domenica 20 luglio 2003

un caldo da impazzire

Il Giorno di Milano 20.7.03
Emergenza caldo: tutto esaurito anche in psichiatria
di Paola D'Amico

Milano. Superlavoro alla Mangiagalli, con ostetricia al completo e posti contati in neonatologia. Al limite rianimazioni, unità coronariche (chiusa la cardiologia del San Carlo) e anche qualche chirurgia (Niguarda). Ma il dato che più sorprende è il seguente: è in difficoltà la metà dei dipartimenti psichiatrici della città. Tutto esaurito al Fatebenefratelli, al San Carlo e al Policlinico. In giugno i Tso (trattamenti sanitari obbligatori) avevano raggiunto picchi inediti. La psichiatria non è stata sfiorata dal piano di chiusure estive degli ospedali eppure i letti non bastano. Colpa del caldo. Come confermano i dati statistici e anche recenti ricerche.
(...)

Tossicodipendenza e metadone

Galileo, luglio 2003
METADONE
La forza del pregiudizio
di Alessandro Tagliamonte

Il metadone come farmaco sostitutivo per la terapia della dipendenza da eroina fu scoperto casualmente all'inizio degli anni Sessanta a New York da una psichiatra, Mary E. Nyswander, e suo marito, l'endocrinologo Vincent P. Dole.
I due scienziati seguivano presso la Rockfeller University alcuni eroinomani, somministrando loro morfina endovena a intervalli regolari in modo da evitare una crisi d'astinenza e allo scopo di studiarne il comportamento in ambiente ospedaliero. La morfina venne a mancare per qualche giorno e, per evitare l'interruzione dell'osservazione e pur con qualche incertezza, fu sostituita con un oppioide di sintesi, appunto il metadone, somministrato per via orale. Già dopo un giorno col nuovo trattamento i due ricercatori notarono alcuni cambiamenti rilevanti. I soggetti in studio erano più collaborativi e non mostravano i tipici sintomi disforici, cioè l'atteggiamento iperreattivo, a volte aggressivo, in un sottofondo di basso tono dell'umore, di diffusa insoddisfazione e ripetute lamentele. Dopo qualche giorno i pazienti avevano assunto un sorprendente comportamento d'interesse per l'ambiente di degenza e cura della propria persona.
In poche parole, esibivano quei comportamenti tipici nei pazienti d'ospedale che hanno riacquistato il benessere e, spontaneamente, ne condividono il piacere con i compagni di stanza, aiutandoli se e quando necessario e contribuendo fattivamente a mantenere in ordine l'ambiente di degenza.
Questi comportamenti apparivano del tutto inconsueti rispetto a quelli degli eroinomani ricoverati e trattati con morfina, per cui Nyswander e Dole decisero di tornare al regime iniziale, appunto con morfina. Il comportamento disforico ricomparve rapidamente, la morfina fu di nuovo sostituita col metadone e i pazienti riacquistarono l'atteggiamento collaborativo mostrato durante la prima esperienza.
Questo comportamento "normale" non solo non si riduceva nel tempo, ma tendeva a rafforzarsi e a strutturarsi, con la cosciente partecipazione dei pazienti.
Raccontata così sembra una fiaba. Dole e Nyswander, fatte tutte le prove per evitare abbagli da artefatti (try hardly to disprove yourself) si resero conto di aver scoperto qualcosa di notevole e si impegnarono per informarne la comunità scientifica presso cui, con sorpresa e amarezza, trovarono spesso un muro di incomprensione.
Sporadici attestati di stima e d'interesse a collaborare vennero all'inizio da ambienti non accademici. Un giovane operatore sociale, Henry Joseph, oggi qualificato ricercatore, che aveva il compito di seguire gli eroinomani rilasciati dal carcere on parol, cioè con l'impegno della buona condotta, fu il primo a sperimentare l'impatto del metadone sulle problematiche del quotidiano di un tossicodipendente.
I soggetti affidati alle sue cure ricadevano in poche ore o pochi giorni nell'uso di eroina, un motivo sufficiente a interrompere il provvedimento di clemenza, e non c'era verso di modificare questa situazione. I due ricercatori proposero a Joseph di trattare con metadone i soggetti on parol e, quasi per incanto, essi osservarono che chi accettava il nuovo trattamento non restava più invischiato in comportamenti illeciti. Da subito spariva la compulsione a ricercare e consumare farmaci al di fuori del metadone e comparivano comportamenti responsabili.
