Corriere.it
ESTERI
Per evitare alla tv di Atlanta controversie con il Pentagono
Cnn: si dimette direttore editoriale «news»
Nei giorni scorsi aveva detto che in Iraq i soldati Usa hanno deliberatamente preso di mira i giornalisti per ucciderli
ATLANTA - Eason Jordan, direttore editoriale delle «news» della Cnn, ha annunciato venerdì sera le sue dimissioni per evitare alla tv controversie con il Pentagono. Jordan, lo scorso 27 gennaio al Forum economico di Davos, in Svizzera, aveva accennato alla possibilità che soldati Usa in Iraq abbiano preso di mira deliberatamente giornalisti per ucciderli. Jordan, dopo aver pronunciato quelle frasi, ha subito tentato di precisare. Secondo numerosi presenti a Davos, dice la Cnn, il Jordan avrebbe sostenuto in un dibattito di essere a conoscenza dei casi di giornalisti uccisi perché si trovavano nel posto sbagliato al momento sbagliato, finendo per essere colpiti dalle bombe, oppure perché scambiati per nemici dai soldati americani, i quali avrebbero per errore aperto il fuoco su di loro.
«Dopo 23 anni alla Cnn, ho deciso di dimettermi per tentare di impedire che sia gettata ingiustamente un'ombra sulla Cnn dalla controversia sui contraddittori resoconti delle mie recenti affermazioni riguardanti l'allarmante numero di giornalisti uccisi in Iraq», afferma Jordan in una lettera ai suoi colleghi pubblicata su Cnn online. «Sebbene i miei colleghi della Cnn e i miei amici nell'esercito americano mi conoscano abbastanza per sapere che non ho mai dichiarato, creduto o supposto che le forze americane abbiano voluto uccidere persone sapendo che si trattava di giornalisti, le mie dichiarazioni su questo argomento durante un seminario al Forum economico mondiale non sono state sufficientemente chiare come avrebbero dovuto essere», conclude il direttore delle news dell'emittente americana, motivando le sue dimissioni.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
sabato 12 febbraio 2005
Giordano Bruno
Repubblica Edizione di Roma 12.2.05
Giordano Bruno una cancellata lo proteggerà
ALESSANDRA PAOLINI
Soddisfatti loro, «in totale disaccordo con il provvedimento approvato», Giuseppe Lobefaro, presidente del I Municipio (ieri assente alla votazione) che fa sapere: «Prendo atto della decisione, ma ricordo che il ministero dei Beni culturali ha manifestato la volontà di inserire campo de' Fiori tra le piazze tutelate. Alla stregua di piazza Navona e piazza di Spagna. Di conseguenza, qualsiasi decisione dovrà essere presa in accordo con le sovrintendenze statali, alle quali chiediamo di esprimere un parere». Lobefaro, dunque prende tempo e aggiunge: «Recintare la statua di Giordano Bruno non rappresenta una soluzione contro il degrado di Campo de' Fiori. La vera vergogna di Campo de' Fiori sono le occupazioni abusive dei tavolini dei locali».
La recinzione della statua in bronzo al centro piazza - proprio lì dove il frate domenichino da Nola venne condotto con la lingua in "giova" (cioè imbavagliato da una mordacchia) e bruciato vivo perché giudicato eretico - è da tempo al centro di polemiche. E divide: favorevoli i commercianti, contrari i turisti, combattuti gli abitanti.
In realtà, il bronzo, opera ottocentesca di Ettore Ferrari fino a sessanta anni fa , o poco più, era recintato. E sin dall'inizio provocò liti. Nel 1889, il Comune, come atto riparatore, fece erigere la statua al posto della fontana costruita nel 1580 da Gregorio XV. Ai bancarellieri del mercato, la sostituzione non andò giù. Così, l'amministrazione dell'epoca fu costretta a difendere il"filosofo", ancora una volta oggetto di violenza. Così, fu cinto da una cancellata. Cancellata che Benito Mussolini tolse per recuperare il ferro e andare in guerra. Da allora, per il frate bronzeo - simbolo del pensiero laico, studiato e ammirato in tutto il mondo - non c'è stata più nessuna gabbia. Da ieri, si vedrà.
Giordano Bruno una cancellata lo proteggerà
ALESSANDRA PAOLINI
Soddisfatti loro, «in totale disaccordo con il provvedimento approvato», Giuseppe Lobefaro, presidente del I Municipio (ieri assente alla votazione) che fa sapere: «Prendo atto della decisione, ma ricordo che il ministero dei Beni culturali ha manifestato la volontà di inserire campo de' Fiori tra le piazze tutelate. Alla stregua di piazza Navona e piazza di Spagna. Di conseguenza, qualsiasi decisione dovrà essere presa in accordo con le sovrintendenze statali, alle quali chiediamo di esprimere un parere». Lobefaro, dunque prende tempo e aggiunge: «Recintare la statua di Giordano Bruno non rappresenta una soluzione contro il degrado di Campo de' Fiori. La vera vergogna di Campo de' Fiori sono le occupazioni abusive dei tavolini dei locali».
La recinzione della statua in bronzo al centro piazza - proprio lì dove il frate domenichino da Nola venne condotto con la lingua in "giova" (cioè imbavagliato da una mordacchia) e bruciato vivo perché giudicato eretico - è da tempo al centro di polemiche. E divide: favorevoli i commercianti, contrari i turisti, combattuti gli abitanti.
In realtà, il bronzo, opera ottocentesca di Ettore Ferrari fino a sessanta anni fa , o poco più, era recintato. E sin dall'inizio provocò liti. Nel 1889, il Comune, come atto riparatore, fece erigere la statua al posto della fontana costruita nel 1580 da Gregorio XV. Ai bancarellieri del mercato, la sostituzione non andò giù. Così, l'amministrazione dell'epoca fu costretta a difendere il"filosofo", ancora una volta oggetto di violenza. Così, fu cinto da una cancellata. Cancellata che Benito Mussolini tolse per recuperare il ferro e andare in guerra. Da allora, per il frate bronzeo - simbolo del pensiero laico, studiato e ammirato in tutto il mondo - non c'è stata più nessuna gabbia. Da ieri, si vedrà.
Britain
amare è malattia
La Stampa 12 Febbraio 2005
LA TESI DI UNO PSICOLOGO INGLESE: LA PASSIONE È UNA MALATTIA MENTALE
Sei innamorato, vai dal medico
Eugenia Tognotti
QUALCOSA, dopotutto, vorrà pur dire se il lessico «specialistico» ruota così irresistibilmente intorno al campo semantico della medicina. Soffrire per amore, avere il batticuore o il cuore infranto, essere consumati, o, addirittura, pazzi d'amore. O, ancora, febbre d'amore, amore morboso, amore malato. Per non ricordare che alcune espressioni correnti che rimandano a stati patologici di diversa intensità, dall'innocua febbre alla tachicardia, per arrivare addirittura alla malattia mentale, usata comunemente come metafora per descrivere l'esaltazione del sentimento d'amore, tanto che persino nella nostra contemporaneità così «spassionata» una delle dichiarazioni più diffuse è «ti amo da impazzire».
A dirci ora - e proprio alla vigilia della festa che celebra il trionfo dell'amore felice e appagato - che l'amore, in certi casi, è, può essere, una malattia è un influente psicologo clinico londinese, Frank Tallis, autore di un libro appena uscito e il cui titolo è tutto un programma: Love Sick. Love as a Mental Illness, Amore malato. amore come malattia mentale, insomma. Un concetto ribadito in un articolo comparso, questi giorni, sulla rivista The Psycologist. Il mal d'amore - è la sua tesi - è ampiamente sottovalutato ed è ora che gli esperti di salute mentale si decidano ad affrontarlo, come avveniva nei secoli passati, prima che la gente cominciasse a preoccuparsi del sesso piuttosto che dell'amore, sulla scia di Freud e dei suoi seguaci. Avere il cuore infranto, «consumarsi» per un amore non corrisposto, si traduce in una vera e propria patologia psicofisica, accompagnata da una costellazione di sintomi che comprendono, secondo gli stadi: manie, depressione/esaltazione, crisi di pianto, mutamenti d'umore, pensieri ossessivi, insonnia, perdita d'appetito, immagini ricorrenti e persistenti, pulsioni superstiziose e ritualistiche, incapacità di concentrazione, disordini compulsivi e ossessivi, come il ripetuto controllo della posta elettronica per verificare l'arrivo di messaggi o la dipendenza dal telefono. Ce n'è abbastanza - dice - per configurare la presenza di quello che secondo i criteri medici riconosciuti è indicato come un quadro tipico di «depressione maggiore». Eppure, accusa il dott. Tallis, negli ultimi due secoli questa vera e propria malattia ha smesso di essere diagnosticata come tale e mai lo specialista - racconta - si troverà di fronte ad un paziente inviato dal medico generico in quanto malato d'amore. E, forse, si può aggiungere, lo stesso malato non avrebbe le parole per raccontarla, la sua malattia, e ricorrerebbe alla semantica volgarizzata e impoverita della medicina e della psichiatria (depressione, paranoia, stress).
L'amore come malattia, dunque, che, in casi estremi, può portare alla morte o al suicidio. Il tempo dirà se è arrivato il momento di medicalizzare il mal d'amore e se entrerà come nuova entità nosologica nella classificazione Internazionale delle malattie (ICD), passando dalle mani dei poeti, pittori, degli scrittori, degli sceneggiatori, dei filosofi, dei cantanti pop in quelle degli psicologi.
E' una fortuna che Ludovico Ariosto non ne avesse uno a portata di mano e abbia cullato la sua, di pazzia, fonte del suo estro narrativo: nel raccontare la storia d'Orlando, è a se stesso che s'ispira, promettendo di condurre a termine l'opera se la febbre d'amore che lo divora non gli «rode e lima» il cervello. Il dolore per l'amore infelice, per l'amore non corrisposto, topos universale e costante nella tradizione poetica occidentale, nutre i versi del poeta francese Guillaume Apollinaire, il «mal amato», dal titolo della Chanson du mal-aimé. Dall'accettazione della sofferenza trae la forza per rinascere come la Fenice: «E tu mio cuore perché batti / Come una vedetta melanconica / Osservo la notte e la morte».
Noto come hereos nel Medioevo, e presente nei manuali di medicina, la patologia dell'amore è un cavallo di battaglia dei poeti latini e della medicina antica e medievale che si misurano con l'amore insano, con l'amore sfrenato, con la melanconia erotica. Dall'hereos al mal d'amore. Che percorre i secoli nei suoi diversi stadi: da un leggero stato di malinconia ad un lento logoramento, alla malattia conclamata, alla vera e propria pazzia come quella, appunto, dell'Orlando furioso. Nonostante il poliformismo dei sintomi e la nebulosa dei quadri malinconici, conquista nella medicina del Rinascimento una propria identità, una propria autonomia nosografica. La sostiene, tra gli altri, un medico francese, Jacques Ferrand, che scrive addirittura un libro dallo sterminato titolo che comincia così De la maladie d'amour ou Melancholie erotique.
Non diversamente dalle altre malattie, comprese quelle mentali - la cui specificità si sarebbe imposta solo con lo scioglimento del nodo delle concezioni dualistiche tra il corpo e l'anima - quella d'amore era considerata come una manifestazione dello squilibrio degli umori del corpo. Specialmente implicato era «l'umore nero», pesante e spesso, della «melanconia». La sede organica erano gli ipocondri, dai quali poi si diffondeva al cuore per arrivare infine al cervello. Per il medico italiano Pompeo Sacco, invece, era proprio quest'organo la sede primitiva del mal d'amore. Vi erano interessati gli occhi, la pelle che impallidiva o arrossiva, alternativamente, la voce che diventava flebile e tremolava in presenza dell'amato/a. La fixa imaginatio in amatam poteva far evolvere il quadro verso la melancholia.
Di trattato in trattato, i medici precisano i sintomi del mal d'amore, minuziosamente descritti, nel Settecento, dal medico austriaco Joseph Frank: debolezza, pallore, occhi infossati, polso irregolare, piccolo e debole in assenza dell'amato/a, tendenza al sanguinamento, aritmia, dolore epigastrico, inquietudine, febbricola. Altri segni - riconducibili alla presenza di un quadro depressivo - erano difficoltà di concentrazione, instabilità d'umore, malinconia, indifferenza all'opinione degli altri, trascuratezza negli affari, fastidio per i buoni consigli, sprezzo del pericolo.
Precisi nell'elencare i sintomi, i trattatisti non avevano però precise strategie terapeutiche per guarire dai tormenti dell'amore non corrisposto: sulla scia di un classico come remedia amoris suggeriti da Ovidio si consigliava di evitare i luoghi che accendevano i sogni e la visione dell'oggetto d'amore. Un viaggio, lunghe e stancanti passeggiate, la caccia, compagnie allegre erano indicati come possibili rimedi, così come l'espediente di trasformare l'amore in odio. Le prescrizioni dietetiche comprendono bevande acidule, alimenti di facile digestione e rinfrescanti, e in particolare carni lesse, legumi acquosi e frutta. Da evitare, invece, cibi e bevande come vino, caffè, liquori, pesce, uova, selvaggina, funghi e, meno che mai, tartufi.
