lunedì 9 febbraio 2004

Caravaggio e Leonardo

Repubblica 9.2.04
I pittori della realtà, intervista a Mina Gregori
così Caravaggio guardò Leonardo

Le tappe del naturalismo lombardo dalla seconda metà del '400 al '700, dall'epoca del Foppa a quella del Ceruti
di PAOLO VAGHEGGI


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CREMONA. Il «padre» di Caravaggio? E´ Leonardo da Vinci. Ecco una tesi che farà discutere anche perché non è contenuta in una rivista specialistica ma è il nocciolo duro di una mostra pubblica: "Pittori della realtà. Le ragioni di una rivoluzione: da Foppa e Leonardo a Caravaggio e Ceruti", in programma nel Museo civico Ala Ponzone di Cremona (dal 14 febbraio al 2 maggio 2004, catalogo Electa) e al Metropolitan Museum di New York (dal 27 maggio al 15 agosto 2004).
E´ un´esposizione che ripercorre le tappe della pittura naturalista in Lombardia dalla seconda metà del Quattrocento quando, a Milano, operavano il bresciano Vincenzo Foppa e Leonardo, al periodo di formazione di Caravaggio - gli anni Ottanta del Cinquecento - per arrivare infine al Settecento di Fra´ Galgario e del Ceruti. Sono un centinaio i dipinti e i disegni che tracciano il viaggio nella «riforma» lombarda della pittura italiana. Si parte da Leonardo anche per rileggere Caravaggio nonché le fondamentali teorie caravaggesche di Roberto Longhi . E´ una rilettura operata da Mina Gregori, curatrice dell´esposizione cremonese (al Metropolitan Keith Christiansen e Andrea Bayer), e proprio per questo non mancherà di accendere dibattiti. La Gregori è stata, con Testori, l´allieva prediletta di Roberto Longhi e ancor oggi a Firenze guida la fondazione di studi dedicata allo storico dell´arte.
Sostiene Mina Gregori: «E´ sempre più chiaro che Caravaggio è figlio della cultura lombarda e che portò a Roma una complessa situazione di pensiero, di acquisizioni artistiche. Quando si trasferì nella capitale era ormai ventenne, era un artista alle soglie della maturità. E´ un pensiero diverso da quello di Roberto Longhi convinto che Caravaggio fosse arrivato a Roma in giovane età. L´artista in realtà aveva già assorbito una cultura straordinariamente complessa. E aveva sicuramente avuto esperienze di lavoro, eseguito dei dipinti che purtroppo ancora non conosciamo».
Ma perché Leonardo? Caravaggio aveva visto le opere del genio di Vinci?
«Leonardo ha soggiornato in Lombardia per due lunghi periodi e ci sono i segni del suo passaggio. Sicuramente Caravaggio aveva visto la Vergine delle Rocce e l´Ultima Cena, conosceva i disegni e i materiali scritti di Leonardo di cui vi sono tracce anche nei trattati del Lomazzo che risalgono al 1580-1590. Leonardo era una presenza culturale importantissima in Lombardia. Caravaggio ne risentì fortemente e per questo si trasferì a Roma. Voleva sfidare i grandi. Voleva essere il nuovo Leonardo. L´intuizione di Longhi sulle influenze lombarde di Caravaggio era giustissima. Ma aveva sottovalutato la presenza di Leonardo e l´importanza che ebbe per Caravaggio».
Ci sono dei documenti?
«Longhi diceva che il quadro è un documento. Le prime opere che Caravaggio realizzò per il cardinal Del Monte, che, non dimentichiamolo, aveva un fratello autore di un trattato di ottica, sono segnate dalla trasparenza, dalla luce, da una prospettiva che proviene da Leonardo e dallo studio dei leonardeschi. A Cremona presentiamo dei disegni di Leonardo prestati dalla collezione reale di Windsor e dei dipinti della sua cerchia dove si vedono dei soggetti, dei modelli poi ripresi da Caravaggio. E´ questo l´ambiente dove è cresciuto, dove ha studiato fin da giovanissimo con il sostegno della famiglia. La madre non esitò a vendere un terreno per far studiare il figlio, per mandarlo a scuola da Simone Pederzano. Aveva solo tredici anni. Evidentemente era già molto promettente. E quando arrivò a Roma aveva già una profonda formazione artistica».
A proposito di ottica. Il pittore David Hockney sostiene che Caravaggio e molti pittori dell´antichità fecero uso di lenti, specchi. E´ una teoria però avversata.
«Può essere veritiero. E´ possibile che Caravaggio abbia fatto uso di specchi. Il Baglione lo ha anche scritto. E´ una questione che ha bisogno di essere approfondita. Caravaggio però dopo i primi dipinti giovanili lasciò gli interessi di carattere ottico. Cambiò completamente registro con il chiaroscuro, anche questo di origine leonardesca, e si occupò soprattutto di soggetti sacri. Puntava su committenze pubbliche per essere consacrato come pittore universale. E in questo è riuscito: Caravaggio è stato l´artefice della seconda grande rivoluzione della pittura, quella che viene dopo Leonardo».
Ma i segni, quasi delle incisioni, che Caravaggio lasciava sulla tela con la punta del pennello erano dovuti all´uso di strumenti ottici?
«No, erano dovuti all´uso di veri modelli. Posavano più volte. Segnava sulla tela la posizione delle figure, non usava tecniche tradizionali. E non credeva nel disegno che per lui era un elemento di astrazione dalla realtà. Dipingeva direttamente sulla tela».
Di dipinti di Caravaggio però in mostra ce ne sono solo tre. Tra l´altro uno, la versione del Suonatore di liuto, di proprietà Wildenstein, è stato abbastanza contestato.
«Per la mostra abbiamo fatto delle scelte precise per far vedere quali sono gli elementi lombardi che accompagnano la formazione di Caravaggio. Questa versione del Suonatore di liuto è, per me, di mano di Caravaggio. E´ in deposito presso il Metropolitan Museum ed è stato scelto da loro».

