martedì 14 giugno 2005

senza una teoria la sinistra perde
Ezio Mauro su Repubblica
e Cacciari su L'Unità

Repubblica 14.6.05
«o la sinistra trova un'identità culturale o perderà...»

(...)
Nel disorientamento degli italiani davanti alla materia del referendum, le parole della Chiesa, dei neo-con italiani, degli atei clericali hanno pesato di più delle parole di quel pezzo di sinistra che ha sostenuto il "sì", dei suoi leader, dei suoi scienziati. Il centrosinistra, tutto insieme, dovrebbe riflettere: o trova un'identità culturale, visto che è incapace di trovare quella politica, oppure perderà le grandi sfide di questa fase, che nascono tutte dalla battaglia delle idee, più che dagli schieramenti. Non si può reggere una partita in cui la sinistra parla di sé, mentre la destra parla della vita e della morte
(...)

(Il testo integrale dell'articolo di Enzo Mauro dal quale è stato estratto questo stralcio, inviato da Franco Pantalei, è stato inserito più sotto)

L'Unità 14.6.05
«La sinistra ricominci con convinzione a parlare di valori»

(...)
«Io ho criticato duramente l'atteggiamento della Chiesa: che è stato quello di non entrare nel merito. Leggi tutte le interviste che ha dato il cardinale Scola, che è un uomo molto intelligente: non affrontava mai le questioni del referendum, faceva discorsi ad amplissimo raggio, sui rapporti tra etica e scienza, discorsi generali di valori. Il messaggio era: badate, queste norme sono uno spiraglio che si apre di delirante ed ingovernabile autonomia della scienza. Noi discutevamo di una legge concreta, dall'altra parte di valori universali: molto più affascinante, ed anche più comprensibile. Quando uno ti dice: "Ma tu vuoi gli scienziati pazzi?"…»
E chi sbagliava?
«La sinistra, io credo, è troppo giuridico-determinata. Dovrebbe accettare la sfida sui rapporti etica-cultura-scienza. Non lo fa. Non lo fa perché la nostra posizione è davvero quella dell'assoluta autonomia della scienza. Quando io ho cominciato a leggere l'Unità, c'era un personaggio, te lo ricordi?, Atomino…»
Quello che risolveva tutti i problemi del mondo.
«Ecco. Noi veniamo da lì, da Atomino. È debolissimo l'atteggiamento complessivo che la sinistra ha su certi problemi. Decliniamo le posizioni in termini utilitaristici. Cosa diciamo, per difendere la legge sull'aborto, per esempio? “Ma non vuoi che una donna in quelle condizioni non possa abortire?”, “ma vuoi che non sia utile alla donna?”. Dobbiamo cambiare il tiro. Sennò rischiamo davvero che, come negli Stati Uniti, nasca un movimento contro l'aborto».
È il "pensiero debole" della sinistra?
«Lo dico da tempo, ora è sotto gli occhi di tutti. Non possiamo continuare con l'etica della responsabilità. Occorre l'etica della convinzione: ricominciare a parlare di valori».
Certo che dopo aver predicato la fine delle ideologie…
«E meno male. Ma dalle ideologie bisogna passare a sistemi di idee coerenti. Non puoi dire solo: "Io so governare". La gente lo sa già, è per questo che amministri comuni e regioni. Ma siamo a metà dell'opera».
(...)

stasera a Roma e in tv

Corriere della Sera 14.6.03
AMBRA JOVINELLI
Santoro e la serata «senzafiltro»

Questa sera alle 20.30, al Teatro Ambra Jovinelli, in via G. Pepe 31, Michele Santoro presenta «Serata Senzafiltro», una sereta evento-spettacolo alla quale partecipano Sabina Guzzanti autrice di «Reperto RaiOt» (libro e dvd editi dalla Bur SenzaFiltro), Saverio Lodato e Marco Travaglio autori di «Intoccabili» (edito dalla Bur Futuro Passato). Nel corso della serata intervengono anche Andrea Camilleri, Giuliana Sgrena, Vauro mentre saranno virtualmente presenti attraverso dei video che hanno inviato Beppe Grillo e Lilli Gruber.

L’ingresso è libero fino ad esaurimento posti.
La serata sarà trasmessa in diretta sulla tv satellitare Planet e sul circuito nazionale di emittenti Europa7.

è morto Alvaro Cunhal

Aprileonline 14.6.05
Alvaro Cunhal, è morto il leader comunista tutto d'un pezzo

Si è spento ieri, all'età di 91 anni, lo storico leader del partito comunista portoghese Alvaro Cunhal. Ne ha diffuso la notizia il suo Pcp "con profondo dolore e commozione". Armando Cossutta ha inviato nella mattinata un messaggio di cordoglio in cui ha espresso le sue più sentite condoglianze ricordando Cunhal per «Il suo impegno tenace in difesa degli ideali del comunismo, che ne fanno una figura straordinaria della storia del movimento operaio e popolare del Portogallo e su scala internazionale».
La sua attività all'interno del Pcp è durata dal 1961 al 1992. Alvaro Cunhal è stato un personaggio che ha condizionato con la sua presenza la resistenza alla dittatura di Salazar finita nel 1969 (per questo, ha scontato 11 anni di carcere). Nel 1940, mentre stava per dare la tesi di laurea in giurisprudenza, venne arrestato dalla polizia. Nella sua biografia ci sono anche una evasione e un esilio le cui tappe furono Parigi e Mosca. Rientrò in patria solo dopo la "rivoluzione dei garofari" del 1974, che fece cadere l'ultimo dittatore portoghese Marcelo Caetano.
Negli ultimi anni si era ritirato dall'attività politica, ma scriveva come sempre sotto lo pseudonimo "Manuel Tiango". Le sue posizioni tradizionalmente favorevoli all'Unione sovietica e all'ortodossia comunista erano entrate in crisi nel 1989, data della caduta del Muro di Berlino. Pablo Neruda gli dedicò un suo componimento intitolato "La làmpara marina".

brevi dal web

yahoo!salute 15 giugno 2005
Il dolore è una questione di testa
Il Pensiero Scientifico Editore

Il dolore è nella testa, si dice spesso a chi si lamenta. Non è scorretto se si pensa che tutte le sensazioni della periferia del corpo vengono inviate al cervello e lì integrate e trasformate in fame, gioia o dolore appunto. Per questo molte delle ricerche degli ultimi anni si sono concentrate sulla comprensione di come il il nostro cervello codifichi le sensazioni dolorose provenienti dal corpo.
L’ultimo numero del Journal of the American Medical Association propone, nella sezione prospettive, un articolo firmato da Tracy Hampton che ripercorre le tappe più importanti degli ultimi anni nella comprensione dei meccanismi molecolari che caratterizzano il dolore. La corteccia somatosensoriale primaria è una delle regioni dove giungono le stimolazioni dolorose e, come nei processi relativi alla memoria e all’apprendimento, è stato possibile dimostrare che l’esperienza del dolore può creare delle modificazioni nel cervello in termini di attività metabolica e di plasticità. Il cervello, in sostanza, tratta il dolore come tutte le altre informazioni che riceve e che integra.

A giudicare da queste ricerche l'obiettivo ultimo sarebbe, conoscendo le singole tappe, quello di controllare il dolore magari con cure personalizzate. Una cura specifica per ciascun malato: questa è la promessa più frequente e gettonata della medicina di oggi. La promessa ha un suo fondamento: conoscere le differenze tra individui è fondamentale, per esempio, nella scelta delle terapie per aumentarne l’efficacia.

Ma conoscere il genoma di un individuo o capire come sia strutturata la sua rete neuronale può davvero bastare per curare qualcuno? La sofferenza o la salute sono solo un fatto organico che migliora o peggiora eslcusivamente a seconda del funzionamento di un singolo o un gruppo di geni? Difficile rispondere, certo è che a volte si ha l’impressione che la medicina di oggi abbia più attenzione per la malattia che per il malato.