Considerato non inguaribile dai medici, il mal d'amore - malattia del cuore, del cervello, dell'ipocondrio - era però difficile da curare perché i malati stessi, talvolta, non solo non desideravano guarire dai loro tormenti, ma continuavano a cercare questo genere d'amore, malattia ed estasi.
LA TESI DI UNO PSICOLOGO INGLESE: LA PASSIONE È UNA MALATTIA MENTALE
Sei innamorato, vai dal medico
Eugenia Tognotti
QUALCOSA, dopotutto, vorrà pur dire se il lessico «specialistico» ruota così irresistibilmente intorno al campo semantico della medicina. Soffrire per amore, avere il batticuore o il cuore infranto, essere consumati, o, addirittura, pazzi d'amore. O, ancora, febbre d'amore, amore morboso, amore malato. Per non ricordare che alcune espressioni correnti che rimandano a stati patologici di diversa intensità, dall'innocua febbre alla tachicardia, per arrivare addirittura alla malattia mentale, usata comunemente come metafora per descrivere l'esaltazione del sentimento d'amore, tanto che persino nella nostra contemporaneità così «spassionata» una delle dichiarazioni più diffuse è «ti amo da impazzire».
A dirci ora - e proprio alla vigilia della festa che celebra il trionfo dell'amore felice e appagato - che l'amore, in certi casi, è, può essere, una malattia è un influente psicologo clinico londinese, Frank Tallis, autore di un libro appena uscito e il cui titolo è tutto un programma: Love Sick. Love as a Mental Illness, Amore malato. amore come malattia mentale, insomma. Un concetto ribadito in un articolo comparso, questi giorni, sulla rivista The Psycologist. Il mal d'amore - è la sua tesi - è ampiamente sottovalutato ed è ora che gli esperti di salute mentale si decidano ad affrontarlo, come avveniva nei secoli passati, prima che la gente cominciasse a preoccuparsi del sesso piuttosto che dell'amore, sulla scia di Freud e dei suoi seguaci. Avere il cuore infranto, «consumarsi» per un amore non corrisposto, si traduce in una vera e propria patologia psicofisica, accompagnata da una costellazione di sintomi che comprendono, secondo gli stadi: manie, depressione/esaltazione, crisi di pianto, mutamenti d'umore, pensieri ossessivi, insonnia, perdita d'appetito, immagini ricorrenti e persistenti, pulsioni superstiziose e ritualistiche, incapacità di concentrazione, disordini compulsivi e ossessivi, come il ripetuto controllo della posta elettronica per verificare l'arrivo di messaggi o la dipendenza dal telefono. Ce n'è abbastanza - dice - per configurare la presenza di quello che secondo i criteri medici riconosciuti è indicato come un quadro tipico di «depressione maggiore». Eppure, accusa il dott. Tallis, negli ultimi due secoli questa vera e propria malattia ha smesso di essere diagnosticata come tale e mai lo specialista - racconta - si troverà di fronte ad un paziente inviato dal medico generico in quanto malato d'amore. E, forse, si può aggiungere, lo stesso malato non avrebbe le parole per raccontarla, la sua malattia, e ricorrerebbe alla semantica volgarizzata e impoverita della medicina e della psichiatria (depressione, paranoia, stress).
L'amore come malattia, dunque, che, in casi estremi, può portare alla morte o al suicidio. Il tempo dirà se è arrivato il momento di medicalizzare il mal d'amore e se entrerà come nuova entità nosologica nella classificazione Internazionale delle malattie (ICD), passando dalle mani dei poeti, pittori, degli scrittori, degli sceneggiatori, dei filosofi, dei cantanti pop in quelle degli psicologi.
E' una fortuna che Ludovico Ariosto non ne avesse uno a portata di mano e abbia cullato la sua, di pazzia, fonte del suo estro narrativo: nel raccontare la storia d'Orlando, è a se stesso che s'ispira, promettendo di condurre a termine l'opera se la febbre d'amore che lo divora non gli «rode e lima» il cervello. Il dolore per l'amore infelice, per l'amore non corrisposto, topos universale e costante nella tradizione poetica occidentale, nutre i versi del poeta francese Guillaume Apollinaire, il «mal amato», dal titolo della Chanson du mal-aimé. Dall'accettazione della sofferenza trae la forza per rinascere come la Fenice: «E tu mio cuore perché batti / Come una vedetta melanconica / Osservo la notte e la morte».
Noto come hereos nel Medioevo, e presente nei manuali di medicina, la patologia dell'amore è un cavallo di battaglia dei poeti latini e della medicina antica e medievale che si misurano con l'amore insano, con l'amore sfrenato, con la melanconia erotica. Dall'hereos al mal d'amore. Che percorre i secoli nei suoi diversi stadi: da un leggero stato di malinconia ad un lento logoramento, alla malattia conclamata, alla vera e propria pazzia come quella, appunto, dell'Orlando furioso. Nonostante il poliformismo dei sintomi e la nebulosa dei quadri malinconici, conquista nella medicina del Rinascimento una propria identità, una propria autonomia nosografica. La sostiene, tra gli altri, un medico francese, Jacques Ferrand, che scrive addirittura un libro dallo sterminato titolo che comincia così De la maladie d'amour ou Melancholie erotique.
Non diversamente dalle altre malattie, comprese quelle mentali - la cui specificità si sarebbe imposta solo con lo scioglimento del nodo delle concezioni dualistiche tra il corpo e l'anima - quella d'amore era considerata come una manifestazione dello squilibrio degli umori del corpo. Specialmente implicato era «l'umore nero», pesante e spesso, della «melanconia». La sede organica erano gli ipocondri, dai quali poi si diffondeva al cuore per arrivare infine al cervello. Per il medico italiano Pompeo Sacco, invece, era proprio quest'organo la sede primitiva del mal d'amore. Vi erano interessati gli occhi, la pelle che impallidiva o arrossiva, alternativamente, la voce che diventava flebile e tremolava in presenza dell'amato/a. La fixa imaginatio in amatam poteva far evolvere il quadro verso la melancholia.
Di trattato in trattato, i medici precisano i sintomi del mal d'amore, minuziosamente descritti, nel Settecento, dal medico austriaco Joseph Frank: debolezza, pallore, occhi infossati, polso irregolare, piccolo e debole in assenza dell'amato/a, tendenza al sanguinamento, aritmia, dolore epigastrico, inquietudine, febbricola. Altri segni - riconducibili alla presenza di un quadro depressivo - erano difficoltà di concentrazione, instabilità d'umore, malinconia, indifferenza all'opinione degli altri, trascuratezza negli affari, fastidio per i buoni consigli, sprezzo del pericolo.
Precisi nell'elencare i sintomi, i trattatisti non avevano però precise strategie terapeutiche per guarire dai tormenti dell'amore non corrisposto: sulla scia di un classico come remedia amoris suggeriti da Ovidio si consigliava di evitare i luoghi che accendevano i sogni e la visione dell'oggetto d'amore. Un viaggio, lunghe e stancanti passeggiate, la caccia, compagnie allegre erano indicati come possibili rimedi, così come l'espediente di trasformare l'amore in odio. Le prescrizioni dietetiche comprendono bevande acidule, alimenti di facile digestione e rinfrescanti, e in particolare carni lesse, legumi acquosi e frutta. Da evitare, invece, cibi e bevande come vino, caffè, liquori, pesce, uova, selvaggina, funghi e, meno che mai, tartufi.
Considerato non inguaribile dai medici, il mal d'amore - malattia del cuore, del cervello, dell'ipocondrio - era però difficile da curare perché i malati stessi, talvolta, non solo non desideravano guarire dai loro tormenti, ma continuavano a cercare questo genere d'amore, malattia ed estasi.
nelle strutture psichiatriche in Lazio
mancano quasi novecento operatori
Corriere della Sera, edizione di Roma 12.2.05
Le associazioni dei familiari: in questo settore non ci sono macchinari, tutto si fonda sulle competenze di medici e infermieri
Assistenza psichiatrica: un servizio dimezzato
In tutto il Lazio mancano 874 operatori su 1.892 per assistere quasi trentaduemila malati
Il. Sa.
Un servizio in pericolo, quello di assistenza e cura del disagio mentale. Con 874 operatori in meno sui 1.892 previsti dal piano sanitario regionale e messo in crisi da soluzioni scarsamente condivise: un servizio dimezzato. Dopo l’ultima riunione della Commissione regionale unica per la salute mentale (Crusam), che ha deciso lo scorporo del servizio di emergenza psichiatrica dalle competenze territoriali, le associazioni che compongono la consulta cittadina per il disagio mentale, continuano a protestare. «Aresam», che riunisce i familiari di persone affette da disabilità mentale, «Arap» (associazione per la riforma dell’assistenza psichiatrica) e le organizzazioni di volontariato che operano nel campo, si esprimono attraverso la consulta cittadina permanente per la salute mentale e denunciano le difficoltà dell’assistenza psichiatrica nel Lazio.
Come documenta la Consulta, rispetto a quanto previsto dal progetto regionale di «Promozione e tutela della salute mentale», vi è una carenza di 874 operatori, fra psicologi, psichiatri, assistenti e infermieri.
In tutte le aziende sanitarie locali, il dipartimento di salute mentale è sotto organico. In testa, la Roma B, con 265 persone in meno. A seguire, la Roma C, «sotto» di 208 persone, la Roma D il cui servizio si mantiene in funzione con 193 operatori in meno, la Roma A e la E, rispettivamente con 150 e 58 operatori in meno.
Dice Daniela Pezzi, presidente della Consulta cittadina Permanente per il disagio mentale: «Da un lato abbiamo 32mila persone affette da problemi psichiatrici, dall’altro una carenza di circa mille operatori. Con numeri del genere, desta ammirazione la professionalità con la quale si sta continuando a garantire questo servizio nei vari centri. Un servizio che si fonda sul lavoro umano, di medici e operatori, visto che la psichiatria non è un settore che può giovarsi di macchinari e apparecchiature ma è affidato alle competenze umane».
Il punto della situazione, con le cifre, arriva a pochi giorni di distanza dall’ultima riunione della Crusam, e in seguito alle proteste di alcune associazioni contro la decisione di affidare il servizio di intervento di emergenza psichiatrica al 118, invece che ai centri territoriali, che finora, garantivano la continuità fra assistenza in fase di emergenza e progetto terapeutico. «Il dialogo fra associazioni e Regione si è interrotto da mesi: insistiamo perché venga ripreso - dice la presidente della Consulta - soprattutto ora, in un momento di particolare difficoltà.
Le associazioni dei familiari: in questo settore non ci sono macchinari, tutto si fonda sulle competenze di medici e infermieri
Assistenza psichiatrica: un servizio dimezzato
In tutto il Lazio mancano 874 operatori su 1.892 per assistere quasi trentaduemila malati
Il. Sa.
Un servizio in pericolo, quello di assistenza e cura del disagio mentale. Con 874 operatori in meno sui 1.892 previsti dal piano sanitario regionale e messo in crisi da soluzioni scarsamente condivise: un servizio dimezzato. Dopo l’ultima riunione della Commissione regionale unica per la salute mentale (Crusam), che ha deciso lo scorporo del servizio di emergenza psichiatrica dalle competenze territoriali, le associazioni che compongono la consulta cittadina per il disagio mentale, continuano a protestare. «Aresam», che riunisce i familiari di persone affette da disabilità mentale, «Arap» (associazione per la riforma dell’assistenza psichiatrica) e le organizzazioni di volontariato che operano nel campo, si esprimono attraverso la consulta cittadina permanente per la salute mentale e denunciano le difficoltà dell’assistenza psichiatrica nel Lazio.
Come documenta la Consulta, rispetto a quanto previsto dal progetto regionale di «Promozione e tutela della salute mentale», vi è una carenza di 874 operatori, fra psicologi, psichiatri, assistenti e infermieri.
In tutte le aziende sanitarie locali, il dipartimento di salute mentale è sotto organico. In testa, la Roma B, con 265 persone in meno. A seguire, la Roma C, «sotto» di 208 persone, la Roma D il cui servizio si mantiene in funzione con 193 operatori in meno, la Roma A e la E, rispettivamente con 150 e 58 operatori in meno.
Dice Daniela Pezzi, presidente della Consulta cittadina Permanente per il disagio mentale: «Da un lato abbiamo 32mila persone affette da problemi psichiatrici, dall’altro una carenza di circa mille operatori. Con numeri del genere, desta ammirazione la professionalità con la quale si sta continuando a garantire questo servizio nei vari centri. Un servizio che si fonda sul lavoro umano, di medici e operatori, visto che la psichiatria non è un settore che può giovarsi di macchinari e apparecchiature ma è affidato alle competenze umane».