l'arte di Cy Twombly
secondo Achille Bonito Oliva

Repubblica 9.2.04
TWOMBLY
QUEI SEGNI MINIMALI CHE SFIDANO IL SILENZIO

filosofia del linguaggio che diventa iconografica
automatismi che derivano dall'action painting
Ottanta disegni dell'artista americano esposti al Centre Pompidou
PARIGI
di ACHILLE BONITO OLIVA


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per avere maggiori informazioni su questa mostra al Centre Pomidou di Parigi, cliccate qui


1957, Cy Twombly arriva a Roma e si mette in silenzio ad abitarla. Americano della Virginia, nomade per cultura e stanziale per natura, si forma tra gli incontri al Black Mountain College, con Kline, Motherwell, Cage e Cunningam, e un solitario viaggio di studi in Europa e Nord Africa. Da qui la felice irregolarità di un´opera ai bordi di molteplici intrecci, come si desume dagli ottanta disegni (1953- 2002) esposti al Centre Pompidou di Parigi. Cinquanta anni sofisticati di un´arte portata al disegno, dai monotipi e figure totemiche influenzate dalle culture primitive ai sottili graffitismi con numeri e lettere, che lo riportano dall´Africa verso l´Europa.
Dell´action-painting Twombly recupera l´automatismo di un gesto che non ha nulla del vitalismo yankee, piuttosto del cubismo (il collage di Braque), dadaismo (il caso intelligente di Schwitters), surrealismo (la scrittura di Masson) e costruttivismo (il sistema combinatorio di Tatlin).
Prevalgono il gusto di una improvvisazione sedata ed il bisogno di un ordine costruttivo della forma made in Europe, le avanguardie storiche. Passando alla fine degli anni Sessanta ai gomitoli seriali dedicati a Bolsena e successivamente, attraverso l´evocazione pellicolare del collage e del colore, al recupero del mito classico (Achille, Venere, Apollo) e l´omaggio con disegni e sculture a Malevic e Tatlin.
A Twombly più del gesto interessa la memoria del gesto. Egli ne assume non la violenza ma il gusto del suo evidenziamento formale, l´essenzialità di un linguaggio filiforme accompagnato da una emozionalità pre-minimalista. Così dispone i suoi segni con fare reticente per attraversare la distanza che lo separa dalla superficie del quadro. E la superficie non è una porzione attiva di spazio, non ha la capacità autonoma di proporsi oltre la propria bidimensione. Per questo, i segni non si pongono in condizione estroversa, ma si situano d´incontro sul supporto. Un supporto ben saldo su se stesso, che non sprofonda all´interno di illusionismi prospettici, poiché la mentalità sottesa è una concezione autoreferenziale dell´arte, l´operazione estetica come sistema chiuso sulla propria qualità formale.
Twombly costruisce il proprio universo interiore mediante un paesaggio intensamente grafico, un´architettura disegnata dell´istante, frutto di una poetica, che io amo definire come stanza a volo radente. Egli parte dalla consapevolezza che l´arte non intacca lo spessore del reale, nemmeno attraverso una diretta rappresentazione, che il gesto non si autorappresenta ma agisce per interposta persona attraverso la qualità evocatrice del segno su una porzione dura di spazio. Il mondo, ormai si sa, è la totalità dei fatti, la pittura è dunque la totalità dei segni. Segni che già conoscono lo scacco dell´assoluto e un´ostentata reticenza alla rappresentazione, per trasgredire l´abbaglio silenzioso della superficie. E se la superficie è il mondo, esso non può essere coperto completamente dalla forma. E lo sfondo non resta paesaggio inerte, puro contenitore dei segni protagonisti, ma supera allo sguardo ogni gerarchia e sudditanza rispetto al primo piano, per darsi col resto compenetrato alla vista.