Fonte.Hampton T. Pain and the brain: researchers focus on tackling pain memories. JAMA

ilmessaggero.it 15 giugno 2005
Malcolm e l’occhio di Kubrick
«Quella pupilla spalancata, un inferno. Stanley era disumano»
FABIO FERZETTI

TAORMINA - Sullo schermo ha fatto di tutto, talvolta buttandosi un po’ via come càpita ai migliori, ma per tutti è sempre l’Alex di Arancia meccanica . Eppure quel personaggio rimastogli addosso come una seconda pelle non è solo opera sua e del genio di Stanley Kubrick. Nossignori, Alex il “drugo” strafatto di Beethoven e di ultraviolenza, Alex lo stupratore ricondizionato per diventare inoffensivo, ha almeno un terzo padre: il grande e semidimenticato Lindsay Anderson, il regista di Se... e di O Lucky Man! , due fra i migliori dei molti film girati da Malcolm McDowell.
Lo racconta lo stesso attore, zazzera candida e bimbetto di 14 mesi al seguito, un incredibile clone in miniatura che del padre ha i capelli ritti (ma rossi!) e il ghigno irresistibile. Quando Kubrick lo scelse come protagonista, McDowell veniva infatti dal successo strepitoso di Se... , storia di rivolta in un college datata 1968 e imparata a memoria dai ribelli di mezzo mondo. Così l’attore portò al suo scopritore il copione, strappato a Kubrick con mille giuramenti di segretezza. E fu Anderson, ammirato e quasi intimorito, a suggerirgli le chiavi per dare vita ad Alex.
«Lindsay era un umanista innamorato di tutti i suoi attori», ricorda McDowell, «un gay represso perché figlio di un generale, ma straordinariamente generoso. Kubrick invece era un satiro, non gli interessavi come persona ma per ciò che potevi dargli, non diceva mai cosa voleva, stava a te trovare la soluzione. Fu Anderson a farmi entrare nel ruolo e a suggerirmi l’eterno sorriso della prima scena, quel personaggio reale ma non realistico è anche un po’ suo, quando morì mi scoprii così legato a lui da riaprire i miei vecchi diari per capirlo meglio. Mentre Kubrick umanamente fu una mezza delusione. Ero molto giovane allora, non pensavo che dopo tante incredibili settimane insieme sarebbe sparito. Invece andò proprio così. Però sapeva cosa voleva e non si fermava davanti a niente».
E qui McDowell rievoca la famigerata scena degli occhi spalancati a forza, girata senza trucco e senza inganno, solo una blanda anestesia per reggere il dolore mentre il medico, un medico vero, ripeteva e ripeteva la sua battuta senza azzeccarla mai, facendo urlare di disperazione il povero attore con i divaricatori sotto le palpebre. «Alla fine ero così esausto che chiesi una settimana di stop. Perché una, fece Stanley, prendine due, ma non abbiamo finito. Infatti due mesi dopo si ricordò dell’inquadratura e ricominciammo con gli occhi sbarrati... Un inferno!».
Naturalmente Arancia meccanica non fu l’unico ruolo difficile. «Anche il mostro di Rostov è stato un osso duro: fare un pazzo cannibale stupratore di bambini non è uno scherzo, pure io ho i miei tabù, sul set di Caligola mi rifiutai di girare la violenza su un bambino anche se Tinto Brass mi dava del puritano e il produttore Franco Rossellini mi diceva di aver visto ben altro nei privé di New York. Le sfide mi piacciono, ma il russo cannibale di Evilenko mi gettò nella depressione finché non trovai la sua verità, capii che una volta tanto dovevo costruirlo dall’esterno, non dall’interno, e riuscii ad “amare” anche lui».
Tanto che ora McDowell si prepara a girare un altro film con David Grieco, titolo provvisorio Secret Loves , cast internazionale e storia più che torbida con uno psicanalista forse innamorato della figliastra. Si gira a Casablanca, intanto l’attore cresciuto nella Liverpool dei Beatles («Andavo ad ascoltarli al Cavern quando non c’era ancora Ringo»), città cosmopolita e ricca di uno humour tutto suo, pensa alla sua autobiografia. Titolo: O Lucky Man! , naturalmente, perché questo si ritiene anzitutto McDowell. Un uomo fortunato.

laprovinciadicomo.it 15 giugno 2005
Quattro dottori accusati di errata diagnosi
il Pm chiede la condanna «Sbagliarono: 8 mesi ai medici»


ERBA Rischiano otto mesi di reclusione, quanti ne ha chiesto il Pm Vanessa Ragazzi, più il pagamento delle spese legali, e un risarcimento «congruo», come lo ha definito l'avvocato di parte civile Edoardo Pacia, quattro medici comaschi: Guido Giovanni Benini, neuropsichiatra al Sant'Anna di Como, Marco Brenna, dell'ospedale Fatebenefratelli di Erba; il neurologo Franco Maria Di Palma, del Sant'Anna di Como; lo psichiatra Mariano Sergio Tomaselli, primario alla villa San Benedetto di Albese con Cassano. Finiti sotto processo ieri a Erba con l'accusa di non avere riconosciuto che quello che colpì Maria Teresa Tramacere, 48 anni di Lipomo, nel 1998 non era una forte depressione, che le impediva di parlare causandole uno stato di afasia, bensì un'ischemia cerebrale. Un dramma doppio quello vissuto dalla signora Tramacere, che il 6 luglio 1998, in un incidente stradale in provincia di Parma perse la figlia, e un paio di giorni dopo l'uso della parola, colpita da un ictus che dai medici ora finiti sotto accusa per lesioni personali colpose, sarebbe stato riconosciuto e curato come un disturbo di natura psichica e non organica. «Il sintomo più allarmante, l'afasia, è stato sottovalutato – hanno ricostruito nella loro deposizione il professor Antonio De Santis, professore associato alla cattedra di Neurochirurgia dell'università degli studi di Milano e il dottor Michele Dufour, dell'istituto di medicina legale della clinica Mangiagalli di Milano, consulenti tecnici nominati dal giudice Giuseppe Vanore – la signora aveva riportato un trauma cranico in seguito all'incidente in cui era morta la figlia, di sicuro i suoi sintomi potevano dare luogo a più diagnosi diverse tra di loro; resta da capire come mai i medici abbiamo deciso di scartare a priori l'ipotesi dell'ischemia grave, che tra l'altro anche a livello patologico meritava più attenzione, per la nevrosi. Sarebbero bastati dei semplici esami, una nuova Tac ad esempio, rispetto a quella disposta a Parma subito dopo l'incidente, per avere un quadro clinico chiaro». Queste le ragioni della responsabilità penale per i quattro medici coinvolti i quali, secondo il Pm Ragazzi, sono da ritenere responsabili anche per aver ritardato, con la cura errata e l'utilizzo massiccio di antidepressivi e antipsicotici, il normale decorso della ischemia che aveva colpito la donna. In aula ieri a difendere uno degli imputati, il dottor Benini, anche l'onorevole Gaetano Pecorella, l'avvocato di Silvio Berlusconi, che ha chiesto l'assoluzione del suo assistito facendo valere il fatto che, dal quadro clinico all'epoca presentato, l'unica conclusione che uno psichiatra avrebbe potuto trarne era una grave forma di depressione. Il giudice ha aggiornato l'udienza al 12 luglio.

ilmanifesto.it 14 giugno 2005
Piazza Fontana, il baratto oscuro del silenzio
Torna in libreria, edito da Selene, Il segreto della Repubblica del giornalista Fulvio Bellini, pubblicato nel '78 e subito sparito. Una ricostruzione scomoda, basata sulle fonti dell'intelligence britannica
GIORGIO BOATTI

C'è stata davvero, in quel martedì 23 dicembre 1969, la riunione al Quirinale che ha sancito l'infrangibile patto al silenzio, stretto tra Moro e Saragat, attorno alla strage di Piazza Fontana avvenuta il venerdì di due settimane prima? Un patto, anzi un baratto, dove l'imperseguibilità dei responsabili dell'attentato - sedici morti e la storia di un paese dirottata verso gli anni di piombo - veniva permutata, in nome del ritorno alla normalità democratica, con la rinuncia alla proclamazione dello stato d'emergenza patrocinata dal «partito americano» che s'innervava dal Quirinale, a parte della Dc, sino ad alcuni settori degli apparati militari. Per Fulvio Bellini, giornalista legato sin dai tempi della lotta di Resistenza all'intelligence inglese, il baratto - di fatto un accordo di minacciosa e reciproca tregua fra due schieramenti quanto mai opposti - c'è stato. E Bellini lo afferma non da oggi. Secondo la sua ricostruzione, affidata al libro Il segreto della Repubblica. La verità politica sulla strage di Piazza Fontana, che dopo più di un quarto di secolo ritorna in libreria, edito da Selene (pp. 182, euro 13), il copione della strage, attuata dalla cellula neonazista padovana, doveva essere il prologo di una svolta politica autoritaria. Un diktat in sintonia con la determinazione, espressa dal presidente della Repubblica Saragat all'inizio di quel 1969, durante la visita di stato a Roma di Nixon e Kissinger, di opporre una barriera invalicabile all'offensiva della contestazione operaia e studentesca.

Gli stragisti erano convinti di poter provocare, con il massacro milanese, misure eccezionali per l'ordine pubblico, sino alla sospensione delle garanzie costituzionali, che il presidente del consiglio Rumor, su sollecitazione della presidenza della Repubblica, avrebbe dovuto adottare a partire dalle ore successive alla strage. Bellini spiega nel suo libro - costruito su fonti dell'intelligence inglese, già ampiamente conosciute ma forse pigramente sottovalutate nel parossistico svolgersi dei fatti di quel dicembre 1969 e nelle infuocate polemiche che ebbero luogo negli anni seguenti - come Moro, appoggiato non solo dalle sinistre democristiane ma anche da un Andreotti schierato con decisione al suo fianco, rifiutasse ogni scenario di radicalizzazione. Come quello dell'ipotesi di elezioni anticipate avanzato da Saragat e dalle correnti che, all'interno della maggioranza Dc, si riconoscevano in Rumor.