Il punto della situazione, con le cifre, arriva a pochi giorni di distanza dall’ultima riunione della Crusam, e in seguito alle proteste di alcune associazioni contro la decisione di affidare il servizio di intervento di emergenza psichiatrica al 118, invece che ai centri territoriali, che finora, garantivano la continuità fra assistenza in fase di emergenza e progetto terapeutico. «Il dialogo fra associazioni e Regione si è interrotto da mesi: insistiamo perché venga ripreso - dice la presidente della Consulta - soprattutto ora, in un momento di particolare difficoltà.
Vassilij Kandinskij
Corriere della Sera 12.2.05
Al Museo Puškin di Mosca acquerelli e dipinti dell’artista dei quali si era perduta traccia dal 1921
Kandinskij ritrovato: il mistero dell’esposizione fantasma
Fabrizio Dragosei
MOSCA - Erano considerate perse dal 1921, poco dopo la fine della guerra civile che aveva insanguinato il Paese. Scomparse dopo essere state esposte in un museo della Russia centrale. Adesso le sei opere di Vassilij Kandinskij (1866-1944), uno dei più grandi pittori del Novecento, sono state recuperate e vengono esposte per la prima volta a Mosca fino al 27 marzo. Si tratta di quattro acquerelli e di due disegni realizzati tra il 1914 e il 1921 ai quali sono stati aggiunti altri quattro quadri offerti per la mostra da un collezionista privato. Alle opere è stata riservata una saletta del museo delle collezioni private annesso al celebre museo Puškin di Mosca.
La storia delle opere perdute è abbastanza curiosa. Nel 1921 venne organizzata una mostra itinerante con opere di vari pittori russi, tra le quali, appunto, i quattro acquerelli e i due disegni di Kandinskij. Arrivarono nella cittadina di Yaransk, nella regione di Kirov (tra Mosca e gli Urali) per rimanerci pochi giorni. Invece, per motivi misteriosi, il giro non riprese mai più. E delle opere si persero le tracce.
Oggi sappiamo che acquerelli e disegni rimasero a Yaransk fino al 1965. In quell’anno vennero spostati nel museo della città più importante della regione, Kirov, oggi ribattezzata Viatka. Nell’elenco delle opere del museo, però, non ha mai figurato nessuna opera di Kandinskij. Evidentemente nessuno capì cosa era arrivato da Yaransk. Due acquerelli del 1915, bellissimi, vennero incollati sul retro di un’altra opera di un pittore locale.
Miracolosamente negli anni del crollo dell’Unione Sovietica nessuno si è reso conto che quelle opere nemmeno catalogate nel museo avevano un simile valore. Così recentemente, quando esperti del Puškin hanno ripreso le ricerche, i disegni e gli acquerelli sono stati individuati a Viatka.
Il disegno del 1918, Composizione , è considerato dagli esperti uno dei capolavori grafici dell’artista. Tra le opere aggiunte alla mostra, c’è un interessante ritratto a olio della moglie di Kandinskij, realizzato su un quadro già dipinto precedentemente e che riproduce delle montagne. Un altro acquerello è in stile naif e rappresenta due donne nel villaggio dove Kandinskij passava le vacanze.
Al Museo Puškin di Mosca acquerelli e dipinti dell’artista dei quali si era perduta traccia dal 1921
Kandinskij ritrovato: il mistero dell’esposizione fantasma
Fabrizio Dragosei
MOSCA - Erano considerate perse dal 1921, poco dopo la fine della guerra civile che aveva insanguinato il Paese. Scomparse dopo essere state esposte in un museo della Russia centrale. Adesso le sei opere di Vassilij Kandinskij (1866-1944), uno dei più grandi pittori del Novecento, sono state recuperate e vengono esposte per la prima volta a Mosca fino al 27 marzo. Si tratta di quattro acquerelli e di due disegni realizzati tra il 1914 e il 1921 ai quali sono stati aggiunti altri quattro quadri offerti per la mostra da un collezionista privato. Alle opere è stata riservata una saletta del museo delle collezioni private annesso al celebre museo Puškin di Mosca.
La storia delle opere perdute è abbastanza curiosa. Nel 1921 venne organizzata una mostra itinerante con opere di vari pittori russi, tra le quali, appunto, i quattro acquerelli e i due disegni di Kandinskij. Arrivarono nella cittadina di Yaransk, nella regione di Kirov (tra Mosca e gli Urali) per rimanerci pochi giorni. Invece, per motivi misteriosi, il giro non riprese mai più. E delle opere si persero le tracce.
Oggi sappiamo che acquerelli e disegni rimasero a Yaransk fino al 1965. In quell’anno vennero spostati nel museo della città più importante della regione, Kirov, oggi ribattezzata Viatka. Nell’elenco delle opere del museo, però, non ha mai figurato nessuna opera di Kandinskij. Evidentemente nessuno capì cosa era arrivato da Yaransk. Due acquerelli del 1915, bellissimi, vennero incollati sul retro di un’altra opera di un pittore locale.
Miracolosamente negli anni del crollo dell’Unione Sovietica nessuno si è reso conto che quelle opere nemmeno catalogate nel museo avevano un simile valore. Così recentemente, quando esperti del Puškin hanno ripreso le ricerche, i disegni e gli acquerelli sono stati individuati a Viatka.
Il disegno del 1918, Composizione , è considerato dagli esperti uno dei capolavori grafici dell’artista. Tra le opere aggiunte alla mostra, c’è un interessante ritratto a olio della moglie di Kandinskij, realizzato su un quadro già dipinto precedentemente e che riproduce delle montagne. Un altro acquerello è in stile naif e rappresenta due donne nel villaggio dove Kandinskij passava le vacanze.
USA
il crepacuore
Corriere della Sera 12.2.05
Uno studio Usa conferma i detti popolari. La «ferita» si ripara da sola
Il crepacuore è una malattia Come l’infarto, ma è curabile
di GIUSEPPE REMUZZI
«Quel burattino lì è un figliuolo disubbidiente, che farà morire di crepacuore il suo povero babbo!». Che di «crepacuore» si possa morire viene dalla saggezza popolare e fa parte dei modi di dire («Cane randagio assalta un pollaio. Morte di crepacuore 230 galline», Corriere 6 maggio 2003). Certo, non c’erano dati, non si sapeva quando, chi e perché, ma il sospetto che ci fosse qualcosa di vero qualcuno l’ha avuto. E così i cardiologi della Johns Hopkins University, con i colleghi di Boston hanno studiato la sindrome del cuore a pezzi ( broken heart syndrome ) e l’hanno fatto in modo estremamente sofisticato. Di crepacuore si ammalano (e muoiono) di più le donne degli uomini. Succede, quasi sempre, per la perdita di una persona cara, ma può essere per una rapina e qualche volta basta un incidente stradale. Andiamo con ordine. Tra il 1999 e il 2003 arrivano all’unità coronarica della Johns Hopkins 19 ammalati (18 donne e 1 uomo). Avevano più o meno 60 anni, ma c’era anche una donna di 77 che aveva perso il marito 6 ore prima, poi una ragazza di 27, e una signora di 32, e una di 87 (la sua unica amica era morta da un’ora). Tutte con un forte dolore al petto, la pressione bassa, e il fiato corto. L’elettrocardiogramma fa vedere alterazioni. Curioso, perché quasi tutti prima stavano bene e mai c’erano stati problemi di cuore. I medici della Johns Hopkins vanno avanti, fanno un’ecografia e trovano che il cuore si contrae molto poco, al punto da far fatica a spingere il sangue nell’aorta. Si delinea quello che i medici chiamano «scompenso acuto di cuore». Tutti questi malati fanno una coronarografia (si inietta un mezzo di contrasto nelle coronarie, le arterie che nutrono il cuore) ma le coronarie sono normali. Cosa sta succedendo?
Con l’idea che tutto fosse causato dall’emozione i ricercatori hanno voluto vedere se per caso non c’entrassero gli ormoni, quelli che il nostro organismo elabora in risposta allo stress, e che vanno a finire nel sangue. In effetti i livelli di questi ormoni (hanno nomi complicati: adrenalina, noradrenalina, dopamina) erano altissimi, in qualche caso addirittura 30 volte più alti del normale. Che troppa adrenalina possa danneggiare il cuore si sapeva, ma con che meccanismo? I dottori di Baltimora hanno pensato prima ad uno spasmo delle coronarie. Ma questo non era molto verosimile perché il dolore si sarebbe manifestato subito, non a qualche ora di distanza dall’evento tragico. Un’altra possibilità è che questi ormoni siano tossici, per il cuore per esempio, perché favoriscono la formazione di radicali dell’ossigeno e questo per le cellule del cuore è insopportabile. Così hanno fatto la biopsia del cuore a cinque di questi pazienti e hanno visto delle lesioni che assomigliano proprio a quelle che si vedono negli animali quando c’è troppa adrenalina. (E si sono ricordati di un lavoro di tanti anni fa che aveva fatto vedere che giovani vittime di omicidi, all’autopsia avevano necrosi di certe parti del cuore senza avere nessuna lesione delle coronarie).
Come è finita? Tutte queste donne e anche l’unico uomo (un signore di 62 anni che aveva avuto il dolore al cuore mentre era in corso in tribunale un processo a suo carico) sono guariti - perché erano in Ospedale, s’intende - e dopo qualche settimana il loro cuore funzionava proprio come un cuore normale. Ma perché erano quasi tutte donne? Questo di preciso non si sa. Forse le donne sono più sensibili degli uomini agli effetti delle catecolamine.
«Cuore a pezzi», «cuore infranto», sembrava retorica, adesso è una malattia. Magari anche più frequente di quello che si pensa. È proprio come se si creasse una crepa nel cuore che poi si ripara, perfettamente, da sola. E com’è che la saggezza popolare ha coniato (chissà quanti anni fa) un termine che oggi si rivela assolutamente accurato sul piano scientifico? È un mistero, e non basta, oggi sappiamo che nel cuore - anche dell’adulto - ci sono cellule staminali che la crepa la possono riparare davvero. Sono cellule relativamente poco specializzate. Forse un giorno sarà possibile prelevarle con una biopsia, espanderle in laboratorio e ridarle allo stesso ammalato per curare l’infarto.
Non è vero, per dirla con Cecco Angiolieri, il grande poeta senese, che «S’è si potesse morir di dolore, molti son vivi che sserebber morti». Di dolore si muore, e come, salvo non arrivare in tempo in un buon ospedale.
Uno studio Usa conferma i detti popolari. La «ferita» si ripara da sola
Il crepacuore è una malattia Come l’infarto, ma è curabile
di GIUSEPPE REMUZZI
«Quel burattino lì è un figliuolo disubbidiente, che farà morire di crepacuore il suo povero babbo!». Che di «crepacuore» si possa morire viene dalla saggezza popolare e fa parte dei modi di dire («Cane randagio assalta un pollaio. Morte di crepacuore 230 galline», Corriere 6 maggio 2003). Certo, non c’erano dati, non si sapeva quando, chi e perché, ma il sospetto che ci fosse qualcosa di vero qualcuno l’ha avuto. E così i cardiologi della Johns Hopkins University, con i colleghi di Boston hanno studiato la sindrome del cuore a pezzi ( broken heart syndrome ) e l’hanno fatto in modo estremamente sofisticato. Di crepacuore si ammalano (e muoiono) di più le donne degli uomini. Succede, quasi sempre, per la perdita di una persona cara, ma può essere per una rapina e qualche volta basta un incidente stradale. Andiamo con ordine. Tra il 1999 e il 2003 arrivano all’unità coronarica della Johns Hopkins 19 ammalati (18 donne e 1 uomo). Avevano più o meno 60 anni, ma c’era anche una donna di 77 che aveva perso il marito 6 ore prima, poi una ragazza di 27, e una signora di 32, e una di 87 (la sua unica amica era morta da un’ora). Tutte con un forte dolore al petto, la pressione bassa, e il fiato corto. L’elettrocardiogramma fa vedere alterazioni. Curioso, perché quasi tutti prima stavano bene e mai c’erano stati problemi di cuore. I medici della Johns Hopkins vanno avanti, fanno un’ecografia e trovano che il cuore si contrae molto poco, al punto da far fatica a spingere il sangue nell’aorta. Si delinea quello che i medici chiamano «scompenso acuto di cuore». Tutti questi malati fanno una coronarografia (si inietta un mezzo di contrasto nelle coronarie, le arterie che nutrono il cuore) ma le coronarie sono normali. Cosa sta succedendo?
Con l’idea che tutto fosse causato dall’emozione i ricercatori hanno voluto vedere se per caso non c’entrassero gli ormoni, quelli che il nostro organismo elabora in risposta allo stress, e che vanno a finire nel sangue. In effetti i livelli di questi ormoni (hanno nomi complicati: adrenalina, noradrenalina, dopamina) erano altissimi, in qualche caso addirittura 30 volte più alti del normale. Che troppa adrenalina possa danneggiare il cuore si sapeva, ma con che meccanismo? I dottori di Baltimora hanno pensato prima ad uno spasmo delle coronarie. Ma questo non era molto verosimile perché il dolore si sarebbe manifestato subito, non a qualche ora di distanza dall’evento tragico. Un’altra possibilità è che questi ormoni siano tossici, per il cuore per esempio, perché favoriscono la formazione di radicali dell’ossigeno e questo per le cellule del cuore è insopportabile. Così hanno fatto la biopsia del cuore a cinque di questi pazienti e hanno visto delle lesioni che assomigliano proprio a quelle che si vedono negli animali quando c’è troppa adrenalina. (E si sono ricordati di un lavoro di tanti anni fa che aveva fatto vedere che giovani vittime di omicidi, all’autopsia avevano necrosi di certe parti del cuore senza avere nessuna lesione delle coronarie).