I dati di Joseph impressionarono alcuni funzionari e politici e Dole e Nyswander, con la collaborazione di alcuni giovani medici e psicologi, ebbero l'opportunità di organizzare una rete di ambulatori (le cosiddette methadone clinics) per il trattamento con metadone a New York. La favola, cioè il razionale utilizzo del metadone in chi ne ha necessità e fino a che ne ha necessità, finisce qui o, meglio, la diffusione della lieta novella subisce a questo punto un rallentamento che ancora oggi perdura.
Le resistenze vennero da diverse direzioni e, cosa che lascia ancora oggi perplessi noi addetti ai lavori, contro il metadone si schierarono scienziati, medici, giornalisti, operatori sociali, magistrati e qualificati rappresentanti delle forze dell'ordine, in aggiunta ai religiosi, ai politici, agli psicologi, ecc. Si potrebbe parlare di un numeroso, articolato, vero e proprio partito trasversale anti-metadone.
Politicamente il metadone è stato definito a fasi alterne farmaco di destra e di sinistra. In realtà, i medici e gli altri operatori che ne promuovono l'utilizzo si attengono a una valutazione obiettiva dei dati clinici, indipendentemente dalle proprie convinzioni politiche. Tuttavia, spesso, il dibattito fra questi medici e chi "non ha in simpatia il metadone", o considera che somministrarlo agli eroinomani cronici equivale a "prescrivere whiskey a un etilista che beve prevalentemente vino o birra" o a "offrire una donna ad uno stupratore", assume toni così accesi da fare apparire come ideologia il pragmatismo.
Il dibattito su un tema che attiene alla salute dovrebbe essere condotto in modo che le reazioni emotive alle problematiche connesse restino sempre distinte dagli aspetti tecnici, cioè medici.
In altre parole, se si vuole fare chiarezza sulle cause di una patologia e sulle risorse reali esistenti per prevenire e controllare queste cause e per curare la patologia stessa, non si deve far confusione fra dati scientifici e opinioni, soprattutto se le opinioni sono di non addetti ai lavori. Detto questo non tornerò sullo stucchevole e time consuming dibattito su metadone sì metadone no.
Kraepelin cento anni or sono definiva il morfinismo cronico come un marasma della volontà e considerava dei cialtroni coloro che, anche allora, promettevano soluzioni salvifiche o cure brevi.
Oggi la tossicodipendenza da eroina è definita una malattia cronica di carattere psichiatrico ad andamento recidivante. Come la depressione, tanto per intenderci, con la differenza che la depressione non ha una causa esogena altrettanto ben definita, mentre ha ben definito il carattere della familiarità. Non soltanto la tossicodipendenza da eroina ma anche l'etilismo, il tabagismo e altre forme di tossicodipendenza appartengono al vasto capitolo delle malattie psichiatriche croniche da agenti esogeni ad andamento recidivante.
Per i non addetti ai lavori è concettualmente difficile porre sullo stesso piano un eroinomane, un cocainomane e un tabagista, meglio noto come fumatore, e non è immediata la corrispondenza fra fumatore e cocainomane. In medicina queste apparenti contraddizioni sono relativamente comuni. Una diagnosi di ipertensione arteriosa è spesso fatta casualmente su una persona giovane che non accusa sintomi soggettivi. L'ipertensione è considerata, per questo motivo, una condizione al limite fra malattia e stato di rischio per una futura patologia d'organo (cuore, reni, ecc.); ma, indipendentemente dalla definizione, è dimostrato che un soggetto iperteso, se non si controllano i suoi valori pressori alterati, ha un'aspettativa di vita nettamente inferiore rispetto a quella della popolazione generale. La pressione arteriosa in alcuni casi può essere controllata con rigorose misure igieniche, ma nella maggior parte dei casi è necessaria la somministrazione di farmaci: per tutta la vita. Anche il tabagismo è sicuramente una condizione di rischio per lo sviluppo di patologie d'organo come infarto del miocardio, vasculopatie periferiche ostruttive, broncopneupopatia ostruttiva, tumore polmonare. Basterebbe smettere di fumare per ridurre, se non addirittura eliminare, il rischio di sviluppo di queste patologie; cioè, l'accettazione di una rigorosa misura igienica da parte di un fumatore potrebbe, teoricamente, risultare superiore all'uso di qualsiasi farmaco da parte di un iperteso. Di fatto, i fumatori hanno un'aspettativa di vita di almeno 15 anni inferiore rispetto alla popolazione generale: nella Comunità Europea muoiono 500.000 persone all'anno a causa del fumo e il 50 per cento dei fumatori che ha un infarto dopo tre mesi ha ripreso a fumare. Per questi motivi il tabagismo è classificato come tossicodipendenza, che è la perdita del controllo sull'uso di una sostanza che intossica.