Cosi appaiono le due polarità: coazione a segnare ed inibizione a ripetere. La spinta vitale propone l´uscita del gesto dall´immobilità silenziosa dell´individuo, consapevole d´agire secondo un catalogo rituale già precisato. Malgrado ciò questi non può non accettare l´identità della propria differenza e per questo compie il gesto dell´azione, del fuori da sé. I segni si dipanano e volano a distanziarsi su una superficie lontana, a presentificare l´istante del gesto e l´energia formale che circola nel recinto dell´azione creativa.
I segni disposti e caduti si costruiscono le illazioni visive oltre ragione di una presenza, che non può accettare lo scacco finale della impossibile rappresentazione. La realtà infatti non si lascia possedere come totalità e Cy lo sa, da questo discende il successivo ripiegamento sul sentimento di forza calibrata, che sembra necessariamente, come un ossimoro, accompagnare l´esistenza. Ed il segno è anche improvviso scarto dalla posizione d´inerzia, ognuno all´interno conserva il doppio momento dell´esibizione automatica e dell´immediato ripensamento. E Cy assume la mano asintattica e lancia i propri segni sulla parete della stanza di bambino. Una stanza che non rimbomba di echi, ma si propone subito come teatro per una procedura guidata dal gesto. Gli impulsi confluiscono e si manifestano filtrati dal linguaggio. I segni velocemente trasgrediscono il bianco della parete, ad evidenza di una condizione psichica ed estetica insieme, che si manifesta in alcuni punti come tentazione a segnare ed in altri come successivo tentativo di cancellare. La strategia finalmente esplode: un improvviso di segni si dispone sulla superficie. L´artista compie gesti di assaggio e di ripetizione, quasi a volo radente per non rimanere impigliato al campo attivo della creazione.
Spesso sembra quasi che Twombly sia sceso a volo radente sulla superficie-parete-stanza, passando dall´alto abbia riproposto il gesto dell´annuncio di sé e della propria espiazione. Perché egli sa che l´annuncio equivale alla caduta e che dunque una squisita reticenza lo può salvare dalla disperazione totale ed immetterlo invece in un probabile rapporto col mondo. Sceglie la tattica delle piccole cadute e tende inoltre a mostrare come «il sé» e il «mondo» possono trovare istantanee e precarie convergenze.
Alla fine anche la superficie, nei punti non segnati, si visualizza come una sorta di manifestazione sublimata dello spazio ed acquista l´importanza di uno svelamento quasi orientale, una riflessione sul mondo. L´artista crede alla forza delle forme coniugate, anche se sa di non poter più risalire alla felicità dell´origine, può soltanto percorrerne i bordi mediante il proprio processo creativo, sospinto magari da un venticello kleeiano.
Cy Twombly rende iconografica una particolare filosofia del linguaggio, la « melancolia artificialis» che segna il tracciato delle immagini, la loro spirituale trasparenza. Condizione dell´artista è permanere oltre il proprio sé corporale, un´eco ormai. Dell´arte tempo è il ben temperato

