La Repubblica 13.11.04
Quegli espropri proletari che portarono alla P38
IL CASO
GIAMPAOLO PANSA
«NON parlarmi del Settantasette!», mi pregò un giorno Luciano Lama. La sua bella faccia da eterno ragazzo, impetuoso e sereno, era scheggiata da un smorfia di disgusto: «Fu un anno miserabile e sporco di sangue. E poi, per me, cominciò come sai~». Già, gli dissi, il tuo giovedì nero, il 17 febbraio 1977. Eri andato alla Città universitaria di Roma per una manifestazione sindacale sulla riforma degli atenei e la disoccupazione giovanile. Ma durante il comizio ti aggredì una banda di autonomi, che distrussero il palco e ti obbligarono a ritirarti. «Sì, c' ero andato di mia iniziativa», raccontò Lama. «Però nessuno dentro la Cgil e il Pci mi aveva sconsigliato. Anzi, Enrico Berlinguer mi aveva detto di farlo, perché era preoccupato quanto me del disordine e della violenza che stavano dilagando nelle aule della Sapienza. Poi, quando successe tutto, i miei compagni un po' mi mollarono. Qualcuno mi accusò di aver compiuto un passo falso. Giancarlo Pajetta mi spiegò che m' ero mostrato incauto e che la mia mossa era stata avventata. Insomma, non ho avuto la solidarietà schietta e affettuosa che mi aspettavo. Ho avvertito del gelo e mi ha fatto male». Berlinguer che cosa ti disse dopo? «Ci incontrammo alle Botteghe Oscure. Mi chiese come erano andate le cose e glielo raccontai. Ascoltò in silenzio, poi replicò "Va bene" e nient' altro. Enrico era un tipo schivo, qualche volta anche freddo». «Però quando ti dava una prova d' affetto si capiva che era sincera. Quel giorno non mi diede niente. Ecco tutto». Gli domandai ancora: che cosa pensi di quella giornata? Lama non ebbe esitazioni: «Che era stata utile. Aveva svelato che, dentro le bande di Autonomia operaia, stava covando qualcosa di molto pericoloso. E la mia presenza all' università era servita a far vedere questo pericolo con chiarezza a tanta gente, soprattutto ai lavoratori iscritti al sindacato. Troppi, nella Cgil e nel Pci, pensavano che il movimento del Settantasette fosse più o meno simile a quello del Sessantotto. Ma non era così. Stava emergendo un grumo di disperazione, d' impotenza, di violenza fine a se stesso». Non mi passò neppure per la mente di chiedere a Lama degli espropri proletari, evocati in questi giorni dopo l' assalto al supermercato Panorama e alla libreria Feltrinelli. In quel tempo, erano un fenomeno naturale, come la pioggia o la nebbia. Nel 1977 furono centinaia e centinaia, in tutta Italia. Al punto di non fare più notizia. E di non avere bisogno di slogan che li spiegassero. Anche se ne ricordo uno che i Disobbedienti di oggi potrebbero riciclare: "Su, su, su, i prezzi vanno su / prendiamoci la roba e non paghiamo più!". L' obiezione di Fausto Bertinotti, che allora non si arrestava nessuno per una spesa proletaria, non tiene conto di che cos' era l' Italia di quell' anno: un campo di battaglia, in un clima da guerra civile, con decine di migliaia di giovani arruolati dall' estremismo di sinistra e, in misura assai più ridotta, da quello di destra. Con il potere politico, le istituzioni e lo Stato sempre sul punto di essere sopraffatti dall' assalto contemporaneo del terrorismo selettivo delle Brigate rosse e da quello di piazza manovrato da Autonomia operaia. E con tanti morti ammazzati. Se ripensiamo al Settantasette, i cortei odierni di San Precario sono un gioco da bambini. Allo stesso modo i capi dei Disobbedienti, i Casarini, i Caruso, i D' Erme, i Lutrario appaiono le controfigure comiche dei leader eversivi di un trentennio fa. E tuttavia anche loro scherzano con il fuoco. Nelle "azioni dirette" che organizzano s' avverte un' eco che viene dal passato e che va respinta. Enfatizzarle è sbagliato. Ma osservarle alzando le spalle e con il sorriso sulle labbra è da sciagurati. Il saggio Lama seppe vedere prima di altri il pericolo che minacciava di travolgere l' Italia del 1977. Il giorno successivo all' assalto degli autonomi all' università di Roma, si rifecero vive le Brigate rosse. A Torino fu gambizzato Mario Scoffone, dirigente del personale alla Fiat di Rivalta. Ventiquattro ore dopo, la stessa sorte toccò a Bruno Diotti, caporeparto della Fiat Mirafiori. E lo stesso 19 febbraio, a Milano, sulla