La tossicodipendenza è una malattia o una condizione di rischio?
La risposta è articolata, poiché alcune delle sostanze che inducono tossicodipendenza producono anche effetti comportamentali alterati che di per sé configurano una patologia. Per esempio, la cocaina può indurre una psicosi paranoide che, dopo una prima fase di sensibilizzazione, ricompare come effetto acuto a ogni somministrazione del farmaco.
La sensibilizzazione agli effetti della cocaina, così come la conseguente psicosi paranoide, sono manifestazioni cliniche connesse all'uso di cocaina che si possono manifestare indipendentemente dai sintomi di tossicodipendenza. Nell'abuso di eroina non esistono modificazioni del comportamento altrettanto drammatiche connesse a un'intossicazione acuta o cronica. L'auto-somministrazione ripetuta di eroina induce tolleranza e dipendenza e, se s'interrompe il trattamento, compare la sindrome di astinenza. È in astinenza che l'eroinomane presenta la disforia e l'ansia che condizionano i suoi comportamenti e le sue relazioni sociali; l'assunzione di una dose ottimale di eroina (adeguata al grado di tolleranza raggiunto) gli restituisce la normalità.
Anche il fumatore appare "nervoso" se resta senza sigarette, ma appena ne fuma una la nicotina gli restituisce la sua normalità.
La distinzione fra condizione di rischio e malattia ha, quindi, un valore soprattutto speculativo. Certamente, ciò che maggiormente differenzia l'ipertensione dal tabagismo è l'esistenza di numerose classi di farmaci antiipertensivi efficaci che si contrappone alla pressoché completa mancanza di risorse farmacologiche antifumo. Immaginate un farmaco che preso al mattino o alla sera prima di dormire garantisse per le successive 24 ore uno stato di non-necessità di fumare, senza conseguenze sul tono dell'umore, attenzione, appetito, ritmo del sonno.
Sarebbe un problema prescrivere a un fumatore questo farmaco, anche per il resto della sua vita, in sostituzione delle sigarette? Sarebbe "troppo facile", "non risolverebbe il problema alla radice", dovrebbe questo farmaco guadagnarsi le simpatie di qualcuno o sarebbe sufficiente dimostrarne l'efficacia per promuoverne l'uso?
Dole, da endocrinologo, teorizzò una stretta similitudine fra la risposta dei diabetici all'insulina e la risposta degli eroinomani al metadone e propose l'ipotesi dell'eroinismo cronico come malattia metabolica. Un uso prolungato di eroina produrrebbe uno squilibrio metabolico che solo la somministrazione continua di un agonista oppioide sarebbe in grado di riequilibrare.
L'ipotesi è affascinante e ancora oggi, con le opportune correzioni connesse alle moderne conoscenze di psicobiologia, ha validità. Certo è che malessere soggettivo e comportamenti alterati sono presenti nell'eroinomane solo in fase di astinenza.
Come più volte sottolineato, se a un eroinomane viene somministrata per infusione endovena una dose di eroina sufficiente a prevenire la comparsa di sintomi di astinenza, finché dura l'infusione l'eroinomane sta bene ed ha un normale controllo sul proprio comportamento.
L'infusione continua presenta notevoli difficoltà pratiche e può essere sostituita efficacemente con un farmaco che sia ben assorbito ed eliminato lentamente dall'organismo. Il metadone somministrato per via orale è assorbito per il 98 per cento ed è eliminato molto lentamente.
Il metadone ha effetti farmacologici molto simili a quelli dell'eroina.