Favorevole al rilancio del centrosinistra e alla strategia dell'attenzione verso il Pci, Moro era certamente consapevole dell'angoscioso ingranaggio a orologeria introdotto da queste posizioni all'interno del delicatissimo equilibrio politico italiano, e avvertiva il procedere di un meccanismo scandito non solo dalla radicalizzazione dello scontro sociale ma anche, sempre più esplicitamente, dall'inserimento - da parte della catena di comando che si ispirava al «partito della destabilizzazione» - della variabile degli attentati. Bombe che erano passate, nel giro di pochi mesi, da quelle «simboliche» di Padova e Milano a quelle ben più devastanti sui treni, dell'agosto del 1969. E che nel dicembre toccarono il loro tragico approdo con l'ordigno alla Banca Nazionale dell'Agricoltura.

Chiave di volta - troppo ignorata forse in molte ricostruzioni successive - fu il duro dibattito che all'interno del consiglio nazionale della Dc, si tenne nelle settimane precedenti quel 12 dicembre e che aveva contrapposto la maggioranza che faceva capo a Rumor al variegato schieramento che aveva il suo punto di riferimento in Moro. Qualcuno, in Italia e fuori, aveva ritenuto di poter contare sul fatto che Rumor, come presidente del consiglio, davanti al progressivo dilagare della violenza, non avrebbe potuto sottrarsi all'intimazione di sospendere la Costituzione e, dunque, di avviare il Paese verso una sorta di «golpe bianco».

Le ore decisive dovevano essere quelle successive alla strage quando, all'aprirsi della nuova settimana, mentre attraverso un orchestrato cancan mediatico doveva essere individuato nell'anarchico Valpreda il presunto responsabile della strage, altri eventi erano in programma. In particolare, in prossimità dei funerali delle vittime, tenuti nel Duomo di Milano, si sarebbe dovuta scatenare la piazza di destra, affiancata da organizzazioni paramilitari, contro le formazioni giovanili e le organizzazioni politiche e sindacali della sinistra. Non fu così, perché la Milano democratica e antifascista rispose con corale, impressionante compostezza. Secondo Bellini Rumor si sottrasse, non senza difficoltà, alle pressioni di Saragat di promulgare, sin da sabato 13 dicembre, le leggi speciali. Il presidente del consiglio prima addusse la volontà di essere presente ai funerali milanesi, e quindi, vista l'inequivocabile risposta della metropoli lombarda, tornò a Roma sempre meno convinto - ammesso e non concesso lo fosse mai stato - dell'ipotesi di varare lo stato d'emergenza.

Per giorni, tra i palazzi romani, si svolse un durissimo braccio di ferro e, alla fine, sostiene Bellini, si arrivò al compromesso del 23 dicembre, stretto tra Saragat e Moro: il primo avrebbe rinunciato alla svolta autoritaria, compresa l'ipotesi di scioglimento delle Camere e di ritorno al centrismo. Ma, in cambio, le componenti democristiane legate a Moro e a Andreotti, si adattarono a tacitare le voci e le prove sempre più nette (avanzate dall'Arma, dal nucleo di polizia giudiziaria dei carabinieri di Roma e da un memoriale dello stesso Sid) sulla matrice fascista della strage, accettando invece di mollare le briglie all'Ufficio Affari Riservati dell Ministero dell'Interno affinché, in sintonia con i copioni messi in scena tra Milano e Roma, continuasse la rappresentazione della colpevolezza degli anarchici, tra i quali, oltre al gruppo arrestato attorno a Valpreda, si era anche registrata la morte traumatica del ferroviere Pinelli, trattenuto illegalmente presso la questura di Milano. Un patto al silenzio di cui in qualche misura fu reso edotto, secondo Bellini, anche il vertice del Pci. Tutto questo scenario deve essere risultato scomodo a molti. Rendeva difficile, anche per l'opposizione, tracciare una linea netta delle responsabilità maturate all'interno del Palazzo che, in realtà, risultava ben più frammentato e contrapposto di quanto si pensasse.

Bellini aveva già raccontato tutto questo sul finire del 1978, proprio all'indomani dall'assassinio di Moro, in un'edizione di questo libro apparsa presso uno sconosciuto marchio editoriale milanese, Flan, che celava l'identità dell'autore sotto il nom de plume di Walter Rubini. Per la verità le edizioni Flan avevano, in precedenza, pubblicato assai pochi libri. Erano nate, nel 1970, per portare alla luce un volume piuttosto scomodo e ormai del tutto introvabile, anche se era servito da canovaccio a un film di successo, Il caso Mattei di Francesco Rosi: quel primo libro, scritto sempre da Fulvio Bellini, assieme ad Alessandro Previdi, era intitolato appunto L'assassinio di Enrico Mattei. Un'eliminazione, quella del presidente dell'Eni, addebitata esplicitamente dagli autori a una pianificazione che avrebbe saldato spezzoni della «razza padrona» italiana a diramazioni degli apparati spionistico-mafiosi d'oltre Atlantico. Anche questo libro, come quello del 1978, praticamente sparì subito dalle librerie, se mai ci arrivò. E nessuno ne parlò. Due libri, dunque, apparentemente minori e tuttavia in qualche modo significativi, non solo per le tesi che avanzano ma per le modalità editoriali con cui vennero alla luce.

In quest'ultima edizione de Il segreto della Repubblica il prefatore Paolo Cucchiarelli e uno dei figli di Bellini, Gianfranco - fratello di quell'Andrea Bellini di cui Marco Philophat ha narrato le gesta ne La banda Bellini (Shake edizioni) - si affiancano all'autore e lo aiutano a meglio inquadrare il tutto. Emerge così come questo libro, nella sua uscita del 1978, dovesse essere pubblicato non presso un marchio editoriale sconosciuto ma dalla Feltrinelli, che aveva già pagato un anticipo. E questo per espliciti accordi presi con Gian Piero Brega, direttore della casa editrice di via Andegari dopo la scomparsa di Gian Giacomo. Poi, con i fatti di via Fani e l'uccisione di Moro, si ritenne invece che ci fossero ragioni per dare al testo, e alle tesi assai scomode di Bellini, un altro destino. E a Flan, sconosciuto marchio editoriale, si affidò il «segreto della Repubblica».


APCOM 14.6.05

REFERENDUM
RONCONI: ORA BISOGNA ADEGUARE LA LEGGE SULL'ABORTO

Gli italiani non sono più quelli che approvarono la 194

Roma, 14 giu. (Apcom) - "Dopo il fallimento del referendum ora bisogna adeguare la 194", ossia la legge sull'aborto. Ne è convinto il senatore Udc, Maurizio Ronconi, che suggerisce di "esaltare la prevenzione e l'educazione piuttosto che l'interruzione della gravidanza".
Per il senatore centrista "i tempi sono cambiati" e "gli italiani non sono più quelli che approvarono la la 194; sono maturati, hanno dimostrato una nuova capacità di riflessione e una sensibilità diversa rispetto al passato e di questo il Parlamento dovrà tenerne conto".

corriere.it 14 giugno 2005
Verso un cura per alcune malattie degenerative come il Parkinson
Usa: moltiplicate cellule staminali cerebrali
Per la prima volta dei ricercatori dell'Università della Florida sono riuscita a far sviluppare dei neuroni umani da reimpiantare

MIAMI (USA) - Un nuovo passo avanti nella ricerca di una terapia per malattie ora incurabili. Scienziati dell'Università della Florida hanno infatti annunciato di aver trovato un modo per individuare cellule staminali nel cervello e moltiplicarle. La scoperta potrebbe aprire la strada a nuove terapie nella lotta a malattie degenerative, come il Parkinson.
L'ESPERIMENTO - I ricercatori, che hanno condotto esperimenti sui topi, hanno studiato le staminali, cellule-madri che si trovano in tutti i tessuti, ma che sono difficili da identificare. In teoria, una volta isolate e coltivate sotto le giuste condizioni, esse possono dar vita a tipologie del tessuto desiderato. Le cellule staminali adulte possono provenire dal paziente stesso, senza dover ricorrere ai donatori. «Abbiamo usato un microscopio speciale - ha detto Dennis Steindler, che ha lavorato allo studio dell'Università della Florida - che ci permette di vedere le cellule vivere per lunghi periodi di tempo, per cui abbiamo effettivamente constatato che le staminali danno vita a nuovi neuroni. Probabilmente un metodo diverso potrebbe riuscire a individuare la madre di tutte le cellule staminali, noi siamo fiduciosi».
PRODUZIONE CELLULARE - I ricercatori hanno anche spiegato in modo in cui queste cellule vengono moltiplicate. «È come una catena di montaggio per fabbricare e accrescere il numero di cellule cerebrali», ha detto Bjorn Scheffler, un neuroscienziato dell'Università della Florida. «Possiamo prendere queste cellule e congelarle fino a quando ne avremo bisogno. Poi possiamo scongelarle, dare il via a un processo di generazione delle cellule, e produrre una tonnellata di nuovi neuroni».

