martedì 16 novembre 2004

PIETRO INGRAO
su LIBERAZIONE

una segnalazione di Gabriella Cetroni:

Liberazione 16.11.04

Opposizione, muoviti: quella guerra è illegale

di Pietro Ingrao


Cari compagni,

Oggi, lunedì 15 novembre, apro i giornali del mattino. Leggo l'Unità, e a pagina 6 trovo un titolo su cui è scritto: "L'Italia è in guerra. Parola di Pera". Segue un sottotitolo (sempre su tutta la pagina) che dice: "Gli fa eco il ministro Martino: meglio la guerra preventiva che la guerra successiva".

Dico a me stesso: forse sono titoli esagerati, saranno una forzatura di un giornalista che ha voluto fare un titolo eclatante. Ma non è così: perché sotto quel titolo di scatola c'è un'intervista, in cui Fabio Mussi sostiene che Pera - cioè il presidente del Senato! - «ha scavalcato persino Bush». E dichiara, Mussi, che la missione italiana «è del tutto priva di legittimità costituzionale», alludendo evidentemente all'articolo 11 della Costituzione.

Mi chiedo ancora se Mussi non si sia fatto trascinare dalla passione polemica dell'Unità, che non è certo un giornale gentile verso il governo. E allora vado a sfogliare La Repubblica. Il suo titolo in realtà è un po' ambiguo e attribuisce a Martino una frase non chiara. «Via (dall'Irak) appena possibile…. Che vuol dire? Chi e come stabilisce l'"appena possibile?» Mi butto allora a leggere il testo sulle dichiarazioni di Martino e trovo questo ragionamento che è bene riportare tale e quale da Repubblica: «Quale è l'alternativa - chiede Martino - alla guerra successiva? Aspettiamo di subire un altro attentato terroristico e poi reagiamo? In questi casi è meglio prevenire che curare».

E qui allibisco. Il ministro degli Esteri d'Italia fa sua e legittima quella nozione di guerra preventiva definita dal presidente degli Stati Uniti d'America: nozione che rovescia radicalmente quel povero articolo 11 della Costituzione italiana.

Mi prende uno scrupolo, visto che Repubblica è pur sempre un giornale d'opposizione (e forse malevolo verso il Martino). E vado a sfogliare il togato Corriere della sera. E qui ancora trovo una affermazione del Martino che mi lascia intontito. Dice il ministro (e cito tra virgolette): «Voglio solo ricordare che la missione in Irak non ha una scadenza». Come aggiungere: è una guerra preventiva e senza limiti.

A questo punto non si tratta più di Martino e del governo Berlusconi: si tratta di sapere quali sono le leggi che esistono in questo Paese.

Cari compagni, se io, cittadino qualunque, svaligio un appartamento, o rapino una banca, e la polizia mi becca, cosa fa? Mi schiaffa ai polsi un bel paio di manette. E se io protesto, mi risponde: è la legge. Domando allora. C'è in questo Paese una legge in cui si decide se e quando l'Italia può fare la guerra? E chi lo stabilisce? C'è scritto in Costituzione? E se non c'è scritto, che razza di Costituzione è? E se c'è scritto in Costituzione - come è di fatto - e il governo se ne infischia e fa in altro modo, è possibile che non succeda nulla?

Confesso che sono stanco di fare questa domanda alle Massime Istituzioni. Ora lo chiedo ai miei amici dell'Opposizione: e domando semplicemente se ho ragione o torto in questo mio sdegno per le parole di questo ministro di Berlusconi.

E se non ho torto come mai non succede niente - proprio niente! - e a chi debbo rivolgermi, io cittadino della Repubblica.

Grazie, compagni, se mi aiutate un po' a chiarirmi le idee sulle leggi in vigore nel mio Paese. Soprattutto in materia di guerre.

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citato al Lunedì

Lunedì mattina su Radio 3

RADIO3MONDO

nell'ambito della trasmissione dal titolo

"BAD GODESBERG, potrebbe essere, come ha detto Fausto Bertinotti, base culturale della sinistra europea"

ha messo in onda una intervista a

FAUSTO BERTINOTTI

che si è riferito anche all'

INCONTRO DI VILLA PICCOLOMINI

l'intera trasmissione può essere ascoltata adesso dagli ARCHIVI della trasmissione, cliccando sul seguente indirizzo:


Annalina Ferrante comunica
che ha lasciato un CD con la registrazione di questa trasmissione
presso la LIBRERIA AMORE E PSICHE
dove potranno ascoltarla anche le compagne e i compagni
che non siano riusciti a farlo su Internet
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citato al Lunedì
il terrorismo di Pansa e la risposta di Sansonetti

La Repubblica 13.11.04
Quegli espropri proletari che portarono alla P38
IL CASO
GIAMPAOLO PANSA