Sicuramente se iniettiamo per endovena a un eroinomane una dose equivalente di eroina o metadone, non distingue nell'immediato una dall'altro. L'effetto dell'eroina dura poche ore perché l'organismo la degrada ed elimina rapidamente; l'effetto del metadone è prolungato nel tempo. L'eroina somministrata per bocca è rapidamente degradata e solo una minima parte raggiunge il circolo; il metadone ha un assorbimento orale pressoché completo e il suo effetto dopo una singola dose orale copre il soggetto per almeno 24 ore. Come conseguenza della sua lenta eliminazione dall'organismo col metadone si possono ottenere concentrazioni stabili per 24 ore nel sangue e nel cervello, che definiamo massimali, sufficienti a neutralizzare l'effetto di una dose aggiuntiva di farmaci simili, per esempio di eroina. Questa dose è stata denominata blocking dose ed è utilizzata per disincentivare l'uso di eroina in quei soggetti che compulsivamente si auto-iniettano nonostante non avvertano il minimo segno di astinenza. Questi dosaggi massimali si raggiungono gradualmente in base alla risposta clinica del soggetto, poiché il metadone, come la morfina e qualsiasi altro narcotico-analgesico deprime i centri del respiro.
La depressione dei centri del respiro è la causa della morte da intossicazione acuta da eroina, la famigerata overdose. A questo effetto compare rapidamente tolleranza e la blocking dose può essere raggiunta senza rischi in una-tre settimane. Gli oppiacei, prodotti estrattivi dell'oppio, e gli oppioidi, loro analoghi di sintesi, non hanno tossicità d'organo. Non sono tossici per il rene, per il cuore, per i polmoni, per il fegato.
Inducono tossicodipendenza se assunti per auto-somministrazione.
Una volta strutturata una tossicodipendenza non è eradicabile.
"Once an alcoholic always an alcoholic", un alcolista resta tale per tutta la vita, come un eroinomane o un tabagista.
Diventare eroinomane presuppone mesi, se non anni, d'uso ripetuto; per ricadere nell'uso di eroina bastano uno-due giorni anche dopo anni di astinenza. Altrettanto vale per alcool e tabacco.
Per questi motivi definiamo le tossicodipendenze come malattie croniche ad andamento recidivante. Smettere di fumare o di bere è relativamente facile, così come è relativamente facile smettere di iniettarsi eroina. Ma non si deve mai commettere l'errore di confondere una fase di remissione, che può durare anni e che non necessariamente esita in recidiva, con la guarigione.
La recidiva fa parte del quadro clinico di una tossicodipendenza e non deve essere vissuta dal medico, almeno da lui, come una delusione riguardo alla forza di volontà del soggetto.
Fare una predica a un eroinomane o a un tabagista in recidiva equivale a sgridare un asmatico perché "anche quest'anno, a primavera, ti sei ripreso l'asma". I soggetti trattati con dosaggi personalizzati di metadone a mantenimento riacquistano il loro equilibrio psicofisico di base, non hanno comportamenti compulsivi connessi al procacciamento di eroina e, se messi in grado di svolgere un'attività lavorativa, sono in grado di esprimere al meglio le proprie capacità produttive. È per questi motivi che il trattamento a mantenimento con metadone migliora il grado di socializzazione e riduce la criminalità fra i tossicodipendenti. Con l'eliminazione della ricerca compulsiva (craving) dell'eroina, che è il sintomo cardine di una tossicodipendenza, l'igiene personale riacquista importanza e il rischio di infezioni si riduce di conseguenza.
Più complesso è spiegare perché alcune sostanze inducono tossicomania e chi ne fa uso più o meno rapidamente perde il controllo e la sua esistenza appare controllata e scandita dall'assunzione di queste sostanze, indipendentemente dalla loro pericolosità. Tutti sentiamo la necessità di sentirci protetti dal rischio di diventare tossicodipendenti, ed è rassicurante ipotizzare che chi lo è deve essere diverso, in qualche modo tarato rispetto a una teorica popolazione generale.
Per questo motivo vengono sottolineati, spesso in alternativa, la necessità di una predisposizione genetica o di un ambiente stressante e ricco di condizioni frustranti.
Ma anche il cibo è da considerare una sostanza d'abuso e l'obesità una forma di tossicodipendenza, per cui si ripete anche che "solo chi è predisposto diventa obeso".