ilmessaggero.it 14 giugno 2005
Festival di Shanghai
“Ora e per sempre”
Con il grande schermo l’Italia è vicina alla Cina

dal nostro inviato GLORIA SATTA

SHANGHAI - Bisognava venire fino in Cina per rendersi conto che esiste un cinema italiano snobbato in patria ma capace di farsi onore nel mondo. Ci volevano gli applausi di una platea dagli occhi a mandorla, l’assedio dei giornalisti locali e l’interesse dei distributori per capire che, malgrado la crisi, non dobbiamo perdere le speranze. La prova? Il successo che ha accolto all’ottavo festival di Shanghai Ora e per sempre di Vincenzo Verdecchi, unico film italiano in gara mentre altri quattro ( Fame chimica di Vari e Bocola, L’estate di mio fratello di Reggiani, Tredici a tavola di Oldoini e L’iguana di McGilvray) partecipano fuori concorso a questa rassegna che richiama pubblico e addetti ai lavori da tutta l’Asia. All’ombra dei grattacieli che di mese in mese si moltiplicano come funghi, Ora e per sempre ha colpito al cuore Shanghai, la metropoli-laboratorio della Cina che cambia. E’ un film atipico: con garbo e sentimento (e gli ottimi interpreti Gioele Dix, Dino Abbrescia, Giorgio Albertazzi, Luciano Scarpa, Kasia Smutniak) racconta una storia sospesa tra passato e presente che parte da un capitolo indelebile della storia italiana (l’incidente aereo che nel ’49 a Superga sterminò la gloriosa squadra del Torino) per parlare del valore della memoria, dell’identità nazionale, dei rapporti tra generazioni, della passione per il calcio intesa come metafora della vita. E pensare, racconta il produttore Alessandro Verdecchi, fratello del regista, «che in Italia nessuno lo voleva: così tre mesi fa mi sono distribuito il film da solo, sfidando i grandi gruppi e i kolossal Usa. Malgrado le buone critiche, è stato smontato subito. E’ dura la vita dell’indipendente...». Alla fine della proiezione, lo sceneggiatore Carmelo Pennisi (lo stesso del Karol Wojtyla tv) si ritrova tra le mani il biglietto da visita di un paio di produttori cinesi, che sollecitano proposte. Alla conferenza stampa, fioccano le domande: i giornalisti vogliono sapere cos’è stata la guerra, che significa l’amore per una squadra, il rapporto con il passato. Abbrescia rivela: «Non sono mai stato un tifoso, ma sul set ho capito la passione per il calcio». Verdecchi si rivolge ai cinesi: «Voi che avete una grande storia alle spalle, sapete quanto è importante il passato per costruire il futuro».
Adriana Chiesa, neo-amministratore delegato di Filmitalia, guida la delegazione tricolore a Shanghai. E’ soddisfatta: «Il successo qui di Ora e per sempre è la prosecuzione del cammino iniziato a Tokyo, dove il nostro cinema ha avuto un’accoglienza straordinaria». «Bisogna puntare sempre più sui mercati d’Oriente», dice il presidente della società, Giovanni Galoppi. Ieri sera, mentre Verdecchi e gli altri festeggiavano, il film è stato comprato dalla tv cinese.

ilmessaggero.it 14 giugno 2005
Payami: «Il mio film “contro”, per combattere le censure»
di ROBERTA BOTTARI

ROMA - Mentre noi parliamo di censura, il film in questione, Silenzio tra due pensieri di Babak Payami, non è stato vietato ai minori: è stato proprio sequestrato, dal governo iraniano. Il regista è stato arrestato e costretto a fuggire dal paese mediorientale. «Ancora oggi - afferma Babak Payami - nessuno mi ha comunicato ufficialmente le ragioni del sequestro dell’originale e, quando ho chiesto chi mi interrogava se aveva visto il mio film, ha risposto che non ce n’era bisogno...». Silenzio tra due pensieri arriva finalmente in Italia, grazie all’Istituto Luce, che lo distribuisce in una quindicina di copie da venerdì. Presentato 2 anni fa alla Mostra di Venezia, si tratta del terzo film del cineasta, dopo One more day e Il voto è segreto . Il negativo è ancora in mano alle autorità locali, quello che vediamo dunque è ciò che il regista era riuscito a mettere in salvo prima del sequestro. Ogni volta che lo vede, Payami, viene colto da violenti mal di stomaco: «Non è il mio film, è quel che resta. Ma serve a far conoscere una realtà». Il film racconta la storia di una donna che viene risparmiata da un’esecuzione, perché vergine. Secondo una credenza, le vergini, se muoiono, vanno in Paradiso. E i killer non la vogliono solo morta: la vogliono anche dannata. Si pone così un bel problema. Per risolverlo, il leader spirituale costringe il boia a sposare la ragazza affinché, consumato il matrimonio, si possa finalmente procedere con l’esecuzione. Ma l’uomo, difronte alla vittima-moglie, precipita nel dubbio. «Il silenzio del titolo - spiega il regista - è il momento in cui un individuo, o un’intera società, si risveglia da una convinzione cieca. Questo mio film è un viaggio nell’indecisione. Non parla di religione, ma di come questa può essere utilizzata per ingannare la gente: non mi stupisce che in Iran non lo abbiano gradito. Ma queste forme di repressioni sono inutili. L’ho detto anche a chi mi ha interrogato: prendetevi questo film e io ne girerò un altro, arrestatemi e un altro regista lo farà al posto mio. Comunque vada, sarò io a vincere questa battaglia».

helpconsumatori.it 13 giugno 2005
Somministrazione psicofarmaci a minori:
a Roma medici e politici contro reintroduzione Ritalin


Si è tenuto oggi dalle ore 10 il Convegno finale "Diversamente vivaci. Il disagio dei bambini e la sindrome da iperattività tra invenzione nosografica e realtà biologica" promosso dall'On. Tiziana Biolghini, Consigliere Delegato alle Politiche dell'Handicap della Provincia di Roma.
Il convegno ha affrontato un tema attuale ed ha rappresentato un momento di dibattito e sensibilizzazione sul diritto alla salute dei bambini per favorire una corretta informazione sull'abuso nella somministrazione di psicofarmaci a bambini ed adolescenti.

Un decreto ministeriale del 22 luglio 2003 ha inspiegabilmente trasformato il Ritalin da sostanza stupefacente a psicofarmaco prescrivibile a bambini ed adolescenti affetti dalla cosiddetta sindrome Adhd (disturbo da deficit da attenzione e iperattività) sulla cui reale esistenza la comunità scientifica mondiale resta divisa. Un'anfetamina con oltre 2900 effetti collaterali che crea dipendenza nei soli Stati Uniti a più di 8 milioni di bambini, destinata a curare una malattia sulla cui reale esistenza la comunità scientifica resta divisa. Nel corso del convegno il Professor Luigi Cancrini (Direttore dell'Istituto terapie familiari) ha sottolineato che "il disturbo del bambino, affetto dalla cosiddetta sindrome da iperattività, va sempre esplorato in rapporto al contesto in cui si determina. Il bambino segnala con i suoi sintomi un disagio interpersonale che va conosciuto ed al quale va posto rimedio". Il prof. Cancrini ha inoltre affermato che "i bambini cosiddetti iperattivi hanno bisogno di orecchie che ascoltano e non di terapie farmacologiche che inibiscono la capacità di esprimere il disagio e che vengono vissute come un invio a nascondere il proprio disagio ed a tacere. Il bambino non ha abbastanza forza per far sentire la propria voce". "l'assistenza ai minori - ha concluso Cancrini - richiede forti investimenti socio-sanitari ed una cooperazione tra gli attori coinvolti".

Il Farmacologo Giuseppe Dimito ha dichiarato che tra gli effetti del Metilfenidato (molecola del Ritalin) una vera e propria sostanza stupefacente ci sono sintomi gravissimi tra cui: "aumento della frequenza cardiaca, rilasciamento della mucosa bronchiale ed intestinale, dipendenza dal farmaco con necessità di dosi sempre più elevate ed aumento proporzionale di gravi danni a reni, cuore e cervello. La sospensione dl Ritalin ha effetti ancora più gravi, tra questi: depressione psichica, ottundimento, abulia e profonda depressione.