la civiltà Inca in mostra a Firenze

il manifesto 9.2.04
INTERVISTA
Dagli Inca, archeologie del presente

A Firenze, presso Palazzo Strozzi, la mostra «Perù. Tremila anni di capolavori». Una eccezionale selezione di pezzi, «preziosi» e ceramiche, che mira ad approfondire gli aspetti legati alla committenza, alla fruizione e alla valutazione autoctona delle culture materiali locali. Dalla essenzialità decorativa delle ceramiche Chimù all'acceso colorismo di quelle Nasca, dall'eleganza formale Moche al ritorno all'ordine imperiale che costituisce l'essenza della produzione Inca. Dell'esposizione, del pregiudizio secondo cui le civiltà «primitive» sarebbero diverse da quelle «evolute» quanto alla loro percezione del bello, del degrado in cui versano le strutture museali italiane abbiamo parlato con l'antropologo e americanista Antonio Aimi
di BENEDETTA CESTELLI GUIDI


Nella mostra Perù. Tremila anni di capolavori si trova un'eccezionale selezione di pezzi di ottima qualità, nonché recenti scoperte, degli stili delle culture locali che hanno abitato il vasto territorio sud americano fino all'Impero Inca (sino al 22 febbraio a Palazzo Strozzi,Firenze, www.perupalazzostrozzi.it). Il percorso è costruito su 300 pezzi che introducono il profano alla cultura peruviana per poi calarlo a due piedi nella ricca e varia produzione artistica; è infatti l'approfondimento degli aspetti legati alla committenza, fruizione, considerazione autoctone delle culture materiali locali a costituire la novità di questa esposizione; l'antropologo Antonio Aimi, americanista attento alle questioni teoriche e museologiche, ha scelto di presentare le varie produzioni materiali nell'arco di tre secoli (1.500 a.C. - 1.500 d.C.) attraverso una lettura livellante dei parametri estetici preincaici su quelli etnocentrici. La mostra presenta una gran varietà di manufatti tra cui «preziosi» e ceramiche. Sebbene nella prima categoria vi siano notevolissimi pezzi - tra cui una magnifica piccola esposizione delle collezioni peruviane del Museo di Storia Naturale di Firenze - sono le ceramiche a fare la parte del leone. Queste coprono la successione di stili artistici delle varie culture preincaiche rivelando le varietà e prolificità di soluzioni formali e coloristiche; l'essenzialità decorativa delle ceramiche Chimù (900-1470 d.C.); l'acceso colorismo di quelle Nasca (100-700 d.C.); l'eleganza formale e coloristica Moche (100 a.C. - 850 d.C.). Quando infine si giunge alla produzione Inca (1440-1532) si capisce da subito che è in gioco l'immagine ordinata e regolatrice dell'Impero: il ritorno all'ordine si esprime in grandi dimensioni, eleganza formale, alternanza di pochi colori all'interno di sobri campi decorativi. La densità della mostra fa sì che lo spettatore debba riflettere, soffermarsi, guardare per comprendere che cosa ma soprattutto come ci viene mostrato. Al percorso cronologico che sottende l'esposizione se ne interseca un secondo, di tipo artistico, che domina le sale centrali in cui la genericità dei dati a noi disponibili sono ancorati a stili, scuole, botteghe fino ai singoli maestri e ad avanguardie artistiche. Aimi ha adottato cioè i nostri parametri estetici, attaccando il pregiudizio secondo cui le civiltà «primitive» sono diverse da quelle «evolute» in primis nella loro percezione del bello. Se le fonti potevano venirci in aiuto, come intuì Michael Baxandall quando utilizzava la terminologia quattrocentesca per capire oggi cos'è che piaceva al fiorentino di una pittura sua contemporanea, non è questo il caso del Perù: la storia dei vincitori, per quanto consapevoli, avrebbe alterato da subito la nostra percezione dell'«altro», riducendolo ad un essere superstizioso, sanguinario, fermo al presente etnografico dell'infanzia cruenta dell'umanità. Ne abbiamo parlato con Aimi.
In queste condizioni è possibile restituire oggi lo sguardo di quelle culture?