«NON parlarmi del Settantasette!», mi pregò un giorno Luciano Lama. La sua bella faccia da eterno ragazzo, impetuoso e sereno, era scheggiata da un smorfia di disgusto: «Fu un anno miserabile e sporco di sangue. E poi, per me, cominciò come sai~». Già, gli dissi, il tuo giovedì nero, il 17 febbraio 1977. Eri andato alla Città universitaria di Roma per una manifestazione sindacale sulla riforma degli atenei e la disoccupazione giovanile. Ma durante il comizio ti aggredì una banda di autonomi, che distrussero il palco e ti obbligarono a ritirarti. «Sì, c' ero andato di mia iniziativa», raccontò Lama. «Però nessuno dentro la Cgil e il Pci mi aveva sconsigliato. Anzi, Enrico Berlinguer mi aveva detto di farlo, perché era preoccupato quanto me del disordine e della violenza che stavano dilagando nelle aule della Sapienza. Poi, quando successe tutto, i miei compagni un po' mi mollarono. Qualcuno mi accusò di aver compiuto un passo falso. Giancarlo Pajetta mi spiegò che m' ero mostrato incauto e che la mia mossa era stata avventata. Insomma, non ho avuto la solidarietà schietta e affettuosa che mi aspettavo. Ho avvertito del gelo e mi ha fatto male». Berlinguer che cosa ti disse dopo? «Ci incontrammo alle Botteghe Oscure. Mi chiese come erano andate le cose e glielo raccontai. Ascoltò in silenzio, poi replicò "Va bene" e nient' altro. Enrico era un tipo schivo, qualche volta anche freddo». «Però quando ti dava una prova d' affetto si capiva che era sincera. Quel giorno non mi diede niente. Ecco tutto». Gli domandai ancora: che cosa pensi di quella giornata? Lama non ebbe esitazioni: «Che era stata utile. Aveva svelato che, dentro le bande di Autonomia operaia, stava covando qualcosa di molto pericoloso. E la mia presenza all' università era servita a far vedere questo pericolo con chiarezza a tanta gente, soprattutto ai lavoratori iscritti al sindacato. Troppi, nella Cgil e nel Pci, pensavano che il movimento del Settantasette fosse più o meno simile a quello del Sessantotto. Ma non era così. Stava emergendo un grumo di disperazione, d' impotenza, di violenza fine a se stesso». Non mi passò neppure per la mente di chiedere a Lama degli espropri proletari, evocati in questi giorni dopo l' assalto al supermercato Panorama e alla libreria Feltrinelli. In quel tempo, erano un fenomeno naturale, come la pioggia o la nebbia. Nel 1977 furono centinaia e centinaia, in tutta Italia. Al punto di non fare più notizia. E di non avere bisogno di slogan che li spiegassero. Anche se ne ricordo uno che i Disobbedienti di oggi potrebbero riciclare: "Su, su, su, i prezzi vanno su / prendiamoci la roba e non paghiamo più!". L' obiezione di Fausto Bertinotti, che allora non si arrestava nessuno per una spesa proletaria, non tiene conto di che cos' era l' Italia di quell' anno: un campo di battaglia, in un clima da guerra civile, con decine di migliaia di giovani arruolati dall' estremismo di sinistra e, in misura assai più ridotta, da quello di destra. Con il potere politico, le istituzioni e lo Stato sempre sul punto di essere sopraffatti dall' assalto contemporaneo del terrorismo selettivo delle Brigate rosse e da quello di piazza manovrato da Autonomia operaia. E con tanti morti ammazzati. Se ripensiamo al Settantasette, i cortei odierni di San Precario sono un gioco da bambini. Allo stesso modo i capi dei Disobbedienti, i Casarini, i Caruso, i D' Erme, i Lutrario appaiono le controfigure comiche dei leader eversivi di un trentennio fa. E tuttavia anche loro scherzano con il fuoco. Nelle "azioni dirette" che organizzano s' avverte un' eco che viene dal passato e che va respinta. Enfatizzarle è sbagliato. Ma osservarle alzando le spalle e con il sorriso sulle labbra è da sciagurati. Il saggio Lama seppe vedere prima di altri il pericolo che minacciava di travolgere l' Italia del 1977. Il giorno successivo all' assalto degli autonomi all' università di Roma, si rifecero vive le Brigate rosse. A Torino fu gambizzato Mario Scoffone, dirigente del personale alla Fiat di Rivalta. Ventiquattro ore dopo, la stessa sorte toccò a Bruno Diotti, caporeparto della Fiat Mirafiori. E lo stesso 19 febbraio, a Milano, sulla provinciale che conduce a Rho, un terrorista uccise un brigadiere della polizia stradale, Enzo Ghedini, che lo aveva fermato per un controllo. Non trascorse un mese e, di nuovo a Torino, il 12 marzo le Br assassinarono un brigadiere della polizia, Giuseppe Ciotta. Lo accopparono sotto casa, in via Gorizia, mentre andava al lavoro. La Torino del 1977 era una città straziata dagli agguati e dalle rivolte, ma non era l' unica ad esserlo in Italia. Il giorno prima dell' imboscata a Ciotta, la polizia di Bologna era stata costretta a intervenire all' università, dove gli autonomi avevano aggredito degli studenti di Comunione e liberazione. Negli scontri, venne ucciso un militante di Lotta Continua, Francesco Lorusso. Il 13 marzo ci furono cortei di protesta e incidenti pesanti. Nel centro di Roma migliaia di manifestanti, al seguito di Autonomia, la fecero da padroni. Con ore di guerriglia urbana, che videro il saccheggio di negozi, alberghi, bar e due armerie. Un esproprio, quest' ultimo, difficile da giustificare con i prezzi sempre più su. Chi ruba fucili e pistole poi le usa. Nove giorni dopo, sempre a Roma, fu ucciso l' agente Claudio Graziosi. Il 21 aprile, ancora nella capitale, nuovi scontri all' Università, capeggiati dagli autonomi. Poi la guerriglia dilagò per il quartiere di San Lorenzo. Molotov, barricate, sparatorie. Un agente, Settimio Passamonti, venne colpito a morte e un altro rimase ferito in modo grave. Sul posto fu lasciato un cartello che diceva: "Qui c' era un carruba, il compagno Lorusso è stato vendicato". Ricavo questo dettaglio da un libro ricco di notizie: "Una sparatoria tranquilla. Per una storia orale del '77", pubblicato nel 1997 da un editore romano di sinistra, Odradek. Soltanto la nuda cronologia degli eventi di quell' anno occupa cinquantacinque pagine. Leggerle ci rivela che abbiamo dimenticato tutto. A cominciare dai nomi dei morti. Di qualcuno, forse, conserviamo un ricordo vago. Come di Giorgiana Masi, una studentessa di 19 anni, uccisa da un poliziotto in borghese il 12 maggio, durante una manifestazione dei radicali per l' anniversario del referendum sul divorzio. Ma chi rammenta come morì, due giorni dopo, il sottufficiale di polizia Antonio Custrà? Eppure la fine di questo brigadiere di 25 anni è stata fissata in una foto famosa. è quella del guerrigliero urbano che in una strada del centro di Milano, credo via De Amicis, punta la rivoltella su un bersaglio. Era il 14 maggio, giorno del corteo per l' uccisione della Masi. Un gruppo di autonomi armati di molotov e di pistole cominciò a sparare sulla polizia, fra il panico dei passanti. Custrà fu assassinato in quel momento, nella capitale morale di un paese che non era più libero di vivere in pace. è vero: di questi tempi siamo sotto l' incubo del terrorismo islamico e di qualche grande attentato. Ma in quell' anno eravamo alle prese con un terrore autarchico, roba nostra, prodotta e distribuita quasi ogni giorno. Era meglio o peggio di oggi? C' è una sola risposta, ovvia e brutale: per chi ci rimetteva la pelle o le gambe, certamente peggio. Il 28 aprile, ancora una volta nel mattatoio di Torino, le Br assassinarono l' avvocato Fulvio Croce. Era un galantuomo di 76 anni, presidente dell' ordine degli avvocati. Doveva designare i difensori d' ufficio per i brigatisti da giudicare. Lo uccisero per impedire il processo. E riuscirono a bloccarlo. L' assassinio era stato annunciato da uno dei terroristi imputati, Maurizio Ferrari: «Gli avvocati che accettano il mandato d' ufficio sono dei collaborazionisti del tribunale di regime». Sono parole che ricordano quelle che avrebbe detto anni dopo un pistolero che nel 1977 si stava addestrando: Marco Barbone, l' assassino di Walter Tobagi. E disegnano una parabola terribile, percorsa da molti giovani di allora: «Nella speranza di sconfiggere il potere, lo abbiamo riprodotto sino ad arrogarci il potere di decidere la vita e la morte. Ma ci fu anche dell' altro. Era il consenso che il terrorismo brigatista suscitava in aree della società estranee al suo lavoro criminale. Qui dovremmo addentrarci nei bassifondi della faziosità italiana. Dove si muovono le pulsioni oscure che spesso accompagnano quelle più scoperte, e lecite, della passione politica. Lo si vide il 2 giugno quando le Brigate rosse ferirono, nel centro di Milano, Indro Montanelli. Al direttore del Giornale nuovo mancava ancora molto prima d' essere consacrato dalla sinistra come un alleato. Così, quando venne gambizzato, furono in tanti ad esultare: "Ben fatto, quel destrone se l' è cercata!". Non fu possibile dire lo stesso, di nuovo a Torino, per Roberto Crescenzio, vittima incolpevole di un corteo di Lotta Continua seguito alla morte di Walter Rossi, uno studente ucciso dai fascisti a Roma. La coda di quel corteo scagliò delle molotov contro un bar di via Po, l' Angelo Azzurro, ritenuto a torto un covo di neri. Roberto, uno studente lavoratore di 22 anni, era capitato per caso nel locale. Cominciò a bruciare tra le fiamme. Quando lo trascinarono fuori, era un pupazzo irriconoscibile. Un manichino posato sopra una sedia sotto i portici, il corpo devastato dal fuoco, la testa trasformata in una palla informe. Crescenzio spirò in ospedale. Era lucido e soffriva. Fece in tempo a chiedere al sindaco di Torino, Diego Novelli: «Perché mi obbligano a crepare in questo modo?». Chi non riuscì a dire nulla fu Carlo Casalegno, un altro dei nostri morti, straziato dalle rivoltellate brigatiste il 16 novembre. Il giorno successivo, a Genova, le Br spararono a Carlo Castellano, un dirigente dell' Ansaldo. Lui riuscì a salvarsi, attraverso una lunga via crucis. Con Castellano siamo diventati amici. Sono stato tentato di chiamarlo, per domandargli: «Che cosa pensi dell' Italia del 1977, l' anno che ti ferirono?». Poi ci ho rinunciato. Mi basta quel che penso io: un vero schifo. Eppure c' è ancora qualcuno che rimpiange quell' epoca. E immagina di riviverla perché, si dice, il conflitto è il sale della democrazia. Per tornare da dove sono partito, Lama non andava in orgasmo per i conflitti. Ripeteva: «Chi tratta vince». Aveva ragione lui. Ma quanti vorranno capirlo?

Liberazione 14.11.04
Pansa
i conformisti e gli espropri
di Piero Sansonetti

Il primo libro di politica che ho letto, a 16 anni, me lo procurai alla Feltrinelli di via del Babbuino, a Roma. Costava 300 lire. Io però non avevo 300 lire e allora lo rubai. Era il "manifesto del partito comunista". Lo lessi, era bellissimo. E soprattutto era assolutamente convincente, ed io diventai comunista. Non credo che il mio piccolo furto sia stato un tremendo crimine. Negli anni seguenti rubai altri libri: Lenin, Marcuse, Che Guevara, forse anche Stendhal. Il vecchio direttore della libreria, del quale non ho mai scoperto il nome, era un uomo molto simpatico e faceva finta di non accorgesene. Bastava non esagerare. Un libro alla volta, sotto il cappotto, non di più. D'estate niente.
Sono sinceramente stupito di fronte al possente fiume di indignazione che da una settimana sta travolgendo le coscienze degli opinionisti italiani, terrorizzati dalla spesa a basso costo (loro dicono "esproprio proletario") dei disobbedienti che sabato scorso hanno portato via un po' di merce da un supermercato di Pietralata e poi dalla Feltrinelli di piazza Esedra. Pagandola pochissimo e successivamente distribuendola alla gente. I disobbedienti hanno spiegato che quella era una forma di lotta contro il carovita. Questo giornale ha già spiegato - in modo assai netto - perché giudica sbagliata quella forma di lotta. Però, santo cielo, una cosa è dire che è una lotta sbagliata e una cosa un po' diversa è stracciarsi le vesti e paragonarla alle azioni della malavita, della mafia, della camorra, del terrorismo internazionale e delle Brigate rosse. Il ministro Pisanu ha gridato ai quattro venti che era pronto alla repressione più severa: "tolleranza zero", ha giurato tra gli applausi dei giornali (c'è in giro un sacco di gente che si gloria di essere intollerante. Gli pare una virtù: povero Voltaire...). Giampaolo Pansa ieri su Repubblica ha scritto un lunghissimo articolo intitolato: "Quegli espropri proletari che portarono alla P38". (Per chi non lo sa, la P38 è una pistola). Poi c'è un sottotitolo: "Nei blitz dei disobbedienti lo spettro del '77". Nelle fotografie, d'epoca, che accompagnano l'articolo di Pansa (inizia in prima e poi riempie l'intera pagina 17) si vedono varie pistole in mano a giovani manifestanti e ad agenti di polizia.
L'articolo è composto da una ampia intervista postuma a Luciano Lama (mitico capo della Cgil negli anni settanta, morto otto anni fa), e poi da un dettagliato racconto di tutti gli episodi di violenza e di tutti gli omicidi politici del 1977, intervallato da alcuni riferimenti a Luca Casarini, Francesco Caruso, Guido Lutrario e Nunzio D'Erme, cioè i capi dei disobbedienti di oggi. Non c'è nessun sottinteso nell'articolo, nessun ammiccamento. E' un articolo assolutamente esplicito, che sostiene candidamente questa tesi: i disobbedienti sono quelli che avviano un ciclo vizioso, e questo ciclo finisce con la lotta armata e il terrorismo. In uno dei titoletti che corredano l'articolo di Pansa c'è scritto proprio così: "Inquietante parallelismo". Non starò a spiegare perché la tesi di Pansa è del tutto inconsistente e anche un po' buffa. Ogni lettore di Liberazione è in grado di capirlo di se. Anche Pansa è in grado.
Ho sempre stimato Gianpaolo Pansa, che per molti di noi - quelli che sono arrivati al giornalismo proprio durante i cosiddetti anni di piombo - è stato un po' un maestro. Facevamo a gara ad imitare la sua capacità di scrivere, di raccontare, di trovare il dettaglio più suggestivo, di coinvolgere il lettore nelle cose di cui lui parlava. Bravissimo. So che le sue recenti posizioni politiche - soprattutto dopo il breve periodo dell'anti-dalemismo - oggi sono di feroce ostilità verso la sinistra radicale, verso Rifondazione e specialmente verso Fausto Bertinotti: ma questo è un suo pieno diritto professionale e personale, e non c'è niente da ridire. Però di fronte ad una operazione giornalistica come quella di ieri non posso non farmi una domanda seria: cosa spinge una parte consistente del nostro giornalismo - e della intellettualità italiana - ad assumere posizioni sempre meno critiche verso il potere, sempre meno impegnate nella ricerca e nella analisi politica, e sempre più insofferenti, arroganti, aggressive, verso ogni forma di lotta che rompa gli schemi del conformismo e del pensiero uniforme? Perché i grandi giornalisti, e gli intellettuali pensanti, non si sono mai misurati, in questi anni, con problemi come - per esempio - le leggi europee sul lavoro che azzerano i diritti e dimezzano i salari, o come il protezionismo agricolo, o come le normative internazionali che privatizzano i servizi (l'acqua, la scuola, la sanità), o come i prezzi delle medicine che arricchiscono le case farmaceutiche e mietono milioni di vittime in Africa, o come la sciagurata riforma della scuola della Moratti, o la politica della Confindustria (e dei governi italiani) che in un decennio ha ridotto del 15 o del 20 per cento gli stipendi di quasi tutte le categorie più deboli? Perché la nostra intellettualità e i nostri giornalisti - come ha scritto giorni fa su queste pagine Marco Revelli - si sono arresi? Perché hanno abbandonato ogni aspirazione a mettere in discussione l'ordine costituito? Al massimo riescono a lamentarsi per un eccesso di potere di questo o quel pezzo di borghesia, riescono a prendersela col prevalere del potere politico su quello giudiziario o viceversa, riescono genericamente a protestare per il basso profilo culturale e umano del berlusconismo: niente di più. L'intellettuale-contro, il giornalista-contro sono figure praticamente scomparse. E se qualcuno ha ancora voglia di indignarsi trova come sfogo l'invettiva da scagliare sui disobbedienti. Fabrizio De Andrè diceva: "Signori benpensanti... ".
Il fronte degli intellettuali è uno dei punti più deboli della sinistra di oggi: la sinistra è scoperta su quel lato. Negli anni sessanta non era così. Dobbiamo capire che c'è questo problema e non possiamo sottovalutarlo, perché è difficile vincere le grandi battaglie, e imporre idee nuove, se la stragrande maggioranza della intellettualità non ne vuole sapere. Per fortuna c'è ancora qualcuno che ha voglia di pensare: leggete l'intervista a Marcello Cini che pubblichiamo a pagina due [cfr in questo blog in data 15.11.04. Ndr] e vi rincuorerete un po'.
Piero Sansonetti