L'Onorevole Biolghini ha concluso i lavori del convegno affermando la necessità di " creare un coordinamento di associazioni, enti, operatori scolastici e famiglie che siano in grado di vigilare sulla reintroduzione di un farmaco tanto pericoloso. Sedare i bambini con uno psicofarmaco-droga come il Ritalin significa rinunciare ad ascoltare il legittimo disagio dei bambini e zittirlo con una pillola." "Noi - ha concluso Tiziana Biolghini- non rinunceremo mai a vedere tutti i bambini, nessuno escluso, come una vita in crescita piena di possibilità che non devono e non possono essere frustrate. Ai nostri bambini dobbiamo dare ali per volare e non farmaci per dormire."

storia della psicologia
Intelligenza e Q.I.

Il Giornale di Brescia 14.6.05
Cent’anni fa fu ideata la scala per valutare le facoltà intellettive
L’INTELLIGENZA A GRADINI
Michela De Santis

Che cos’è l’intelligenza, e che rapporti ha col sentimento? Essa s’identifica con la capacità tecnica o con la creatività artistica, con la facoltà di ricordare o con quella di innovare, con la razionalità o con l’immaginazione? Sin dai tempi di Platone pensatori e scienziati si sono posti simili domande, oggi tornate d’attualità grazie anche alla comparsa di discipline come l’intelligenza artificiale, che si propone di «insegnare» alle macchine a comportarsi in maniera, appunto, intelligente, o la filosofia della mente, che studia la natura delle funzioni mentali nel loro rapporto con corpo, anima e coscienza. Il primo che diede una risposta formale a questi interrogativi fu però Alfred Binet, lo psicopedagogo francese che nel 1905 inventò, insieme a Théodore Simon, la scala detta «Binet-Simon», o scala d’intelligenza. A questo traguardo Binet arrivò seguendo un percorso insolito, prendendo prima una laurea in diritto e poi studiando scienze alla Sorbona di Parigi; e solo nel 1883 decise di dedicarsi alla psicologia, quando cominciò a lavorare alla Salpêtrière di Parigi al fianco di Jean-Martin Charcot, che in quegli anni sperimentava le sue teorie sull’ipnosi. Binet fu molto colpito da quelle pratiche da lui definite di «psicologia morbida», ma ben presto fu chiaro che esse non avrebbero mai ottenuto l’avallo della comunità scientifica, e questo lo spinse a dirottare in altre direzioni i suoi studi, e in particolare verso la psicologia dello sviluppo che iniziò ad approfondire soprattutto dopo la nascita delle sue due figlie, Madeleine e Alice, nate rispettivamente nel 1885 e nel 1887. Le due povere bambine non potevano immaginare che le continue prove di memoria, di attenzione e di immaginazione cui il padre le sottopose per anni sarebbero servite per dare alla luce una teoria psicologica pregna di conseguenze. Le differenze che Binet notò tra le due figlie - l’una dotata di spiccate capacità logiche ma di scarsi immaginazione e interesse per il mondo esterno, l’altra invece di una fervida immaginazione ma poco capace di articolare ragionamenti rigorosi e tendente a chiudersi in un proprio mondo interiore - lo spinsero ad ampliare le sue ricerche a un campione più largo, per trovare una ragione delle diverse qualità intellettuali che distinguono una persona dall’altra. A questo fine nel 1889 aprì un laboratorio di psicologia sperimentale in una scuola parigina, dove ebbe modo di elaborare una teoria dei «tipi» psicologici fondata sulla dicotomia fondamentale tra il tipo «soggettivo» e quello «oggettivo», che più tardi avrebbe influenzato anche Carl Gustav Jung. Fu così che Binet, che nel frattempo aveva dato alle stampe opere come Le alterazioni della personalità e Introduzione alla psicologia sperimentale e fondato la prima rivista francese di psicologia, L’Année psychologique, si fece un nome nell’ambiente accademico ed entrò nella commissione che nel 1904 fu incaricata dal governo di mettere a punto un metodo per distinguere i ragazzi meno dotati da quelli che rientravano nella media, al fine di istituire delle scuole speciali per i più limitati. A quell’epoca Binet aveva tra i suoi allievi nel laboratorio di pedagogia un giovane dottorando, Théodore Simon, e fu con lui che, nel 1905, mise a punto la scala oggi nota come la «Binet-Simon». Essa era composta da trenta compiti di crescente difficoltà, corrispondenti alle capacità tipiche di ogni età. I più facili consistevano nel seguire un segnale luminoso o nello stringere la mano dell’esaminatore; quindi si richiedeva ai ragazzi di nominare parti del corpo, ripetere frasi o serie di tre cifre, comparare coppie di oggetti, riprodurre disegni a memoria, costruire proposizioni a partire da determinate parole. Sulla base di questi test Binet sviluppò il concetto di «età mentale», per cui un bambino era dotato di un’intelligenza corrispondente ai tre anni se riusciva a risolvere la metà dei test sottoposti ai bambini di quell’età, di quattro anni se superava almeno la metà delle prove pensate per la sua età, e così via. L’entità di un eventuale ritardo mentale era misurata utilizzando la differenza tra l’età mentale del bambino e quella cronologica. Questo metodo, però, era poco preciso, perché non dava conto dell’effettiva entità del ritardo, che poteva essere più o meno grave a seconda dell’età del ragazzo: un ritardo di due anni in un bambino di cinque, ad esempio, indica un limite intellettivo più serio dello stesso ritardo osservato in un quattordicenne. Dopo la morte di Binet, avvenuta a Parigi nel 1911, quel problema fu superato usando, invece della differenza, il rapporto tra l’età mentale e l’età cronologica. È questo rapporto che, moltiplicato per cento, viene comunemente chiamato QI, quoziente d’intelligenza. Oggi tale quoziente, insieme alla scala «Binet-Simon» e alle sue successive elaborazioni, è usato dagli psicologi di tutto il mondo per valutare le facoltà dei loro pazienti, dai datori di lavoro per la selezione del personale, dalle forze armate per stabilire se gli aspiranti allievi siano adatti alla vita militare. In un’epoca in cui i filosofi parlano di «intelligenze multiple» o «intelligenze collettive» non mancano i detrattori di una teoria che pretende di ridurre la più complessa delle facoltà umane a un mero valore numerico. E tuttavia questo principio è alla base di alcune frontiere della scienza contemporanea, dalla già citata Intelligenza Artificiale alle ricerche sulle reti neurali. Binet stesso era consapevole dei limiti della sua teoria. Sapeva bene che esistevano diversi tipi d’intelligenza - che egli definì genericamente come la facoltà di giudizio, detta anche «buon senso, senso pratico, capacità d’iniziativa o di adattarsi alle circostanze», - e che dopo aver individuato una scala capace di compararli dal punto di vista quantitativo, sarebbe stato necessario anche elaborare un criterio di classificazione di stampo qualitativo. Sapeva anche che l’efficacia del suo strumento variava a seconda delle culture, e che esso poteva prestarsi ad avallare teorie che con la scienza non avevano nulla a che fare. L’americano Henry Goddard, ad esempio, si servì della scala di Binet per dimostrare come la maggior parte degli ebrei, degli ungheresi e degli italiani fossero «deboli di mente», offrendo un argomento alle campagne dei conservatori per la limitazione dell’immigrazione negli Stati Uniti. Per non parlare del modo in cui la scala d’intelligenza, insieme a pseudoscienze come la frenologia e la fisiognomica, fu usata dai nazisti per fondare lo sterminio degli ebrei e degli zingari. Conseguenze che Binet non ebbe modo di vedere, ma che doveva aver previsto, dal momento che aveva affermato: «La scala metrica non è strumento che può essere messo nelle mani di un imbecille».