provinciale che conduce a Rho, un terrorista uccise un brigadiere della polizia stradale, Enzo Ghedini, che lo aveva fermato per un controllo. Non trascorse un mese e, di nuovo a Torino, il 12 marzo le Br assassinarono un brigadiere della polizia, Giuseppe Ciotta. Lo accopparono sotto casa, in via Gorizia, mentre andava al lavoro. La Torino del 1977 era una città straziata dagli agguati e dalle rivolte, ma non era l' unica ad esserlo in Italia. Il giorno prima dell' imboscata a Ciotta, la polizia di Bologna era stata costretta a intervenire all' università, dove gli autonomi avevano aggredito degli studenti di Comunione e liberazione. Negli scontri, venne ucciso un militante di Lotta Continua, Francesco Lorusso. Il 13 marzo ci furono cortei di protesta e incidenti pesanti. Nel centro di Roma migliaia di manifestanti, al seguito di Autonomia, la fecero da padroni. Con ore di guerriglia urbana, che videro il saccheggio di negozi, alberghi, bar e due armerie. Un esproprio, quest' ultimo, difficile da giustificare con i prezzi sempre più su. Chi ruba fucili e pistole poi le usa. Nove giorni dopo, sempre a Roma, fu ucciso l' agente Claudio Graziosi. Il 21 aprile, ancora nella capitale, nuovi scontri all' Università, capeggiati dagli autonomi. Poi la guerriglia dilagò per il quartiere di San Lorenzo. Molotov, barricate, sparatorie. Un agente, Settimio Passamonti, venne colpito a morte e un altro rimase ferito in modo grave. Sul posto fu lasciato un cartello che diceva: "Qui c' era un carruba, il compagno Lorusso è stato vendicato". Ricavo questo dettaglio da un libro ricco di notizie: "Una sparatoria tranquilla. Per una storia orale del '77", pubblicato nel 1997 da un editore romano di sinistra, Odradek. Soltanto la nuda cronologia degli eventi di quell' anno occupa cinquantacinque pagine. Leggerle ci rivela che abbiamo dimenticato tutto. A cominciare dai nomi dei morti. Di qualcuno, forse, conserviamo un ricordo vago. Come di Giorgiana Masi, una studentessa di 19 anni, uccisa da un poliziotto in borghese il 12 maggio, durante una manifestazione dei radicali per l' anniversario del referendum sul divorzio. Ma chi rammenta come morì, due giorni dopo, il sottufficiale di polizia Antonio Custrà? Eppure la fine di questo brigadiere di 25 anni è stata fissata in una foto famosa. è quella del guerrigliero urbano che in una strada del centro di Milano, credo via De Amicis, punta la rivoltella su un bersaglio. Era il 14 maggio, giorno del corteo per l' uccisione della Masi. Un gruppo di autonomi armati di molotov e di pistole cominciò a sparare sulla polizia, fra il panico dei passanti. Custrà fu assassinato in quel momento, nella capitale morale di un paese che non era più libero di vivere in pace. è vero: di questi tempi siamo sotto l' incubo del terrorismo islamico e di qualche grande attentato. Ma in quell' anno eravamo alle prese con un terrore autarchico, roba nostra, prodotta e distribuita quasi ogni giorno. Era meglio o peggio di oggi? C' è una sola risposta, ovvia e brutale: per chi ci rimetteva la pelle o le gambe, certamente peggio. Il 28 aprile, ancora una volta nel mattatoio di Torino, le Br assassinarono l' avvocato Fulvio Croce. Era un galantuomo di 76 anni, presidente dell' ordine degli avvocati. Doveva designare i difensori d' ufficio per i brigatisti da giudicare. Lo uccisero per impedire il processo. E riuscirono a bloccarlo. L' assassinio era stato annunciato da uno dei terroristi imputati, Maurizio Ferrari: «Gli avvocati che accettano il mandato d' ufficio sono dei collaborazionisti del tribunale di regime». Sono parole che ricordano quelle che avrebbe detto anni dopo un pistolero che nel 1977 si stava addestrando: Marco Barbone, l' assassino di Walter Tobagi. E disegnano una parabola terribile, percorsa da molti giovani di allora: «Nella speranza di sconfiggere il potere, lo abbiamo riprodotto sino ad arrogarci il potere di decidere la vita e la morte. Ma ci fu anche dell' altro. Era il consenso che il terrorismo brigatista suscitava in aree della società estranee al suo lavoro criminale. Qui dovremmo addentrarci nei bassifondi della faziosità italiana. Dove si muovono le pulsioni oscure che spesso accompagnano quelle più scoperte, e lecite, della passione