Corriere della Sera:
Paolo Mieli a proposito di Bertinotti

una segnalazione di Sergio Grom

Corriere della Sera 16.11.04
Lettere al Corriere
risponde Paolo Mieli
Bertinotti tra chi espropria e chi inneggia a Nassiriya

La settimana scorsa gli espropri proletari. Adesso leggo in un articolo di Marisa Fumagalli che sabato scorso a Venezia i no global di Luca Casarini, per protestare contro l’assemblea parlamentare della Nato che si riuniva al Lido, hanno lanciato fumogeni e barattoli di vernice rossa contro il pubblico che affluiva alla Fenice per assistere alla prima della «Traviata» diretta da Lorin Maazel. Lo stesso giorno a Roma in un corteo a favore della causa palestinese si è inneggiato alla «resistenza di Falluja» ed è stato scandito lo slogan «Dieci, cento, mille Nassiriya». Al termine della manifestazione nella capitale, poi, è stato impedito di parlare persino a un rappresentante di Rifondazione comunista, Gennaro Migliore.
Riccardo Nuzzi, Milano

Caro signor Nuzzi, in una parte della lettera che ho dovuto tagliare per ragioni di spazio, lei sostiene che questi episodi (tra i quali cita come forma di esproprio dei no global il conto non pagato all’Harry’s Bar di Venezia che ha attirato l’attenzione anche del lettore Maurizio Tempesti) la inducono a prefigurare una nuova cupa stagione di violenza. Io - devo essere sincero - non vedo all’orizzonte un ritorno, neanche in scala ridotta, agli anni Settanta. Mi sembra di assistere piuttosto a un tentativo da parte della nuova sinistra extraparlamentare di mettere in difficoltà il segretario di Rifondazione comunista Fausto Bertinotti che da circa un anno è impegnato in una battaglia per imporre alla sua area politica il tema della non violenza (nel merito suggerisco la lettura del bel libro «Nonviolenza» dello stesso Bertinotti, Lidia Menapace e Marco Revelli, edito da Fazi).
Fu più o meno quando Bertinotti iniziò a far sua la lezione di Gandhi che nell’estrema sinistra echeggiò la prima volta quello slogan che dava valenza positiva al tragico accaduto di Nassiriya. A metà novembre di un anno fa, dopo la strage dei carabinieri in Iraq, a San Paolo d’Enza, nei pressi di Reggio Emilia, un gruppo di animalisti ha assediato un allevamento; intervennero i carabinieri e fu lì che i manifestanti scandirono per la prima volta quelle cupe parole: «Viva, viva Nassiriya», «Dieci, cento, mille Nassiriya». Dopodiché quel motto sinistro è echeggiato dieci, cento, mille volte. Compreso il giorno in cui cadeva il primo anniversario dell’eccidio.
Quanto ai cosiddetti espropri proletari, al Corriere non è sfuggito che nell’annunciare la manifestazione di Roma in cui sarebbero stati compiuti quei furti di non lieve entità all’ipermercato Panorama (hi-fi, videocamere e altri generi supervoluttuari) e alla libreria Feltrinelli, Liberazione li ha prospettati come «shopsurfing metropolitano» ovvero «azioni di riappropriazione di reddito» per ottenere «sconti massicci su un paniere di beni trasversali, dai saperi ai sapori». E nei giorni successivi - a fronte della condanna di tutta la sinistra o quasi - il deputato di Rifondazione Giovanni Russo Spena, dopo aver ammesso di aver compiuto anche lui in tempi passati quel genere di imprese, ha dichiarato a questo giornale che «naturalmente si tratta di gesti illegali, ma va riscritta la grammatica della legalità, perché alcuni atti illegali hanno come finalità la presa di coscienza di massa». Per poi aggiungere che «la ridistribuzione di beni a chi non ha mezzi è stata una cosa bellissima, un’azione diretta, moderna e innovativa, da ripetere anche; magari, però, organizzandola meglio».
Altrettanto in vena di nostalgia per la propria giovinezza, il direttore di Liberazione , Piero Sansonetti, ha cercato di minimizzare quella che ha definito «la spesa a basso costo dei disobbedienti» ricordando che anche lui a sedici anni iniziò a leggere libri di politica dopo aver infilato sotto un cappotto e non aver pagato alla cassa di una libreria Feltrinelli una copia del «Manifesto del Partito comunista» di Marx e Engels: «Non credo che il mio piccolo furto sia stato un tremendo crimine - ha scritto Sansonetti - negli anni seguenti rubai altri libri, Lenin, Marcuse, Che Guevara, forse anche Stendhal». Con la complicità del direttore della libreria il quale, a suo dire, «faceva finta di non accorgersene».
Ripeto: non penso che episodi del genere segnalino una qualche possibilità che si torni agli anni di piombo. Ma gli spunti di riflessione offerti da Russo Spena e Sansonetti dall’interno di un partito il cui segretario è impegnato a imporre il tema della non violenza mi appaiono assai curiosi. Tanto più che l’aggressione - da lei, caro Nuzzi, opportunamente menzionata - al responsabile esteri di Rifondazione, Gennaro Migliore, ben si inquadra in questo clima. Mi sorge il sospetto che qualcuno da quelle parti si sia distratto rispetto alle difficoltà cui va incontro Fausto Bertinotti.
Paolo Mieli

...ancora su Bad

un testo ricevuto

Dall'ultimo numero della rivista bimestrale "ItalianiEuropei" diretta da Giuliano Amato e Massimo D'Alema (disponibie anhe sul sito italianieuropei.it), viene rispolverato un vecchio libro di Helmut Schmidt per parlare di riformismo, di Popper e anche di Bad Godesberg


Socialismo e società aperta
A proposito di Helmut Schmidt e Karl Popper
di Paolo Borioni