Gabriel Levi sulla depressione post-partum

La Stampa 14 Giugno 2005
LA DEPRESSIONE DEL «DOPO PARTO»
MADRI ASSASSINE
VACCINO PSICOLOGICO

Gabriel Levi
Ordinario di Neuropsichiatria Infantile alla Sapienza di Roma

UNA donna uccide il proprio bambino entro poche ore dopo il parto gettandolo in un bidone di spazzatura. Non voleva avere e tenere un figlio. Ci si chiede perché non è ricorsa, nei tempi utili, all'interruzione di gravidanza. Si invoca una comprensione psicologica della sua situazione, ma non si parla di malattia mentale.Un uomo uccide il proprio bambino Si ricostruisce una storia di abusi e maltrattamenti, spesso anche verso la madre del bambino. Altre volte emerge un conflitto coniugale e l'infanticidio risulta collegato con un gesto di vendetta. Si parla di un modello maschile-padronale fallito. Non si parla di malattia mentale.
Una donna uccide il figlio entro i primi anni di vita. All'improvviso, dopo un periodo di cure che sembrano affettuose. Qualche volta si individua una situazione di solitudine. Qualche volta non si trova un bel niente. L'opinione pubblica si divide: gli innocentisti sostengono che un figlicidio senza storia è impossibile e quindi non è stata la madre; i colpevolisti sostengono che è stata la madre, anche se non se ne capiscono i motivi. In ambedue i gruppi, affiora spesso l'ipotesi della malattia mentale. Primo argomento: una madre può uccidere il figlio soltanto se non sa quello che fa. Secondo argomento: moltissime donne sono depresse dopo il parto e questa lo è stata molto di più, ma nessuno se ne è accorto.
Su quest'ultima discussione vorrei tentare un approfondimento, in una prospettiva che consenta qualche differenziazione. Altrimenti per assolvere la donna di cui si discute, demonizziamo tutti i malati di mente. Oppure spaventiamo tutte le puerpere, incupendo il significato delle loro comuni preoccupazioni.
Possibile che dopo il parto tutte le donne siano in odore di pazzia? Possibile che non esista un salto di qualità tra la crisi esistenziale del dopo parto e la caduta nell'infanticidio?
Le risposte non possono essere esaurienti, ma almeno indicative.
Il periodo del dopo parto raccoglie molte fantasie, speranze e paure delle donne: 1) il desiderio di far nascere un bambino ideale e la paura di partorire un bambino difettoso; 2) il desiderio di essere una mamma bravissima e la paura di non esserne capace, perché inesperta e stanca; 3) il desiderio di conciliare maternità, sessualità e obiettivi di vita e la paura di dover rinunciare ad una parte di se stessa.
Immediatamente dopo il parto queste speranze e queste paure si fondono con la nuova necessità di trovare rapidamente un ritmo comune con il figlio. Le preoccupazioni del dopo parto hanno una base biologica piuttosto simile a quella dell'innamoramento. E' molto difficile che una semplice accentuazione di questo quadro si ritrovi in una infanticida. Al contrario (anche quando il quadro è accentuato) l'elaborazione di queste paure può essere persino un «vaccino psicologico» contro successivi problemi.
Le situazioni molto diverse sono quelle della psicosi post partum e quella dell'infanticidio improvviso, dove esiste un cambio del nucleo problematico.
Nella psicosi post partum, che insorge nelle prime quattro - sei settimane, la donna si sente minacciata nel suo ruolo di madre. Quando allontana il bambino lo fa anche per questo motivo. Nei deliri di queste donne compare spesso la figura di una madre ideale e derubante. La donna vuole avere un figlio ma questa realtà la espone, per un breve periodo, ad un collasso di personalità. In questi casi, la fantasia dominante è che crescere un figlio porta la donna a sentirsi una figlia colpevole. La continuità tra la psicosi post partum e infanticidio è dubbia.
La situazione dell'infanticidio improvviso va confrontata con le potenzialità suicide della donna. Potenzialità suicide che sono quelle di ogni persona e che sono attivate da tutta la sua storia. Non a caso per ogni donna che uccide soltanto il figlio ce n'è un'altra che si uccide con il figlio. Nella dinamica dell'infanticidio va compreso proprio questo: come e perché la donna espelle nel bambino una parte di se stessa vissuta come negativa, forse per far nascere ed una parte di sé nuova. In questi casi il nucleo psicologico profondo sta nello specchio in cui la donna si riflette. Il bambino non esiste, in quanto tale, come figlio.
Una chiave di lettura più positiva: ogni madre per vivere e far vivere il proprio bambino deve diventare anche figlia del proprio figlio. E cioè deve riconoscerlo, da subito come un individuo. Vale anche per il padre. E questo è un argomento in più.

bullismo: uno su tre

Gazzetta di Parma 14.6.05
Bambini e adolescenti: uno su tre coinvolto nel fenomeno del bullismo

ROMA Uno su tre tra bambini e adolescenti è coinvolto nel «bullismo». Prepotenza, spavalderia e violenza psicologica e non solo, sono in crescita nei piccoli italiani, secondo l'ultima indagine di Telefono azzurro. Esaminando un campione di quasi 3.500 ragazzi tra 7 e 18 anni, l'associazione che si occupa dell'infanzia ha rilevato che il 35,4% risulta essere coinvolto nel drammatico fenomeno. Per «bullismo», spiega Telefono Azzurro che ha messo a punto una guida per insegnanti e genitori, si intende un'oppressione, psicologica o fisica, ripetuta nel tempo, perpetrata da un soggetto dominante nei confronti di un altro percepito come più debole. E' un fenomeno che se non affrontato con competenza, rischia di compromettere il normale percorso di crescita di moltissimi ragazzi, e individua nella famiglia e nella scuola i settori a cui affidare una pratica di recupero del fenomeno e di assistenza a chi ne è coinvolto.

Brescia Oggi 14.6.03
Il bullismo è dilagante nelle scuole
Il fenomeno, presente fin dalle elementari, pone l’Italia al terzo posto in Europa

Intervista a Elena Buccoliero, sociologa e autrice di un saggio sul tema: «Il problema è che la vittima spesso si vergogna e tace, e le famiglie sono latitanti anche perché preferiscono un figlio che si fa valere a uno che subisce»
Enrico Gallese

Una recente indagine svolta dall'Azienda Sanitaria e Regione Lombardia ha appurato che a Milano il 64 per cento degli alunni delle elementari e il 54 per cento di quelli delle scuole medie ha avuto a che fare, come vittima o come aggressore, col fenomeno del "bullismo". Un dato tra i più alti registrati nel nostro Paese, che col 35 per cento della popolazione scolastica coinvolta in episodi di bullismo occupa il terzo posto in Europa, dopo Inghilterra e Francia, per l'incidenza di questo malcostume. La religione resta uno dei motivi principali degli atti di prepotenza compiuti tra ragazzi, come hanno dimostrato alcuni recenti casi : bambini del Veneto che hanno obbligato alcuni loro coetanei musulmani a baciare il Crocefisso, o piccoli studenti extraeuropei che hanno costretto altri alunni a inneggiare ad Allah.
Su questo inquietante fenomeno ha indagato Elena Buccoliero, sociologa della ASL di Ferrara e autrice del libro Bullismo, bullismi (Franco Angeli Editore, 350 pagine, 30,00 euro, con cd-rom allegato). Scritto insieme a Marco Maggi, il volume passa in esame dettagliatamente i vari tipi di prepotenza adolescenziale e propone alcune strategie d'intervento e di prevenzione, tra cui qualche test da sottoporre ai ragazzi per indurre le vittime a uscire da un silenzio che spesso è il primo alleato di questa piaga. Alla dottoressa Buccoliero chiedo di spiegarmi cosa s'intenda di preciso col termine bullismo.
"S'intende una relazione fondata sull'abuso di potere che s'instaura e si protrae nel tempo tra persone più forti, psicologicamente o fisicamente, e altre più deboli. Simili relazioni nascono nel contesto del gruppo e si estrinsecano con ripetute prese in giro, esclusioni, minacce, estorsioni di denaro o cose, umiliazioni, scherzi pesanti, danneggiamento di abiti o di materiale scolastico, fino alle aggressioni fisiche."
Come si diventa bulli?
"Sono molte le strade che conducono al bullismo. C'è chi va alla ricerca affannosa di regole, o magari di un successo sociale facilmente raggiungibile, chi riproduce nel gruppo qualcosa che ha vissuto personalmente, magari come vittima, chi si comporta da prepotente perché non sa entrare in contatto con le emozioni proprie e altrui, e perciò ferisce senza rendersene conto fino in fondo. E poi c'è l'influenza dei terzi, di chi, adulto o ragazzo, incita il bullo alle sue ribalderie sghignazzando, schierandosi dalla sua parte… Il bullo, in effetti, da solo non esiste."
Quali sono, di solito, le sue vittime?
"Nella maggior parte dei casi il bullo è dotato di uno sguardo molto acuto, che gli permette di scegliere come vittima i compagni più indifesi, che nel contesto adolescenziale sono in genere quelli che appaiono in qualche modo diversi dalla maggioranza : gli studiosi dove tutti marinano la scuola, gli stranieri dove è ritenuto un valore essere italiani, i gracili dove bisogna essere forti e i grassi dove è una legge essere magri."
Qual è, invece, il comportamento tipico delle vittime?
"Nella maggior parte dei casi si tace, specialmente con gli adulti. Le prepotenze vengono vissute con un senso di vergogna da chi le subisce, soprattutto dai maschi, che sono condizionati da una concezione deformata della virilità secondo cui da loro ci si aspettano forza, decisione, impermeabilità alle emozioni."
In Italia questo fenomeno è più accentuato nel Nord o nel Meridione?
"Le ricerche condotte finora in diverse regioni italiane non hanno individuato differenze significative tra le aree geografiche della Penisola, né tra i ceti sociali. C'è dappertutto una costante: il terreno nel quale il bullismo prospera, ovvero la scuola, il luogo in cui i ragazzi si ritrovano in gruppi casualmente assortiti, senza la possibilità di scegliersi i propri compagni."
Qual è la fascia d'età più esposta a questo contagio?
"Le prepotenze iniziano molto presto, sin dalle scuole elementari o ancora prima, e durano fino agli anni delle medie inferiori e superiori. In genere il picco maggiore si ha nelle elementari, mentre tendono a diradarsi via via che i ragazzi crescono. Ma mentre alle elementari le prepotenze si manifestano quasi sempre con lo scontro fisico tra i bambini e perciò è più facile mettervi riparo, alle superiori i ruoli tendono a sclerotizzarsi, con ragazzi predestinati a diventare vittime e altri che invece impostano ogni loro relazione sulla prepotenza."
E' possibile tracciare un identikit ideale del bullo?
"No, non esiste. Il bullo è colui che usa la forza per imporsi, acquisire vantaggi e attenzione. Il bullo è un ruolo sociale, non una persona. Può essere un ragazzo o una ragazza e, al cambiare del contesto, può a sua volta trasformarsi da carnefice a vittima."
Ha qualche episodio particolarmente significativo da raccontarci?
"Ce ne sarebbero moltissimi. Dal ragazzo sistematicamente escluso dal gruppo, che non è mai invitato alle feste e che viene isolato da tutti, a quello che subisce uno stillicidio di piccole umiliazioni, come l'estorsione quotidiana della merenda o dei compiti, il 'pizzo' per entrare in bagno, il nomignolo ripetuto fino all'ossessione."
Esiste anche un vocabolario di termini usati dai bulli?
"Esiste ma è molto variabile, in quanto cambia nei vari contesti geografici e sociali. In Emilia Romagna, ad esempio, per quanto riguarda le categorie delle vittime, si indicano come 'lecchini' gli studenti accusati di farsi proteggere dagli insegnanti o di volerseli ingraziare, e 'infami' i ragazzi che rompono l'omertà e chiedono aiuto per sé o per altri. Un gergo, insomma, più carcerario che scolastico."
Cosa fa o potrebbe fare la scuola per arginare questa piaga?
"Ci sono scuole e insegnanti molto attivi in termini di ricerca, analisi e formazione ; mentre ci sono altre realtà dove ci si rifiuta di guardare in faccia la realtà. Il tutto è affidato alla sensibilità dei dirigenti scolastici, perché l'Italia è uno dei pochi Paesi europei sprovvisto di una legge che metta in rilievo la responsabilità della scuola nella prevenzione e nel contrasto del bullismo."
E le famiglie che posto occupano in tutto ciò?
"Le famiglie possono essere fondamentali nella lotta contro il bullismo, ma spesso la scuola incontra molte difficoltà nell'instaurare una collaborazione con loro, anche perché non tutte sono in grado di affrontare il problema. Per alcuni genitori è meglio, per così dire, un figlio bullo piuttosto che vittima, meglio furbo che onesto."
A chi è affidato, allora, il compito di vigilare?
"Agli insegnanti, che devono evitare di fare finta di niente e invece essere pronti a cogliere i segnali che arrivano dai ragazzi, accettando di mettersi in relazione con loro e riconoscendo le proprie responsabilità educative, inerenti al semplice fatto che sono degli adulti messi accanto a dei ragazzi che stanno crescendo."