Come è finita? Tutte queste donne e anche l’unico uomo (un signore di 62 anni che aveva avuto il dolore al cuore mentre era in corso in tribunale un processo a suo carico) sono guariti - perché erano in Ospedale, s’intende - e dopo qualche settimana il loro cuore funzionava proprio come un cuore normale. Ma perché erano quasi tutte donne? Questo di preciso non si sa. Forse le donne sono più sensibili degli uomini agli effetti delle catecolamine.
«Cuore a pezzi», «cuore infranto», sembrava retorica, adesso è una malattia. Magari anche più frequente di quello che si pensa. È proprio come se si creasse una crepa nel cuore che poi si ripara, perfettamente, da sola. E com’è che la saggezza popolare ha coniato (chissà quanti anni fa) un termine che oggi si rivela assolutamente accurato sul piano scientifico? È un mistero, e non basta, oggi sappiamo che nel cuore - anche dell’adulto - ci sono cellule staminali che la crepa la possono riparare davvero. Sono cellule relativamente poco specializzate. Forse un giorno sarà possibile prelevarle con una biopsia, espanderle in laboratorio e ridarle allo stesso ammalato per curare l’infarto.
Non è vero, per dirla con Cecco Angiolieri, il grande poeta senese, che «S’è si potesse morir di dolore, molti son vivi che sserebber morti». Di dolore si muore, e come, salvo non arrivare in tempo in un buon ospedale.
Ammaniti
fare i conti col padre
Corriere della Sera 12.2.05
POLITICA E PSICANALISI
Lo studioso Ammaniti: ho sempre pensato che il ruolo del genitore fosse all’origine della competizione tra loro
Piero, Walter e Massimo: quando diventare leader è fare i conti col padre
Fassino rimase orfano a 16 anni, Veltroni quando era ancora un bambino
di Maria Latella
ROMA - Si resta figli per sempre, ed è una condizione alla quale non si sfugge neppure diventando il capo di un partito di massa, dunque il padre (secondo alcuni, il fratello maggiore) di tanti altri. Al termine del congresso Ds, Piero Fassino ha voluto un filmato che rendesse omaggio agli uomini della Resistenza e, implicitamente, ha così reso omaggio a suo padre, Eugenio, comandante partigiano. Sul suo rapporto filiale, crudelmente spezzato dall’improvvisa morte del padre, è tornato anche nell’intervista concessa a Stefania Rossini dell’ Espresso . «Lei ha fama di irascibile» ricorda la giornalista. E Fassino: «Non sfuggo al conflitto, però lo soffro intensamente. A me è mancata quella sana ginnastica con l’autorità paterna che ogni adolescente vive nel suo sviluppo normale. Mio padre morì che avevo 16 anni, non mi dette il tempo di misurare le mie forze con le sue». È una singolare coincidenza, o forse no, chissà, che due dei tre uomini con i quali viene sempre identificato il vertice dei Ds, Piero Fassino e Walter Veltroni, siano orfani e orfani dall’infanzia, Veltroni, dall’adolescenza, Fassino. Veltroni che non ha quasi conosciuto suo padre, morto che lui era piccolo. Fassino che lo perde di colpo, imprevedibilmente. Un mattino Eugenio Fassino accompagna il figlio a scuola, dai gesuiti. Due ore dopo un insegnante avverte il giovane Piero: «Tuo padre non sta bene, ha avuto un ictus».
Il presidente dei Ds, Massimo D’Alema, ha invece una storia diversa eppure, anche qui, il rapporto genitore-figlio conta e, chissà, influisce sulla politica. Giuseppe D’Alema era un padre fierissimo di quel suo ragazzo tanto promettente. Già coltivava aspettative alla sua nascita. Si racconta che davanti al neonato Massimo preconizzasse: «Questo deve diventare segretario del partito». Mica facile restare all’altezza dei sogni paterni (e materni). Né è semplice essere figlio di genitori comunisti, benché, anni fa, un film belga sostenesse il contrario, che fosse insomma una fortuna «aver avuto genitori comunisti».
I genitori comunisti, invece, vivevano alcune inflessibili rigidità e sembra difficile immaginare il giovane Massimo alle prese con la «sana ginnastica con l’autorità paterna» di cui parla Fassino. Avrà certo preso le distanze dal padre, come capita ad ogni adolescente, ma non ha mai rotto, mai è passato - per dire - con Lotta Continua. Metaforicamente, è rimasto nella casa del padre.
«C’è una mancanza, un buco che niente ha colmato» ha detto Fassino all’ Espresso . Di quell’assenza, il segretario Ds non parla in pubblico, ma nella sua abitazione romana le foto di Eugenio Fassino si vedono dappertutto, anche quelle in divisa da partigiano. Ogni anno, con la madre e, talvolta, con la moglie Anna, il segretario Ds rispetta un appuntamento voluto da suo padre. Si reca in un cimitero nascosto nei boschi piemontesi, un cimitero realizzato da Eugenio Fassino per i partigiani morti in quella zona, e con le famiglie di quei defunti trascorre l’intera giornata. Quest’estate, vedendo i filmati proiettati alla Convention dei democratici, a Boston, ha subito pensato di copiarli per il congresso, il suo congresso di Roma. «Mi piacerebbe che uno ricordasse la Resistenza» ha detto alla moglie Anna e lei ha capito che sarebbe stato quello il momento importante di un giorno importante.
Per sentirsi vicino al padre che non ha di fatto conosciuto, il piccolo Walter Veltroni ogni giorno apriva una cassapanca che ancora conservava i vestiti di lui. Stendeva una giacca, un paio di pantaloni sul lettone della mamma e poi... «Poi ci si sdraiò sopra, mise le braccia sulle maniche e le gambe sui pantaloni. Si sentì grande e figlio, in una volta sola». Il sindaco di Roma l’ha raccontato in Senza Patricio , l’ultimo libro veltroniano, purissima operazione di autoanalisi, storie inventate inseguendo la frase «Patricio te amo, papà» colta di sfuggita su un muro di Buenos Aires. Cinque racconti in cui c’è sempre un padre che insegue il ricordo di un figlio, o un figlio che insegue quello di un padre.
Nella già citata intervista all’ Espresso , Fassino ammette di aver ceduto alla suggestione di conoscersi meglio grazie alla psicanalisi, ma di non aver poi dato seguito all’intenzione. «Per mancanza di tempo». Senza avere la presunzione di supplire, qui ed ora, a quel progetto mancato, pure viene spontaneo chiedere a uno psicanalista quanto del rapporto "padre-figlio" si rispecchi nella storia dei Ds di questi ultimi dieci anni, gli anni di D’Alema, di Veltroni, di Fassino. Curiosamente, ma poi forse nemmeno troppo, lo psicanalista Massimo Ammaniti riconosce di averci pensato a lungo, per fatti propri. «Mi è capitato di rifletterci su assistendo alla competizione tra gli uomini dei vertici Ds. Non poteva avere altra spiegazione se non la mancanza del padre», osserva, pur premettendo che «c’è sempre una difficoltà nell’analizzare le categorie psico-politiche». Anche Ingrao e Amendola competevano, osserva Ammaniti, ma tra i cinquantenni della sinistra attuale il gioco si avverte (avvertiva?) diverso. «Negli anni Sessanta lo psicanalista Alexander Mitscherlich scrisse un saggio sulla «società senza padri». Evidenziava il rischio di una società in cui gli uomini si sentissero tutti sullo stesso piano, come fratelli di una famiglia senza il capo. Nessuno accetta che l’altro prevalga. Quando il padre c’è, invece, è lui a stabilire la gerarchia: primogenito, secondogenito...». I giovani comunisti che, fino al 1984, si riconoscono in un padre, Enrico Berlinguer, si trovano invece, e improvvisamente, senza. Senza padre e, poco dopo, senza più comunismo. Due volte orfani. «Da quel momento, almeno fino ad oggi, nessuno ha saputo più rielaborare i lutti» osserva Ammaniti. Chissà che non abbia deciso di rielaborarli Fassino, parlando del padre, per primo, nell’ufficialità di un congresso. Quanto a Romano Prodi, padre, per loro, non potrà esserlo mai. «Al massimo - riconosce Ammaniti - può essere visto come un genitore putativo. Un san Giuseppe».
POLITICA E PSICANALISI
Lo studioso Ammaniti: ho sempre pensato che il ruolo del genitore fosse all’origine della competizione tra loro
Piero, Walter e Massimo: quando diventare leader è fare i conti col padre
Fassino rimase orfano a 16 anni, Veltroni quando era ancora un bambino
di Maria Latella
ROMA - Si resta figli per sempre, ed è una condizione alla quale non si sfugge neppure diventando il capo di un partito di massa, dunque il padre (secondo alcuni, il fratello maggiore) di tanti altri. Al termine del congresso Ds, Piero Fassino ha voluto un filmato che rendesse omaggio agli uomini della Resistenza e, implicitamente, ha così reso omaggio a suo padre, Eugenio, comandante partigiano. Sul suo rapporto filiale, crudelmente spezzato dall’improvvisa morte del padre, è tornato anche nell’intervista concessa a Stefania Rossini dell’ Espresso . «Lei ha fama di irascibile» ricorda la giornalista. E Fassino: «Non sfuggo al conflitto, però lo soffro intensamente. A me è mancata quella sana ginnastica con l’autorità paterna che ogni adolescente vive nel suo sviluppo normale. Mio padre morì che avevo 16 anni, non mi dette il tempo di misurare le mie forze con le sue». È una singolare coincidenza, o forse no, chissà, che due dei tre uomini con i quali viene sempre identificato il vertice dei Ds, Piero Fassino e Walter Veltroni, siano orfani e orfani dall’infanzia, Veltroni, dall’adolescenza, Fassino. Veltroni che non ha quasi conosciuto suo padre, morto che lui era piccolo. Fassino che lo perde di colpo, imprevedibilmente. Un mattino Eugenio Fassino accompagna il figlio a scuola, dai gesuiti. Due ore dopo un insegnante avverte il giovane Piero: «Tuo padre non sta bene, ha avuto un ictus».
Il presidente dei Ds, Massimo D’Alema, ha invece una storia diversa eppure, anche qui, il rapporto genitore-figlio conta e, chissà, influisce sulla politica. Giuseppe D’Alema era un padre fierissimo di quel suo ragazzo tanto promettente. Già coltivava aspettative alla sua nascita. Si racconta che davanti al neonato Massimo preconizzasse: «Questo deve diventare segretario del partito». Mica facile restare all’altezza dei sogni paterni (e materni). Né è semplice essere figlio di genitori comunisti, benché, anni fa, un film belga sostenesse il contrario, che fosse insomma una fortuna «aver avuto genitori comunisti».
I genitori comunisti, invece, vivevano alcune inflessibili rigidità e sembra difficile immaginare il giovane Massimo alle prese con la «sana ginnastica con l’autorità paterna» di cui parla Fassino. Avrà certo preso le distanze dal padre, come capita ad ogni adolescente, ma non ha mai rotto, mai è passato - per dire - con Lotta Continua. Metaforicamente, è rimasto nella casa del padre.
«C’è una mancanza, un buco che niente ha colmato» ha detto Fassino all’ Espresso . Di quell’assenza, il segretario Ds non parla in pubblico, ma nella sua abitazione romana le foto di Eugenio Fassino si vedono dappertutto, anche quelle in divisa da partigiano. Ogni anno, con la madre e, talvolta, con la moglie Anna, il segretario Ds rispetta un appuntamento voluto da suo padre. Si reca in un cimitero nascosto nei boschi piemontesi, un cimitero realizzato da Eugenio Fassino per i partigiani morti in quella zona, e con le famiglie di quei defunti trascorre l’intera giornata. Quest’estate, vedendo i filmati proiettati alla Convention dei democratici, a Boston, ha subito pensato di copiarli per il congresso, il suo congresso di Roma. «Mi piacerebbe che uno ricordasse la Resistenza» ha detto alla moglie Anna e lei ha capito che sarebbe stato quello il momento importante di un giorno importante.
Per sentirsi vicino al padre che non ha di fatto conosciuto, il piccolo Walter Veltroni ogni giorno apriva una cassapanca che ancora conservava i vestiti di lui. Stendeva una giacca, un paio di pantaloni sul lettone della mamma e poi... «Poi ci si sdraiò sopra, mise le braccia sulle maniche e le gambe sui pantaloni. Si sentì grande e figlio, in una volta sola». Il sindaco di Roma l’ha raccontato in Senza Patricio , l’ultimo libro veltroniano, purissima operazione di autoanalisi, storie inventate inseguendo la frase «Patricio te amo, papà» colta di sfuggita su un muro di Buenos Aires. Cinque racconti in cui c’è sempre un padre che insegue il ricordo di un figlio, o un figlio che insegue quello di un padre.