Che dire, allora, di fronte ad un'incidenza di obesità che supera il 40 per cento negli adolescenti? Apparteniamo a una società di tarati? Negli anni Cinquanta oltre il 50 per cento della popolazione generale fumava, oggi le stime si sono attestate appena al di sotto del 30 per cento. L'occasione fa l'uomo ladro, le merendine fanno il bambino obeso, i tabaccai fanno dell'uomo un fumatore. È così semplice? Non è affatto semplice, ma questi sono i termini del problema. Un'affezione colpisce solo chi è predisposto se l'agente patogeno ha una scarsa diffusione; ma la società del benessere che ci mette a disposizione e impone i supermercati, i fast food, i più raffinati tabacchi e alcolici, una martellante televisione che invita a spendere di più, sia per il nostro benessere sia per salvare l'economia nazionale, ci ha anche regalato percentuali mai raggiunte prima di obesità.
Inoltre, per quanto sia difficile sostenere che etilismo e tabagismo sono tipici di una società del benessere, è ben vero che solo dove si producono grandi quantità di alcolici l'etilismo si diffonde e che fu la scoperta dei fiammiferi a sfregamento e delle macchine produttrici di sigarette che favorirono la diffusione del fumo.
La farmacologia ci propone nuovi miracolosi farmaci contro il fumo, l'alcool, l'obesità. Di fronte alla povertà dei risultati dovuta alla scarsa efficacia di questi prodotti, si sente ripetere che data la dimensione del problema anche i piccoli farmaci vanno utilizzati. In contrasto, di fronte al problema eroinismo, che è definito una delle piaghe della nostra società, assistiamo alla continua paradossale demonizzazione del metadone che, appropriatamente utilizzato, potrebbe risolvere i problemi psicofisici e sociali della maggior parte degli eroinomani.

Gramsci, Togliatti, Stalin

il Tempo domenica 20 luglio 2003
Su Gramsci Stalin e Togliatti erano d’accordo
di RAFFAELLO UBOLDI

PER capire la complessa vicenda nei rapporti fra Gramsci, Togliatti e Stalin, occorre (al di là delle arrampicature sui vetri dei vari Canfora e Macaluso — lascio fuori dal mazzo, e spiegherò perché, Pons, direttore dell’Istituto Gramsci) tener presenti i fatti. E i fatti ci dicono che Gramsci, chiuso a Milano nel carcere di San Vittore, in attesa di comparire davanti al Tribunale Speciale, imposta così la sua linea di difesa: egli è comunista, ma da che è stato eletto deputato non si è più occupato del partito. Ed ecco, a smentirlo che gli arriva la lettera di un togliattiano di provata fede, Grieco (si badi, spedita per posta ordinaria, quindi a piena disposizione della censura) che lo qualifica come l’unico, riconosciuto capo del Pci. Gramsci non ha dubbi su chi gli abbia sparato nella schiena. Tanto è vero che in una lettera alla cognata, Tania Schucht, scriverà: «Chi mi ha condannato è stato un organismo più vasto, di cui il Tribunale Speciale non è stato che l’indicazione esterna e materiale che ha compilato l’atto legale di condanna». E più avanti: «Devo dire che tra questi condannatori c’è stata anche mia moglie, Julca, credo, anzi, sono fermamente convinto, persuasa inconsciamente, e c’è una serie di altre persone meno inconscie». Una riprova che Togliatti fosse dietro al complotto contro il suo grande avversario nel partito la si ha del resto nel dopoguerra, allorché nella prima edizione delle «Lettere dal carcere» di Gramsci, curata dallo stesso Togliatti (in collaborazione con Felice Platone) questa lettera non figura. Verrà pubblicata solo dopo la morte di Togliatti.
Questi i fatti; che adesso trovano conferma in un’altra lettera, quella che la cognata maggiore di Gramsci, Evgenia, e la moglie Julca, spediscono a Stalin attorno al 1940, con una serie di accuse, dirette o indirette, a Togliatti, fra cui quella di non aver fatto nulla per farlo riparare in Unione Sovietica, sottraendolo ai fulmini del regime fascista. Il direttore dell’Istituto Gramsci questa lettera l’ha trovata, e bene ha fatto a pubblicarla, scatenando le reazioni dei togliattiani a tutt’oggi più fedeli. In sintesi: chi non volle Gramsci a Mosca, Togliatti o Stalin? La questione è controversa, al punto da indurre gli estimatori di Togliatti (parrà strano, ma ce ne sono ancora) a sostenere una tesi che sembra contenere una parte di verità. Non aprendogli la strada di Mosca, Togliatti ha salvato Gramsci da un destino atroce, quello di finire davanti a un plotone di esecuzione, comunque in un gulag.
