L'Espresso online 13.3.03
Neurologia
Ma che bello lo stress
Anche quando è eccessivo, e quindi pericoloso, può essere ridotto e reso positivo. È la tesi di Bruce McEwen, luminare Usa
Emma Trenti Paroli
Stress maledetto, ti fa ammalare, combattilo con yoga e rilassamento, ritorna alla campagna. Lo stress è tutto nella testa, più ti preoccupi e più diventi stressato. Lo stress premia i vincenti, è la chiave del successo. Ma insomma: cosa diavolo è lo stress? Negli ultimi anni non è stato sempre facile dare un senso alle informazioni che venivano a più riprese e incessantemente da medici e psicologi. Occorreva mettere ordine, e ci ha pensato il noto neuroendocrinologo Bruce McEwen della Rockefeller University di New York con un nuovo libro uscito negli Stati Uniti dal titolo: "La fine dello stress come lo intendevamo" in cui McEwen traccia una teoria dello stress che tiene conto di tutti gli studi importanti effettuati negli ultimi vent'anni dal suo gruppo e da altri ricercatori.
Il quadro finale supera anche le promesse del titolo, perché offre finalmente una base inattaccabile alla medicina psicosomatica, cioè agli effetti della mente sulla salute. Questi, secondo McEwen, sono molto più pervasivi e insidiosi di quanto abbiamo mai immaginato, ma una volta identificati, anche possibili da controllare con strategie che abbiamo tutti a portata di mano.
Alla ricerca della stabilità
Bruce McEwen definisce allostasi, cioè stabilità mantenuta mediante il cambiamento, la reazione del nostro organismo a un evento stressante, sottolineando quanto essa sia positiva e necessaria. Con una serie di risposte mediate da messaggeri chimici, cioè ormoni e neurotrasmettitori, il corpo riesce infatti ad adattarsi subito a una sfida esterna e a sopravvivere. Quando l'uomo primitivo doveva difendersi dall'assalto di un animale feroce, o quando oggi dobbiamo sterzare improvvisamente per evitare un incidente stradale, si mettono in moto il cervello, che percepisce una situazione insolita o pericolosa, il sistema endocrino (in primo luogo le ghiandole surrenali) che va a stimolare altri organi come il fegato e il sistema immunitario. Questi messaggi d'allarme vengono diffusi in tutto l'organismo in primo luogo dai più noti ormoni dello stress, adrenalina e cortisolo. «L'allostasi che si verifica in situazioni di urgenza è la cosiddetta risposta "combatti o fuggi", perché portata agli estremi ci prepara proprio per questo, garantendo il massimo apporto di energia alle parti che ne hanno più bisogno», spiega il nurologo americano. Il respiro si fa più frequente per aumentare l'apporto di ossigeno e anche il battito cardiaco accelera per portare più sangue ai muscoli delle gambe, i vasi sanguigni della pelle si contraggono per ridurre il rischio di emorragia in caso di ferita (ecco perché si ha la sensazione che si rizzino i peli), si liberano le riserve di zuccheri per massimizzare l'apporto di energia. Anche le risposte immunitarie si mettono in movimento, preparandosi a intervenire in caso di ferita. Se però la situazione stressante si protrae, la risposta immunitaria invece si deprime a favore degli organi che hanno più bisogno di carburante, cuore e polmoni. E qui si comincia a vedere come l'allostasi possa diventare negativa.
Da protezione a distruzione
Quando le funzioni dell'allostasi non si accendono e spengono al momento giusto o si ripetono troppo di frequente, questo sistema di protezione si rivolta contro l'organismo e avviene ciò che McEwen chiama "sovraccarico allostatico", cioè il danno da stress. Spiega il neuroendocrinologo: «I vasi sanguigni possono essere danneggiati da un'accelerazione cardiaca e un'espansione che succede troppo di frequente, diventando così più soggetti all'accumulo di placca arteriosclerotica». E continua aggiungendo che quando si alterano i normali cicli del cortisolo, il metabolismo produce più grasso che si deposita intorno all'addome e che rende più soggetti alle malattie cardiovascolari. Un eccesso di ormoni dello stress, attraverso meccanismi ancora non completamente chiariti, può anche causare resistenza all'insulina (cioè diabete di tipo II), e accumulo di lipidi e trigliceridi nel sangue, così come una graduale perdita di minerali che indeboliscono le ossa (ed è l'osteoporosi). A lungo termine, questi medesimi squilibri ormonali possono anche danneggiare il cervello, nell'ippocampo, causando disturbi della memoria e invecchiamento precoce. Per quanto riguarda le difese immunitarie, in generale lo stress acuto tende ad aumentarle, mentre lo stress cronico tende a sopprimerle, rendendoci più soggetti alle infezioni come raffreddori e altre malattie respiratorie. In situazioni di stress cronico si liberano nell'organismo troppe citokine, quelle cellule immunitarie responsabili delle infiammazioni di cui è noto il collegamento con le malattie cardiovascolari, l'ictus, la depressione, e di cui si sospetta il ruolo nella sindrome da fatica cronica e nella fibromialgia. In certe persone, invece, lo stress non danneggia il sistema immunitario, ma lo può mandare in tilt, scatenando reazioni allergiche, attacchi d'asma, malattie autoimmunitarie come l'artrite reumatoide, il morbo di Crohn, la sclerosi multipla. Se è noto da tempo che lo stress tende a peggiorare questi disturbi autoimmunitari, oggi si stanno accumulando le prove che può anche essere tra le loro cause principali.
Stili di vita e di rischio
McEwen non si limita però a presentare i devastanti effetti dello stress sulla salute e i molti fattori personali di rischio, ma spiega perché non dobbiamo rassegnarci al ruolo di vittime. «Il sovraccarico allostastico spesso è causato, o reso molto peggiore da come si reagisce alle situazioni stressanti, ingerendo troppi grassi o zuccheri, passando le serate in ufficio o davanti alla televisione, riducendo le ore necessarie di sonno, evitando l'esercizio fisico o esagerando con il fumo e l'alcol», spiega il neuroendocrinologo. Le abitudini di vita malsane, infatti, hanno conseguenze sull'organismo molto simili agli effetti dello stress, e quindi li peggiorano. Un pasto ricco di grassi non solo fa ingrassare e aumenta il colesterolo, ma iperstimola il sistema nervoso simpatico e fa aumentare il cortisolo. Ecco perché è particolarmente sbagliato abbuffarsi la sera (chi non l'ha fatto, dopo una giornata pesante?), quando invece i livelli di cortisolo dovrebbero diminuire, per favorire il sonno e sincronizzare i ritmi sonno-veglia.
La stessa mancanza di sonno mima gli effetti dello stress, perché aumenta l'attività del sistema nervoso linfatico e danneggia le funzioni regolatrici del sistema vagale (in seguito a uno stress, infatti, chi è stanco tende a reagire con sbalzi più elevati di pressione sanguigna che possono causare l'infarto). Sia la nicotina, sia l'alcol, stimolando l'emissione di alcuni ormoni, possono rendere una persona molto più reattiva agli stimoli dello stress. Ecco perché dieta, esercizio fisico regolare, sonno adeguato, astinenza da fumo e alcol (o almeno moderazione), cioè i ben noti comandamenti di una vita sana, sono anche i più semplici ed efficaci strumenti di difesa contro lo stress.