Nella già citata intervista all’ Espresso , Fassino ammette di aver ceduto alla suggestione di conoscersi meglio grazie alla psicanalisi, ma di non aver poi dato seguito all’intenzione. «Per mancanza di tempo». Senza avere la presunzione di supplire, qui ed ora, a quel progetto mancato, pure viene spontaneo chiedere a uno psicanalista quanto del rapporto "padre-figlio" si rispecchi nella storia dei Ds di questi ultimi dieci anni, gli anni di D’Alema, di Veltroni, di Fassino. Curiosamente, ma poi forse nemmeno troppo, lo psicanalista Massimo Ammaniti riconosce di averci pensato a lungo, per fatti propri. «Mi è capitato di rifletterci su assistendo alla competizione tra gli uomini dei vertici Ds. Non poteva avere altra spiegazione se non la mancanza del padre», osserva, pur premettendo che «c’è sempre una difficoltà nell’analizzare le categorie psico-politiche». Anche Ingrao e Amendola competevano, osserva Ammaniti, ma tra i cinquantenni della sinistra attuale il gioco si avverte (avvertiva?) diverso. «Negli anni Sessanta lo psicanalista Alexander Mitscherlich scrisse un saggio sulla «società senza padri». Evidenziava il rischio di una società in cui gli uomini si sentissero tutti sullo stesso piano, come fratelli di una famiglia senza il capo. Nessuno accetta che l’altro prevalga. Quando il padre c’è, invece, è lui a stabilire la gerarchia: primogenito, secondogenito...». I giovani comunisti che, fino al 1984, si riconoscono in un padre, Enrico Berlinguer, si trovano invece, e improvvisamente, senza. Senza padre e, poco dopo, senza più comunismo. Due volte orfani. «Da quel momento, almeno fino ad oggi, nessuno ha saputo più rielaborare i lutti» osserva Ammaniti. Chissà che non abbia deciso di rielaborarli Fassino, parlando del padre, per primo, nell’ufficialità di un congresso. Quanto a Romano Prodi, padre, per loro, non potrà esserlo mai. «Al massimo - riconosce Ammaniti - può essere visto come un genitore putativo. Un san Giuseppe».
sinistra
Ds contro Prc in Toscana
Corriere dellaSera 12.2.05
IL CASO
Toscana, il Prc candida un ds. E loro: sono sleali
Rifondazione corre da sola Folena: c’è disagio, si rischia l’esodo Caldarola: colpa di Bertinotti
Marco Gasperetti Alessandro Trocino
Il più netto è Pietro Folena che, nella decisione di Rifondazione di correre da sola in Toscana e di scegliere un diessino come candidato, vede «il campanello d’allarme di un disagio profondissimo della sinistra ds alla prospettiva del partito riformista, un segnale su cui la dirigenza della Quercia farebbe bene a riflettere se non vuole perdere altre forze». Insomma, Folena avverte: o si cambia rotta o il rischio di un esodo dai Ds diventa concreto. La Gad in Toscana, da ieri è ufficiale, non esiste più, neanche nella nuova veste di Unione: Luca Ciabatti - 44 anni, segretario regionale della Cgil-Funzione pubblica, da pochi giorni nella direzione dei Ds - sarà il candidato di Rifondazione alle elezioni regionali che si terranno il 3-4 aprile. Al fianco del Prc correrà «Toscana libera», coordinamento di liste civiche di sinistra. Ciabatti è rimasto dieci giorni ai vertici dei Ds, poi ha scritto al segretario regionale: «Non condivido più le scelte del partito sia a livello nazionale che regionale». Quasi contestualmente, la decisione di candidarsi con Rifondazione: «Martini è un ottimo presidente e io non sono l’anti Martini - dice Ciabatti - Questa è un’operazione di ricucitura, per arrivare alla vera unità e cancellare l’anomalia Toscana». Il governatore Martini guarda avanti: «Il nostro traguardo resta costruire l’Unione, con il Prc, entro le Politiche del 2006».
Ma la rottura rischia di avere qualche strascico perché, come spiega il ds Giuseppe Caldarola, «crea una situazione incresciosa. Del resto Rifondazione è sempre stata ostile sia al sindaco di Firenze sia alla giunta regionale. La responsabilità della rottura è esclusivamente del Prc. Bertinotti è davvero uno strano personaggio: non solo non è intervenuto per sanare le ferite, ma non ha neanche detto ai compagni toscani di evitare di scegliere uno dei nostri: questa è una furbata, una presa in giro, un gesto sleale che apre una ferita ancora più grave». Bertinotti respinge le accuse: «L’anomalia toscana è stata voluta da Ds e Dl. Noi eravamo, e siamo, disponibili a un programma unico». I ds respingono le accuse, ma si spaccano. C’è chi parla di corresponsabilità della sinistra del partito nella decisione del Prc. Gloria Buffo si indigna: «Io e Mussi siamo intervenuti più volte per una ricomposizione. Queste sono accuse di stampo stalinista: per coprire le proprie reticenze a fare l’accordo unitario si scaricano sulla minoranza di un partito responsabilità che non esistono». Folena aggiunge: «Sono ferocemente critico nei confronti dei Ds e del centrosinistra della Toscana per la decisione di rompere. La responsabilità, in questi casi, è sempre della forza maggiore». C’è disagio nei Ds, dice Folena: «Tanto che capolista a Milano è Mario Agostinelli, fino a pochissimo iscritto ai Ds». Caldarola non teme esodi, per ora: «Evidentemente c’è stato in Toscana un rapporto con il Prc che è andato al di là della collaborazione. Ma sono propenso a pensare che la scelta di Ciabatti sia individuale e che verrà stigmatizzata da tutti». Ad agitare le acque nella Quercia ci pensa anche la Lega italiana dei diritti dell’uomo che vuole ricorrere alla corte di Giustizia di Strasburgo contro la decisione dei ds toscani di escludere dalle primarie gli iscritti alla massoneria.
L'Unità edizione di Firenze 11 Febbraio 2005
«Questo candidato serve a dividere»
Polemiche di Toscana democratica dopo la candidatura di un ds avanzata da Rifondazione
E ora con Rifondazione è davvero duello
Filippeschi: «Candidatura lontana dalle nostre tradizioni». Ricci: «Vogliamo parlare a tutta la sinistra»
Osvaldo Sabato
Il Mattino 11.02.05
«Così sembra che comandi Bertinotti»
TERESA BARTOLI
Roma. Il più preoccupato era Francesco Rutelli: «Dobbiamo prendere atto che la situazione, dopo le elezioni, è cambiata. E soprattutto non possiamo dare l’impressione che ci facciamo dettare la linea da Bertinotti o che ci appiattiamo sulla sinistra radicale». Il leader della Margherita lo ha detto e ripetuto, appoggiato a più riprese dal capogruppo alla Camera Pierluigi Castagnetti. Preoccupazioni ribadite nel corso del lungo confronto della federazione dell’Ulivo, malgrado Romano Prodi le avesse prevenute introducendo i lavori. «È vero - ha detto Prodi - che si è votato ma c’è motivo di cambiare posizione non solo perché, se fossimo stati noi al governo, questa missione non sarebbe partita ma anche perché dal governo non arriva alcun segnale di novità». Rutelli ha insistito: «La situazione è cambiata e oggi, se governassimo, dovremmo sfidare la comunità internazionale ad una iniziativa. Dobbiamo chiedere al governo di assumerla. E valutarla prima del voto, pronti a cambiare idea». Sono stati D’Alema e Fassino a replicargli: «La palla va buttata nel campo del governo, sono loro a dover spiegare il cambio di fase» ha detto il primo. «Se fossimo stati al governo, non avremmo partecipato alla missione perché la democrazia non si esporta con la guerra» ha ribadito il secondo. Il documento finale sfida il governo. «Se Berlusconi fosse intelligente, la raccoglierebbe e ci metterebbe in difficoltà ma cavalcheranno la propaganda americana» dice uno dei partecipanti alla riunione della Fed. E malgrado la porta aperta ad un eventuale ripensamento, Prodi ha preferito coltivare la compattezza dell’Unione, portare alla riunione di tutto il centrosinistra il «no» della Federazione al decreto. La decisione formale sarà presa martedì. Non sarà indolore perché Franco Marini, e con lui l’ala moderata filoamericana della Margherita, non rinuncerà alla battaglia per un «sì» alla missione dettato proprio dalla novità del voto. Ma lo stesso Marini ha già annunciato che «la decisione della maggioranza sarà la decisione di tutti» e, dunque, non ci saranno strappi. Probabilmente non ci saranno nemmeno documenti da presentare in aula per motivare il no: «Sarebbe assurdo votare compatti contro il governo e poi dividerci tra noi sul significato di quel no» fa notare un leader del centrosinistra. Mentre veniva messo a punto il testo finale, c’è stato spazio per altri argomenti. «L’informazione Rai è indecente, ci presenta sempre e solo o divisi o prigionieri di Bertinotti» ha detto Prodi rivelando di aver protestato direttamente coi dirigenti di viale Mazzini e proponendo una iniziativa dei parlamentari della Vigilanza. Poi è arrivata la dichiarazione con cui Marco Pannella chiedeva al centrosinistra di «togliere il veto alla trattativa con la Cdl». «Chiede a noi il permesso di accordarsi con Berlusconi?» ha ironizzato qualcuno mentre Castagnetti invitava tutti a «piantarla con questa pantomima e a rispondergli come si deve». Ma D’Alema ha consigliato prudenza: «Non possiamo dare l’impressione di indisponibilità. Se non altro per non offrire l’alibi dell’accordo col centrodestra». Accordo che però ieri quasi tutti davano per scontato. Ultimo punto, le manifestazioni in programma. L’Unione parteciperà a quella organizzata dal Manifesto il 19 in solidarietà a Giuliana Sgrena. Quindi quella del 26, di apertura della campagna elettorale per le regionali, non sarà più nazionale, a Roma, ma si trasformerà in iniziative in ognuna delle 14 regioni chiamate al voto.
IL CASO
Toscana, il Prc candida un ds. E loro: sono sleali
Rifondazione corre da sola Folena: c’è disagio, si rischia l’esodo Caldarola: colpa di Bertinotti
Marco Gasperetti Alessandro Trocino
Il più netto è Pietro Folena che, nella decisione di Rifondazione di correre da sola in Toscana e di scegliere un diessino come candidato, vede «il campanello d’allarme di un disagio profondissimo della sinistra ds alla prospettiva del partito riformista, un segnale su cui la dirigenza della Quercia farebbe bene a riflettere se non vuole perdere altre forze». Insomma, Folena avverte: o si cambia rotta o il rischio di un esodo dai Ds diventa concreto. La Gad in Toscana, da ieri è ufficiale, non esiste più, neanche nella nuova veste di Unione: Luca Ciabatti - 44 anni, segretario regionale della Cgil-Funzione pubblica, da pochi giorni nella direzione dei Ds - sarà il candidato di Rifondazione alle elezioni regionali che si terranno il 3-4 aprile. Al fianco del Prc correrà «Toscana libera», coordinamento di liste civiche di sinistra. Ciabatti è rimasto dieci giorni ai vertici dei Ds, poi ha scritto al segretario regionale: «Non condivido più le scelte del partito sia a livello nazionale che regionale». Quasi contestualmente, la decisione di candidarsi con Rifondazione: «Martini è un ottimo presidente e io non sono l’anti Martini - dice Ciabatti - Questa è un’operazione di ricucitura, per arrivare alla vera unità e cancellare l’anomalia Toscana». Il governatore Martini guarda avanti: «Il nostro traguardo resta costruire l’Unione, con il Prc, entro le Politiche del 2006».
Ma la rottura rischia di avere qualche strascico perché, come spiega il ds Giuseppe Caldarola, «crea una situazione incresciosa. Del resto Rifondazione è sempre stata ostile sia al sindaco di Firenze sia alla giunta regionale. La responsabilità della rottura è esclusivamente del Prc. Bertinotti è davvero uno strano personaggio: non solo non è intervenuto per sanare le ferite, ma non ha neanche detto ai compagni toscani di evitare di scegliere uno dei nostri: questa è una furbata, una presa in giro, un gesto sleale che apre una ferita ancora più grave». Bertinotti respinge le accuse: «L’anomalia toscana è stata voluta da Ds e Dl. Noi eravamo, e siamo, disponibili a un programma unico». I ds respingono le accuse, ma si spaccano. C’è chi parla di corresponsabilità della sinistra del partito nella decisione del Prc. Gloria Buffo si indigna: «Io e Mussi siamo intervenuti più volte per una ricomposizione. Queste sono accuse di stampo stalinista: per coprire le proprie reticenze a fare l’accordo unitario si scaricano sulla minoranza di un partito responsabilità che non esistono». Folena aggiunge: «Sono ferocemente critico nei confronti dei Ds e del centrosinistra della Toscana per la decisione di rompere. La responsabilità, in questi casi, è sempre della forza maggiore». C’è disagio nei Ds, dice Folena: «Tanto che capolista a Milano è Mario Agostinelli, fino a pochissimo iscritto ai Ds». Caldarola non teme esodi, per ora: «Evidentemente c’è stato in Toscana un rapporto con il Prc che è andato al di là della collaborazione. Ma sono propenso a pensare che la scelta di Ciabatti sia individuale e che verrà stigmatizzata da tutti». Ad agitare le acque nella Quercia ci pensa anche la Lega italiana dei diritti dell’uomo che vuole ricorrere alla corte di Giustizia di Strasburgo contro la decisione dei ds toscani di escludere dalle primarie gli iscritti alla massoneria.