Nell'articolo di presentazione della mostra mi chiedo, parafrasando Octavio Paz, se è possibile guardare una figurina inca con gli occhi di un abitante del Cuzco e riconosco subito, sempre seguendo Paz, che noi non siamo certo inca ma neppure greci, né cinesi, né arabi, né uomini del Medio Evo. Siamo quindi sempre condannati alla traduzione, alla «trasmutazione dell'originale» all'interno dei nostri sistemi di riferimento. Detto questo, riconoscendo la relativa arbitrarietà dei nostri giudizi, mi limito a mettere in evidenza un dato macroscopico che è enormemente sottovalutato: il contesto archeologico e, in alcuni ambiti, etnografico ci dà un'idea abbastanza precisa del sistema di valori artistici delle culture amerindiane rivelandoci che esso non è molto diverso dal nostro. In altre parole noi stiamo scoprendo che quello che a noi piace, piaceva anche ai Maya o agli Inca. Lei pone il problema della mancanza di fonti letterarie. Credo che le fonti archeologiche, vale a dire le scelte concrete fatte dagli Inca o dai Maya, abbiano un valore euristico ben più forte di qualsiasi testo, perché i testi possono rispecchiare le posizioni ideologiche o i gusti particolari di un autore, ecc. Le scelte reali dei sovrani delle culture precolombiane, invece, sono sotto i nostri occhi e sono indiscutibili.
Lei ha citato il caso della tribù amazzonica degli Asurini, scoperta negli anni '70, che ha avuto una notevole importanza nel comprendere come essi stessi valutavano la propria produzione artistica.
Le ricerche antropologiche di chi ha vissuto a lungo con loro e li ha studiati e aiutati (mi riferisco a Regina Polo Muller, ma anche all'amico Aldo Lo Curto) sono state fondamentali perché hanno mostrato la presenza di una netta gerarchia di valori estetici in una situazione sociale che corrisponde al livello zero della divisione del lavoro. E anche in questo caso la gerarchia degli Asurini è uguale alla nostra.
Lei ha usato alcuni «ismi» della storia dell'arte occidentale, paragonando alcune soluzioni formali e coloristiche delle produzioni artistiche peruviane a dipinti di Klee, Kandinskj, Picasso. E' necessario ricorrere ancora oggi alle cosiddette «avanguardie storiche» per nobilitare quest'arte?
Io non ho citato gli «ismi» per nobilitare le opere dei maestri dell'antico Perù, perché non hanno proprio bisogno di essere nobilitate. Credo che siano già molto nobili per conto loro. Ho semplicemente mostrato al visitatore alcune convergenze che finora nessuno aveva mai rilevato e ho suggerito alcuni confronti critici come si è soliti fare anche in una qualunque riflessione sull'arte occidentale. Il problema è che finora queste convergenze sono, incredibilmente, del tutto sconosciute. Spesso ci si è limitati alla ricerca del «modello saccheggiato o copiato» dai moderni. Quando gli «ismi» delle altre culture saranno digeriti e accettati e, spero presto, forse si potrà fare un passo in avanti e studiare queste convergenze da altri punti di vista.
Lei è molto attento al dibattito sui musei di etnografia: qual è la sua istanza «etnografia» o «arte»?
In genere credo che sia opportuno raddrizzare le barche troppo sbilanciate da una parte. Tuttavia non voglio essere elusivo, tra le sale etnografiche del British Museum e il Pavillons des Sessions scelgo, pur con molte riserve, il Pavillons des Sessions. Dirò di più, come ha rivelato anche una museologa inglese, la sala del Nord America del British Museum sotto la patina dell'etnografia continua a riproporre un razzismo e uno snobismo veramente irritanti.
Il dibattito nasce in America, come conseguenza del processo post coloniale nelle società multietniche. Esiste un dibattito simile oggi in Italia?
In America, da quel poco che so, il dibattito è molto all'insegna del politically correct e della naïveté di molti antropologi privi di una salda cultura umanistica. In Italia la situazione è molto diversa perché, per fortuna, all'interno del territorio nazionale non abbiamo i discendenti di popolazioni massacrate e deculturate da risarcire in qualche modo. Qui il dibattito mi sembra meno «politico» e più ideologico. In alcuni casi, inoltre, il rinvio, ormai rituale, tanto a destra quanto a sinistra, alla società multietnica mostra che certi amministratori e certi operatori museali non hanno ben chiara la differenza tra un centro per extracomunitari e un museo. Così come il rinvio «alle radici» evocato dai