Che questa a Mosca sarebbe stata la fine di Gramsci, non c’è dubbio alcuno. In più di una occasione aveva condannato i metodi con cui Stalin governava il partito sovietico e la sua politica di guerra aperta ai socialisti, bollati come eretici, e perfino tacciati di «socialfascisti». Una politica che divideva la sinistra davanti a Hitler e Mussolini. Ma proprio per questo è difficile pensare che Togliatti abbia agito indipendentemente da Stalin nel decidere del destino di Gramsci. Fu un fedelissimo di Stalin, quando nella segreteria del Comintern controfirmò la condanna dei comunisti polacchi, in Spagna nelle epurazioni a sinistra contro trozkisti e anarchici. In Italia nel tentativo di svuotare dall’interno la democrazia del dopoguerra, pur aderendovi formalmente. Fu con Mosca durante la repressione a Budapest (ricordiamo l’episodio, narrato da Ingrao, del brindisi all’intervento sovietico). Insomma: un fedele non privo di risvolti opportunistici, se la Madre Russia glielo chiedeva. Gramsci gli stava bene in galera in Italia: se non gli aprì la strada di Mosca fu solo perché Stalin non glielo chiese. Quello Stalin per cui una galera valeva l’altra, incapace perfino di concepire che da noi potessero essere diverse.
Diverse rispetto a quelle sovietiche, pur nel quadro di una dittatura. Con un carcere, quello di Turi, che carcere pur sempre era, ma per malati cronici. Con la possibilità per Gramsci di morire non in cella, ma nella clinica Quisisana di Roma; per la cognata Tania e per l’economista Sraffa, con la possibilità di salvare i suoi documenti (i «Quaderni», o le «Lettere dal carcere»), che nessuno in Italia provvide a sequestrare, come accadde nella Russia staliniana per gli scritti di Trotzky o di Bucharin. È in questo quadro che la lettera di Evgenia e di Julca a Stalin assurme soltanto un’importanza temporale. In una Russia dove ciascuno doveva piegarsi al rito dell’accusa, le due donne fecero quanto gli si chiedeva, perfino disegnando il ritratto di uno Stalin migliore di Togliatti, quando nella realtà i due filavano di comune accordo. La prova? Il fatto che Togliatti sia uscito indenne dalle purghe che pure avevano travolto tante figure in posizioni simili alla sua.

Giordano Bruno e Clemente VIII

Il Giornale Di Brescia 20.7.03
Luci e ombre nella biografia del pontefice
CLEMENTE VIII TRA GIORDANO BRUNO E LE RIFORME
di Raffaello Uboldi

All’alba del 17 febbraio del 1600 i romani videro un corteo preceduto da un uomo in catene e con la lingua bloccata da uno strumento detto «mordecchia», usato per impedire agli eretici di bestemmiare sul rogo. La processione si dirigeva verso la piazza di Campo de’ Fiori, dov’era stata allestita la pira. L’uomo in catene era Giordano Bruno, l’ex-frate domenicano arrestato nel maggio del 1592 su ordine dell’Inquisizione e condannato al rogo per eresia dopo un processo durato otto anni. Fra le accuse che gli erano state mosse c’era quella di essersi fatto portavoce del libero pensiero, anche in contrasto coi dettami della Chiesa, di aver sostenuto, in linea con la filosofia copernicana, ma addirittura superandola, la pluralità dei mondi e il dilatarsi all’infinito dell’Universo, e così via. Mentre Giordano Bruno moriva, il pontefice Clemente VIII, al secolo Ippolito Aldobrandini, saliva la Scala Santa nell’ambito delle celebrazioni del Giubileo. Un Giubileo che riscosse molto successo, con un milione e duecentomila pellegrini affluiti a Roma da ogni dove, ottomila Messe celebrate in San Pietro e 200.000 fedeli presenti nel giorno di Pasqua alla benedizione papale. La morte di Bruno non aveva mutato in nulla i rapporti dei fedeli con la Chiesa. Del resto, vedere un eretico salire sul rogo era abbastanza consueto. Prima del frate domenicano, altri diciassette eretici - o presunti