L'Unità edizione di Firenze 11 Febbraio 2005
«Questo candidato serve a dividere»
Polemiche di Toscana democratica dopo la candidatura di un ds avanzata da Rifondazione
E ora con Rifondazione è davvero duello
Filippeschi: «Candidatura lontana dalle nostre tradizioni». Ricci: «Vogliamo parlare a tutta la sinistra»
Osvaldo Sabato
FIRENZE «È una brutta pagina che si commenta da sé» dice il segretario regionale della Quercia, Marco Filippeschi. «Quella di Rifondazione è una provocazione che comunque non ci sorprende del tutto» rincara il segretario dello Sdi, Pieraldo Ciucchi. Anche la sinistra dei diesse prende le distanze e critica Rifondazione per la ormai certa candidatura del sindacalista della Cgil Luca Ciabatti, come sfidante del presidente uscente Claudio Martini, in corsa con il centro sinistra per il suo secondo mandato alla presidenza della Toscana. «Non la condividiamo perché in contrasto con il processo unitario auspicato» scrive la minoranza dei diesse. Insomma, «È una roba d’altri posti: la Toscana non è abituata a queste cose» aggiunge Filippeschi puntando il dito contro Rifondazione perché «con questa candidatura dimostra tutti i suoi problemi irrisolti d’affidabilità politica». Ma quali potrebbero essere i motivi che hanno spinto la dirigenza del partito di Bertinotti a puntare su Ciabatti? Si sa che a volte la politica è l’arte dell’impossibile, ma potrebbe essere un messaggio lanciato da Rifondazione al centro sinistra per riaffermare la voglia di riallaccciare da subito il dialogo dopo le elezioni di aprile con un ex diessino a fare da ponte. O un tentativo per scompaginare l’elettorato di centro sinistra andando a pescare il proprio candidato nel partito di maggioranza dell’Ulivo. Oppure il voler rimarcare ancora di più la diversità di Rifondazione nella strada sempre più riformista dei diesse contrapposta alla sinistra radicale. Del resto lo stesso Ciabatti spiega al nostro giornale di aver lasciato i diesse per la loro virata moderata uscendo anche dalla direzione regionale seguita al congresso di Tirrenia. Una scelta politica, però secondo Ciabatti, che non chiude la porta in faccia alla sua ostinata ricerca dell’unità a sinistra. Una cosa è certa se l’obiettivo sarà quello di rimettersi subito al lavoro per rafforzare, dopo le elezioni regionali, la pratica della Gad o Unione, dopo il battesimo di ieri di Prodi, anche Rifondazione dovrà impegnarsi davvero per non deludere le aspettative di chi aveva sottoscritto l’appello per cancellare «l’anomalia Toscana» come l’Arci, la Fiom, Aprile e il Laboratorio per la Democrazia, colti di sorpresa dalla discesa in campo di Ciabatti.
Perché è come se ci fosse stato il via alla corsa elettorale senza che nessuno starter avesse lo dato. Infatti anche lo stesso sindacato toscano della Cgil per il momento non commenta la candidatura del suo dirigente. Ma anche in questo caso indiscrezioni raccontano di malumori nei piani alti della Cgil, per il timore di vedere catapultato il sindacato nella disputa politica. Il segretario Toscano della Cgil Luciano Silvestri ieri era a Bruxelles e rintracciato telefonicamente dall’Unità non ha voluto rilasciare nessun commento «prima di dire la mia aspetto l’ufficilità della candidatura di Ciabatti» dice. Insomma se i presupposti sono questi bisognerà lavorare molto e alacramente per rimettere a posto i cocci del vaso unitario andato in frantumi. «I Ds a Firenze e in Toscana nonostante tutto ciò - ha confermato il segretario fiorentino Manule Auzzi - non rinunceranno a lavorare per costruire l'unità in vista del 2006. Intanto lavoremo per la vittoria di Toscana Democratica, convinti di poter contare sul forte consenso per il lavoro fatto da Claudio Martini e dalla sua giunta per sconfiggere anche e soprattutto in Toscana il centrodestra». Non a caso per Filippeschi quanto è successo è paragonabile ad uno «schiaffo» dato anche a chi «per l’unità si era abbattuto con sincerità». Naturalmente la lettura fatta dal segretario regionale di Rifondazione, Mario Ricci, è di tutt’altro avviso «le espressioni di Filippeschi ci lasciano esterrefatti» ha ribattuto a margine della direzione regionale convocata ieri pomeriggio per il via libera alla sfida di Ciabatti «noi staremo lontani dalle denigrazioni e dalle personalizzazioni» conclude. Mario Ricci pur non facendo mai il nome di Ciabatti ammette che «è una figura con la quale vogliamo parlare a quel largo popolo della sinistra che anche nella nostra regione chiede unità e politiche sociali avanzate nella costruzione dell'alternativa programmatica al governo Berlusconi». Chi non perde tempo è invece Toscana Democratica, che dopo un leggero restyling, presenterà il 1 marzo a Livorno il suo nuovo simbolo con l’aggiunta dei colori dell’arcobaleno della pace. La macchina elettorale è ormai a pieno regime e a dare maggiore spinta ci sarà anche Romano Prodi, atteso a Firenze il 7 marzo. Di campagna elettorale insieme a Martini hanno parlato proprio ieri le nove formazioni politiche (Ds, Margherita, Sdi, Udeur, Verdi, Comunisti Italiani, Repubblicani europei, Italia dei Valori e Movimento pensionati) «è una buona partenza» ha poi commentato il candidato dell’Ulivo «e chi ben comincia è già a metà dell’opera». Intanto la Margherita guarda e osserva limitandosi a commentare quanto sta accadendo con una laconica battuta del presidente toscano del partito Erasmo D’Angelis «Ciabatti? Chi...» dice riferendosi all’ipotesi della candidatura del sindacalista alle prossime regionali del 3 e 4 aprile.Il Mattino 11.02.05
«Così sembra che comandi Bertinotti»
TERESA BARTOLI
Roma. Il più preoccupato era Francesco Rutelli: «Dobbiamo prendere atto che la situazione, dopo le elezioni, è cambiata. E soprattutto non possiamo dare l’impressione che ci facciamo dettare la linea da Bertinotti o che ci appiattiamo sulla sinistra radicale». Il leader della Margherita lo ha detto e ripetuto, appoggiato a più riprese dal capogruppo alla Camera Pierluigi Castagnetti. Preoccupazioni ribadite nel corso del lungo confronto della federazione dell’Ulivo, malgrado Romano Prodi le avesse prevenute introducendo i lavori. «È vero - ha detto Prodi - che si è votato ma c’è motivo di cambiare posizione non solo perché, se fossimo stati noi al governo, questa missione non sarebbe partita ma anche perché dal governo non arriva alcun segnale di novità». Rutelli ha insistito: «La situazione è cambiata e oggi, se governassimo, dovremmo sfidare la comunità internazionale ad una iniziativa. Dobbiamo chiedere al governo di assumerla. E valutarla prima del voto, pronti a cambiare idea». Sono stati D’Alema e Fassino a replicargli: «La palla va buttata nel campo del governo, sono loro a dover spiegare il cambio di fase» ha detto il primo. «Se fossimo stati al governo, non avremmo partecipato alla missione perché la democrazia non si esporta con la guerra» ha ribadito il secondo. Il documento finale sfida il governo. «Se Berlusconi fosse intelligente, la raccoglierebbe e ci metterebbe in difficoltà ma cavalcheranno la propaganda americana» dice uno dei partecipanti alla riunione della Fed. E malgrado la porta aperta ad un eventuale ripensamento, Prodi ha preferito coltivare la compattezza dell’Unione, portare alla riunione di tutto il centrosinistra il «no» della Federazione al decreto. La decisione formale sarà presa martedì. Non sarà indolore perché Franco Marini, e con lui l’ala moderata filoamericana della Margherita, non rinuncerà alla battaglia per un «sì» alla missione dettato proprio dalla novità del voto. Ma lo stesso Marini ha già annunciato che «la decisione della maggioranza sarà la decisione di tutti» e, dunque, non ci saranno strappi. Probabilmente non ci saranno nemmeno documenti da presentare in aula per motivare il no: «Sarebbe assurdo votare compatti contro il governo e poi dividerci tra noi sul significato di quel no» fa notare un leader del centrosinistra. Mentre veniva messo a punto il testo finale, c’è stato spazio per altri argomenti. «L’informazione Rai è indecente, ci presenta sempre e solo o divisi o prigionieri di Bertinotti» ha detto Prodi rivelando di aver protestato direttamente coi dirigenti di viale Mazzini e proponendo una iniziativa dei parlamentari della Vigilanza. Poi è arrivata la dichiarazione con cui Marco Pannella chiedeva al centrosinistra di «togliere il veto alla trattativa con la Cdl». «Chiede a noi il permesso di accordarsi con Berlusconi?» ha ironizzato qualcuno mentre Castagnetti invitava tutti a «piantarla con questa pantomima e a rispondergli come si deve». Ma D’Alema ha consigliato prudenza: «Non possiamo dare l’impressione di indisponibilità. Se non altro per non offrire l’alibi dell’accordo col centrodestra». Accordo che però ieri quasi tutti davano per scontato. Ultimo punto, le manifestazioni in programma. L’Unione parteciperà a quella organizzata dal Manifesto il 19 in solidarietà a Giuliana Sgrena. Quindi quella del 26, di apertura della campagna elettorale per le regionali, non sarà più nazionale, a Roma, ma si trasformerà in iniziative in ognuna delle 14 regioni chiamate al voto.
«sessodipendenti»
ANSA.IT 11/02/2005 - 16:19
Un uomo su dieci e' sesso dipendente, 2% le donne
Dipendente sessuale risiede al Nord, ha 36-50 anni, single
(ANSA) - ROMA, 11 FEB - In Italia il 10% degli uomini e il 2% delle donne e' sesso dipendente, rileva la piu' importante ricerca realizzata in Europa sul fenomeno. Chi soffre della psicopatologia della dipendenza da sesso passa la giornata a visitare siti porno, a masturbarsi o a praticare il voyerismo. Se si considerano anche le situazioni limite, la questione tocca l'8,3% degli italiani. Il dipendente sessuale-tipo e' un uomo del nord tra i 36 e i 50 anni, con licenza media inferiore, separato o vedovo.
Un uomo su dieci e' sesso dipendente, 2% le donne
Dipendente sessuale risiede al Nord, ha 36-50 anni, single
(ANSA) - ROMA, 11 FEB - In Italia il 10% degli uomini e il 2% delle donne e' sesso dipendente, rileva la piu' importante ricerca realizzata in Europa sul fenomeno. Chi soffre della psicopatologia della dipendenza da sesso passa la giornata a visitare siti porno, a masturbarsi o a praticare il voyerismo. Se si considerano anche le situazioni limite, la questione tocca l'8,3% degli italiani. Il dipendente sessuale-tipo e' un uomo del nord tra i 36 e i 50 anni, con licenza media inferiore, separato o vedovo.
copyright @ 2005 ANSA
cura precoce della schizofrenia?
ANSA.IT 11/02/2005 - 17:37
Progetto per la cura precoce della schizofrenia
All'ospedale Niguarda di Milano, dedicato ai giovani
(ANSA) - MILANO, 11 FEB - All'ospedale Niguarda di Milano 'Programma 2000', un progetto di intervento, unico in Italia, per la cura precoce della schizofrenia. Agendo quando la malattia non e' conclamata, il progetto ha ottenuto risultati notevoli: 98% di pazienti in cui la malattia non e' arrivata alla psicosi; 70% di pazienti che si sono diplomati, laureati, hanno trovato lavoro o ripreso gli studi. L'obiettivo e' fare in modo che i giovani cui si rivolge (17-30 anni) abbiano una vita normale.
Progetto per la cura precoce della schizofrenia
All'ospedale Niguarda di Milano, dedicato ai giovani
(ANSA) - MILANO, 11 FEB - All'ospedale Niguarda di Milano 'Programma 2000', un progetto di intervento, unico in Italia, per la cura precoce della schizofrenia. Agendo quando la malattia non e' conclamata, il progetto ha ottenuto risultati notevoli: 98% di pazienti in cui la malattia non e' arrivata alla psicosi; 70% di pazienti che si sono diplomati, laureati, hanno trovato lavoro o ripreso gli studi. L'obiettivo e' fare in modo che i giovani cui si rivolge (17-30 anni) abbiano una vita normale.
copyright @ 2005 ANSA
politica pedagogica in California
catene elettroniche per i bambini
Corriere della Sera 11.2.05
SCIENZE
Scontro sull'esperimento in una scuola della California
Microchip sugli alunni, polemiche negli Usa
Imposto agli alunni di elementari e medie un collare elettronico che controllare i loro movimenti all'interno scuola
WASHINGTON - Età: dai sei ai 13 anni circa. Professione: alunni. Novità: devono portare un collare al collo, come fossero mucche, un chip che controlla ininterrottamente i loro spostamenti all'interno della scuola.