il fenomeno dei blog che invitano all'anoressia

Corriere della Sera 14 giugno 2005
Nati in America, si stanno diffondendo in Europa
Blog per l'anoressia, allarme anche in Italia
Si chiamano pro-ana e invitano alla magrezza assoluta come filosofia di vita. I medici: «Bisogna intervenire»

«You will rule your stomache, while others are slaves to their hunger» Dominerai il tuo stomaco, mentre gli altri saranno schiavi della loro fame. Non è il messaggio pubblicitario dell'ennesimo prodotto dietetico, ma uno dei tanti benefici, che secondo un sito pro-ana, dovrebbe garantire l'anoressia. Se fino a qualche anno fa l'inappetenza era conosciuta solo come una grave malattia, oggi per alcuni giovani del mondo occidentale è diventata una moda, tanto da spingere dei siti-web a vendere prodotti che frenano la fame e aiutano a vomitare
ALLARME - Sembra assurdo, ma invece è la realtà: ci sono in rete tanti blog che ... «promuovono» l'anoressia. Fino a qualche anno fa erano per lo più americani, ma oggi stanno fiorendo anche in Italia. L'allarme è stato lanciato da Pier Luigi Tucci presidente della Federazione Italiana Medici pediatri. «E' necessario che le autorità competenti intervengano per individuare questi siti e accertare se veramente vengono diffusi messaggi in favore dell'anoressia». Ma i nuovi amanti dell'inappetenza non demordono. Scrive Yuki con fare di sfida sul suo blog: «Ognuno sceglie come vivere, e soprattutto come morire...oscurano i siti pro-ana, ma i diretti interessati riescono comunque sempre a trovarli».
CONFINE INCERTO - Foto di donne magrissime, consigli per imparare a vomitare con semplicità, l'esaltazione di modelle anoressiche come Kate Moss sono i temi prediletti dei fan multimediali. «Hai un completo controllo sulla tua vita e gli altri lo sanno». «Non avrai più bisogno di usare i contraccettivi». «Le persone si congratuleranno con te del peso che hai perso e ne saranno gelose». Sono alcuni tra i presunti benefici che l'anoressia offrirebbe a chi ne è soggetto. I siti presenti sul web dichiarano un intento filantropico perchè cercano di «far accettare a chi ha disturbi alimentari la propria condizione». Inoltre esortano chi vuole solo perdere peso e non ha disfunzioni alimentari a non seguire i consigli pubblicati online. Ma il confine tra reali inappetenti e fanatici della bilancia è stretto.
DIARI - L'ultima moda di questi blog americani è presentare un diario quotidiano nel quale ogni anoressica racconta quali pasti ha evitato. «Oggi ho saltato la colazione -scrive nel suo diario multimediale Victoria-. Penso che da oggi comincerò a saltarla sempre e anzì andrò a fare una passeggiata per aiutare il mio metabolismo. Non ho fame la mattina, perchè dovrei mangiare?». E infine presenta anche i dieci comandamenti degli anoressici. Tra questi quello che meglio illustra il dramma della malattia recita: «Essere magri è più importante di essere in buona salute»

etica degli scienziati americani

Corriere della Sera 14.6.05
Falsificati gli studi clinici.
Il 15% degli intervistati ha cambiato i risultati «perché giudicati non veritieri»
«Ricerche truccate su pressione degli sponsor»
L’ammissione degli scienziati nei laboratori Usa.
«Progetti modificati senza rispettare le regole etiche»

Non si tratta di grandi frodi scientifiche come l’«invenzione» dei misteriosi raggi N emessi dal corpo umano, proposta da René Blondot nel 1903 o la questione dei topi dipinti da William Summerlin che voleva così provare la possibilità di trapianti fra specie diverse, oppure lo scandalo che aveva coinvolto David Baltimore, nientemeno che un premio Nobel (l’aveva ricevuto nel 1975 con Renato Dulbecco), accusato qualche anno fa, insieme con la sua assistente Thereza Imanishi Kari, di avere pubblicato dati falsi. Niente di così vistoso, ma tante piccole «correzioni» che molti ricercatori ora confessano di apportare ai loro lavori e che rischiano di minare la credibilità e l'integrità della scienza stessa. Quella americana in particolare, dal momento che l’indagine nel mondo dei laboratori è stata condotta proprio negli Stati Uniti dalla Health Partners Research Foundation di Minneapolis.
Brian Martisson, Melissa Andersson e Raymond de Vries, tre universitari americani specializzati in etica, hanno posto domande sulla correttezza delle loro ricerche a decine di ricercatori, più o meno giovani, il cui lavoro era finanziato dai National Institutes of Health, un’istituzione di ricerca pubblica. Moltissimi, fra i 3.247 che hanno riposto, hanno dichiarato di avere, in qualche misura, truccato le ricerche. Almeno un terzo ha ammesso di non avere rispettato certe regole etiche negli studi clinici, quelli che coinvolgono i malati, o di aver «coperto» colleghi che utilizzavano dati falsi, o di avere proposto interpretazioni non corrette dei dati stessi.
Soltanto una piccolissima percentuale, lo 0,3%, ha confessato di avere completamente falsificato uno studio o di avere copiato un lavoro da altri. Ma un buon 15% ha dichiarato di avere modificato il progetto, la metodologia o i risultati per la pressione degli sponsor commerciali. Un altro 15% ha rivelato di avere modificato i risultati perché istintivamente non li giudicava veritieri. E oltre il 27% ha detto di non tenere una documentazione dei progetti di ricerca.
In America circola un detto nel mondo scientifico: publish or perish , pubblica o perisci. Perché è una questione di visibilità per i ricercatori che vengono contesi dalle università. E una questione di finanziamenti. Chi produce risultati di ricerca e li comunica alla comunità scientifica attraverso le riviste può sperare in un supporto finanziario, sia pubblico che privato. Ecco perché la lotta fra i gruppi è serratissima e, a questo punto, non sembra escludere nemmeno i colpi bassi.