Si può fare un check-up dello stress? McEwen sostiene di sì, suggerendo vari indici di sovraccarico allostatico: la quantità di grasso accumulato intorno alla vita; i livelli notturni di cortisolo e adrenalina nelle urine; la pressione sanguigna, sistolica e diastolica; le citokine presenti nel sangue (indice di infiammazioni); la variabilità del battito cardiaco (quando la variabilità è bassa, il sistema cardiovascolare è più vulnerabile e tende ad accumulare più placca sanguigna). Una volta determinata la presenza di alti indici fisiologici di stress, il primo passo da compiere è adottare uno stile di vita più sano. Ma non è tutto: «Vale la pena di prendere in considerazione psicoterapia e psicofarmaci per ridurre depressione, ansietà e ostilità che giocano un ruolo importante nel trasformare l'allostasi in sovraccarico allostatico», suggerisce McEwen. E lancia una provocazione: forse domani l'ideale medico di famiglia sarà uno psicologo e non più un internista o generalista.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
sabato 15 marzo 2003
La Stampa Tuttolibri 15/3/2003
Per la filosofia del `900 la bussola ermeneutica in un mare di correnti
La storia del secolo di Fornero e Tassinari mette al centro Nietzsche e Heidegger, ripercorre marxismo e scienze sociali teologia e bioetica, non fa scelte militanti
IN un'opera di grande rigore e chiarezza espositiva Fornero e Tassinari si sono assunti l'immenso onere di esporre i lineamenti del pensiero novecentesco. E l'inizio è in qualche modo una sorpresa. Può stupire infatti che una storia della filosofia del Novecento incominci con Friedrich Nietzsche, sia pure inteso come una sorta di vestibolo e di spartiacque a cavallo dei secoli. Ma si tratta in realtà di un passo del tutto giustificato: la destinazione e l'efficacia del pensiero di Nietzsche appartengono quasi per intero al Novecento, secolo che egli ebbe appena il tempo di scorgere dalle tenebre della follia. Ma non si tratta solo di questo: l'andamento del pensiero di Nietzsche infatti consente fra l'altro di trovare per così dire un ancoraggio nel grande caos del secolo appena passato. Esso induce infatti ad accordarsi - non senza che ciò possa sollevare perplessità e obiezioni comunque feconde - circa la cifra comune del pensiero novecentesco, che potrebbe racchiudersi (anche se i due autori non lo dicono esplicitamente) nell'ermeneutica. Che cosa fa infatti il superuomo nietzschiano, se non vivere in modo ermeneutico, sostituendo al vincolo dell'oggettività (venuta meno dopo il nichilismo) la vertigine dell'interpretazione? Incominciare con Nietzsche significa dunque anche scegliere una chiave di lettura del Novecento che rechi al proprio centro il segno dell'interpretazione, senza con ciò nulla togliere all'autonomia delle singole prospettive che in questo secolo vengono successivamente a proporsi. A questo proposito, non è difficile intendere che affiora nel lavoro di Fornero e Tassinari il debito nei confronti di un modello interpretativo derivato dalla Storia della filosofia di Nicola Abbagnano, secondo il quale ogni autore detiene, nel quadro dello sviluppo del pensiero, una propria peculiare autonomia. Si tratta tuttavia di un modello che, nonostante il suo vasto e anche giustificato successo, suscita ora alcune perplessità: da questo punto di vista infatti non sembra risultare chiaramente se la storia della filosofia sia una storia liberale (e in questo senso una storia libera, in cui ogni individuo può esprimere al meglio il proprio sé pensante), oppure una storia dell'arbitrarietà, una vicenda nella quale ognuno dice ciò che vuole, in ultima analisi insomma una vicenda umana ed espressiva che - non si capisce bene come - ha tuttavia a che fare con un'altra vicenda: quella della verità. E' questo il motivo, ritengo, per cui i due autori di Le filosofie del Novecento sono intervenuti assai opportunamente su questo schema storiografico. A ragione, cioè, questo libro accantona lo schema rigidamente monografico nell'illustrare lo sviluppo del pensiero, optando per un quadro più complesso e ampiamente condivisibile, dove al semplice succedersi delle singole figure si sostituisce quello delle correnti filosofiche. Tale scelta si rivela da ultimo felice, poiché rende possibile compendiare, per così dire, necessità e libertà. Giacché, ovviamente, se gli individui si suppongono liberi, non si può invece dire la stessa cosa dei pensieri, i quali non saranno obbligati, ma certamente condizionati dalla rete concettuale comune che è sottintesa al loro sviluppo e al loro assetto. E' proprio dunque questo approccio, innanzitutto tematico e solo secondariamente monografico, a salvaguardare il rigore del pensiero filosofico senza pregiudicare l'autonomia delle diverse prospettive. Per riprendere una metafora del grande studioso tedesco Dieter Henrich, nel consultare questo ricchissimo volume viene allora in mente l'idea che sia necessario guardare alla storia del pensiero, più che come a uno sviluppo continuo secondo un modello diacronico, come a una costellazione derivante dall'esplosione d'una supernova. E proprio come una costellazione che si espande intorno ad alcuni punti di riferimento centrali è costruito infatti il libro. Alcune filosofie vi fanno, per così dire, da elementi strutturali. Oltre a Nietzsche, Heidegger (cui sono dedicati addirittura due diversi capitoli), costituisce per esempio un autore di significato assolutamente centrale. Ma un notevole peso storico viene attribuito anche al marxismo. Decisamente meritevole è poi il fatto che un ampio spazio venga attribuito al pensiero teologico, sia di area protestante sia di area cattolica - scelta lodevole, in particolare nell'ambito di una cultura come la nostra che ha per lo più teso a fare della riflessione teologica quasi un «affare privato» dei credenti, e non un patrimonio semantico e metaforico che appartiene alla cultura in generale indipendentemente dalle scelte religiose dei singoli. Con ciò, si può aggiungere che anche il testo di Fornero e Tassinari, che sembrerebbe volersi tenere equidistante nei confronti delle scelte militanti prese in considerazione, in realtà e inevitabilmente è partecipe del travaglio concettuale che espone e illustra. Infatti per quanto il panorama offerto sia esaustivo e per quanto ampia sia la considerazione fornita per esempio alle scienze sociali e all'epistemologia, risulta piuttosto evidente almeno una (a mio avviso legittima) propensione per la tradizione continentale rispetto a quella analitica anglosassone. Nella grande diatriba tra analitici e continentali che ha agitato il secolo XX, questo libro sembra cioè prendere infine posizione per il secondo dei due partiti, inducendoci a pensare che il primo tende a confluire nuovamente nel main stream della tradizione maggiore dopo essersene distaccato a partire dall'insegnamento di Ludwig Wittgenstein. Ciò però non fa che confermare un assunto che testimonia della vitalità della tradizione filosofica: i concetti della metafisica possono essere ancora messi utilmente a frutto anche nel confronto con contesti rinnovati. Lo attesta da ultimo anche il ricco capitolo dedicato a «Etica e bioetica», laddove s'affaccia energicamente, per esempio, il venerando rigore del pensiero aristotelico.
Giovanni Fornero, Salvatore Tassinari, Le filosofie del Novecento, Bruno Mondatori, pp.1588, € 50
Per la filosofia del `900 la bussola ermeneutica in un mare di correnti
La storia del secolo di Fornero e Tassinari mette al centro Nietzsche e Heidegger, ripercorre marxismo e scienze sociali teologia e bioetica, non fa scelte militanti
IN un'opera di grande rigore e chiarezza espositiva Fornero e Tassinari si sono assunti l'immenso onere di esporre i lineamenti del pensiero novecentesco. E l'inizio è in qualche modo una sorpresa. Può stupire infatti che una storia della filosofia del Novecento incominci con Friedrich Nietzsche, sia pure inteso come una sorta di vestibolo e di spartiacque a cavallo dei secoli. Ma si tratta in realtà di un passo del tutto giustificato: la destinazione e l'efficacia del pensiero di Nietzsche appartengono quasi per intero al Novecento, secolo che egli ebbe appena il tempo di scorgere dalle tenebre della follia. Ma non si tratta solo di questo: l'andamento del pensiero di Nietzsche infatti consente fra l'altro di trovare per così dire un ancoraggio nel grande caos del secolo appena passato. Esso induce infatti ad accordarsi - non senza che ciò possa sollevare perplessità e obiezioni comunque feconde - circa la cifra comune del pensiero novecentesco, che potrebbe racchiudersi (anche se i due autori non lo dicono esplicitamente) nell'ermeneutica. Che cosa fa infatti il superuomo nietzschiano, se non vivere in modo ermeneutico, sostituendo al vincolo dell'oggettività (venuta meno dopo il nichilismo) la vertigine dell'interpretazione? Incominciare con Nietzsche significa dunque anche scegliere una chiave di lettura del Novecento che rechi al proprio centro il segno dell'interpretazione, senza con ciò nulla togliere all'autonomia delle singole prospettive che in questo secolo vengono successivamente a proporsi. A questo proposito, non è difficile intendere che affiora nel lavoro di Fornero e Tassinari il debito nei confronti di un modello interpretativo derivato dalla Storia della filosofia di Nicola Abbagnano, secondo il quale ogni autore detiene, nel quadro dello sviluppo del pensiero, una propria peculiare autonomia. Si tratta tuttavia di un modello che, nonostante il suo vasto e anche giustificato successo, suscita ora alcune perplessità: da questo punto di vista infatti non sembra risultare chiaramente se la storia della filosofia sia una storia liberale (e in questo senso una storia libera, in cui ogni individuo può esprimere al meglio il proprio sé pensante), oppure una storia dell'arbitrarietà, una vicenda nella quale ognuno dice ciò che vuole, in ultima analisi insomma una vicenda umana ed espressiva che - non si capisce bene come - ha tuttavia a che fare con un'altra vicenda: quella della verità. E' questo il motivo, ritengo, per cui i due autori di Le filosofie del Novecento sono intervenuti assai opportunamente su questo schema storiografico. A ragione, cioè, questo libro accantona lo schema rigidamente monografico nell'illustrare lo sviluppo del pensiero, optando per un quadro più complesso e ampiamente condivisibile, dove al semplice succedersi delle singole figure si sostituisce quello delle correnti filosofiche. Tale scelta si rivela da ultimo felice, poiché rende possibile compendiare, per così dire, necessità e libertà. Giacché, ovviamente, se gli individui si suppongono liberi, non si può invece dire la stessa cosa dei pensieri, i quali non saranno obbligati, ma certamente condizionati dalla rete concettuale comune che è sottintesa al loro sviluppo e al loro assetto. E' proprio dunque questo approccio, innanzitutto tematico e solo secondariamente monografico, a salvaguardare il rigore del pensiero filosofico senza pregiudicare l'autonomia delle diverse prospettive. Per riprendere una metafora del grande studioso tedesco Dieter Henrich, nel consultare questo ricchissimo volume viene allora in mente l'idea che sia necessario guardare alla storia del pensiero, più che come a uno sviluppo continuo secondo un modello diacronico, come a una costellazione derivante dall'esplosione d'una supernova. E proprio come una costellazione che si espande intorno ad alcuni punti di riferimento centrali è costruito infatti il libro. Alcune filosofie vi fanno, per così dire, da elementi strutturali. Oltre a Nietzsche, Heidegger (cui sono dedicati addirittura due diversi capitoli), costituisce per esempio un autore di significato assolutamente centrale. Ma un notevole peso storico viene attribuito anche al marxismo. Decisamente meritevole è poi il fatto che un ampio spazio venga attribuito al pensiero teologico, sia di area protestante sia di area cattolica - scelta lodevole, in particolare nell'ambito di una cultura come la nostra che ha per lo più teso a fare della riflessione teologica quasi un «affare privato» dei credenti, e non un patrimonio semantico e metaforico che appartiene alla cultura in generale indipendentemente dalle scelte religiose dei singoli. Con ciò, si può aggiungere che anche il testo di Fornero e Tassinari, che sembrerebbe volersi tenere equidistante nei confronti delle scelte militanti prese in considerazione, in realtà e inevitabilmente è partecipe del travaglio concettuale che espone e illustra. Infatti per quanto il panorama offerto sia esaustivo e per quanto ampia sia la considerazione fornita per esempio alle scienze sociali e all'epistemologia, risulta piuttosto evidente almeno una (a mio avviso legittima) propensione per la tradizione continentale rispetto a quella analitica anglosassone. Nella grande diatriba tra analitici e continentali che ha agitato il secolo XX, questo libro sembra cioè prendere infine posizione per il secondo dei due partiti, inducendoci a pensare che il primo tende a confluire nuovamente nel main stream della tradizione maggiore dopo essersene distaccato a partire dall'insegnamento di Ludwig Wittgenstein. Ciò però non fa che confermare un assunto che testimonia della vitalità della tradizione filosofica: i concetti della metafisica possono essere ancora messi utilmente a frutto anche nel confronto con contesti rinnovati. Lo attesta da ultimo anche il ricco capitolo dedicato a «Etica e bioetica», laddove s'affaccia energicamente, per esempio, il venerando rigore del pensiero aristotelico.