Razionalismo critico e socialdemocrazia è un caso particolarmente fertile di convergenza fra intellettuali definibili della «sinistra popperiana» (come un tempo vi fu quella hegeliana) e un grande leader della socialdemocrazia. Il testo benedicente scritto da Helmut Schmidt come introduzione al volume è a sua volta un caso piuttosto straordinario di chiaroveggenza esercitata in quella regione della cultura in cui storia, prassi politica e teoria si congiungono con fruttuosità estrema. A questa regione accedono personalità rarefatte e selezionate, e vi accede con il presente testo anche Schmidt, sebbene, appunto, non tanto con elaborazioni proprie, quanto invece sancendo quasi «pontificalmente» l’entrata di una grande filosofia del Novecento – il razionalismo critico popperiano – tra gli strumenti principi del riformismo socialista. Vista da un lato l’ampia varietà di contributi del volume, e dall’altro la semplicità e secchezza del testo che invece li introduce e che qui presentiamo, sarà utile spiegare perché in quest’ultimo si debba individuare tanto valore strategico. A leggere i saggi del volume si scorge subito l’intento di rispondere ad una triplice esigenza storico-teorica: la prima, quella di replicare alle critiche del campo marxista di provenienza DDR alla cultura socialdemocratica/occidentale. La seconda, quella di confutare il revival massimalista post-sessantottino popolare in certi settori della SPD, fra cui gli JUSOS, soprattutto sulla scorta dell’Habermas del tempo. La terza, quella di modernizzare la cultura socialdemocratica allorché il keynesismo nazionale andava esaurendosi. Si avvertiva la necessità di far seguire a Bad Godesberg una nuova fase, e ciò proprio in un paese-simbolo del riformismo europeo, quello cioè in cui «la cattedra» e «il partito» avevano da sempre più fittamente e autorevolmente cooperato. Quanto alla prima esigenza possiamo tagliare corto, e constatare semplicemente come sia assai strano che oggi, ricostruendo il Novecento – lo ricordava Silvio Pons sull’ultimo numero di questa rivista – in materia di lotta fra società aperta e totalitarismi ci si dimentichi dell’eminente ruolo socialdemocratico, e si riduca tutto ad una competizione fra liberalismo/liberismo e comunismo. Quali interessi e quali culture politiche sorreggano oggi questo tipo di «memoria selettiva» è evidente. La realtà però è irriducibilmente un’altra. Ma l’osservazione oltrepassa la mera partecipazione dei migliori intellettuali socialdemocratici alla tenzone scientifica contro il marxismo ossificato dei regimi a partito unico: Schmidt e il volume da lui voluto dimostrano come rinnovando se stesso il socialismo europeo abbia a più riprese potenziato le capacità di riforma, e dunque autocorrezione, delle democrazie. Ad un certo punto del volume 2 si critica ad esempio apertamente il programma e la cultura riformista di Bad Godesberg. Non si ritiene più, popperianamente, che la socialdemocrazia possa fondare le proprie basi etico-politiche sulla dimostrabilità «scientifica» del fatto che «…gli ideali di giustizia e di libertà sono moralmente e giuridicamente vincolanti per la società umana.» Immoralismo? Rinuncia alla riforma socialista del capitalismo? No: l’abbandono di fissità storicistiche e normativistiche (implici-tamente, anche classiste) nel lavoro di critica e riforma della società aperta. Da cui la constatazione che il socialismo europeo, con la sua lotta per l’allargamento delle basi della democrazia, per il bilanciamento fra la sfera degli interessi del capitale e quella degli interessi del lavoro (Mitbestimmung), introduceva nuove classi e culture scientifiche (con il keynesismo, la concertazione, il Welfare ecc.) nell’arena della società aperta. E qui, in termini popperiani, l’aumento dei «cercatori di verità», dei loro titoli ad interagire e a confutare, potenziava l’evoluzione delle democrazie avanzate. Da ciò almeno tre conseguenze. La prima: che la dimensione etica del socialismo europeo, e i diritti sociali e politici in essa contenuti, non erano un’aggiunta esterna (antagonista o riformista che fosse) ma invece discendeva-no dalla medesima fonte della società aperta, e anzi rivendicavano di poterne diventare l’applicazione più coerente. Non si verificava più una contrapposizione liberalismosocialismo che produceva dialetticamente la democrazia sociale, ma una gara fra tendenze liberiste e tendenze socialiste a interpretare al meglio le necessità autocorrettive ed evolutive delle società aperte. Quanto ciò ci porti all’oggi occorre appena ricordarlo. La seconda: che ogni fissità andava abbandonata proprio perché il socialismo in primis, riquali-ficandosi come massimo contributore alla spinta evolutiva della società aperta, doveva trovare sempre nuovi cercatori di verità fino ad allora (o per il prodursi di sempre mutevoli condizioni) negletti. Ogni storicismo ed ogni fissità andava abbandonata proprio in quanto l’introduzione di sempre più potenzialità e variabili confutative/evolutive nell’arena della società aperta rendeva non prevedibile coi classici strumenti la prossima necessità di riforma. Paradossalmente, quindi, volendo mantenere e anzi rinnovare il proprio ruolo e funzione di critica del capitalismo, il socialismo doveva farsi «popperiano» necessariamente. La terza conseguenza discende in buona parte dalla seconda. Il razionalismo critico permetteva in modo nuovo di risolvere una vecchia e giustificata angoscia socialista, un problema di cui, come si vedrà, Schmidt si occupa nel testo: evitare la scissione teoriaprassi. Come? Se garantiva l’afflusso di nuovi soggetti dotati di diritti e di reali possibilità di esercitarli, anche la minima riforma, potenziando la società aperta qui e ora, era «socialista», in quanto l’azione socialista era pensata entro questo orizzonte. Logicamente si perdeva la distinzione fra «momenti alti» (cioè per esempio così definiti in base alla «rottura col capitalismo» o alla «centralità della classe») e «momenti bassi» della funzione di critica socialista. Venivano con ciò eliminate le premesse di quegli atteggiamenti ambivalenti e quietistici, come il cosiddetto molletismo francese, diffuso in forme diverse anche da noi, in cui ogni compromesso era giustificabile a patto che si mantenesse intatta la fede negli esiti finali e oggettivi. E conseguentemente la fine di questa fede, forma di immoralismo da noi diffusa fino a produrre la scomparsa di interi partiti socialisti e lo sbandamento di interi partiti ex comunisti, non poteva giustificare l’estinzione della tensione verso una politica della trasformazione. Ultime due notazioni. L’opera di contaminazione fra razionalismo critico e socialdemocrazia risolveva anche gli equivoci dovuti al permanere di certi massimalismi sopravvissuti nelle pieghe della pratica socialdemocratica, per esempio nel nesso fra statalismo ed estinzione graduale «a fette» del capitalismo. O nella concezione delle riforme di struttura come avvicinamento «lombardiano» alla rottura del sistema. O in quella del Welfare inteso come eccitazione di un conflitto distributivo, non come mera estensione della cittadinanza a nuovi soggetti. In quanto funzione della società aperta la socialdemocrazia ripudiava anche queste sopravvivenze finalistiche, poiché per essa ormai il riformismo, così come per Popper la ricerca, non aveva fine. Ma il testo di Schmidt pare anche voler mantenere delle continuità forti con l’eredità socialista, cioè con Bernstein e perfino in parte con Marx. Perché ancora socialismo? Verosimilmente perché rimane valido il fatto che, anche senza più classi fondamentali, anche senza più esiti finali e senza più riformismi keynesiani nazionali, si può ancora legittimamente scorgere nel mercato il massimo produttore di ricchezze e nell’ideologia liberista la principale produttrice di «strozzature» nella società aperta (nel frattempo peraltro mondializzatasi fortemente). Insomma, è ancora in questo la contraddizione da ricomporre affinché la società aperta funzioni al meglio: nel fatto che il capitalismo tende in essa a prendere troppo spazio, deprimendone le possibilità autocritiche ed evolutive. Può quindi essere ancora questa la ragione di esistere di una cultura socialista, coi suoi movimenti e le sue forme organizzative, per quanto aggiornate. E può ancora essere questa la funzione protagonista del socialismo liberale all’interno di una «sinistra plurale», in cui, sebbene spesso fecondamente elaborate, le altre culture progressiste non possono occupare per intero l’orizzonte.
HELMUT SCHMIDT
La razionalità in politica muove da questo giudizio di valore: che costruire il mondo sociale e politico secondo la propria volontà sia meglio che adattarsi alla situazione esistente o abbandonarsi al caso. È per questo che Razionalismo critico e socialdemocrazia è un tema di tutto interesse. Nella mia introduzione alla prima stesura di un progetto di orientamento di politica economica per gli anni 1973-1985, scrissi, riferendomi alla struttura e alla salvaguardia dell’ambiente: «Il testo di questo progetto potrà apparire a qualcuno molto tecnocratico; ma sia chiaro che non esiste la riforma perfetta, il progetto risolutore. Anche in altri sistemi sociali del tutto diversi, i problemi di strutturazione delle città e delle zone rurali, da commisurarsi alla qualità della vita, sono estremamente complessi. Lavorare a questo significa perciò: cambiare sistematicamente e gradualmente leggi e norme, aggredire i singoli problemi e risolverli, promuovere il cambiamento «passo dopo passo» con concreti interventi di riforma (piece-meal social engineering, come dice Karl Popper). Con ciò era anche implicitamente respinta la distinzione che a volte si è amato fare tra riforme «che stabilizzano il sistema» e riforme «che trasformano il sistema». Una società aperta, democratica, degenera troppo facilmente in uno stato chiuso, totalitario, quando, in nome di un astratto ideale, si rinunci alla pluralità degli obbiettivi politici. Se vogliamo salvaguardare da questo rischio le nostre istituzioni, noi politici dobbiamo rimanere fedeli all’idea di un mutamento graduale, che presupponga per ogni singolo passo un largo consenso (e questo significa: compromesso!). Il politico democratico deve tenere in massimo conto la mancanza inevitabile di un completo processo democratico di scelta elettorale: perciò deve anche sentirsi moralmente impegnato ad aiutare il cittadino di uno Stato democratico a riconoscere pienamente l’oggetto di una propria scelta. Anche per questo motivo una riforma graduale della società è il tipo di riforma adatto alla democrazia. Bernstein non era soltanto intellettualmente più onesto di Kautsky, (e – a questo riguardo – anche di Bebel) ma anche più democratico di Marx. Non è soltanto la tendenza fatale di alcuni marxisti (di ogni provenienza) alla categorizzazione amico-nemico, all’alternativa totale, che li induce al rigetto del «peacemeal social engineering», è, oltre a questo, il disprezzo per un’azione politica che non si orienti ad un’idea finale, ad un fine globale per un’unica società. Si arriva allora a denunciare come «pragmatismo» quella riforma graduale che misura i propri passi secondo ciò che è via via possibile («fattibile»). (…) Certo, per Kant il politico che agisce in modo pragmatico non deve ledere la legge morale, l’imperativo cate-gorico. Il politico «morale» è solo colui che si serve dei principi pragmatici del benessere universale in piena conformità con gli imperativi della morale. Egli ha dunque bisogno della legittimazione morale (di cui per i democratici la legittimazione costituzionale è solo una parte piccola anche se importante). Ho riassunto queste ed altre idee di Kant in questo modo: politica è l’uso di immutabili principi morali per situazioni mutabili. (…) Anche quando la politica concreta ha a che fare con la soluzione pratica di problemi concreti, teoria e prassi non sono disgiunte tra loro; esiste un legame di interdipendenza tra storia, esperienza, idea, programma e azione. L’unità tra teoria e prassi deve essere voluta per due ragioni: innanzitutto per amore della verità e in secondo luogo per il principio della razionalità dell’agire. Vorrei a questo punto controbattere la tesi secondo cui una teoria debba essere maggioritaria. Questa tesi significherebbe allora l’introduzione nella scienza del principio di un sostanziale opportunismo: una teoria non deve essere maggioritaria, bensì giusta. E quando le mie azioni, dedotte da riflessioni teoriche, o le mie teorie falliscono nella realtà, devo verificare se e fino a che punto le mie riflessioni teoriche erano corrette o errate. In questo consiste il criterio per stabilire una differenza tra dogmatismo e posizione critica. Con tutto il rispetto per la storia del nostro partito, non ci si deve stancare di sottolineare che per la socialdemocrazia tedesca e per le sue realizzazioni a favore della prima democrazia tedesca del tempo di Weimar, è stata fatalità «aver teorizzato con Kautsky e aver agito con Bernstein» per due decenni. Ciò che mi disturba di alcuni teorici, spesso autonominatisi tali, è il loro tentativo di imporre ad altri le proprie teorie invece di verificarle in modo critico alla luce della realtà.
Una teoria sociale, soprattutto economica, ha bisogno di una continua verifica empirica. Non abbiamo, nella politica sociale, delle situazioni sperimentali sufficientemente chiare e delimitate, come invece è stato il caso della diffrazione della luce da parte della massa del sole per la dimostrazione della teoria di Einstein. Ciò che rimane è dunque lo scontro degli argomenti e la supposizione che le soluzioni migliori vengano trovate ove gli argomenti possono circolare il più liberamente possibile. (…) Chi è seriamente animato dall’esigenza di avere dedotto in modo plausibile ciò che dovrebbe essere dalla sua interpretazione teorica di ciò che è, avrà vita difficile; anzi troverà forse impossibile, perché gli sarà proibito, di rivedere i suoi principi fonda-mentali. In questo consiste uno dei pericoli maggiori del marxismo. Con la consapevolezza di dover prevedere «scientificamente» il corso inevitabile dello sviluppo delle società in vista del socialismo e spinte dall’impegno di dover servire a questo sviluppo, sempre nuove generazioni di marxisti, in molti paesi, si assumono il compito, sempre più difficile, di mantenere in vita (con sempre nuove strutture ausiliarie) le profezie di Marx che non si sono avverate o che sono state smentite dalla storia compiutasi a partire dal loro annuncio. Mi domando se con questo essi siano veramente d’aiuto al grande Marx; perché, così facendo, viene al tempo stesso sminuita la credibilità di quelle importanti acquisizioni di cui Marx ha arricchito il nostro sapere filosofico, sociologico ed economico. (…)
Non sono marxista, tantomeno seguace del razionalismo critico. Però raccomando di leggere Marx, come Popper (senza lasciarsi troppo trascinare dalla sua polemica: anche lo spirito polemico di Marx era altrettanto pregnante) ed altri ancora – senza dimenticare Kant (e nem-meno il suo scritto Per la pace perpetua!). Poiché «una causa fondamentale di malattie filosofiche è una dieta unilaterale» (Wittgenstein). Tutto ciò che leggiamo sulla conoscenza teorica di altri, dobbiamo verificarlo; per un verso verificarlo sulla realtà (e sulla possibilità in essa esistenti per la realizzazione di programmi fondati teorica-mente) e per l’altro sul proprio giudizio di valore fondato moralmente, sempre nuovamente affinato. Le convinzioni del socialismo democratico non provengono da un’unica teoria; esse discendono dalla propria esperienza con la realtà, dalla loro interpretazione, in ultima analisi anche dal giudizio morale su ciò che deve essere all’interno del possibile. (…) Perciò a chi vuol fare politica è necessaria una fondamentale posizione critica. Atteggiamento critico e il desiderio di convincere gli altri sono due impulsi contrastanti. Ma gli uomini critici – e su questa si fonda la mia fiducia nella democrazia – troveranno, a lungo andare, convincente anche lo spirito critico. È per questo che uno spirito teoretico, cioè critico, è il presupposto necessario per una politica fruttuosa di trasformazione, cioè di progresso. Non dobbiamo mai dimenticare che la nostra responsabilità nei confronti dell’esistenza e del benessere dei nostri cittadini, per l’abolizione definitiva dei privilegi, in favore di una società aperta, libera, ove ognuno possa cogliere liberamente la propria occasione nella vita, ci proibisce di estraniarci per una reazione di delusione dal mondo della realtà, per rifugiarci nel mondo dell’astratto.