E' un modello educativo che non ha convinto la maggior parte dei genitori dei 600 alunni - dalla prima elementare alla terza media - della Brittan Elementary School di Sutter, California.
I ragazzini, senza che le famiglie fossero state informate, sono stati costretti a indossare una targhetta d'identificazione contenente un microchip che rivela agli insegnanti i loro movimenti all'interno della scuola. È la stessa tecnologia usata da alcuni allevatori di bestiame.
UN'ALUNNA: «NON SONO UN PACCHETTO DI CEREALI» -
L'iniziativa, la prima del genere in America, è stata decisa dal preside Earnie Graham, e ha suscitato le proteste di molti genitori che accusano la scuola di invasione di privacy e di metodi non educativi. «Mia figlia è tornata a casa con la targhetta ancora al collo protestando: "Non sono un pacchetto di cereali!"», ha spiegato Jeff Tatro, padre di un'alunna.
Il preside ha preso l'iniziativa per controllare in modo più accurato la frequenza alle lezioni, per aumentare la sicurezza nella scuola e per scoraggiare episodi di vandalismo. I 600 studenti devono indossare costantemente la targhetta di identificazione che reca la loro foto, il loro nome ed un microchip con una mini-antenna. Sensori dislocati all'ingresso delle classi e altrove nella scuola (come i bagni) registrano automaticamente il passaggio degli studenti: ogni targhetta invia con segnali radio un numero criptato di 15 cifre che corrisponde al nome dello studente.
LE PROTESTE DEI GENITORI - L'iniziativa del preside ha sollevato la dura reazione di molti genitori. «Deve esistere un sistema per migliorare la sicurezza dei nostri ragazzi senza farli sentire un capo di bestiame o un prodotto del supermarket - sottolinea Michael Cantrall, uno dei numerosi genitori che hanno protestato -. La scuola deve educare gli studenti ad assumere comportamenti responsabili: il metodo Grande Fratello non mi sembra il migliore».
SCIENZE
Scontro sull'esperimento in una scuola della California
Microchip sugli alunni, polemiche negli Usa
Imposto agli alunni di elementari e medie un collare elettronico che controllare i loro movimenti all'interno scuola
WASHINGTON - Età: dai sei ai 13 anni circa. Professione: alunni. Novità: devono portare un collare al collo, come fossero mucche, un chip che controlla ininterrottamente i loro spostamenti all'interno della scuola.
E' un modello educativo che non ha convinto la maggior parte dei genitori dei 600 alunni - dalla prima elementare alla terza media - della Brittan Elementary School di Sutter, California.
I ragazzini, senza che le famiglie fossero state informate, sono stati costretti a indossare una targhetta d'identificazione contenente un microchip che rivela agli insegnanti i loro movimenti all'interno della scuola. È la stessa tecnologia usata da alcuni allevatori di bestiame.
UN'ALUNNA: «NON SONO UN PACCHETTO DI CEREALI» -
L'iniziativa, la prima del genere in America, è stata decisa dal preside Earnie Graham, e ha suscitato le proteste di molti genitori che accusano la scuola di invasione di privacy e di metodi non educativi. «Mia figlia è tornata a casa con la targhetta ancora al collo protestando: "Non sono un pacchetto di cereali!"», ha spiegato Jeff Tatro, padre di un'alunna.
Il preside ha preso l'iniziativa per controllare in modo più accurato la frequenza alle lezioni, per aumentare la sicurezza nella scuola e per scoraggiare episodi di vandalismo. I 600 studenti devono indossare costantemente la targhetta di identificazione che reca la loro foto, il loro nome ed un microchip con una mini-antenna. Sensori dislocati all'ingresso delle classi e altrove nella scuola (come i bagni) registrano automaticamente il passaggio degli studenti: ogni targhetta invia con segnali radio un numero criptato di 15 cifre che corrisponde al nome dello studente.
LE PROTESTE DEI GENITORI - L'iniziativa del preside ha sollevato la dura reazione di molti genitori. «Deve esistere un sistema per migliorare la sicurezza dei nostri ragazzi senza farli sentire un capo di bestiame o un prodotto del supermarket - sottolinea Michael Cantrall, uno dei numerosi genitori che hanno protestato -. La scuola deve educare gli studenti ad assumere comportamenti responsabili: il metodo Grande Fratello non mi sembra il migliore».
Arthur Miller
il manifesto 12.2.05
ARTHUR MILLER
Dalla parte dei perdenti
Angosce, paure e crisi del sogno americano
Seguendo il modello di Ibsen, lo scrittore ha trovato nei drammi che sconvolgono senza clamori la vita di uomini e donne semplici, il modo per rappresentare le tensioni di una nazione inquieta
GIGLIOLA NOCERA
Con la sua lunga vita, durata quasi novant'anni, Arthur Miller, nato a New York il 17 ottobre del 1915 e spentosi giovedì dopo una lunga malattia, ha vissuto in pieno gli avvenimenti, le tragedie e le contraddizioni politiche e sociali del ventesimo secolo. È stato uno degli scrittori più importanti del nostro tempo, dallo spettro creativo ampio; in grado di passare dalla scrittura drammaturgica per la quale viene soprattutto ricordato (Morte di un commesso viaggiatore, 1949; Il crogiuolo, 1953), al romanzo (Focus, 1945), e dalla scrittura di viaggio ("Salesman" in Beijng, 1983) a quella saggistica (The Theatre Essay of Arthur Miller, 1978,1996) e autobiografica (Timebends: A Life, 1987). Dolorosamente formativi furono gli anni della sua giovinezza, in una famiglia ebrea improvvisamente colpita dalla crisi del '29; e duri gli anni in cui, da studente, fu costretto a sperimentare lavori umili per potersi permettere gli studi universitari. Ma il giovane Arthur sente ben presto d'essere nato per la scrittura, ed è la scoperta dei Fratelli Karamazov che gli fa decidere di abbracciarla come mestiere. Da quel momento è un accavallarsi di esperienze giornalistiche e di scrittura radiofonica che lo portano infine a debuttare a Broadway con il dramma The Man Who Had All the Luck (1944): la storia di un uomo in cui la fortuna economica genera inspiegabilmente insicurezza e profondi sensi di colpa. Questo giovane antieroe, spinto sull'orlo del suicidio dalla propria buona sorte, non poteva di certo incontrare alcun successo sui palcoscenici di una Broadway che di ben più superficiali modelli andava in cerca per dimenticare l'incubo della guerra. Il dramma fu un quasi totale fallimento, ma ormai, comunque, Miller aveva scelto la via di un teatro di ispirazione sociale che egli percorrerà in forme diverse, se pur con alterno successo, lungo tutto il corso della vita. In tal senso è nel teatro di Ibsen che Miller intravede il proprio modello; è nei drammi che sconvolgono sommessamente la vita di singoli uomini e donne, più che quella di una nazione intera, che egli trova il modo per iconizzare la sua America. Ed è nelle storie che hanno per palcoscenico lo spazio ristretto delle pareti domestiche, che egli riesce meglio a rappresentare le angosce di un incerto dopoguerra: storie che ci ricordano altre grandi icone della drammaturgia americana del novecento quali Un tram che si chiama desiderio (1947) di Tennessee Williams, coetaneo di Miller e casualmente vincitore con lui degli stessi premi giovanili all'Università del Michigan. È dunque così per Willy Loman, piccolo commesso viaggiatore dell'omonimo dramma del 1949, il cui suicidio finale ne fa uno dei tanti sconosciuti martiri di una nazione in crisi. È così pure per i personaggi del Crogiuolo e per il suo sfortunato protagonista John Proctor. Anche qui la storia, ambientata nell'asfittico mondo puritano della Salem del 1692, è allegoria che dal passato torna al presente, all'America del 1953, preda del puritanesimo maccartista e contro la quale Miller si scaglia come un novello Hawthorne. Loman e Proctor sono i due estremi dell'impegno sociale di Miller, che non dimenticherà mai, tra l'altro, le problematiche legate all'antisemitismo e alla sottile angoscia della diversità. Ne è testimonianza il suo romanzo del 1945, Focus. Il protagonista, l'antisemita Lawrence Newman, costretto da una banale miopia a indossare un paio di occhiali che alterano le sembianze del suo volto, viene improvvisamente percepito dai suoi amici, per una micidiale catena di stereotipi socio-culturali, come ebreo, e come tale improvvisamente discriminato. Ma l'ampio spettro della produzione di Miller ne fa anche l'autore capace di mettere in scena, accanto alla vita della nazione, la propria vita privata, che trae il momento di massima esposizione mediatica dal suo matrimonio con Marilyn Monroe, la seconda delle sue tre mogli incontrata per la prima volta nel 1950 e da cui divorzierà nel 1961. Inariditasi infatti la vena sociale degli anni quaranta e cinquanta che sembra chiudersi con Uno sguardo dal ponte (1957), è con Dopo la caduta (1964) che Miller abbraccia il modello di una sorta di stream of conscioussness che ruota intorno alle vicende familiari e coniugali di un'attrice e di un intellettuale; troppo simili a Marilyn e ad Arthur per rendere credibile il deciso rifiuto di lui dinanzi a qualsiasi insinuazione autobiografica. A partire dagli anni settanta, pur scrivendo e producendo opere di vario genere tra le quali vale ricordare The Creation of the World and Other Business (1973), Orologio americano (1980, un grande affresco sugli anni della Depressione), e vari drammi quali Percolo: memoria (1986), Discesa da Mount Morgan (1991), l'ultimo Yankee (1992), Vetri rotti (1994), e l'ultimo Finishing the Picture andato recentemente in scena al Goodman Theater di Chicago, di Arthur Miller è stato spesso rifiutato il suo naturalismo, e la sua non più attuale drammaturgia di ispirazione sociale. All'inizio degli anni ottanta, però, il contemporaneo teatro americano di autori ben più giovani quali David Mamet o Sam Shepard, ha riacceso l'attenzione su questo grande vecchio, capace non solo di affacciarsi alle cronache mondane all'ombra della mitica Marilyn, ma i cui drammi hanno dipinto con indicibile maestria le tragedie del piccolo borghese qualunque, alla ricerca della propria fetta di sogno americano in epoche di transizione e di crisi.