Giovanni Fornero, Salvatore Tassinari, Le filosofie del Novecento, Bruno Mondatori, pp.1588, € 50
La Stampa Tuttolibri 15/3/2003
Scienza e tecnica, il mezzo è un fine
UNA «VOLONTÀ DI POTENZA» PER CUI IL FARE PREDOMINA SUL CONOSCERE, L´UTILITÀ CONTA PIÙ DELL´ETICA, LA POLITICA È SVUOTATA DI SENSO: LE ANALISI DI BOURDIEU E SEVERINO
Lelio Demichelis
SCIENTIA est potentia, diceva Francesco Bacone partecipando, nel Seicento alla fondazione della nuova scienza dei tempi moderni. Una scienza diversa da quella degli antichi. Chi la possiede ha potere, chi la usa cresce in potere.
Ma qual è il rapporto delle nostre società con la scienza? Le riconosciamo questo "potere", oppure crediamo ancora che serva solo a "svelare" il mondo, a "cercare" la verità delle cose? E oggi è davvero libera la scienza - o non è forse piegata in larga misura a logiche di profitto per pochi, piuttosto che a logiche disinteressate di bene collettivo? Ci può essere ricerca libera e libera scienza se cresce il connubio tra scienza e impresa? La scienza moderna si propone infatti come obiettivo non tanto la "conoscenza" ma il "fare", l'utilità (l'utilitarismo) dell'applicazione scientifica. Sostituendosi a Dio, ma anche assecondandone (come scritto in Genesi) il progetto di dominazione sulla natura. Come Bacone - e l'utopia di un mondo in costante progresso, dominato dalla scienza e dalla conquista tecnologica del mondo naturale. Senza limiti la scienza, senza etica, perché la scienza oggi spesso (sempre più?) sembra ripudiare l'etica e la responsabilità, viste non come valori ma solo come violazioni della propria libertà.
La scienza, certo. E la tecnica? Cosa le unisce e cosa le divide? Due libri, apparentemente lontani tra loro, portano a riflettere su queste due realtà - scienza e tecnica appunto - in cui siamo immersi quotidianamente ma sulle quali sempre meno riflettiamo.
Di Pierre Bourdieu - filosofo di formazione e sociologo d'elezione, uno dei maggiori e più influenti intellettuali francesi contemporanei, morto circa un anno fa - Il mestiere di scienziato è l'ultima opera pubblicata in vita dall'autore e raccoglie i materiali dell'ultimo corso tenuto da Bourdieu al Collège de France. Un libro di sociologia della scienza, un confronto con i vari indirizzi che in materia si sono dispiegati negli ultimi decenni. Una scienza - secondo Bourdieu - che aveva conquistato una autonomia forte «nei confronti del potere religioso, politico, economico e, in parte almeno, nei confronti delle burocrazie dello Stato», ma che oggi vede questa autonomia molto indebolita, ormai sottomessa «agli interessi economici e alle seduzioni mediatiche» della società contemporanea. Scienza o piuttosto tecnica? Dove risiede oggi l'essenza (la potenza) del potere? Sono ancora le ideologie, le fedi, o che altro a definire regole e obiettivi delle nostre società? O non è piuttosto la tecnica a pre-dominare su tutto e su tutti, organizzando le società secondo la sua inesauribile e incontenibile "volontà di potenza"? Una volontà che però fatichiamo a comprendere e a riconoscere, educati come siamo a rimuoverla? Scienza, economia, religione, politica, servendosi della tecnica come di un "mezzo", non si accorgono che essa è diventata ormai un "fine", il "fine" di se stessa e di tutto ciò che crede di usarla come un semplice "mezzo". Tutto "funziona" in nome della tecnica e grazie alla tecnica. Scienza, economia (tecnica come innovazione), religione (tecniche mediatiche), politica (marketing e ideologia): usano la tecnica (credono, si illudono di usare la tecnica) per fini di potere, ma in realtà ne accrescono costantemente il potere (ne sono usati), perché non sono loro che definiscono obiettivi e strategie ma è la tecnica, ormai autoreferenziale, a dire strategie e a dettare modelli di comportamento. La scienza era potenza, oggi lo è soprattutto la tecnica (di cui la scienza è divenuta la "guida" e la premessa), autentico pre-potere che usa e sub-ordina a sé ogni altro potere. Ecco allora un'altra magistrale lezione di Emanuele Severino - tra i massimi filosofi italiani, docente di Filosofia teoretica a Venezia - in Tecnica e architettura, opera in cui (per volere e intelligenza soprattutto dell'Istituto nazionale di Architettura - SezioneTrentino), si prova a pensare l'architettura (ma non solo, l'opera è vivamente consigliata a tutti coloro che vogliono capire come è cambiato il mondo) nell'età del trionfo unilaterale della tecnica, ricorrendo appunto all'aiuto della filosofia - di un filosofo come Severino, autore di opere fondamentali sul problema della tecnica. Progetto encomiabile e coraggioso. Perché appunto la tecnica non è più un "mezzo" per fare - come erroneamente crede anche l'architettura - ma un "fine" uno "scopo". Per cui, ad esempio, scrive Severino, non è più «la volontà capitalistica di incrementare il profitto a servirsi della tecnica, ma è la tecnica a servirsi di questa volontà per incrementare all'infinito la propria potenza». E' l'uomo, quindi, a farsi mezzo «con cui è fatta la volontà della tecnica». Un rovesciamento tra mezzi e fini che contagia e corrompe ogni cosa, facendo trionfare il nichilismo di noi Occidente, rendendoci insensibili, ciechi di fronte alla logica di questa "volontà di potenza". Come uscirne? Come riconoscere allora e combattere questa "volontà di potenza" della tecnica che ci svuota di ogni "senso"?
Pierre Bourdieu, Il mestiere di scienziato, Feltrinelli, pp. 147,€ 20
Emanuele Severino Tecnica e architettura, Cortina, pp. 125, € 8,50
Scienza e tecnica, il mezzo è un fine
UNA «VOLONTÀ DI POTENZA» PER CUI IL FARE PREDOMINA SUL CONOSCERE, L´UTILITÀ CONTA PIÙ DELL´ETICA, LA POLITICA È SVUOTATA DI SENSO: LE ANALISI DI BOURDIEU E SEVERINO
Lelio Demichelis
SCIENTIA est potentia, diceva Francesco Bacone partecipando, nel Seicento alla fondazione della nuova scienza dei tempi moderni. Una scienza diversa da quella degli antichi. Chi la possiede ha potere, chi la usa cresce in potere.
Ma qual è il rapporto delle nostre società con la scienza? Le riconosciamo questo "potere", oppure crediamo ancora che serva solo a "svelare" il mondo, a "cercare" la verità delle cose? E oggi è davvero libera la scienza - o non è forse piegata in larga misura a logiche di profitto per pochi, piuttosto che a logiche disinteressate di bene collettivo? Ci può essere ricerca libera e libera scienza se cresce il connubio tra scienza e impresa? La scienza moderna si propone infatti come obiettivo non tanto la "conoscenza" ma il "fare", l'utilità (l'utilitarismo) dell'applicazione scientifica. Sostituendosi a Dio, ma anche assecondandone (come scritto in Genesi) il progetto di dominazione sulla natura. Come Bacone - e l'utopia di un mondo in costante progresso, dominato dalla scienza e dalla conquista tecnologica del mondo naturale. Senza limiti la scienza, senza etica, perché la scienza oggi spesso (sempre più?) sembra ripudiare l'etica e la responsabilità, viste non come valori ma solo come violazioni della propria libertà.
La scienza, certo. E la tecnica? Cosa le unisce e cosa le divide? Due libri, apparentemente lontani tra loro, portano a riflettere su queste due realtà - scienza e tecnica appunto - in cui siamo immersi quotidianamente ma sulle quali sempre meno riflettiamo.