Da AA. VV., Razionalismo critico e socialdemocrazia, Vita e Pensiero, Milano 1981.
Chi è Helmut Schmidt? Nato il 23 dicembre 1918 ad Hamburg-Barmbek, dopo essere stato ministro dell ’Economia nel governo di Brandt, diviene cancelliere federale, carica che ricopre dal 1974 al 1982, a capo di una coalizione social-liberale. Partecipa attivamente al dibattito teorico con varie pubblicazioni, e si caratterizza per il suo europeismo e per una posizione fortemente innovatrice della cultura socialdemocratica. Raffinato musicologo, è oggi editore di «Die Zeit »e uno dei padri nobili della socialdemocrzia europea.

laicità
Mario Pirani

Repubblica 16.11.04
dibattito sulla laicità
Stato, Chiesa e la lezione di Giolitti
MARIO PIRANI

"PERCHÉ non possiamo non dirci laici", ha affermato sulle nostre colonne Eugenio Scalfari, cogliendo nel segno. L´irrompere di tematiche religiose di diverso orizzonte nello scontro politico, sia su scala internazionale che all´interno dei singoli Stati, è un sintomo pericolosissimo che chiunque abbia dimestichezza con la Storia può avvertire. Le guerre di religione hanno insanguinato e devastato attraverso i secoli l´Europa e il mondo. Le loro radici risiedono nelle latebre della società e il conflitto, sovente, divampa all´improvviso. A differenza delle guerre tradizionali, quelle in cui domina l´elemento religioso sono difficilissime da concludersi e si trascinano senza soluzione: i combattenti sono, infatti, dominati da idee assolute, non suscettibili, di per sé, di mediazioni di compromesso. Sono, per gli stessi motivi, crudelissime nello svolgersi, ogni parte in causa sentendosi portatrice del Bene in lotta con il Male. Infine non conoscono alcuna separazione tra civili e militari. Soltanto nel 1648 le paci (quella religiosa e quella politica) di Westfalia concludevano quella guerra dei Trent´anni che nella sola Germania, lacerata tra il Nord protestante e il Sud cattolico, aveva causato otto milioni di morti, carestie e pestilenze. Il conflitto era scoppiato quando due funzionari dell´imperatore cattolico, giunti a Praga per impedire la costruzione di alcune chiese protestanti, vennero gettati da un gruppo di nobili protestanti dalla finestra del palazzo reale. Al centro del contendere vi era il dilemma se i sudditi dei vari Stati dovessero o no conformarsi alla religione del loro principe (cuius regio eius religio) oppure emigrare.
Questo destino incombeva sul nostro continente fino a quando non si affermò la separazione tra Chiesa e Stato. Del resto l´interminabile e sanguinosissimo contenzioso nord irlandese spiega come il veleno del dissidio religioso sia difficilissimo da debellare. Oggi quel veleno ha ricominciato a spargersi ovunque a guisa di pandemìa globalizzata. Solo uno scaramantico rifiuto, privo di senso, impedisce ai tanti "politicamente corretti" di riconoscere quanto pesi la pulsione del fanatismo religioso nella jihad islamica. Quel che suona come ancor più catastrofico è che alla sua logica militare e missionaria, che dilata sino al limite estremo il dualismo amico/nemico, corrisponde ormai «una logica altrettanto militare e missionaria, fondata sulle categorie del Bene e del Male invocate dall´America» (Renzo Guolo, "L´Islam è compatibile con la democrazia?" ed. Laterza). Con la conseguenza che la guerra terroristica tende sempre più, malgrado gli scongiuri d´uso, ad assumere i caratteri di una guerra di religione che contagia anche il pensiero occidentale. Cosa altro significa d´altronde l´ansia neo-con di imporre con le armi la democrazia all´Islam, giudicato altrimenti incapace di controllare la sua deriva fondamentalista e aggressiva, se non la pretesa di "riformare" quella religione per renderla compatibile col bisogno di sicurezza americano? La ostilità di gran parte dell´Europa verso lo spirito di crociata impresso da Bush alla guerra del Bene contro il Male, con epicentro l´Iraq, si spiega, assieme a motivazioni più volte analizzate, anche per il permanere nel Vecchio Continente di uno spirito laico che ha profondamente caratterizzato la società e le istituzioni (con una parziale eccezione per l´Italia), qualificato dalla netta separazione tra Chiesa e Stato, tra piena libertà religiosa e altrettanto piena indipendenza dei poteri democratici nel legiferare e nell´operare politico. Sottostà alla partizione fra Trono e Altare una filosofia di vita che influenza comportamenti, scelte e modi di sentire: laicismo è problematicità contrapposta ad assoluto, dubbio sistematico contrapposto a certezza aprioristica, storicismo agnostico contrapposto a finalismo etico. È immaginabile - per fare un esempio in chiave politica - che un eventuale, influentissimo sostenitore di Chirac, Schroeder o Blair possa rivolgersi in tv a Dio, il giorno dopo le elezioni, ringraziandolo per «la vittoria del suo messaggero», come ha fatto, inneggiando alla vittoria di Bush, il reverendo Falwell, capo della «Maggioranza morale» in nome di 80 milioni di evangelici americani? Scendendo però dalla scala mondiale a quella italiana lo scontro perde i connotati del dramma per assumere quelli della commedia dell´arte con attori, reduci da copioni assai diversi, che s´improvvisano oggi crociati di Cristo, vogliosi di menar fendenti contro gli infedeli casalinghi e foresti.
Neo credenti illuminati dal verbo neo-con intuiscono il vantaggio di una vestizione religiosa che addobbi l´operazione politico-culturale da loro condotta per affermare una egemonia di destra nel nostro Paese. Tutto serve alla bisogna: dal caso Buttiglione alle cellule staminali. Il disegno non è però cervellotico: tende a fornire una cornice ideologica e un contenuto unificante al legame di Berlusconi con Bush, con in sottofondo l´idiosincrasia per l´europeismo. Tutto questo non fiorisce sul nulla. Già da qualche tempo è riemersa preoccupantemente la questione dei rapporti Stato-Chiesa che nello scorrere del XX secolo era venuta perdendo le sue asperità, tanto da sopportare senza eccessive lacerazioni le difficili tappe del divorzio e dell´aborto. Per converso lo stesso laicismo si era stemperato nel cinquantennio della prima Repubblica, assumendo, per un verso, un sentore residuale, segnato da simboli e ricorrenze ormai desuete, a partire dal XX settembre, mentre, dall´altro, veniva riassorbito nella dialettica dei complessi rapporti fra Dc e Pci che, dal togliattiano art. 7 al berlingueriano compromesso storico, incanalò la compresenza dei cattolici e delle sinistre nella ricostruzione dello Stato post-fascista.
Un equilibrio che nella lunga e incompiuta transizione alla seconda Repubblica perde i suoi pilastri fondamentali, mentre nuovi soggetti politici compaiono sulla scena in un clima di delegittimazione reciproca. Oltre Tevere, intanto, si afferma un pontificato di straordinario impatto e carisma. In questo contesto acquista una forza propulsiva la aspirazione della Chiesa di riplasmare in senso cristiano aspetti fondamentali della società italiana, imponendo, grazie al deterioramento del tessuto politico, criteri di scelta, norme di vita, principi legislativi e di governo corrispondenti a valori etici di cui la Cattedra di Pietro si proclama infallibile interprete. L´ossessione prescrittiva di Giovanni Paolo - come l´ha definita Vittorio Foa - cui vanno aggiunte le ripetute prese di posizione della Conferenza episcopale, si è manifestata in un crescendo di esternazioni, specificamente mirate a questo o a quell´obbiettivo: dalla ricerca scientifica all´ordinamento scolastico, dalla morale sessuale alla procreazione controllata, dalla utilizzazione degli ormoni ai diritti delle coppie di fatto, fino alla stesura della Costituzione europea. È lecito obiettare che tutto ciò rientra nei compiti naturali del Magistero per cui non dovrebbe suscitare eccessive doglianze, il che sarebbe logico se l´azione della Chiesa fosse rivolta ad ispirare il comportamento dei soli credenti nella loro sfera individuale e non si proponesse di uniformare alla sua Verità quello della generalità dei cittadini e, soprattutto, delle pubbliche istituzioni. Questa è, invece, la realtà, che non sarebbe così foriera di preoccupazioni se ad essa non facesse riscontro uno Stato indebolito nelle sue capacità di autonoma determinazione. Diversi fattori vi hanno contribuito. In primo luogo le sinistre frammentate e svigorite si sono dimostrate incapaci di elaborare un proprio disegno culturale o anche di raccogliere e rilanciare i valori dell´Italia unita, dal Risorgimento alla Resistenza e alla Costituzione. In secondo luogo la scomparsa della Dc ha fatto venir meno un potente fattore di coagulazione, mediazione e garanzia sia nei confronti dello Stato che della Chiesa, lasciando sul campo una serie di formazioni residuali sia nel campo del centrodestra che del centrosinistra, nessuna delle quali in dimensioni sufficienti per una rappresentanza univoca dell´universo cattolico. Di qui la rincorsa di tutti e di ognuno per strappare la palma di più fedele esecutore dei desideri ecclesiastici, così da ricevere un accreditamento da spendere sul piano politico. Dilapidata anche su questo versante l´eredità dei capi storici i quali, pur tra molteplici aggiustamenti nel bene e nel male, seppero mantenere quel "Tevere più largo" che consentiva loro non solo la collaborazione con gli alleati laici e socialisti, ma un ambito di propria autonomia politica nei confronti del Vaticano. Lo si vide, tanto per richiamare un esempio illuminante, quando negli anni Cinquanta De Gasperi rifiutò il pressante invito di Pio XII, il Papa della scomunica contro i comunisti, a sdoganare l´estrema destra e blindare così a Roma una maggioranza clerico-postfascista. In terzo luogo la maggioranza di centrodestra ha progressivamente smussato e quasi cancellato il liberalismo, inizialmente conclamato, per abbracciare l´accattivante possibilità di subentrare alla Dc. Con la differenza che Berlusconi ha un Dna assolutamente antitetico a quello di un De Gasperi, di un Moro e di un Andreotti. Non ha una idealità propria da difendere e affermare ma una disponibilità a definirla, interpretarla e "venderla" sulla base delle esigenze del mercato politico.
Questa la chiave dei suoi successi ai meeting di Comunione e Liberazione dove si è sempre presentato non certo come un cristiano democratico, intriso di certezze di fede e dubbi esistenziali, ma quale fiero propugnatore di un cattolicesimo battagliero in un´Italia perennemente minacciata da quanti, in primis i comunisti, vorrebbero addirittura «togliere l´ora di religione dalle scuole». Nella sua veste di cavaliere della Fede mira ad identificarsi con le posizioni ecclesiastiche, non certo a salvaguardare i principi cavourriani di «libera Chiesa in libero Stato» che al giorno d´oggi appaiono come bestemmie comuniste. Così come impronunciabile per l´attuale presidente del Consiglio sarebbe il discorso di un suo grande predecessore su quello stesso scanno, Giovanni Giolitti che parlando a Montecitorio affermava: «Sulle questioni religiose il governo è precisamente e semplicemente incompetente... il principio nostro è questo, che lo Stato e la Chiesa sono due parallele che non si debbono incontrare mai. Guai alla Chiesa il giorno che volesse invadere i poteri dello Stato!» Era il maggio 1906 e i liberali erano autentici e non fasulli.