politica. Lo si vide il 2 giugno quando le Brigate rosse ferirono, nel centro di Milano, Indro Montanelli. Al direttore del Giornale nuovo mancava ancora molto prima d' essere consacrato dalla sinistra come un alleato. Così, quando venne gambizzato, furono in tanti ad esultare: "Ben fatto, quel destrone se l' è cercata!". Non fu possibile dire lo stesso, di nuovo a Torino, per Roberto Crescenzio, vittima incolpevole di un corteo di Lotta Continua seguito alla morte di Walter Rossi, uno studente ucciso dai fascisti a Roma. La coda di quel corteo scagliò delle molotov contro un bar di via Po, l' Angelo Azzurro, ritenuto a torto un covo di neri. Roberto, uno studente lavoratore di 22 anni, era capitato per caso nel locale. Cominciò a bruciare tra le fiamme. Quando lo trascinarono fuori, era un pupazzo irriconoscibile. Un manichino posato sopra una sedia sotto i portici, il corpo devastato dal fuoco, la testa trasformata in una palla informe. Crescenzio spirò in ospedale. Era lucido e soffriva. Fece in tempo a chiedere al sindaco di Torino, Diego Novelli: «Perché mi obbligano a crepare in questo modo?». Chi non riuscì a dire nulla fu Carlo Casalegno, un altro dei nostri morti, straziato dalle rivoltellate brigatiste il 16 novembre. Il giorno successivo, a Genova, le Br spararono a Carlo Castellano, un dirigente dell' Ansaldo. Lui riuscì a salvarsi, attraverso una lunga via crucis. Con Castellano siamo diventati amici. Sono stato tentato di chiamarlo, per domandargli: «Che cosa pensi dell' Italia del 1977, l' anno che ti ferirono?». Poi ci ho rinunciato. Mi basta quel che penso io: un vero schifo. Eppure c' è ancora qualcuno che rimpiange quell' epoca. E immagina di riviverla perché, si dice, il conflitto è il sale della democrazia. Per tornare da dove sono partito, Lama non andava in orgasmo per i conflitti. Ripeteva: «Chi tratta vince». Aveva ragione lui. Ma quanti vorranno capirlo?
Liberazione 14.11.04
Pansa
i conformisti e gli espropri
di Piero Sansonetti
Il primo libro di politica che ho letto, a 16 anni, me lo procurai alla Feltrinelli di via del Babbuino, a Roma. Costava 300 lire. Io però non avevo 300 lire e allora lo rubai. Era il "manifesto del partito comunista". Lo lessi, era bellissimo. E soprattutto era assolutamente convincente, ed io diventai comunista. Non credo che il mio piccolo furto sia stato un tremendo crimine. Negli anni seguenti rubai altri libri: Lenin, Marcuse, Che Guevara, forse anche Stendhal. Il vecchio direttore della libreria, del quale non ho mai scoperto il nome, era un uomo molto simpatico e faceva finta di non accorgesene. Bastava non esagerare. Un libro alla volta, sotto il cappotto, non di più. D'estate niente.
Sono sinceramente stupito di fronte al possente fiume di indignazione che da una settimana sta travolgendo le coscienze degli opinionisti italiani, terrorizzati dalla spesa a basso costo (loro dicono "esproprio proletario") dei disobbedienti che sabato scorso hanno portato via un po' di merce da un supermercato di Pietralata e poi dalla Feltrinelli di piazza Esedra. Pagandola pochissimo e successivamente distribuendola alla gente. I disobbedienti hanno spiegato che quella era una forma di lotta contro il carovita. Questo giornale ha già spiegato - in modo assai netto - perché giudica sbagliata quella forma di lotta. Però, santo cielo, una cosa è dire che è una lotta sbagliata e una cosa un po' diversa è stracciarsi le vesti e paragonarla alle azioni della malavita, della mafia, della camorra, del terrorismo internazionale e delle Brigate rosse. Il ministro Pisanu ha gridato ai quattro venti che era pronto alla repressione più severa: "tolleranza zero", ha giurato tra gli applausi dei giornali (c'è in giro un sacco di gente che si gloria di essere intollerante. Gli pare una virtù: povero Voltaire...). Giampaolo Pansa ieri su Repubblica ha scritto un lunghissimo articolo intitolato: "Quegli espropri proletari che portarono alla P38". (Per chi non lo sa, la P38 è una pistola). Poi c'è un sottotitolo: "Nei blitz dei disobbedienti lo spettro del '77". Nelle fotografie, d'epoca, che accompagnano l'articolo di Pansa (inizia in prima e poi riempie l'intera pagina 17) si vedono varie pistole in mano a giovani manifestanti e ad agenti di polizia.