tali - erano stati condannati alla stessa pena durante quel pontificato. E pochi (o nessuno) erano a conoscenza delle parole gettate da Giordano Bruno in faccia ai suoi giudici: «Voi pronunciate la sentenza con maggiore paura di quella con la quale io l’ascolto». In seguito, col passare del tempo, le cose sono mutate: all’esaltazione della figura di Giordano Bruno si è unita, in parallelo, la condanna di Clemente VIII. Ma meritava davvero, quel Pontefice, un simile destino? È la domanda che si pone Rita Pomponio in un libro appassionante, dal taglio di un romanzo, anche se rigorosamente aderente ai fatti: Il Papa che bruciò Giordano Bruno (Piemme, 300 pagine, 18 €). La conclusione è che, a quasi quattrocento anni dalla sua morte - avvenuta il 5 marzo 1605 per emorragia cerebrale, - pochi conoscono appieno la figura di colui che fu «un grande pontefice», vissuto in uno dei secoli più tormentati per l’Europa e la Cristianità. Un uomo del suo tempo, certo; e questo spiega i roghi per eresia, le confessioni estratte con la tortura, i processi davanti al terribile tribunale della Santa Inquisizione, dove l’importante era arrivare a una condanna, capace di servire da monito agli spiriti ribelli, più che appurare la realtà dei fatti. Un Pontefice che era la guida della Chiesa, ma che al tempo stesso regnava su uno Stato minacciato dalle dottrine protestanti, dai Turchi alle porte e dalle rivalità tra i principi cristiani. È proprio tenendo conto di un orizzonte così burrascoso, che il pontificato di Clemente VIII viene esaltato per i traguardi raggiunti, dalla conquista del Ducato di Ferrara all’abiura - anche se per motivi certamente più politici che religiosi - di Enrico IV, convinto che Parigi, cioè il trono di Francia, valesse bene «una Messa»; dalla riforma della Chiesa, attuata sulla base dei decreti approvati dal Consiglio di Trento, all’avvio di nuove missioni in Oriente. Nel servire la Chiesa, questo Papa si avvalse spesso della collaborazione di un amico e confidente quale Filippo Neri, che molti anni prima gli aveva fatto questa predizione: «Un giorno sarai papa e ti chiamerai Clemente». Sostenne San Giuseppe Calasanzio nell’istituzione della prima scuola pubblica gratuita per i figli del popolo, l’unica allora esistente in tutta l’Europa. Un’attenzione particolare fu rivolta ai malati di mente, accolti nell’Ospedale di Santa Maria della Pietà con la raccomandazione che venissero loro prodigate «cure amorevoli al fine di recuperarli a una vita normale». Il Papa propose perfino di istituire una moneta unica in Italia. Introdusse pene severe per gli usurai, per coloro che divulgavano false notizie e per i criminali che lanciavano pietre contro le carrozze. Con eguale severità cercò di combattere il traffico dilagante di opere d’arte e i tombaroli che saccheggiavano i siti archeologici. Chiese ai giudici di accelerare i processi, per evitare agli imputati, specie quando la loro innocenza fosse ovvia in partenza, una lunga e ingiusta reclusione. Vietò ai magistrati, avvocati e carcerieri di accettare regalie dai detenuti. Stese di persona leggi molto rigorose per arginare la «cattiva abitudine», che si andava diffondendo fra i rampolli della nobiltà, di assassinare i genitori al fine di ereditarne i beni. Fu amico di letterati, fra i quali giganteggia la figura di Torquato Tasso. Preoccupato della condotta non proprio ascetica di tanti religiosi e della mancanza di disciplina nei conventi, fu il primo pontefice a compiere quelle visite che furono chiamate «pastorali». Insomma, Clemente VIII fu un pontefice che avrebbe meritato una maggiore stima fra i posteri. Se non fosse per quella morte sul rogo a cui condannò un uomo che ci ha insegnato che il diritto di pensare con la propria testa merita il sacrificio della vita.