una recenzione e una intervista
Adisa o la storia dei mille anni
di Massimo D'Orzi

ricevuto da Elisabetta Amalfitano

«La Rinascita» visioni Venerdì 15 Ottobre 2004

FILM-REPORTAGE La storia e la cultura dei Rom
Un viaggio lungo mille anni
Un popolo sopravvissuto alle guerre ma non ai luoghi comuni. Una pellicola rompe gli schemi
di Giulia Modesti

Sfatare un luogo comune: solo zingari, ladri, spiriti liberi e ribelli. Un film reportage per rapportarsi a ciò che è diverso, altro da sé, da noi, documentando storia e cultura delle comunità Rom. Dal di dentro. E’ un interno di famiglia, Adisa o la storia dei mille anni, lungometraggio d'esordio del giovane regista fiorentino Massimo Domenico D’Orzi (una coproduzione Cooperativa Il Gigante, Mediateca Regionale Toscana e Sam), dove si punta la macchina da presa in un viaggio che non percorre luoghi. Ma volti di bambini, donne e uomini ancora segnati dalle ferite, tutte interiori, della guerra in Bosnia Erzegovina.
Né serbi, né bosniaci, né albanesi, loro sono i Rom. E, per dirlo la pellicola fissa in primi piani un fil rouge di immagini e colori nella ricerca di una comprensione di identità, senza retorica, del popolo zingaro, riuscito a sopravvivere e a resistere nei secoli.
D'Orzi cerca di ritrarre questa realtà nel tentativo di sottrarsi agli stereotipi. E lo fa attraverso lo spazio e il tempo del cinema, in un linguaggio cinematografico che sceglie di rompere le regole sintattiche e i vecchi schemi che sono alla base del montaggio tradizionale. Nessun canovaccio, nessuna sceneggiatura, soltanto immagini in movimento per rappresentare, senza giudizio, quella dimensione di nomadismo che ci rende i Rom "nemici". Le linee dei visi, le loro parole ci palesano un modo di vivere e di pensare estremamente distante dal nostro, che ancora oggi continua ad essere un incomprensibile. E che spesso turba ed imbarazza. Eppure gli zingari si muovono tra noi, ai margini delle nostre strade, nei luoghi-ghetto che costruiamo per loro. E che ci sfuggono perché né si allineano, né si integrano. L'uso dell'immagine per narrare un presente e tratteggiare la storia con ombre, luci e colori, quelli degli occhi, del lavoro, dei riti, della musica, delle case, di una tradizione che dura da mille anni. Da quando i Rom, per una ragione tuttora sconosciuta, abbandonarono quella regione dell'India di cui sono originarI per non farvi più ritorno.
Aelisa, è una bambina, ma porta in sé tutto quel popolo apolide e senza religione, che in terra di Balcani in nome di una nazione o del proprio buon dio, ha visto il massacro tra etnie. Il lavoro del regista e della telecamera è ricerca di un viaggio da intraprendere senza la valigia del pensiero logico e razionale dell'Occidente per cogliere invece quella dimensione più profonda e misteriosa che è la vera essenza, e forse l'unica vera realtà, di quel popolo e della sua cultura. La stessa di Jasmin Sejdic, partito insieme alla troupe, che diventa guida zingara, interprete, attore, di un'anima scura ed errante nelle immagini. Quella di Massimo D'Orzi è parte di una cinematografia nascente e lontana dai circuiti della grande distribuzione. E’ anch'esso cinema nomade, per ora sugli schermi dei festival o delle rassegne di settore la cui connotazione tuttavia ha il sapore dell'avventura e della voglia di lasciarsi contaminare. E la contaminazione è la sfida che ci attende, perché in essa c'è sempre qualcosa che si lascia, ma anche qualcosa di nuovo che nasce. E la narrazione filmica può essere d'aiuto in questo passaggio tra ciò che era e quello che sarà.