vari musei della «civiltà contadina», sempre dal taglio ultralocalistico, può essere il veicolo di istanze tanto di destra (noi contro gli altri), quanto di sinistra (la memoria storica dei ceti subalterni). Io credo che le contaminazioni tra musei etno-antropologici e politica, per altro nate con la stessa antropologia nell'Ottocento (il politically correct è solo l'ultima moda, abbiamo visto ben di peggio), non diano, a livello espositivo, buoni consigli anche se non impediscono necessariamente di fare musei straordinari. In realtà molte pasionarie (uomini e donne) del politically correct museale non si rendono conto che agganciare le ristrutturazioni dei musei di «antropologia» alle tematiche della società multietnica è, in realtà, l'ultima frontiera del razzismo e dell'etnocentrismo. Non si accettano i reperti e le opere d'arte delle culture «altre» in quanto tali (si potrebbe dire senza se e senza ma), li si accettano solo perché i lontanissimi discendenti di chi le ha prodotte ci sono venuti in casa. E una cosa vergognosa e pazzesca. E come se in Australia o in Giappone si facesse dipendere l'accettazione dell'arte del Rinascimento dalla presenza, più o meno numerosa, di comunità di immigrati italiani.
Una riprova dei devastanti risultati del taglio ideologico del dibattito italiano è che nessuno ha parlato del fatto che a livello museale siamo ben al di sotto degli standard della decenza europea. E' bene dirlo chiaramente, a parte alcune situazioni in controtendenza, a livello museale gran parte dell'Italia è nel Terzo Mondo. In alcuni casi il confronto non dico con la Francia o la Svizzera ma col Perù e col Messico è umiliante. Ci sono reperti che scompaiono o che sono conservati in condizione inaccettabili. Ci sono musei impresentabili. E poi, sembra paradossale dirlo, con tanto chiacchiericcio sul politically correct e sulla società multiculturale, la struttura del Ministero e delle Sovrintendenze, la selezione del personale e la valutazione delle sue specifiche competenze, i flussi di risorse partono dal presupposto che in realtà gli unici beni che lo Stato deve tutelare sono quelli della nostra tradizione. Cosa che, per altro, si fa molto male. In Italia nessuno è consapevole che un medio sito archeologico del Messico (e non sto parlando dei luoghi sacri all'identità nazionale messicana) è tenuto molto, molto meglio del Foro Romano. Sullo sfondo, oltre i musei, c'è un dato di fatto incontestabile: le risorse destinate alla cultura sono insignificanti e sono per la maggior parte drenate da iniziative pagliaccesche. Si è mai fatto il conto dei soldi che gli enti locali buttano nella spazzatura con quella girandola di premi letterari e iniziative varie che imperversano dalle Alpi alla Sicilia ? Forse è molto più semplice riconoscere che della cultura, e chiaramente non mi riferisco all'arte «altra», non ce ne importa nulla.
Crede vi siano differenze sostanziali tra il modello post coloniale museale americano e quello europeo?
Non so se è corretto parlare di modello postcoloniale, perché la svolta è di questi ultimi anni e a me sembra più legata ai processi di globalizzazione. Chi parla di modello americano e modello europeo sono i Francesi. Mi sembra più chiaro parlare di partito dell'arte e partito dell'etnografia, anche se ho constatato che, a parole, il partito dell'arte è rimasto con pochi iscritti. Negli Stati Uniti la vittoria del partito dell'etnografia è stata sancita dal Nagpra (Native American Graves Protection and Reimpatriation Act, legge del 1990 con cui il Congresso stabiliva la restituzione dei manufatti sacri alle tribù di appartenenza). Però un conto è la teoria, un conto la creazione di un museo. Vedremo come sarà il nuovo Museum of American Indian. Per quanto riguarda l'Europa credo che i due modelli o i due partiti taglino trasversalmente il continente. Aggiungo, però, che sarebbe utile riflettere su alcune esperienze peruviane e messicane (mi riferisco al Museo Tumbas Reales de Sipán, al Museo de Arte Precolombino del Cuzco, al Museo del Templo Mayor di Città del Messico) che sono di enorme importanza sia sul piano concreto che su quello teorico.