Di Pierre Bourdieu - filosofo di formazione e sociologo d'elezione, uno dei maggiori e più influenti intellettuali francesi contemporanei, morto circa un anno fa - Il mestiere di scienziato è l'ultima opera pubblicata in vita dall'autore e raccoglie i materiali dell'ultimo corso tenuto da Bourdieu al Collège de France. Un libro di sociologia della scienza, un confronto con i vari indirizzi che in materia si sono dispiegati negli ultimi decenni. Una scienza - secondo Bourdieu - che aveva conquistato una autonomia forte «nei confronti del potere religioso, politico, economico e, in parte almeno, nei confronti delle burocrazie dello Stato», ma che oggi vede questa autonomia molto indebolita, ormai sottomessa «agli interessi economici e alle seduzioni mediatiche» della società contemporanea. Scienza o piuttosto tecnica? Dove risiede oggi l'essenza (la potenza) del potere? Sono ancora le ideologie, le fedi, o che altro a definire regole e obiettivi delle nostre società? O non è piuttosto la tecnica a pre-dominare su tutto e su tutti, organizzando le società secondo la sua inesauribile e incontenibile "volontà di potenza"? Una volontà che però fatichiamo a comprendere e a riconoscere, educati come siamo a rimuoverla? Scienza, economia, religione, politica, servendosi della tecnica come di un "mezzo", non si accorgono che essa è diventata ormai un "fine", il "fine" di se stessa e di tutto ciò che crede di usarla come un semplice "mezzo". Tutto "funziona" in nome della tecnica e grazie alla tecnica. Scienza, economia (tecnica come innovazione), religione (tecniche mediatiche), politica (marketing e ideologia): usano la tecnica (credono, si illudono di usare la tecnica) per fini di potere, ma in realtà ne accrescono costantemente il potere (ne sono usati), perché non sono loro che definiscono obiettivi e strategie ma è la tecnica, ormai autoreferenziale, a dire strategie e a dettare modelli di comportamento. La scienza era potenza, oggi lo è soprattutto la tecnica (di cui la scienza è divenuta la "guida" e la premessa), autentico pre-potere che usa e sub-ordina a sé ogni altro potere. Ecco allora un'altra magistrale lezione di Emanuele Severino - tra i massimi filosofi italiani, docente di Filosofia teoretica a Venezia - in Tecnica e architettura, opera in cui (per volere e intelligenza soprattutto dell'Istituto nazionale di Architettura - SezioneTrentino), si prova a pensare l'architettura (ma non solo, l'opera è vivamente consigliata a tutti coloro che vogliono capire come è cambiato il mondo) nell'età del trionfo unilaterale della tecnica, ricorrendo appunto all'aiuto della filosofia - di un filosofo come Severino, autore di opere fondamentali sul problema della tecnica. Progetto encomiabile e coraggioso. Perché appunto la tecnica non è più un "mezzo" per fare - come erroneamente crede anche l'architettura - ma un "fine" uno "scopo". Per cui, ad esempio, scrive Severino, non è più «la volontà capitalistica di incrementare il profitto a servirsi della tecnica, ma è la tecnica a servirsi di questa volontà per incrementare all'infinito la propria potenza». E' l'uomo, quindi, a farsi mezzo «con cui è fatta la volontà della tecnica». Un rovesciamento tra mezzi e fini che contagia e corrompe ogni cosa, facendo trionfare il nichilismo di noi Occidente, rendendoci insensibili, ciechi di fronte alla logica di questa "volontà di potenza". Come uscirne? Come riconoscere allora e combattere questa "volontà di potenza" della tecnica che ci svuota di ogni "senso"?
Pierre Bourdieu, Il mestiere di scienziato, Feltrinelli, pp. 147,€ 20
Emanuele Severino Tecnica e architettura, Cortina, pp. 125, € 8,50
La CEI sulle neuroscienze
Avvenire Agorà 15.3.03
Neuroscienze, è l'anima che fa paura
Andrea Lavazza
E se Christof Koch credesse nell'esistenza dell'anima? Si potrebbe chiederglielo via e-mail: il suo indirizzo è bene in evidenza all'inizio dell'articolo, scritto con Francis Crick, che tanto scalpore ha fatto in Gran Bretagna e, di rimbalzo, in Italia. Il punto è che molti degli intervenuti al dibattito - «la scienza ha dimostrato che l'anima non c'è?» -, il breve testo pubblicato sul numero 2 di «Nature Neuroscience» (pp.119-126) non l'hanno nemmeno visto. Eppure si trova anche su Internet, sebbene a pagamento. Si sarebbe altrimenti appurato che la parola «Soul» non compare mai. E non si trova nemmeno «Mind» (mente). La parola chiave è invece «Consciousness» (coscienza, consapevolezza). E nulla nell'argomentazione ha carattere apodittico. Anzi, si precisa che si tratta di un «framework for consciousness», cioè «non una dettagliata ipotesi, ma un punto di vista per aggredire un problema scientifico, che spesso suggerisce ipotesi verificabili». Lo scopo è riorganizzare una serie di acquisizioni già note in una «struttura» coerente alla ricerca dei correlati neurali della coscienza. Ovvero, quelle aree del cervello il cui funzionamento dà vita alle esperienze fenomeniche (i «qualia»); o, ancora più semplicemente, alla «sensazione» di rosso quando si guarda una mela. Alla fine dei loro dieci punti l'anziano premio Nobel Crick e il giovane brillantissimo tedesco Koch sono ben lungi dal gridare «eureka». Indicano, tra mille forse e potrebbe, un percorso di ricerca per il futuro. Niente di rivoluzionario, quindi, per le neuroscienze, né per gli stessi autori. Certo si può dissentire dall'approccio di Crick e Koch, i quali sono inclini a un riduzionismo ben diffuso nella disciplina. All'anima, come detto, nessun accenno. E giustamente. Per definizione essa sta al di fuori della scienza e sarebbe assurdo quanto scorretto cercare di dimostrarne per via sperimentale l'assenza come pure l'esistenza. Forse ha paura dell'anima chi dall'inizio ha distorto la notizia, al punto da arruolare i due ignari e innocenti studiosi in una surreale crociata.
Neuroscienze, è l'anima che fa paura
Andrea Lavazza
E se Christof Koch credesse nell'esistenza dell'anima? Si potrebbe chiederglielo via e-mail: il suo indirizzo è bene in evidenza all'inizio dell'articolo, scritto con Francis Crick, che tanto scalpore ha fatto in Gran Bretagna e, di rimbalzo, in Italia. Il punto è che molti degli intervenuti al dibattito - «la scienza ha dimostrato che l'anima non c'è?» -, il breve testo pubblicato sul numero 2 di «Nature Neuroscience» (pp.119-126) non l'hanno nemmeno visto. Eppure si trova anche su Internet, sebbene a pagamento. Si sarebbe altrimenti appurato che la parola «Soul» non compare mai. E non si trova nemmeno «Mind» (mente). La parola chiave è invece «Consciousness» (coscienza, consapevolezza). E nulla nell'argomentazione ha carattere apodittico. Anzi, si precisa che si tratta di un «framework for consciousness», cioè «non una dettagliata ipotesi, ma un punto di vista per aggredire un problema scientifico, che spesso suggerisce ipotesi verificabili». Lo scopo è riorganizzare una serie di acquisizioni già note in una «struttura» coerente alla ricerca dei correlati neurali della coscienza. Ovvero, quelle aree del cervello il cui funzionamento dà vita alle esperienze fenomeniche (i «qualia»); o, ancora più semplicemente, alla «sensazione» di rosso quando si guarda una mela. Alla fine dei loro dieci punti l'anziano premio Nobel Crick e il giovane brillantissimo tedesco Koch sono ben lungi dal gridare «eureka». Indicano, tra mille forse e potrebbe, un percorso di ricerca per il futuro. Niente di rivoluzionario, quindi, per le neuroscienze, né per gli stessi autori. Certo si può dissentire dall'approccio di Crick e Koch, i quali sono inclini a un riduzionismo ben diffuso nella disciplina. All'anima, come detto, nessun accenno. E giustamente. Per definizione essa sta al di fuori della scienza e sarebbe assurdo quanto scorretto cercare di dimostrarne per via sperimentale l'assenza come pure l'esistenza. Forse ha paura dell'anima chi dall'inizio ha distorto la notizia, al punto da arruolare i due ignari e innocenti studiosi in una surreale crociata.
Il Messaggero 15.3.03
L'isteria secondo Juliet Mitchell
Donatella Trotta
«L’isteria? Non è affatto scomparsa dal mondo occidentale del ventesimo secolo; piuttosto, questo mondo manifesta un’isteria nascosta. Non necessariamente femminile, bensì maschile», dice Juliet Mitchell riportando subito un fenomeno classico, definito «utero vagabondo» nell’antica Grecia, «seduzione del diavolo» nel Medioevo e «soffocamento della madre» nel XVII secolo, all’attualità. Un presente minato dalle guerre, percorso da ingenti movimenti migratori, costellato di catastrofi naturali, attentati e violenza, sessuale e morale, dove l’isteria prende secondo Mitchell altri nomi: trauma, attacchi di panico, anoressia, disturbi della personalità. Con una possibile via d’uscita: «La valorizzazione della relazione di fratellanza, biologica ma anche sociale. Un modello, uno sguardo di lateralità omesso nelle teorie delle scienze sociali, psicologiche e politiche, completamente dominate da un paradigma verticale, secondo lo schema discendente o ascendente madre/padre-figlio, o figlio-genitori».