D'Orzi: voglio guardare oltre la banalità

D. Massima D'Orzi, 33 anni, fiorentino, di origine lucana, e una grande passione per il cinema...
R. Esatto, cinema e rappresentazione mi hanno attratto fin dall'adolescenza.
D. Quali nomi sono stati fonte della tua ispirazione?
Michelangelo Anionioni, Marco Bellocchio, gli autori in cui l'esigenza di fare cinema si è fusa con l'arte di sfidare l’apparenza delle cose. Ho sempre prediletto chi ha tentato di scavalcare la banalità, che spesso nasconde la violenza, o chi ha aggirato il mero realismo che mira alla materia senza affondare mai nella realtà interiore dell'uomo.
D. Ardua ispirazione, la tua...
R. E' stata un'esigenza. Ho fatto prima teatro, portando in scena autori come Arthur Miller e James Joyce. Poi sono passato alla regia cinematografica.
D. Con quale lavoro?
R. Un cortometraggio, La mano rossa. Era la storia di una separazione tra un uomo e una donna, raccontato, credo, in modo molto particolare.
D. E’ cresciuto così il tuo culto per l’immagine?
R. Nessun culto. La mia è una ricerca sulle immagini che affonda anche nella pittura. Poi sono diventato direttore artistico della cooperativa "II Gigante" ed ho potuto così ideare e realizzare numerosi eventi cinematografici.
D. Ad esempio?
R. L'Evento cinema del Social Forum Europeo di Firenze, nel novembre del 2002.
D. Titolo?
R. L'immagine della ribellione, che è diventato anche un film-intervista a Bellocchio. Nel 2003 ho poi realizzato La rosa più bella del nostro giardino, collage cinematografico sulla guerra nei Balcani, che ha conseguito numerosi riconoscimenti internazionali.
D. E ora Adisa o la storia dei mille anni. Giusto?
D. Esatto Adisa è nato da una serie di domande. Cosa ne è stato degli zingari nella ex Jugoslavia, loro che hanno vissuto lì da secoli, dove croati, musulmani, serbi, si sono massacrati per la terra e per il proprio dio? Come hanno fatto a sopravvivere ai roghi, alle discriminazioni, ai tentativi di assimilazione forzata, senza un guscio di noce in cui riparare, una terra promessa, senza mai portare con sé la distruttività, la violenza, che purtroppo fanno la storia di noi occidentali? Ecco, a tutto questo ho opposto il volto di Adisa, una 11enne i cui occhi e la cui bellezza rappresentano gli antipodi di tanta ferocia umana.
D. Come hai vissuto questa esperienza?
R. Siamo partiti, io, il direttore della fotografia Stefano D'Amadio, l'aiuto regista Francesco Lomastro, senza sapere cosa avremmo trovato, con un furgone prestatoci dal presidente dell'Unirsi di Roma, Kasim Cizmic, e un uomo zingaro, Jasmin Sejdic, a farci da guida e interprete. Niente soggetto, sceneggiatura, storyboard. Ho cercato, quando possibile, il rapporto diretto, sospendendo il giudizio. Ho scelto i primi piani, le movenze, la naturalezza, l'immediatezza. Ho appreso molto.
D. E in montaggio come è andata?
Un'altra grande avventura che ho affrontato con Paola Traverso. Insieme abbiamo decodificato il nostro linguaggio, anche grazie alla filosofa Elisabetta Amalfitano che ci ha sostenuto nel tentativo di comprendere una realtà spesso incomprensibile.
D. Futuro?
Ho in testa un film breve sulla crisi di uno scrittore, mentre nelle strade si muovono grandi manifestazioni di protesta. Ma ho nel cuore anche un lungometraggio, naturalmente verso un altro ignoto. (G. C.)

un sondaggio

Repubblica 16.11.04
IL SONDAGGIO
Secondo l'Ipr Bertinotti al 18 per cento alle primarie
[...]

ROMA - [...] stando almeno al sondaggio condotto da Ipr-marketing su un nutrito campione di italiani (10.300) proprio nei giorni in cui più forte era il battage mediatico del governo sulla riforma fiscale [...]alle primarie a Prodi andrebbe il 63%, a Bertinotti il 18%.

Atlantide ritrovata?

Reuters.it
Mon November 15, 2004 10:24 AM GMT
Mitica Atlantide si trova vicino a Cipro - ricercatore Usa

LIMASSOL, Cipro (Reuters) - Un ricercatore americano ha annunciato di aver scoperto la civiltà perduta di Atlantide nei fondali a largo di Cipro, contribuendo con la sua teoria a complicare il mistero su cui per secoli molti studiosi si sono contraddetti.
Robert Sarmast sostiene che, con l'allagamento del bacino del Mediterraneo durante il diluvio del nono secolo avanti Cristo, sia stata sommersa una massa di terra rettangolare ritenuta essere Atlantide, 1,5 km al di sotto del livello del mare, in una zona compresa tra Cipro e la Siria.
"L'abbiamo trovata di sicuro", commenta Sarmast, capo guida all'inizio del mese di una squadra di esploratori 80 km a sud est della costa orientale di Cipro.
Rilevatori sottomarini hanno indicato la presenza di strutture fatte dall'uomo su una collina sommersa, tra cui 3 km di mura, la sommità della collina fortificata e attorniata da profondi fossati, spiega Sarmast, aggiungendo però la necessità di ulteriori esplorazioni.
Secondo Platone, filosofo dell'Antica Grecia, Atlantide era una nazione-isola, con una civiltà avanzata, sorta circa 11.500 anni fa.
Sarmast spiega di essere "giunto" a Cipro sulla base di alcune informazioni ricavate dai Dialoghi di Platone.

a Roma
Picasso a Palazzo Ruspoli

Europa
Una mostra a Palazzo Ruspoli a Roma
Così Picasso influenzò gli artisti della sua epoca
di Simona Maggiorelli

Picasso segreto come recita la presentazione della mostra in palazzo Ruspoli a Roma? Forse non è proprio così, ma di certo quelle raccolte e esposte dalla Fondazione Memmo sono perlopiù opere poco note del maestro spagnolo. Rarissime da vedere perché, presto acquistate da collezionisti americani, hanno fatto da sempre parte di collezioni private d’Oltreoceano. Così, fino all’8 gennaio a Roma, una manciata di piccole perle per chi già conosce il resto. O, se si preferisce, piccoli assaggi propedeutici a una conoscenza più ampia dell’opera di Picasso. Dall’affascinate “Nudo di donna” del 1910, quadro simbolo della fase più innovativa del Cubismo, in cui la traccia del ricordo è intimamente scomposta in cubi e linee, centrando la forza di una visione interiore che trasforma il vissuto senza annullarlo. Al solare ritratto di donna del ‘34, sorprendentemente vivo e intenso, malgrado la scelta di gialli pallidi, rosa, sbiaditi ciclamino, nonostante il ricorso a una tavolozza composta di soli freddi colori pastello. E ancora, saltando da una fase all’altra della lunga e prolifica vita artistica di Picasso, che di tanto in tanto si divertiva a tornare indietro, a giocare con le autocitazioni, il vivace acquerello dell’”Uomo seduto con pipa” del 1916 che riprende le invenzioni dei primi colorati collage e delle gouache su carta sperimentate in compagnia di Georges Bracque. Ma anche preziosi quadretti preparatori come l’ariosa “Natura morta davanti a una finestra aperta” del 1919 che, con il motivo della chitarra su una terrazza che dà sul mare, anticipa, (anche nella scelta dei colori marroni e carta zucchero), la vitalità dirompente dei “Tre musicisti” del MoMa di New York. O la drammatica natura morta con candela che richiama l’opera testamento di Van Gogh, la sedia vuota di Gauguin. Opere picassiane incastonate ad effetto in un percorso di sale scure. Appartenenti a periodi differenti, dal primo decennio del Novecento per fermarsi poi agli anni Cinquanta, perché da quella data in poi Picasso, pur continuando ancora per un ventennio a produrre opere interessanti, smise di essere un forte punto di riferimento per le nuove generazioni di artisti. E proprio questo provare a documentare l’influenza che le invenzioni di Picasso ebbero sui contemporanei costituisce l’apporto originale della mostra romana curata da Pepe Karmel. Così le tele di Picasso vengono messe a serrato confronto con quelle di artisti, qui soprattutto americani, che ne rimasero suggestionati o che ne trassero ispirazione. A cominciare da Stuart Davis, il pittore dell’accesso colorismo, delle composizioni sincopate ispirate all’improvvisazione Jazz, che affascinato dalla civiltà industriale e dalle sue macchinerie, mutuò dal cubismo la capacità di trasformare valvole, tubi e frullini in composizioni astratte ad effetto. Per arrivare ad artisti come l’olandese Willem De Kooning, che nel lungo periodo in cui visse negli Usa, mise a punto drammatiche rappresentazioni di figure scomposte e continue che - è il caso soprattutto dell’ampio “Attico” del 1949 – si ispiravano esplicitamente a Guernica. Ma anche il suo maestro Gorky finì per risentire nelle sue malinconiche composizione astratte della lezione picassiana e perfino Pollock, secondo l’ardita tesi dei curatori della mostra avrebbe in alcuni quadri mutato i gesti automatici del suo dripping di colore su testa in movimenti più circolari ispirati alle morbide rotondità di certi nudi femminili di Picasso.

la politica culturale del governo Zapatero

Da Europa del 13 novembre 2004
Dalle novità del Prado ai programmi di governo
La Spagna scommette sulla cultura
di Simona Maggiorelli