Cina e deficit USA

il manifesto 9.2.04VERTICE G7
Usa e Asia aggirano l'Europa
di GIANNI DEL VECCHIO


La crescita economica: un fantasma che turba i sonni dell'amministrazione americana e in nome del quale passare su tutto e tutti. E' il messaggio forte e chiaro che arriva dal G7 «economico», il vertice fra governatori delle banche centrali e i ministri delle Finanze dei paesi più industrializzati, tenutosi a Boca Raton in Florida. Lo lancia chiaramente John Snow, segretario al Tesoro americano: «I paesi del G7 devono focalizzare la loro agenda sull'obiettivo di far ripartire una crescita economica finora anemica». Una ricerca affannosa che affonda le radici nella necessità del governo statunitense di dimezzare nei prossimi anni l'enorme deficit di bilancio (521 milioni di dollari), frutto di una politica economica facilona ed avventata. Una politica di spesa in disavanzo tipica dei periodi preelettorali: tagli alle tasse e aumento della spesa pubblica, con quella militare in testa. Il tutto condito da una politica monetaria accomodante da parte della Fed, che tiene i tassi d'interesse al minimo storico da oltre 43 anni, attorno all'1%. Sul fronte dei cambi, infine, avere un dollaro debole significa avvantaggiare gli esportatori (lobby elettoralmente influente) e ridurre l'enorme deficit della bilancia commerciale, che è uno dei fattori che più mina l'economia americana. Inaspettatamente, un gioco di sponda ai policy maker statunitensi è venuto dai paesi asiatici. Dato che l'euro è andato alle stelle rispetto al dollaro, le banche centrali di Giappone e Cina hanno acquistato la valuta americana per mantenere basso il valore delle proprie monete e favorire le proprie esportazioni. Così facendo hanno finanziato più della metà del deficit americano nel 2003. Senza quegli acquisti il dollaro sarebbe sceso ancor di più. In breve, i governi asiatici hanno acquistato titoli del Tesoro Usa per assicurarsi che gli americani possano permettersi il lusso di continuare ad acquistare prodotti asiatici.
In questa triangolazione Usa-Cina-Giappone, a restare strangolato è il vecchio continente. Le autorità europee infatti temono che il supereuro stronchi una crescita che già tarda a sbocciare, penalizzando oltre misura le esportazioni Ue. Ma di una richiesta esplicita al governo americano di frenare la discesa del dollaro non c'è traccia. Anzi, il ministro dell'economia italiano, Giulio Tremonti, ha confermato come il comunicato finale del vertice dovrebbe ricalcare quello di Dubai dello scorso settembre, con l'unica aggiunta di una richiesta di maggiore flessibilità alle valute asiatiche. In una situazione di accondiscendenza alla politica valutaria americana, l'unica arma affinché la ripresa economica non venga fiaccata dall'euro forte è nelle mani della Bce: un taglio ai tassi, visto che l'inflazione ormai sembra sotto controllo.