Juliet Mitchell è la grande madre del femminismo psicoanalitico contemporaneo in ambito anglosassone: colei che negli anni ’70, riabilitando l’opera freudiana, ha segnato il passaggio del movimento di liberazione della donna verso una teoria della differenza di genere. Neozelandese di origine, psicoanalista della British Psycho-Analytical Society e dell’Ipa, docente di psicoanalisi e studi di genere e società all’università di Cambridge, dove dirige il dipartimento di Scienze politiche e sociali, è una donna solare e comunicativa che ha firmato testi di culto come La condizione della donna, Psicoanalisi e femminismo, La rivoluzione più lunga. È di passaggio per Napoli in compagnia del marito antropologo, perché dopo la rivisitazione riveduta e corretta dell’isteria nel suo ultimo libro Mad Men and Medusas. Reclaiming Hysteria (2000), di imminente uscita in traduzione italiana per Raffaello Cortina editore, il prossimo ottobre la studiosa pubblicherà in Inghilterra un nuovo saggio, Fratelli. Sesso, violenza e genere, le cui conclusioni sono state anticipate ieri in un incontro presso l’Istituto per gli Studi filosofici, promosso dallo psichiatra e psicoanalista freudiano Franco Scalzone, con la collaborazione della collega Gemma Zontini.
«Quando i soldati della prima guerra mondiale hanno iniziato a soffrire di sintomi isterici - racconta Mitchell -, dimostrando l’esistenza di un’isteria maschile già individuata da Charcot a Parigi a metà Ottocento e ribadita da Freud nel 1886, la diagnosi isterica scompare, e nelle attuali diagnosi non esiste più». Usando studi sui soldati, ma anche la storia di Don Giovanni, Mitchell svela così la storia segreta dell’uomo isterico, liberando le donne da un gravoso sterotipo. «Ma la pratica clinica e la teoria psicoanalitica disattendono l’importanza dei fratelli e delle sorelle nello sviluppo di questa sintomatologia, una presenza relazionale responsabile anche della genesi del genere, ben oltre il complesso edipico», aggiunge. In ambito creativo, letterario o cinematografico, invece, la relazione di fratellanza ha descrizioni convincenti: «Penso al film di Visconti ”Rocco e i suoi fratelli” - spiega Mitchell - che antropomorfizza, per usare un concetto di Visconti, un punto di transizione tra una società basata su codici di socialità noti (il clan dei fratelli in Sicilia) ad un’altra da acquisire: la cultura individualistica della famiglia mononucleare a Milano».
Di più. Esiste anche un nesso significativo tra aumento della follia e aumento dell’emigrazione per ragioni di lavoro, studiato dall’antropologa con competenze psicoanalitiche Ann Parson: «Ma anche nel suo confronto tra la schizofrenia di emigranti italiani in una clinica di Boston e la stessa patologia in un ospedale napoletano manca in Parson la chiave fondamentale di lettura della fratellanza», osserva Mitchell. E cosa pensa della distruzione in atto della relazione materna, minacciata tra l’altro dalle biotecnologie, come ha di recente denunciato Luisa Muraro? La maternità non è forse la vera questione irrisolta della condizione femminile? «Le biotecnologie non sono le sole responsabili di questa situazione: basti pensare che anche nell’Africa subsahariana e in India la natalità è inversamente proporzionale al reddito da lavoro femminile». Condivide il Contrattacco alle donne analizzato da Susan Faludi? «La storia del femminismo è sempre stata storia dell’antifemminismo. In un saggio che ho curato nel ’96, Chi ha paura del femminismo?, si indaga proprio questo antagonismo interno al movimento stesso delle donne: basti pensare alle posizioni di Camille Paglia. Oggi è difficile trovare delle giovani che dichiarino di essere femministe. Ma tutte credono nella parità». E come vede allora le nuove frontiere del cyberfemminismo, con la ridefinizione del genere e dell’identità? «Già prima delle nuove tecnologie esistevano generi di transizione: basti pensare alla mitologia indiana, o all’antica Grecia coi suoi satiri e le Menadi. Oggi c’è in giro molta sessualità, che è cosa diversa dalla riproduzione, a dispetto della realtà virtuale comunque legata a due genitori, quindi alla differenza di genere anche nel caso di figli in provetta».
L'isteria secondo Juliet Mitchell
Donatella Trotta
«L’isteria? Non è affatto scomparsa dal mondo occidentale del ventesimo secolo; piuttosto, questo mondo manifesta un’isteria nascosta. Non necessariamente femminile, bensì maschile», dice Juliet Mitchell riportando subito un fenomeno classico, definito «utero vagabondo» nell’antica Grecia, «seduzione del diavolo» nel Medioevo e «soffocamento della madre» nel XVII secolo, all’attualità. Un presente minato dalle guerre, percorso da ingenti movimenti migratori, costellato di catastrofi naturali, attentati e violenza, sessuale e morale, dove l’isteria prende secondo Mitchell altri nomi: trauma, attacchi di panico, anoressia, disturbi della personalità. Con una possibile via d’uscita: «La valorizzazione della relazione di fratellanza, biologica ma anche sociale. Un modello, uno sguardo di lateralità omesso nelle teorie delle scienze sociali, psicologiche e politiche, completamente dominate da un paradigma verticale, secondo lo schema discendente o ascendente madre/padre-figlio, o figlio-genitori».
Juliet Mitchell è la grande madre del femminismo psicoanalitico contemporaneo in ambito anglosassone: colei che negli anni ’70, riabilitando l’opera freudiana, ha segnato il passaggio del movimento di liberazione della donna verso una teoria della differenza di genere. Neozelandese di origine, psicoanalista della British Psycho-Analytical Society e dell’Ipa, docente di psicoanalisi e studi di genere e società all’università di Cambridge, dove dirige il dipartimento di Scienze politiche e sociali, è una donna solare e comunicativa che ha firmato testi di culto come La condizione della donna, Psicoanalisi e femminismo, La rivoluzione più lunga. È di passaggio per Napoli in compagnia del marito antropologo, perché dopo la rivisitazione riveduta e corretta dell’isteria nel suo ultimo libro Mad Men and Medusas. Reclaiming Hysteria (2000), di imminente uscita in traduzione italiana per Raffaello Cortina editore, il prossimo ottobre la studiosa pubblicherà in Inghilterra un nuovo saggio, Fratelli. Sesso, violenza e genere, le cui conclusioni sono state anticipate ieri in un incontro presso l’Istituto per gli Studi filosofici, promosso dallo psichiatra e psicoanalista freudiano Franco Scalzone, con la collaborazione della collega Gemma Zontini.
«Quando i soldati della prima guerra mondiale hanno iniziato a soffrire di sintomi isterici - racconta Mitchell -, dimostrando l’esistenza di un’isteria maschile già individuata da Charcot a Parigi a metà Ottocento e ribadita da Freud nel 1886, la diagnosi isterica scompare, e nelle attuali diagnosi non esiste più». Usando studi sui soldati, ma anche la storia di Don Giovanni, Mitchell svela così la storia segreta dell’uomo isterico, liberando le donne da un gravoso sterotipo. «Ma la pratica clinica e la teoria psicoanalitica disattendono l’importanza dei fratelli e delle sorelle nello sviluppo di questa sintomatologia, una presenza relazionale responsabile anche della genesi del genere, ben oltre il complesso edipico», aggiunge. In ambito creativo, letterario o cinematografico, invece, la relazione di fratellanza ha descrizioni convincenti: «Penso al film di Visconti ”Rocco e i suoi fratelli” - spiega Mitchell - che antropomorfizza, per usare un concetto di Visconti, un punto di transizione tra una società basata su codici di socialità noti (il clan dei fratelli in Sicilia) ad un’altra da acquisire: la cultura individualistica della famiglia mononucleare a Milano».
Di più. Esiste anche un nesso significativo tra aumento della follia e aumento dell’emigrazione per ragioni di lavoro, studiato dall’antropologa con competenze psicoanalitiche Ann Parson: «Ma anche nel suo confronto tra la schizofrenia di emigranti italiani in una clinica di Boston e la stessa patologia in un ospedale napoletano manca in Parson la chiave fondamentale di lettura della fratellanza», osserva Mitchell. E cosa pensa della distruzione in atto della relazione materna, minacciata tra l’altro dalle biotecnologie, come ha di recente denunciato Luisa Muraro? La maternità non è forse la vera questione irrisolta della condizione femminile? «Le biotecnologie non sono le sole responsabili di questa situazione: basti pensare che anche nell’Africa subsahariana e in India la natalità è inversamente proporzionale al reddito da lavoro femminile». Condivide il Contrattacco alle donne analizzato da Susan Faludi? «La storia del femminismo è sempre stata storia dell’antifemminismo. In un saggio che ho curato nel ’96, Chi ha paura del femminismo?, si indaga proprio questo antagonismo interno al movimento stesso delle donne: basti pensare alle posizioni di Camille Paglia. Oggi è difficile trovare delle giovani che dichiarino di essere femministe. Ma tutte credono nella parità». E come vede allora le nuove frontiere del cyberfemminismo, con la ridefinizione del genere e dell’identità? «Già prima delle nuove tecnologie esistevano generi di transizione: basti pensare alla mitologia indiana, o all’antica Grecia coi suoi satiri e le Menadi. Oggi c’è in giro molta sessualità, che è cosa diversa dalla riproduzione, a dispetto della realtà virtuale comunque legata a due genitori, quindi alla differenza di genere anche nel caso di figli in provetta».