L'articolo è composto da una ampia intervista postuma a Luciano Lama (mitico capo della Cgil negli anni settanta, morto otto anni fa), e poi da un dettagliato racconto di tutti gli episodi di violenza e di tutti gli omicidi politici del 1977, intervallato da alcuni riferimenti a Luca Casarini, Francesco Caruso, Guido Lutrario e Nunzio D'Erme, cioè i capi dei disobbedienti di oggi. Non c'è nessun sottinteso nell'articolo, nessun ammiccamento. E' un articolo assolutamente esplicito, che sostiene candidamente questa tesi: i disobbedienti sono quelli che avviano un ciclo vizioso, e questo ciclo finisce con la lotta armata e il terrorismo. In uno dei titoletti che corredano l'articolo di Pansa c'è scritto proprio così: "Inquietante parallelismo". Non starò a spiegare perché la tesi di Pansa è del tutto inconsistente e anche un po' buffa. Ogni lettore di Liberazione è in grado di capirlo di se. Anche Pansa è in grado.
Ho sempre stimato Gianpaolo Pansa, che per molti di noi - quelli che sono arrivati al giornalismo proprio durante i cosiddetti anni di piombo - è stato un po' un maestro. Facevamo a gara ad imitare la sua capacità di scrivere, di raccontare, di trovare il dettaglio più suggestivo, di coinvolgere il lettore nelle cose di cui lui parlava. Bravissimo. So che le sue recenti posizioni politiche - soprattutto dopo il breve periodo dell'anti-dalemismo - oggi sono di feroce ostilità verso la sinistra radicale, verso Rifondazione e specialmente verso Fausto Bertinotti: ma questo è un suo pieno diritto professionale e personale, e non c'è niente da ridire. Però di fronte ad una operazione giornalistica come quella di ieri non posso non farmi una domanda seria: cosa spinge una parte consistente del nostro giornalismo - e della intellettualità italiana - ad assumere posizioni sempre meno critiche verso il potere, sempre meno impegnate nella ricerca e nella analisi politica, e sempre più insofferenti, arroganti, aggressive, verso ogni forma di lotta che rompa gli schemi del conformismo e del pensiero uniforme? Perché i grandi giornalisti, e gli intellettuali pensanti, non si sono mai misurati, in questi anni, con problemi come - per esempio - le leggi europee sul lavoro che azzerano i diritti e dimezzano i salari, o come il protezionismo agricolo, o come le normative internazionali che privatizzano i servizi (l'acqua, la scuola, la sanità), o come i prezzi delle medicine che arricchiscono le case farmaceutiche e mietono milioni di vittime in Africa, o come la sciagurata riforma della scuola della Moratti, o la politica della Confindustria (e dei governi italiani) che in un decennio ha ridotto del 15 o del 20 per cento gli stipendi di quasi tutte le categorie più deboli? Perché la nostra intellettualità e i nostri giornalisti - come ha scritto giorni fa su queste pagine Marco Revelli - si sono arresi? Perché hanno abbandonato ogni aspirazione a mettere in discussione l'ordine costituito? Al massimo riescono a lamentarsi per un eccesso di potere di questo o quel pezzo di borghesia, riescono a prendersela col prevalere del potere politico su quello giudiziario o viceversa, riescono genericamente a protestare per il basso profilo culturale e umano del berlusconismo: niente di più. L'intellettuale-contro, il giornalista-contro sono figure praticamente scomparse. E se qualcuno ha ancora voglia di indignarsi trova come sfogo l'invettiva da scagliare sui disobbedienti. Fabrizio De Andrè diceva: "Signori benpensanti... ".
Il fronte degli intellettuali è uno dei punti più deboli della sinistra di oggi: la sinistra è scoperta su quel lato. Negli anni sessanta non era così. Dobbiamo capire che c'è questo problema e non possiamo sottovalutarlo, perché è difficile vincere le grandi battaglie, e imporre idee nuove, se la stragrande maggioranza della intellettualità non ne vuole sapere. Per fortuna c'è ancora qualcuno che ha voglia di pensare: leggete l'intervista a Marcello Cini che pubblichiamo a pagina due
[cfr in questo blog in data 15.11.04. Ndr] e vi rincuorerete un po'.
Piero Sansonetti