il testo integrale dell'articolo di Ezio Mauro su Repubblica di oggi

ricevuto da Franco Pantalei

Repubblica 14.6.05

IL COMMENTO
Le ragioni del naufragio laico
di EZIO MAURO

IL risultato del referendum non è solo una sconfitta: è il naufragio di un'Italia laica che si proponeva di cambiare una legge ideologica, per regolare poi diversamente in Parlamento la materia della fecondazione assistita. Questo era il senso della chiamata alle urne, fuori dagli schieramenti, dagli integralismi, dalla retorica apocalittica che ha trasformato assurdamente il voto in uno scontro di civiltà. Le urne sono rimaste deserte. Chi ha trasformato il confronto in uno scontro tutto italiano tra il Bene e il Male, ha poi chiesto ai difensori del Bene di non scendere in campo, per mandare a vuoto la battaglia. Non sappiamo dunque chi sarebbe prevalso, in uno scontro aperto di valori contrapposti, tra il "sì" e il "no". Un dato solo è certo: ha perso chi (come questo giornale) voleva cambiare la legge. Ha vinto chi voleva conservarla e per prevalere ha affondato con ciò che resta del laicismo anche il vecchio istituto del referendum, che per molto tempo scomparirà dalla scena italiana.

Molto era prevedibile, in questa vicenda, tutto era stato annunciato. Proviamo a vedere come, quando e perché. Passata in minoranza, per ammissione dei vescovi, nel Paese "naturalmente cristiano", la Chiesa italiana negli ultimi dieci anni ha preso coscienza di trovarsi "in una terra di missione" e dunque ha deciso di impegnarsi "a rievangelizzare una società che è stata colpita da una vera amnesia della sua storia e della sua identità cristiana". Da qui, un cambio non soltanto di metodo e di strategia, ma di sostanza. La Chiesa, come dice Ruini, "non fa più leva su un soggetto politico di riferimento, ma sui contenuti", dunque agisce politicamente alla luce del sole, senza mediazione. La si "vede" cioè far politica, senza lo scudo dc, che tra le altre cose serviva evidentemente anche a questo.

Fuori dal corridoio protetto in cui scambiavano il partito-Stato democristiano (con le sue autonomie, e le sue obbedienze) e la Curia, nel mondo scoperto di oggi la Chiesa passa da essere tutto a essere parte, in una sorta di moderna "lobbizzazione" che la porta a competere nel confronto politico-culturale come una grande agenzia di valori e di tradizioni, in competizione e in concorrenza con le agenzie che già occupavano il mercato.

Non riuscendo più a parlare all'insieme maggioritario della società, la Chiesa italiana si rivolge alle sue parti sensibili, prima fra tutti la politica che legifera muovendosi tra interessi legittimi e valori di riferimento, e che ha in mano le cinque leve dell'organizzazione sociale che nel febbraio 2001 il Cardinale Segretario di Stato fissò come essenziali per giudicare dal Vaticano la politica italiana: si tratta delle leggi "sulla vita, la famiglia, la gioventù, la libertà scolastica, la solidarietà".

Davanti a sé la Chiesa ha trovato i partiti della Seconda Repubblica, tutti nati o trasformati nel corso dell'ultimo decennio, senza un deposito di storia e di tradizione, un portato di valori consolidati a cui far riferimento. Una politica dove molto è prassi, tutto è contemporaneo, l'identità è incerta. A sinistra, per la tragica eredità del comunismo, la tradizione è inservibile, come se fosse tutta radioattiva. Nel nuovismo, non mancano solo i nomi, ma anche i riferimenti culturali della sinistra europea moderna e risolta, e dunque la battaglia delle idee diventa insicura, senza visione e senza certezza, con il rischio di essere in ogni momento gregaria delle mode culturali dominanti. A destra, il berlusconismo ha fallito l'unica vera ricerca dell'immortalità, che non sta nelle ricette antirughe del dottor Scapagnini, ma nel progetto di dare alla destra una moderna cultura conservatrice in un Paese che non l'ha mai avuta, democristiano com'era.

In questo quadro, arriva il Dio italiano predicato dalla Cei, una sorta di via italiana al cattolicesimo che non c'era mai stata, nella nazione della "totalità" democristiana e della surroga papale. Fatalmente, o almeno facilmente, la Chiesa a questo punto viene vista da una parte del mondo politico come l'ultima e l'unica agenzia di valori perenni e universali dopo la morte delle ideologie terrene del Novecento e il deperimento fisico delle storie politiche che le avevano incarnate. Dall'altro lato, Chiesa e Vaticano vedono l'Italia improvvisamente come un gregge senza guida e senza rotta, soprattutto senza più idee forti, incapace di tradurre la laicità dello Stato in uno spirito repubblicano libero e autonomo: il terreno ideale per sperimentare - ed è la prima volta in cinquant'anni - una sorta di "protettorato dei valori", l'esercizio di un potere non più temporale ma culturale della Chiesa.

Due elementi in più rafforzano questo quadro. Da un lato, come fa notare Habermas, il ritorno in tutta Europa della religione dal dialogo privato al dibattito pubblico, un ritorno che prende in contropiede il laicismo e che papa Ratzinger aveva già annunciato da cardinale, negando che il cattolicesimo sia solo un sentimento privato: "È una verità proclamata in ambito pubblico, che pone per la società delle norme e che, in una certa misura, è vincolante anche per lo Stato e per i potenti di questo mondo". Dall'altro lato, l'avanzare nel nostro Paese di quel nuovo soggetto che tre anni fa ho chiamato "lo strano cristiano", l'ateo clericale che cerca di saldare la destra politica italiana ad un pensiero forte che non ha, e lo trova nel deposito di tradizione della Chiesa, ignorando sia i suoi comandamenti che la sua trascendenza che la sua predicazione sociale, cavalcando però la sua legge morale tradotta in norma, come creatrice di un'identità collettiva e di una società del Bene.

È il rifiuto della distinzione tra la legge del Creatore e la legge delle creature, che sta a fondamento di ogni moderna concezione della laicità. È il rifiuto ratzingeriano del relativismo tradotto dal linguaggio culturale nel linguaggio politico, persino legislativo: superando l'idea del Parlamento come luogo dove le leggi si fanno con l'unica regola della maggioranza, e dove ogni verità è parziale, come ogni credo in democrazia. Al fondo, c'è la denuncia della nuova religione europea del "politicamente corretto", dell'adorazione "pagana" per i diritti subentrati ai valori, del cuore socialdemocratico del Novecento che ha messo per troppo tempo in circolo lo statalismo e la laicità, mentre la nuova cultura cristiana di destra è la vera interprete di un senso comune del post-moderno.
È l'idea di Ruini del cristianesimo come seconda "natura" italiana: che può dunque essere trasgredito e rinnegato solo da leggi in qualche modo contro natura, quindi contestabili alla radice.

Ecco il quadro in cui è nata non la legge sulla fecondazione artificiale, ma "questa" legge, che ha un valore ideologico e di bandiera ben superiore al valore d'uso. Ed è lo stesso quadro in cui è fallito il referendum. Sarebbe certo sbagliato dare alla Chiesa e ai nuovi atei clericali il potere di mobilitare nel silenzio il 75 per cento degli italiani, ed è ridicolo pensarlo. Da dieci anni i referendum non raggiungono il quorum, l'astensionismo fisiologico è altissimo. In questo caso, c'è probabilmente un riflesso automatico in più, che esce dalle logiche della politica: la legge sulla fecondazione è stata vista dagli italiani come una complicata questione di piccola minoranza, che non li riguardava e che non riuscivano a padroneggiare nei suoi aspetti etici e scientifici. Se questo è vero, l'astensionismo più che difendere la legge ha voluto lasciare la parola al Parlamento, dove oggi dovrebbe riaprirsi un confronto finalmente non più propagandistico.

Ma detto questo, non si è detto tutto. Nel disorientamento degli italiani davanti alla materia del referendum, le parole della Chiesa, dei neo-con italiani, degli atei clericali hanno pesato di più delle parole di quel pezzo di sinistra che ha sostenuto il "sì", dei suoi leader, dei suoi scienziati. Il centrosinistra, tutto insieme, dovrebbe riflettere: o trova un'identità culturale, visto che è incapace di trovare quella politica, oppure perderà le grandi sfide di questa fase, che nascono tutte dalla battaglia delle idee, più che dagli schieramenti. Non si può reggere una partita in cui la sinistra parla di sé, mentre la destra parla della vita e della morte. Esistono valori, esistono diritti che la sinistra può testimoniare a testa alta nel mondo di oggi, anche dopo la sconfitta del referendum, perché fanno parte della sua storia: sfidando la destra ad una vera battaglia culturale in campo aperto, senza l'aiuto pagano di Ponzio Pilato.