il manifesto 15.3.03
La melanconia e la sua maschera perversa
ALBERTO LUCHETTI
Nessun legame sembrerebbe unire melanconia e perversione, l'inibizione di ogni piacere dalla ricerca compulsiva di una fonte di godimento. Eppure, entrambe queste patologie rivelano una difficoltà di amare: nella melanconia è in gioco il ritiro di ogni investimento libidico, nella perversione sembra realizzarsi una forma erotica dell'odio. L'altro è comunque relegato a una dimensione impersonale, disanimata e fuori dal tempo. Se il perverso allontana la realtà perché troppo angosciosa, il melanconico soffre per una realtà che non lo contempla. Il risultato è comunque un ingabbiamento di se stessi, che corrisponde alla percezione di qualcosa di morto dentro di sé
L'accostamento tra melanconia e perversione - tema della giornata di studio organizzata dall'Associazione «Squiggle» e introdotta da Valdimiro Pellicanò, che riunisce oggi a Pisa numerosi esponenti della Società psicoanalitica italiana - può meravigliare, a meno che non si assumano i due termini in senso molto lato, se se ne considerano le abituali descrizioni psicopatologiche. «La melanconia», scriveva Freud, che finì col ritenerla una nevrosi narcisistica, «è psichicamente caratterizzata da un profondo e doloroso scoramento, da un venir meno dell'interesse per il mondo esterno, dalla perdita della capacità di amare, dall'inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento del sentimento di sé che si esprime in autorimproveri e autoingiurie e culmina nell'attesa delirante di una punizione». Non diversamente, anche l'attuale nosografia psichiatrica, che considera la melanconia come possibile complicazione di un episodio depressivo, ne individua le manifestazioni salienti in un'indifferenza per gli stimoli fino a quel momento piacevoli, in un marcato rallentamento motorio e in una destrutturazione della temporalità nella quale il passato occlude il presente e preclude un futuro, in disturbi dell'alimentazione e del sonno, in sentimenti di colpa e di svalutazione di sé eccessivi e inappropriati, in idee di morte o suicidarie. Cosa potrebbe essere più lontano da questa condizione melanconica se non l'attiva e talvolta compulsiva e impulsiva ricerca del piacere da parte di un perverso? Laddove si intenda, appunto, la perversione in senso stretto, ossia come l'insieme di comportamenti sessuali contraddistinti da anomalie nel raggiungimento del piacere, deviato rispetto a una qualsiasi norma, così come rispetto alle finalità biologiche. Un piacere che è legato alla variazione dell'oggetto sessuale e delle modalità del rapporto, ma soprattutto è rigidamente vincolato e subordinato ad alcune condizioni estrinseche particolari, che possono andare dal feticismo al travestitismo, dal voyeurismo all'esibizionismo, al sadismo, al masochismo: atteggiamenti che realizzano concretamente alcune scene fondamentali intorno a cui è organizzata la vita fantasmatica della persona. Già a un primo sguardo, tuttavia, alcune pratiche perverse rivelano una difficoltà ad amare analoga a quella del melanconico, se non addirittura una forma erotica dell'odio, come ha sostenuto Robert Stoller nel suo Perversion: The erotic form of hatred (Pantheon Books, New York, 1975). Ma l'accostamento tra melanconia e perversione appare altrettanto sorprendente se si pensa al divario che separa la monotonia iconografica della prima dalla poliedricità e variabilità delle rappresentazioni delle attività e degli scenari perversi, refrattari a ogni tentativo di repertoriarli esaustivamente. La melanconia è tradizionalmente rappresentata - prima e dopo la celebre incisione di Dürer - nelle vesti di una donna immobile, seduta e in qualche caso dormiente, con la testa reclinata appoggiata a una mano talvolta chiusa a pugno, dal volto indifferente o cupo e rabbioso, e dallo sguardo fisso davanti a sé, ma incurante di ciò che le sta intorno, assorta in pensieri e fantasmi, sospesa tra riflessione, dolore e smarrita disperazione. Mentre le perversioni sono affidate a rappresentazioni cangianti ed estremamente varie, sia nella letteratura classica come nei molteplici riferimenti di cui abbondano racconti e film d'oggi. E questo nonostante la ripetitività, fin nei minuti particolari, degli scenari prediletti dai personaggi - tanto eterosessuali che omosessuali - nella loro ricerca imperativa e spasmodica di forme di eccitamento e di piacere che non tollerano deviazioni e dilazioni. Benché abbiano spesso il sapore di una combinatoria di elementi fondamentali, queste variazioni riflettono la singolarità della vita fantasmatica dell'essere umano che, a partire dalla «perversione polimorfa» (come la definì Freud) della sessualità infantile e pulsionale, sempre si organizza in una drammaturgia idiosincrasica, talvolta particolarmente elaborata. Del resto, proprio per la difficoltà di stabilire tanto una norma quanto i confini con la patologia, c'è chi - come Joyce McDougall (in Eros. Le deviazioni del desiderio, Cortina, 1997) - preferisce parlare di «neosessualità», cioè di una reinvenzione (obbligata) dell'atto e delle relazioni sessuali, limitando il termine perversione solo ai rapporti imposti a un partner non consenziente. In realtà, mentre a tutta prima il rapporto tra melanconia e perversione sembrerebbe dover essere più di opposizione che di congiunzione, un secondo sguardo rivela una più complessa articolazione, alla quale sembrano alludere i titoli delle relazioni che Patrizia Cupelloni, Anna Nicolò e Lucio Russo terranno oggi a Pisa.
Per cercare di evidenziare alcuni snodi possiamo partire proprio dalla famosa incisione di Dürer che, come indicano Klibansky, Panofsky e Saxl nel loro celebre saggio su Saturno e la melanconia (Einaudi), costituisce un vero e proprio «autoritratto spirituale» del pittore. Nel solco della teoria di Marsilio Ficino, Dürer infatti unisce pittoricamente nel personaggio centrale due figure, la Geometria e la Melanconia, la raffigurazione dell'ars geometrica con quella di un homo melanconicus, «l'una che incarna l'ideale allegorizzato di una facoltà mentale creativa, l'altra che è l'immagine terrificante di una condizione di spirito distruttiva», elevando la figura allegorica della Melanconia al livello di un simbolo che combina l'esercizio intellettuale con la capacità di sofferenza dell'anima umana. Certo, la scelta della Geometria tra le sette arti liberali, come indicano i tre studiosi, dipende dal fatto che per il pittore essa era la base di ogni scienza e filosofia, nonché dal legame che la tradizione aveva stabilito tra essa e Saturno, il pianeta che nelle convinzioni dell'epoca poteva favorire sia il sapere che la follia. Tuttavia la Geometria è scienza della misura, arte del misurare: mostrando come le potenzialità creative dell'essere umano attingano alla stessa fonte dell'impotenza e dello sgomento di fronte alla vanità della vita, Dürer sembra segnalare questa comune sorgente nella sua natura di «animale misurante», perché parlante. Proprio la misura è un aspetto centrale sia nella melanconia che nella perversione. Mentre quest'ultima è intrinsecamente sovversiva - poiché tenta di spostare il limite di ogni norma, poiché essa è negazione (ma per ciò stesso anche riaffermazione) di ogni misura e dunque di ogni differenza nell'ambito della sessualità - la melanconia assume come propria misura un ideale assoluto, una dismisura rispetto alla quale può identificarsi soltanto con il niente: «Io non sono niente» è infatti l'emblema del discorso melanconico. Perciò Freud affermava che nella melanconia la coscienza del soggetto è accaparrata dall'ideale, che parla in nome di Io: potremmo anzi dire che Io può essere e parlare solo lasciandosi irrigidire ed esautorare da questo ideale, che con la sua ombra lo riduce a un niente; al tempo stesso, però, resta sempre sull'orlo dell'angoscia che si scatenerebbe dall'incrinarsi di questa fragile e alienante cornice identificatoria.
Sia melanconia che perversione finiscono dunque con il denunciare l'illusione dell'identità: di quella sessuale e sessuata, quando è in gioco la perversione, di quella derivata dall'abbaglio di ogni ego, dall'evanescenza di ogni discorso, dalla vanità di ogni attività quando è in gioco la melanconia. Dietro l'insistente inibizione melanconica e la compulsiva disinibizione perversa affiorano così angosce di frammentazione, di smembramento, di perdita dei confini del proprio corpo, di inesistenza o di irrealtà, fino a quell'angoscia di castrazione che sembra già svolgere una funzione contenitiva e organizzativa. Angosce che il melanconico può tentare di allontanare solo chiedendo all'altro di incarnare quell'ideale tirannico che lo abita, mentre il perverso le rifugge ricercando attivamente un sentimento di esistenza, vitalità e stabilità nell'eccitamento che unicamente i suoi scenari, rigidi e ripetitivi, possono assicurargli. In entrambi i casi, l'altro resta fondamentalmente in una dimensione impersonale e disanimata, nonché al di fuori del fluire del tempo.
Di qui anche il particolare rapporto con la realtà esterna - quella delle relazioni umane con tutte le significazioni e gli affetti che le animano: nella perversione il rapporto con la realtà è mantenuto solo parzialmente, disconoscendo ciò che può suscitare angoscia, ma a prezzo di «una lacerazione che non si cicatrizzerà mai più e che anzi si approfondirà col passare del tempo [...] nucleo di una scissione dell'Io», come notava Freud rendendosi conto di come l'Io sia sfaldabile e quanto sia precaria e limitata quella sua funzione sintetica che sembrava quasi essergli connaturata, e che peraltro gli impone rimozioni più o meno radicali. Per di più questo disconoscimento del perverso, sempre incerto e di scarsa tenuta, deve necessariamente accompagnarsi a un esasperato controllo della realtà e dell'altro, ricercando disperatamente nella ripetizione dell'identico l'esclusione di ogni esperienza nuova o creativa.
Il distoglimento dalla realtà proprio della perversione, nella melanconia diventa distoglimento della realtà: il soggetto melanconico non rinnega la percezione di ciò che è inaccettabile per lui, ma rinnega la possibilità che quella realtà, in toto, lo riguardi, lo interessi. Sì, la realtà esiste, può anche essere piacevole e interessante, ma non per lui, che ne è perciò ancora più indegno. In entrambi i casi, il risultato è un ingabbiamento di se stessi che sconfina nell'immobilità, più o meno parziale. Una immobilità che, peraltro, è quella tipica - più in generale - dell'affetto depressivo e che corrisponde a qualcosa di morto dentro di sé: il melanconico lo nasconde mimandolo nel niente con cui si identifica, mentre il perverso lo confonde nell'apparente vitalità delle intense sensazioni che le sue condotte sessuali devono procurargli.