Mark Rothko
il centenario e alcune mostre

Corriere della Sera 9.2.04
CENTENARI A Basilea, San Pietroburgo e Washington decine di lavori per illustrare il percorso dell?artista americano di origine russa
?I miei dipinti sono opere teatrali?
Le forme che appaiono, diceva Mark Rothko, sono gli attori del palcoscenico
d Sebastiano Grasso


per vedere numerose immagini delle opere di Mark Rothko cliccate qui

«Penso ai miei dipinti come a opere teatrali: le forme che appaiono sono gli attori sul palcoscenico. Nascono dall'esigenza di trovare un gruppo di interpreti in grado di muoversi sulla scena senza imbarazzo e di compiere gesti teatrali senza vergogna. Tutto ha inizio come in un'avventura sconosciuta». È proprio questo senso dell'avventura a spingere Mark Rothko (1903-1970) a esporre anche in ristoranti, grandi magazzini e chiese - oltre, naturalmente, che in gallerie e musei - e a fargli curare personalmente allestimenti in ogni minimo dettaglio. È chiaro che i dipinti non possono vivere isolati, dichiara in occasione di una mostra al Moma di New York. Essi hanno bisogno «dello sguardo di osservatori sensibili per potersi ridestare e sviluppare. Senza quello sguardo, i dipinti muoiono».
Ed ecco che, adesso, per il centenario della nascita dell'artista americano di origine russa, un buon numero delle sue opere rivivono a Basilea, San Pietroburgo e Washington. Forme rettangolari, ripetute sino all'ossessione. Campiture multicolori. Rosso sangue e rosso tenue mischiato col giallo. Blu notte e bianco impastato con l'arancione. Verde cupo e ocra contornato da grigio. Pittura delle commozione, con un potere quasi ipnotico («Chi, vedendo i miei quadri, dovesse piangere, rivivrebbe la mia stessa esperienza religiosa di quando dipingo»).
Rothko (Rothkowitz, originariamente) nasce in Lettonia, in una famiglia di ebrei. Ha una decina d'anni quando i suoi emigrano negli Usa, ma fa in tempo a vedere le crudeltà della repressione razziale: lui stesso viene colpito al viso dalla frusta d'un cosacco (gli resterà la cicatrice).
Nella sua memoria restano immagini terribili: feretri, morti, sepolture che, a sentire alcuni analisti, sublimerà proprio nei dipinti geometrici, dove i contorni nebbiosi si stemperano, man mano, in sfumature sempre più sottili, mentre le forme paiono emergere o scomparire in un sottile gioco di astrazione.
Nell'America dei primi decenni del secolo, l'Europa influenza in maniera determinante le avanguardie, soprattutto per la presenza, oltre Oceano, dei vari Breton, Léger, Ernst, Masson, Tanguy, Mondrian. La grande crisi economica degli anni Trenta diventa uno stimolo per l'arte made in Usa. Nascono vari gruppi. Rothko è tra i fondatori dei «Dieci». Il gruppo difende postcubismo e astrazione, si oppone al realismo socialista e si guarda attorno. Il che vuol dire, anche, rifarsi al Surrealismo.
Con una differenza, però: ne rifiuta letteratura e fotografia. A New York, la galleria di Peggy Guggenheim scopre i vari Pollock, Motherwell, Still, Reinhardt, lo stesso Rothko, e difende l'Espressionismo astratto (detto anche «Scuola di New York»). Mancano unità e omogeneità stilistiche. È il trionfo dell'individualismo. Inizialmente influenzato da Simbolismo e Surrealismo, il pittore lettone si confronta con l'arte primitiva e arcaica americana (legge, allora, La nascita della tragedia di Nietzsche) e ha anche una fase figurativa.
Solo dopo il 1940 trova la propria strada. È probabilmente dalle suggestioni di Mondrian che nascono le sue grandi campiture con forme irregolari e contorni spezzati che vanno, via via, semplificandosi e riordinandosi («La prima volta che ho visto alcuni dipinti di Rothko, alla Biennale di Venezia del '58, li ho qualificati come Mondrian molli», annoterà Butor). La tavolozza si assottiglia, diventa sempre più mistica e contemplativa. Colpito da enfisema polmonare, Rothko decide di farla finita. Il 25 febbraio 1970, nel suo studio sulla 69ª Strada di New York, ingerisce barbiturici e si taglia le vene.
L'«apostolo dell'angolo retto», secondo la definizione di Butor, non ha retto più.

Mark Rothko, Fondazione Beyeler, Basilea, sino al 12 aprile. Tel. 0041/61/6459700. San Pietroburgo, Museo dell'Ermitage, sino all'8 marzo. Tel. 00812/1109625. National Gallery, Washington, sino al 31 maggio. Tel. 00202/7374215.