniti. Da noi no. In alcuni Paesi gli islamici integralisti, Cuba, la Corea del Nord l'essere gay è reato penale. Si può finire in galera o venire condannati a morte per amore. Insomma, il grado di democrazia di un Paese si misura anche dalla libertà che concede alle minoranze sessuali. Ho molti dubbi sull'opportunità di concedere ai gay il diritto di adottare un bambino: il piccolo ha bisogno di un padre e di una madre. Ma è giusto permettere loro di stipulare un'unione legale che consenta loro di assistersi reciprocamente. Nella malattia, nelle faccende economiche e in tutti quegli aspetti della vita dov'è bello avere la persona amata al tuo fianco. Il problema è facilmente superabile se sei un omosessuale ricco e potente: i soldi e il potere risolvono molte situazioni. Ma se hai la disgrazia di essere povero, debole e di vivere in un ambiente retrogrado, chiuso, ignorante sei condannato all'inferno.»