L'esistenza di questo vuoto e di questa morte (o questi morti) interni ci porta a un altro punto di articolazione tra melanconia e perversione: in entrambi i casi domina la difficoltà o l'impossibilità di separarsi da persone e rapporti vitali, di elaborare - come suol dirsi - il lutto per la loro perdita, vissuta come una insostenibile mutilazione di se stessi. Che questo valga per la melanconia, lo si sa, è uno degli apporti fondamentali di Freud quando ne ha evidenziato le somiglianze e le differenze rispetto al lutto («nel lutto non compare il disturbo del sentimento di sé»), facendo risalire questa impossibilità alle modalità narcisistiche e ambivalenti della relazione che legava il melanconico a ciò che ha perso, ossia alla essenziale funzione di mantenimento della coerenza, stabilità, continuità, integrità dell'Io che essa svolgeva e alla coesistenza in essa di atteggiamenti e sentimenti opposti, soprattutto amore e odio. Perciò la sua perdita impone all'Io del melanconico di incorporare l'oggetto perduto - non potendo né investirlo né disinvestirlo - per mantenerlo dentro di sé in una sorta di limbo: né morto né vivo in attesa di poter infine sciogliere questo legame narcisistico per allacciarlo con un altro. Ma ciò fa sì che l'odio e la distruttività scatenati ed esasperati dalla perdita e dai rischi che ne derivano ricadano pesantemente sull'Io, che ha incluso in sé l'altro perduto.
L'intollerabilità della perdita e l'impossibilità del lutto valgono anche per il soggetto perverso, che poiché ha bisogno di regolamentare e parcellizzare rigidamente la sua intimità con l'altro, ricerca una situazione impersonale con un complice che, per quanto idoleggiato, nell'amore fisico viene comunque privato della sua autonomia, soggetto a controllo, reso inerte e inanimato, perché nell'anonimia e nell'equivalenza del partner è negata a priori la possibilità di una separazione, ciò che consente di stabilizzare il fragile senso di sé. Quando si confondono gli individui, quando si negano generi e generazioni, quando si mescolano oggetti, zone e fonti del piacere si resta nell'indifferenziato e in un registro fusionale, dove non c'è spazio per una separazione né per la distruttività che ne conseguirebbe.
C'è tuttavia un altro profondo legame tra melanconia e perversione. Dopo la scoperta dell'inconscio e della rimozione, è in particolare attraverso melanconia e perversione che Freud scopre come l'Io stesso (già ormai ridotto ad essere solo una parte dell'apparato psichico, anche se cerca di spacciarsi per la sua totalità) sia «pieno di strappi e fenditure», che costituiscono potenziali linee di sfaldatura, come per un cristallo. Eppure proprio a questa scindibilità è legata la possibilità di essere e soggettivarsi (grazie al linguaggio), che per l'Io equivale poi alla possibilità, per usare ancora parole freudiane, di poter «prendere come oggetto sé medesimo, trattarsi come altri oggetti, osservarsi, criticarsi e fare di sé stesso Dio sa quante altre cose ancora», peraltro cose talvolta terribili ed orribili.
Effettivamente con Melencolia I, al di là della sovradeterminazione e della stratificazione dei simboli e delle allegorie, Dürer ha avuto l'audacia, come scrivono Klibansky, Panofsky e Saxl, di sollevare «la pesantezza animale di un temperamento triste, terrestre» all'altezza di una tragedia tipicamente umana, sottolineata dal confronto del dolore consapevole di chi lotta con i tormenti del pensiero, con la sofferenza inconsapevole del cane e la felice innocenza del putto affaccendato in una attività senza pensiero. Ma tutto ciò perché Dürer intende la melanconia come cifra e prezzo di una biologica artificialità della natura umana che, a paragone dell'animale e dell'infans, con la misura introdotta dal linguaggio crea lo smisurato, il sessuale che può svuotare, vanificare l'umano stesso. Di questo vuoto e questo smisurato, la perversione sembra poter essere - come nota Manuela Fraire nel suo saggio Travestitismo: un abito della melanconia - la maschera o l'abito, talvolta fin troppo trasparenti.
La melanconia e la sua maschera perversa
ALBERTO LUCHETTI
Nessun legame sembrerebbe unire melanconia e perversione, l'inibizione di ogni piacere dalla ricerca compulsiva di una fonte di godimento. Eppure, entrambe queste patologie rivelano una difficoltà di amare: nella melanconia è in gioco il ritiro di ogni investimento libidico, nella perversione sembra realizzarsi una forma erotica dell'odio. L'altro è comunque relegato a una dimensione impersonale, disanimata e fuori dal tempo. Se il perverso allontana la realtà perché troppo angosciosa, il melanconico soffre per una realtà che non lo contempla. Il risultato è comunque un ingabbiamento di se stessi, che corrisponde alla percezione di qualcosa di morto dentro di sé
L'accostamento tra melanconia e perversione - tema della giornata di studio organizzata dall'Associazione «Squiggle» e introdotta da Valdimiro Pellicanò, che riunisce oggi a Pisa numerosi esponenti della Società psicoanalitica italiana - può meravigliare, a meno che non si assumano i due termini in senso molto lato, se se ne considerano le abituali descrizioni psicopatologiche. «La melanconia», scriveva Freud, che finì col ritenerla una nevrosi narcisistica, «è psichicamente caratterizzata da un profondo e doloroso scoramento, da un venir meno dell'interesse per il mondo esterno, dalla perdita della capacità di amare, dall'inibizione di fronte a qualsiasi attività e da un avvilimento del sentimento di sé che si esprime in autorimproveri e autoingiurie e culmina nell'attesa delirante di una punizione». Non diversamente, anche l'attuale nosografia psichiatrica, che considera la melanconia come possibile complicazione di un episodio depressivo, ne individua le manifestazioni salienti in un'indifferenza per gli stimoli fino a quel momento piacevoli, in un marcato rallentamento motorio e in una destrutturazione della temporalità nella quale il passato occlude il presente e preclude un futuro, in disturbi dell'alimentazione e del sonno, in sentimenti di colpa e di svalutazione di sé eccessivi e inappropriati, in idee di morte o suicidarie. Cosa potrebbe essere più lontano da questa condizione melanconica se non l'attiva e talvolta compulsiva e impulsiva ricerca del piacere da parte di un perverso? Laddove si intenda, appunto, la perversione in senso stretto, ossia come l'insieme di comportamenti sessuali contraddistinti da anomalie nel raggiungimento del piacere, deviato rispetto a una qualsiasi norma, così come rispetto alle finalità biologiche. Un piacere che è legato alla variazione dell'oggetto sessuale e delle modalità del rapporto, ma soprattutto è rigidamente vincolato e subordinato ad alcune condizioni estrinseche particolari, che possono andare dal feticismo al travestitismo, dal voyeurismo all'esibizionismo, al sadismo, al masochismo: atteggiamenti che realizzano concretamente alcune scene fondamentali intorno a cui è organizzata la vita fantasmatica della persona. Già a un primo sguardo, tuttavia, alcune pratiche perverse rivelano una difficoltà ad amare analoga a quella del melanconico, se non addirittura una forma erotica dell'odio, come ha sostenuto Robert Stoller nel suo Perversion: The erotic form of hatred (Pantheon Books, New York, 1975). Ma l'accostamento tra melanconia e perversione appare altrettanto sorprendente se si pensa al divario che separa la monotonia iconografica della prima dalla poliedricità e variabilità delle rappresentazioni delle attività e degli scenari perversi, refrattari a ogni tentativo di repertoriarli esaustivamente. La melanconia è tradizionalmente rappresentata - prima e dopo la celebre incisione di Dürer - nelle vesti di una donna immobile, seduta e in qualche caso dormiente, con la testa reclinata appoggiata a una mano talvolta chiusa a pugno, dal volto indifferente o cupo e rabbioso, e dallo sguardo fisso davanti a sé, ma incurante di ciò che le sta intorno, assorta in pensieri e fantasmi, sospesa tra riflessione, dolore e smarrita disperazione. Mentre le perversioni sono affidate a rappresentazioni cangianti ed estremamente varie, sia nella letteratura classica come nei molteplici riferimenti di cui abbondano racconti e film d'oggi. E questo nonostante la ripetitività, fin nei minuti particolari, degli scenari prediletti dai personaggi - tanto eterosessuali che omosessuali - nella loro ricerca imperativa e spasmodica di forme di eccitamento e di piacere che non tollerano deviazioni e dilazioni. Benché abbiano spesso il sapore di una combinatoria di elementi fondamentali, queste variazioni riflettono la singolarità della vita fantasmatica dell'essere umano che, a partire dalla «perversione polimorfa» (come la definì Freud) della sessualità infantile e pulsionale, sempre si organizza in una drammaturgia idiosincrasica, talvolta particolarmente elaborata. Del resto, proprio per la difficoltà di stabilire tanto una norma quanto i confini con la patologia, c'è chi - come Joyce McDougall (in Eros. Le deviazioni del desiderio, Cortina, 1997) - preferisce parlare di «neosessualità», cioè di una reinvenzione (obbligata) dell'atto e delle relazioni sessuali, limitando il termine perversione solo ai rapporti imposti a un partner non consenziente. In realtà, mentre a tutta prima il rapporto tra melanconia e perversione sembrerebbe dover essere più di opposizione che di congiunzione, un secondo sguardo rivela una più complessa articolazione, alla quale sembrano alludere i titoli delle relazioni che Patrizia Cupelloni, Anna Nicolò e Lucio Russo terranno oggi a Pisa.