Il Volto e il ritratto. La capacità, anche crudele, di raccontare il vissuto interiore dei regnanti che aveva un maestro come Diego Velàzquez. E la vena di caustica e di schietta denuncia che aveva Goya nel mettere spietatamente su tela i tarli e le bassezze che rodevano dall’interno la famiglia reale. Ma non solo. Nella sezione introduttiva della grande mostra Il ritratto spagnolo da El Greco a Picasso da poco aperta al Prado di Madrid, anche i ritratti celebrativi di Tiziano: con lo sbiadito e giovane Filippo II, reso maestoso a cavallo, da una luccicante armatura e la figlia dell’imperatore Carlo V rappresentata già come una piccola e fastosa regina. E all’opposto ritratti di pitocchi, di persone qualunque, senza nome, ma dalla fortissima penetrazione psicologica, nelle tele scure e pauperiste di Ribera. Frequentando un arco di tempo amplissimo, dalle inquiete rappresentazioni manieriste e tardo cinquecentesche di El Greco, per arrivare ai rivoluzionari ritratti cubisti di Picasso e alle fantasie di Mirò e Gris. E’ un’esplorazione per la prima volta completa e sistematica della ritrattistica spagnola - a cui contribuirono anche maestri italiani, olandesi, e di altri paesi di cui la corte spagnola si fece committente - quella che si squaderna fino al 6 febbraio al Prado. In contemporanea con decine di altre esposizioni dedicate alla pittura spagnola e ad un omaggio a Gauguin ( al Museo Thyssen Bornemisza fino al 9 gennaio). E non si tratta solo di Madrid, dove l’epoca Zapatero si è aperta con una interessantissima mostra dedicata ai monocromi e con retrospettive, appena concluse dedicate a Dalì e Schnabel. Anche Barcellona e molti altri centri “minori” si animano, in questi mesi, di mostre e di iniziative culturali. Mentre i musei più noti e prestigiosi, dal Prado al Reina Sofia appunto, mettono a segno restauri e ampliamenti. (nel complesso del Prado è stato da poco completato il recupero del Casòn del Buen Retiro permettendo l’uscita dai depositi di centinaia di opere dei maestri del Secolo d’oro).
Per quello che riguarda l’arte contemporanea, invece, due curatrici impegnate come Maria De Corral e la più giovane Rosa Martinez (la prima di formazione madrilena e curatrice delle rassegne del Reina Sofia, la seconda più attenta ai nuovi linguaggi), sono state nel frattempo nominate curatrici della prossima edizione della Biennale di Venezia. Due personalità di alto profilo che annunciano di voler portare vento nuovo anche da noi, esportando una visione dell’arte aperta a ciò che succede “fuori dai paesi cosiddetti dominanti”, dice Rosa Martinez e, aggiunge Maria De Corral :“ attenta a quegli artisti che rappresentano una qualche rivoluzione, portata avanti con criteri rigorosi, esplorando l’umano, inseguendo i sentimenti” .
Un rinnovamento, quello che si va dipanando nel mondo delle istituzioni dell’arte con la svolta Zapatero, in cui contano le idee, la valorizzazione dello straordinario patrimonio artistico spagnolo, ma anche la politica di investimenti e scommesse concrete sulla cultura. Dando un’occhiata alle cifre il primo ministro Josè Luis Rodriguez Zapatero per il 2005 ha destinato al ministero della Cultura 607, 74 milioni di euro, facendone, uno dei più foraggiati ministeri del governo spagnolo. In pratica alla cultura va il 9,6 per cento in più rispetto a quanto stabiliva il governo Aznar. Con una suddivisione significativa: il 40 per cento in più di investimenti sono a beneficio del patrimonio artistico e dei musei, il 19 per cento va all’incentivazione della lettura, il 18 per cento in più alle arti sceniche, dalla musica, alla danza, al teatro. E ancora il 12 per cento in più al cinema spagnolo e un 5 per cento alla cooperazione interculturale e alla diffusione della cultura ispanica, attraverso manifestazioni come quelle per il quarto centenario dalla pubblicazione del Don Chisciotte di Cervantes che si festeggerà l’anno venturo. Una bella virata, insomma, dall’epoca Aznar. Articolata e ampia, a partire dal deciso tentativo di separare sempre di più Chiesa e Stato laico, dalle battaglie per i diritti civili, ma che tocca anche, concretamente, la gestione e lo sfruttamento intelligente del patrimonio culturale spagnolo, incoraggiato anche da una recente legge che destina alla cultura l’uno per cento di ogni stanziamento del governo per opere pubbliche. Investimenti che saranno decisi da una commissione interministeriale. Quanto di più distante, quasi inutile dirlo, da quanto immagina il governo Berlusconi con la sua politica grandi cantiere, grandi opere. Ma tant’è. Quanto a progetti di decentramento poi, la ministra della Cultura Carmen Calvo ha qualche settimana fa annunciato di voler rinnovare, entro questa legislatura, la rete statale dei musei spagnoli trasferendone le competenze alle diciannove comunità autonome, il corrispettivo, più o meno delle nostre regioni. Infine, a rendere ancora più interessante il quadro, a breve, la stessa Calvo ha detto di voler varare una “legge di eccezione culturale”, per aiutare “la cultura - così hanno riportato le agenzie - a entrare nel mercato ma non come un comune oggetto di consumo”.
(Con la collaborazione di Anita Clara)

Cina

Corriere della Sera 15.11.04
I cinesi studiano il latino
Dopo il «rivoluzionario» riconoscimento nella Costituzione, Pechino è pronta ad approvare il nuovo corpus di norme
La proprietà non è un furto
«Abbiamo scelto di ispirarci al diritto dell’antica Roma»
di Fabio Cavalera

Poi su uno scaffale c'è una piccola statuetta di Mao Zedong. Infine, ovunque, librerie strapiene di testi, riviste, dizionari. In inglese, in italiano, in latino. Già, perché il futuro della Cina passa pure dal latino. Dal diritto romano. «Abbiamo studiato le vostre leggi e i vostri codici». Lo dice con soddisfazione la signora che è la vicepreside della scuola di legge civile ed economica alla Facoltà di scienze politiche e giurisprudenza di Pechino.
Occorre svolgere una premessa: nella scorsa estate l'Assemblea nazionale, il massimo organo legislativo cinese, approvò un emendamento alla Costituzione. Con questo emendamento si riconosceva per la prima volta dalla proclamazione della Repubblica popolare la legittimità della proprietà privata. Una vera e propria rivoluzione dei costumi in un Paese per il quale si stanno scomodando - a ragione - aggettivi di ogni tipo. Si sa, però, che i principi generici e generali - non soltanto in Cina ma pure nel ricco e democratico Occidente - restano tali se qualcuno non si prende la briga di tradurli in norme applicabili nel giorno dopo giorno con tanto di sanzioni e divieti in caso di trasgressioni e violazioni.
Quando dunque la Cina, nell’estate scorsa, decise di compiere un passo del genere ci furono non poche perplessità da parte di chi non credeva nella possibilità di andare oltre la formulazione vaga della Carta fondamentale. Invece con la stessa velocità che sta segnando la crescita della sua economia la Cina ha stabilito davvero di voltare pagina e di trasformare un principio in un diritto.
Due sono le ragioni che spiegano l'adozione definitiva di uno dei capisaldi del capitalismo. Una ragione è storica: negli anni Cinquanta la Cina comunista aveva abolito la proprietà privata, trasferito allo Stato ogni sorta di bene, introdotto con la forza la politica delle comuni popolari. Poi dalle ceneri del fallimento maoista era nata la spinta della modernizzazione che in trent'anni ha portato a una situazione completamente diversa ma senza «copertura» giuridica.
Esisteva dunque un vuoto da colmare. La seconda ragione è conseguente alla prima ed è sociale. Lo Stato può vendere dall'oggi al domani il diritto d'uso dei terreni (nelle città i terreni appartengono allo Stato, nelle campagne alle unità produttive). Basta che una società commerciale si presenti coi soldi e l'affare si chiude. Fin qui poco o nulla di male. Il problema è che con il diritto d'uso del terreno lo Stato vende in pratica le case che vi sono state costruite. E non importa che esseri umani abitino queste case, che intere famiglie vi risiedano da chissà quanti anni. Si cede, punto e a capo. Gli inquilini, ancora non tutelati dal diritto di proprietà, non hanno possibilità di opporsi, di rivendicare una prelazione, di richiamare una qualche forma di garanzia a loro protezione. Altro che gloriosa culla delle masse popolari.
Arrivano le ruspe. Se il nuovo proprietario intende costruire, poniamo, un grattacielo per uffici gli inquilini sono sfrattati (99 volte su cento) e gli immobili abbattuti nel giro di qualche ora. Situazione che ha provocato non poche e non isolate proteste. Ecco, dunque, che dopo il riconoscimento costituzionale occorreva compiere un altro passo in avanti. Dipendeva però dalla volontà della politica. Se farlo o se lasciare congelata la situazione.
«Una spinta forse decisiva è venuta dal mondo accademico». La professoressa tiene per la mani la bozza della legge che lei assieme a un gruppo di professionisti del diritto ha scritto. Ha cominciato quattro anni fa un comitato ristretto di sette civilisti poi allargatosi a una trentina. Il progetto è andato due volte in lettura alla commissione legale dell’Assemblea nazionale che, ottenute le risposte ai chiarimenti indicati nello scorso ottobre, si riunirà in primavera a ranghi completi. E sarà quella la data dell’approvazione finale. Poi ci vorranno almeno sei mesi per l'entrata in vigore. È il tempo necessario per informare la popolazione e per adeguare le strutture burocratico-amministrative.
I cinesi dicono: se vuoi recidere un albero devi cominciare dalle radici. Questa volta si va alle radici del sistema collettivista. Non che il lavoro della commissione sia filato sempre via liscio. «I conflitti con una parte dell'autorità politica sono inevitabili. C'è ancora chi è legato a una vecchia mentalità. Così pure fra noi studiosi. Ma per fortuna la maggioranza si è ormai convinta che si deve procedere. E si procede. Questa è una legge che avrà una rilevanza politica enorme». È un altro pezzo, e che pezzo, di comunismo che se ne va. «Noi cinesi siamo pratici e realisti. Cerchiamo di realizzare gli ideali quando però certi ideali peggiorano la nostra esistenza li lasciamo da parte. I comunisti sono idealisti ma se si accorgono che le loro idee non sono realizzabili diventano molto concreti».
Si chiama, dunque, «legge sui diritti reali» ed è divisa in cinque libri: le disposizioni generali, la proprietà e i tipi di proprietà, l'usufrutto, i diritti reali di garanzia (l'ipoteca e il pegno), infine il possesso. Che sia una rivoluzione lo si coglie dall'articolo uno: i titolari dei diritti reali sono sia le persone fisiche sia le persone giuridiche e solo loro ne dispongono.
«La proprietà, sacra e inviolabile, non farà più capo soltanto allo Stato ma anche agli individui o alle società». È una mentalità nuova che si sta affermando nel Paese. «Prima c'era soltanto il potere pubblico, il potere assoluto del governo. Adesso, con lo Stato, ci sono le persone e i loro diritti da riconoscere e rispettare».
Alle pareti gli scaffali sono pieni di libri di storia del diritto. E vi sono pure dizionari di latino-italiano. I professori incaricati di stendere il progetto di legge hanno studiato gli istituti giuridici del diritto romano e il diritto civile. «Abbiamo compiuto un'opera di comparazione fra il diritto anglo- sassone di natura consuetudinaria e il diritto italiano, francese e tedesco. Noi cinesi, non vi è dubbio, ci sentiamo più vicini al sistema europeo continentale. E da lì siamo partiti».
Assieme alla legge sui diritti reali procede la riforma del codice civile. In verità in Cina ne esiste già uno, dal 1928, mai abrogato, semplicemente dimenticato. Ibernato. «Anche il nuovo codice civile sarà presto approvato». Conterrà la disciplina delle società per azioni, delle obbligazioni, dei contratti. A quel punto la Cina darà alla sua economia di mercato la forma di un capitalismo meno selvaggio e più maturo. Magari grazie anche al latino e al diritto romano. E sarà un altro miracolo.