Per cercare di evidenziare alcuni snodi possiamo partire proprio dalla famosa incisione di Dürer che, come indicano Klibansky, Panofsky e Saxl nel loro celebre saggio su Saturno e la melanconia (Einaudi), costituisce un vero e proprio «autoritratto spirituale» del pittore. Nel solco della teoria di Marsilio Ficino, Dürer infatti unisce pittoricamente nel personaggio centrale due figure, la Geometria e la Melanconia, la raffigurazione dell'ars geometrica con quella di un homo melanconicus, «l'una che incarna l'ideale allegorizzato di una facoltà mentale creativa, l'altra che è l'immagine terrificante di una condizione di spirito distruttiva», elevando la figura allegorica della Melanconia al livello di un simbolo che combina l'esercizio intellettuale con la capacità di sofferenza dell'anima umana. Certo, la scelta della Geometria tra le sette arti liberali, come indicano i tre studiosi, dipende dal fatto che per il pittore essa era la base di ogni scienza e filosofia, nonché dal legame che la tradizione aveva stabilito tra essa e Saturno, il pianeta che nelle convinzioni dell'epoca poteva favorire sia il sapere che la follia. Tuttavia la Geometria è scienza della misura, arte del misurare: mostrando come le potenzialità creative dell'essere umano attingano alla stessa fonte dell'impotenza e dello sgomento di fronte alla vanità della vita, Dürer sembra segnalare questa comune sorgente nella sua natura di «animale misurante», perché parlante. Proprio la misura è un aspetto centrale sia nella melanconia che nella perversione. Mentre quest'ultima è intrinsecamente sovversiva - poiché tenta di spostare il limite di ogni norma, poiché essa è negazione (ma per ciò stesso anche riaffermazione) di ogni misura e dunque di ogni differenza nell'ambito della sessualità - la melanconia assume come propria misura un ideale assoluto, una dismisura rispetto alla quale può identificarsi soltanto con il niente: «Io non sono niente» è infatti l'emblema del discorso melanconico. Perciò Freud affermava che nella melanconia la coscienza del soggetto è accaparrata dall'ideale, che parla in nome di Io: potremmo anzi dire che Io può essere e parlare solo lasciandosi irrigidire ed esautorare da questo ideale, che con la sua ombra lo riduce a un niente; al tempo stesso, però, resta sempre sull'orlo dell'angoscia che si scatenerebbe dall'incrinarsi di questa fragile e alienante cornice identificatoria.
Sia melanconia che perversione finiscono dunque con il denunciare l'illusione dell'identità: di quella sessuale e sessuata, quando è in gioco la perversione, di quella derivata dall'abbaglio di ogni ego, dall'evanescenza di ogni discorso, dalla vanità di ogni attività quando è in gioco la melanconia. Dietro l'insistente inibizione melanconica e la compulsiva disinibizione perversa affiorano così angosce di frammentazione, di smembramento, di perdita dei confini del proprio corpo, di inesistenza o di irrealtà, fino a quell'angoscia di castrazione che sembra già svolgere una funzione contenitiva e organizzativa. Angosce che il melanconico può tentare di allontanare solo chiedendo all'altro di incarnare quell'ideale tirannico che lo abita, mentre il perverso le rifugge ricercando attivamente un sentimento di esistenza, vitalità e stabilità nell'eccitamento che unicamente i suoi scenari, rigidi e ripetitivi, possono assicurargli. In entrambi i casi, l'altro resta fondamentalmente in una dimensione impersonale e disanimata, nonché al di fuori del fluire del tempo.
Di qui anche il particolare rapporto con la realtà esterna - quella delle relazioni umane con tutte le significazioni e gli affetti che le animano: nella perversione il rapporto con la realtà è mantenuto solo parzialmente, disconoscendo ciò che può suscitare angoscia, ma a prezzo di «una lacerazione che non si cicatrizzerà mai più e che anzi si approfondirà col passare del tempo [...] nucleo di una scissione dell'Io», come notava Freud rendendosi conto di come l'Io sia sfaldabile e quanto sia precaria e limitata quella sua funzione sintetica che sembrava quasi essergli connaturata, e che peraltro gli impone rimozioni più o meno radicali. Per di più questo disconoscimento del perverso, sempre incerto e di scarsa tenuta, deve necessariamente accompagnarsi a un esasperato controllo della realtà e dell'altro, ricercando disperatamente nella ripetizione dell'identico l'esclusione di ogni esperienza nuova o creativa.
Il distoglimento dalla realtà proprio della perversione, nella melanconia diventa distoglimento della realtà: il soggetto melanconico non rinnega la percezione di ciò che è inaccettabile per lui, ma rinnega la possibilità che quella realtà, in toto, lo riguardi, lo interessi. Sì, la realtà esiste, può anche essere piacevole e interessante, ma non per lui, che ne è perciò ancora più indegno. In entrambi i casi, il risultato è un ingabbiamento di se stessi che sconfina nell'immobilità, più o meno parziale. Una immobilità che, peraltro, è quella tipica - più in generale - dell'affetto depressivo e che corrisponde a qualcosa di morto dentro di sé: il melanconico lo nasconde mimandolo nel niente con cui si identifica, mentre il perverso lo confonde nell'apparente vitalità delle intense sensazioni che le sue condotte sessuali devono procurargli.
L'esistenza di questo vuoto e di questa morte (o questi morti) interni ci porta a un altro punto di articolazione tra melanconia e perversione: in entrambi i casi domina la difficoltà o l'impossibilità di separarsi da persone e rapporti vitali, di elaborare - come suol dirsi - il lutto per la loro perdita, vissuta come una insostenibile mutilazione di se stessi. Che questo valga per la melanconia, lo si sa, è uno degli apporti fondamentali di Freud quando ne ha evidenziato le somiglianze e le differenze rispetto al lutto («nel lutto non compare il disturbo del sentimento di sé»), facendo risalire questa impossibilità alle modalità narcisistiche e ambivalenti della relazione che legava il melanconico a ciò che ha perso, ossia alla essenziale funzione di mantenimento della coerenza, stabilità, continuità, integrità dell'Io che essa svolgeva e alla coesistenza in essa di atteggiamenti e sentimenti opposti, soprattutto amore e odio. Perciò la sua perdita impone all'Io del melanconico di incorporare l'oggetto perduto - non potendo né investirlo né disinvestirlo - per mantenerlo dentro di sé in una sorta di limbo: né morto né vivo in attesa di poter infine sciogliere questo legame narcisistico per allacciarlo con un altro. Ma ciò fa sì che l'odio e la distruttività scatenati ed esasperati dalla perdita e dai rischi che ne derivano ricadano pesantemente sull'Io, che ha incluso in sé l'altro perduto.
L'intollerabilità della perdita e l'impossibilità del lutto valgono anche per il soggetto perverso, che poiché ha bisogno di regolamentare e parcellizzare rigidamente la sua intimità con l'altro, ricerca una situazione impersonale con un complice che, per quanto idoleggiato, nell'amore fisico viene comunque privato della sua autonomia, soggetto a controllo, reso inerte e inanimato, perché nell'anonimia e nell'equivalenza del partner è negata a priori la possibilità di una separazione, ciò che consente di stabilizzare il fragile senso di sé. Quando si confondono gli individui, quando si negano generi e generazioni, quando si mescolano oggetti, zone e fonti del piacere si resta nell'indifferenziato e in un registro fusionale, dove non c'è spazio per una separazione né per la distruttività che ne conseguirebbe.
C'è tuttavia un altro profondo legame tra melanconia e perversione. Dopo la scoperta dell'inconscio e della rimozione, è in particolare attraverso melanconia e perversione che Freud scopre come l'Io stesso (già ormai ridotto ad essere solo una parte dell'apparato psichico, anche se cerca di spacciarsi per la sua totalità) sia «pieno di strappi e fenditure», che costituiscono potenziali linee di sfaldatura, come per un cristallo. Eppure proprio a questa scindibilità è legata la possibilità di essere e soggettivarsi (grazie al linguaggio), che per l'Io equivale poi alla possibilità, per usare ancora parole freudiane, di poter «prendere come oggetto sé medesimo, trattarsi come altri oggetti, osservarsi, criticarsi e fare di sé stesso Dio sa quante altre cose ancora», peraltro cose talvolta terribili ed orribili.
Effettivamente con Melencolia I, al di là della sovradeterminazione e della stratificazione dei simboli e delle allegorie, Dürer ha avuto l'audacia, come scrivono Klibansky, Panofsky e Saxl, di sollevare «la pesantezza animale di un temperamento triste, terrestre» all'altezza di una tragedia tipicamente umana, sottolineata dal confronto del dolore consapevole di chi lotta con i tormenti del pensiero, con la sofferenza inconsapevole del cane e la felice innocenza del putto affaccendato in una attività senza pensiero. Ma tutto ciò perché Dürer intende la melanconia come cifra e prezzo di una biologica artificialità della natura umana che, a paragone dell'animale e dell'infans, con la misura introdotta dal linguaggio crea lo smisurato, il sessuale che può svuotare, vanificare l'umano stesso. Di questo vuoto e questo smisurato, la perversione sembra poter essere - come nota Manuela Fraire nel suo saggio Travestitismo: un abito della melanconia - la maschera o l'abito, talvolta fin troppo trasparenti.
Iscriviti a:
Post (Atom)