ARTHUR MILLER
Dalla parte dei perdenti
Angosce, paure e crisi del sogno americano
Seguendo il modello di Ibsen, lo scrittore ha trovato nei drammi che sconvolgono senza clamori la vita di uomini e donne semplici, il modo per rappresentare le tensioni di una nazione inquieta
GIGLIOLA NOCERA
Con la sua lunga vita, durata quasi novant'anni, Arthur Miller, nato a New York il 17 ottobre del 1915 e spentosi giovedì dopo una lunga malattia, ha vissuto in pieno gli avvenimenti, le tragedie e le contraddizioni politiche e sociali del ventesimo secolo. È stato uno degli scrittori più importanti del nostro tempo, dallo spettro creativo ampio; in grado di passare dalla scrittura drammaturgica per la quale viene soprattutto ricordato (Morte di un commesso viaggiatore, 1949; Il crogiuolo, 1953), al romanzo (Focus, 1945), e dalla scrittura di viaggio ("Salesman" in Beijng, 1983) a quella saggistica (The Theatre Essay of Arthur Miller, 1978,1996) e autobiografica (Timebends: A Life, 1987). Dolorosamente formativi furono gli anni della sua giovinezza, in una famiglia ebrea improvvisamente colpita dalla crisi del '29; e duri gli anni in cui, da studente, fu costretto a sperimentare lavori umili per potersi permettere gli studi universitari. Ma il giovane Arthur sente ben presto d'essere nato per la scrittura, ed è la scoperta dei Fratelli Karamazov che gli fa decidere di abbracciarla come mestiere. Da quel momento è un accavallarsi di esperienze giornalistiche e di scrittura radiofonica che lo portano infine a debuttare a Broadway con il dramma The Man Who Had All the Luck (1944): la storia di un uomo in cui la fortuna economica genera inspiegabilmente insicurezza e profondi sensi di colpa. Questo giovane antieroe, spinto sull'orlo del suicidio dalla propria buona sorte, non poteva di certo incontrare alcun successo sui palcoscenici di una Broadway che di ben più superficiali modelli andava in cerca per dimenticare l'incubo della guerra. Il dramma fu un quasi totale fallimento, ma ormai, comunque, Miller aveva scelto la via di un teatro di ispirazione sociale che egli percorrerà in forme diverse, se pur con alterno successo, lungo tutto il corso della vita. In tal senso è nel teatro di Ibsen che Miller intravede il proprio modello; è nei drammi che sconvolgono sommessamente la vita di singoli uomini e donne, più che quella di una nazione intera, che egli trova il modo per iconizzare la sua America. Ed è nelle storie che hanno per palcoscenico lo spazio ristretto delle pareti domestiche, che egli riesce meglio a rappresentare le angosce di un incerto dopoguerra: storie che ci ricordano altre grandi icone della drammaturgia americana del novecento quali Un tram che si chiama desiderio (1947) di Tennessee Williams, coetaneo di Miller e casualmente vincitore con lui degli stessi premi giovanili all'Università del Michigan. È dunque così per Willy Loman, piccolo commesso viaggiatore dell'omonimo dramma del 1949, il cui suicidio finale ne fa uno dei tanti sconosciuti martiri di una nazione in crisi. È così pure per i personaggi del Crogiuolo e per il suo sfortunato protagonista John Proctor. Anche qui la storia, ambientata nell'asfittico mondo puritano della Salem del 1692, è allegoria che dal passato torna al presente, all'America del 1953, preda del puritanesimo maccartista e contro la quale Miller si scaglia come un novello Hawthorne. Loman e Proctor sono i due estremi dell'impegno sociale di Miller, che non dimenticherà mai, tra l'altro, le problematiche legate all'antisemitismo e alla sottile angoscia della diversità. Ne è testimonianza il suo romanzo del 1945, Focus. Il protagonista, l'antisemita Lawrence Newman, costretto da una banale miopia a indossare un paio di occhiali che alterano le sembianze del suo volto, viene improvvisamente percepito dai suoi amici, per una micidiale catena di stereotipi socio-culturali, come ebreo, e come tale improvvisamente discriminato. Ma l'ampio spettro della produzione di Miller ne fa anche l'autore capace di mettere in scena, accanto alla vita della nazione, la propria vita privata, che trae il momento di massima esposizione mediatica dal suo matrimonio con Marilyn Monroe, la seconda delle sue tre mogli incontrata per la prima volta nel 1950 e da cui divorzierà nel 1961. Inariditasi infatti la vena sociale degli anni quaranta e cinquanta che sembra chiudersi con Uno sguardo dal ponte (1957), è con Dopo la caduta (1964) che Miller abbraccia il modello di una sorta di stream of conscioussness che ruota intorno alle vicende familiari e coniugali di un'attrice e di un intellettuale; troppo simili a Marilyn e ad Arthur per rendere credibile il deciso rifiuto di lui dinanzi a qualsiasi insinuazione autobiografica. A partire dagli anni settanta, pur scrivendo e producendo opere di vario genere tra le quali vale ricordare The Creation of the World and Other Business (1973), Orologio americano (1980, un grande affresco sugli anni della Depressione), e vari drammi quali Percolo: memoria (1986), Discesa da Mount Morgan (1991), l'ultimo Yankee (1992), Vetri rotti (1994), e l'ultimo Finishing the Picture andato recentemente in scena al Goodman Theater di Chicago, di Arthur Miller è stato spesso rifiutato il suo naturalismo, e la sua non più attuale drammaturgia di ispirazione sociale. All'inizio degli anni ottanta, però, il contemporaneo teatro americano di autori ben più giovani quali David Mamet o Sam Shepard, ha riacceso l'attenzione su questo grande vecchio, capace non solo di affacciarsi alle cronache mondane all'ombra della mitica Marilyn, ma i cui drammi hanno dipinto con indicibile maestria le tragedie del piccolo borghese qualunque, alla ricerca della propria fetta di sogno americano in epoche di transizione e di crisi.
Darwin
Il Messaggero Venerdì 11 Febbraio 2005
Scienza
Da oggi in 15 città italiane e nel mondo le giornate sul padre dell’evoluzionismo
Tutti pazzi per Darwin
di ROMEO BASSOLI
DA OGGI iniziano in Gran Bretagna, Stati Uniti, Australia e in 15 città italiane i “Darwin Day”, le giornate darwiniane che celebrano il grande scienziato britannico nei giorni del suo compleanno (il 12 febbraio). A maggio, sarà la volta di centinaia di scuole in tutta Italia per l'iniziativa lanciata dall'Associazione Insegnanti di Scienze Naturali.
Nel nostro Paese i Darwin Day sono una novità che nel giro di pochi mesi ha preso piede diventando un avvenimento culturale di tutto rispetto, in grado di attirare i massimi esperti mondiali di evoluzionismo e di mobilitare centinaia di scuole e migliaia di persone.
I primi Darwin Day in Italia sono dell'anno scorso. E nascono ispirandosi a quelli anglosassoni, nati a metà degli anni '90 per rispondere all'offensiva dei creazionisti negli Stati Uniti.
In Italia tutto è nato dalla reazione ad una piccola manifestazione a Milano che si autodefinì “antidarwiniana”. Tempo poche settimane e i biologi organizzano manifestazioni in quattro o cinque città. A Milano, al Museo Civico di Storia Naturale - un tempio della cultura evoluzionistica - si ritrova quasi un migliaio di persone. Si mobilitano anche l'Associazione degli Insegnanti di Scienze Naturali, le librerie Feltrinelli e l'Uaar, l'Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (una associazione a cui partecipano Margherita Hack e Piergiorgio Odifreddi, tra gli altri).
E’ una sorta di prova generale. Poi, quest'anno le manifestazioni in 15 città, con quelle di Milano e Roma che assumono il carattere dell'evento culturale di alto livello. Nella capitale, la rivista Darwin e la Fondazione Sigma Tau organizza all'ex Casina delle Rose di Villa Borghese un convegno a cui partecipano personaggi come Pietro Corsi, Edoardo Boncinelli, Michael Majerus, Lewis Wolpert.
A Milano si farà addirittura una due giorni, il 15 e il 16 febbraio, con relatori del calibro di Richard Dawkins e Juan Luis Arsuaga. «Avremo decine di scuole che ci seguiranno via Internet - spiega Enrico Banfi, direttore del Museo Civico di Storia Naturale, che ospiterà il convegno - Saranno più del doppio di quelle dell'anno scorso». L'idea per l'anno prossimo è di trasformare il Darwin Day in una sorta di festival dell'evoluzionismo, con iniziative in diversi punti della città.
Poi, il 3 maggio, come spiega Alessandra Magistrelli dell'Associazione degli Insegnanti di Scienze Naturali, «ci saranno i Darwin Day in centinaia di scuole, organizzati dai nostri quasi 4000 docenti iscritti. Si faranno piccoli convegni o anche solo qualche ora di riflessione sull'importanza dell'evoluzione».
Per Telmo Pievani, epistemologo dell'Università di Milano-Bicocca «tutte queste iniziative sono ormai inserite in un movimento culturale internazionale che prepara, nel 2009, il bicentenario della nascita di Darwin».
Scienza
Da oggi in 15 città italiane e nel mondo le giornate sul padre dell’evoluzionismo
Tutti pazzi per Darwin
di ROMEO BASSOLI
DA OGGI iniziano in Gran Bretagna, Stati Uniti, Australia e in 15 città italiane i “Darwin Day”, le giornate darwiniane che celebrano il grande scienziato britannico nei giorni del suo compleanno (il 12 febbraio). A maggio, sarà la volta di centinaia di scuole in tutta Italia per l'iniziativa lanciata dall'Associazione Insegnanti di Scienze Naturali.
Nel nostro Paese i Darwin Day sono una novità che nel giro di pochi mesi ha preso piede diventando un avvenimento culturale di tutto rispetto, in grado di attirare i massimi esperti mondiali di evoluzionismo e di mobilitare centinaia di scuole e migliaia di persone.
I primi Darwin Day in Italia sono dell'anno scorso. E nascono ispirandosi a quelli anglosassoni, nati a metà degli anni '90 per rispondere all'offensiva dei creazionisti negli Stati Uniti.
In Italia tutto è nato dalla reazione ad una piccola manifestazione a Milano che si autodefinì “antidarwiniana”. Tempo poche settimane e i biologi organizzano manifestazioni in quattro o cinque città. A Milano, al Museo Civico di Storia Naturale - un tempio della cultura evoluzionistica - si ritrova quasi un migliaio di persone. Si mobilitano anche l'Associazione degli Insegnanti di Scienze Naturali, le librerie Feltrinelli e l'Uaar, l'Unione degli atei e degli agnostici razionalisti (una associazione a cui partecipano Margherita Hack e Piergiorgio Odifreddi, tra gli altri).
E’ una sorta di prova generale. Poi, quest'anno le manifestazioni in 15 città, con quelle di Milano e Roma che assumono il carattere dell'evento culturale di alto livello. Nella capitale, la rivista Darwin e la Fondazione Sigma Tau organizza all'ex Casina delle Rose di Villa Borghese un convegno a cui partecipano personaggi come Pietro Corsi, Edoardo Boncinelli, Michael Majerus, Lewis Wolpert.
A Milano si farà addirittura una due giorni, il 15 e il 16 febbraio, con relatori del calibro di Richard Dawkins e Juan Luis Arsuaga. «Avremo decine di scuole che ci seguiranno via Internet - spiega Enrico Banfi, direttore del Museo Civico di Storia Naturale, che ospiterà il convegno - Saranno più del doppio di quelle dell'anno scorso». L'idea per l'anno prossimo è di trasformare il Darwin Day in una sorta di festival dell'evoluzionismo, con iniziative in diversi punti della città.
Poi, il 3 maggio, come spiega Alessandra Magistrelli dell'Associazione degli Insegnanti di Scienze Naturali, «ci saranno i Darwin Day in centinaia di scuole, organizzati dai nostri quasi 4000 docenti iscritti. Si faranno piccoli convegni o anche solo qualche ora di riflessione sull'importanza dell'evoluzione».
Per Telmo Pievani, epistemologo dell'Università di Milano-Bicocca «tutte queste iniziative sono ormai inserite in un movimento culturale internazionale che prepara, nel 2009, il bicentenario della nascita di Darwin».
Silvia Vegetti Finzi
mamma... ce n'è una sola!
Corriere della Sera, Milano 12.2.05
SILVIA VEGETTI FINZI
«Nonni, esperti, tate... Ma la mamma ne sa di più»
Marta Ghezzi
Il quotidiano dei bambini piccoli è lo stesso da sempre, da generazioni. Sono mamme e papà a essere diversi. Apripista di una nuova classe di genitori più vicini ai figli e quindi, come spiega la psicologa Silvia Vegetti Finzi nel suo ultimo libro «Dialoga con le mamme» (Fabbri), «più sensibili ai loro problemi, più capaci di coglierne i segnali di malessere, più desiderosi di renderli felici». E per questo più fragili, impauriti dall’importanza del ruolo. «Ridimensioniamo la storia degli errori», chiarisce, «il genitore perfetto non esiste. Winnicott diceva che basta essere genitori abbastanza buoni. Se si sbaglia, basta chiedere scusa. I bambini sono indulgenti quando avvertono che li si ama e si agisce in buona fede. Bisogna restituire valore al sapere materno: è la mamma che è accanto al figlio giorno dopo giorno, non l’esperto, la nonna, l’amica». E questa idea di ridare spazio e parola alle mamme è la novità del libro, una raccolta di lettere scritte alla psicologa su argomenti come i capricci, il rapporto coi nonni, la ripresa del lavoro, i castighi. «In un libro più tradizionale bisogna mediare da soli tra teoria e pratica, tra i casi riportati e il proprio. Lo scambio epistolare consente invece di vedere il proprio caso dal di fuori e aiuta ad adottare un atteggiamento obiettivo sulle proprie difficoltà e a riflettere sulle possibili soluzioni».
SILVIA VEGETTI FINZI
«Nonni, esperti, tate... Ma la mamma ne sa di più»
Marta Ghezzi
Il quotidiano dei bambini piccoli è lo stesso da sempre, da generazioni. Sono mamme e papà a essere diversi. Apripista di una nuova classe di genitori più vicini ai figli e quindi, come spiega la psicologa Silvia Vegetti Finzi nel suo ultimo libro «Dialoga con le mamme» (Fabbri), «più sensibili ai loro problemi, più capaci di coglierne i segnali di malessere, più desiderosi di renderli felici». E per questo più fragili, impauriti dall’importanza del ruolo. «Ridimensioniamo la storia degli errori», chiarisce, «il genitore perfetto non esiste. Winnicott diceva che basta essere genitori abbastanza buoni. Se si sbaglia, basta chiedere scusa. I bambini sono indulgenti quando avvertono che li si ama e si agisce in buona fede. Bisogna restituire valore al sapere materno: è la mamma che è accanto al figlio giorno dopo giorno, non l’esperto, la nonna, l’amica». E questa idea di ridare spazio e parola alle mamme è la novità del libro, una raccolta di lettere scritte alla psicologa su argomenti come i capricci, il rapporto coi nonni, la ripresa del lavoro, i castighi. «In un libro più tradizionale bisogna mediare da soli tra teoria e pratica, tra i casi riportati e il proprio. Lo scambio epistolare consente invece di vedere il proprio caso dal di fuori e aiuta ad adottare un atteggiamento obiettivo sulle proprie difficoltà e a riflettere sulle possibili soluzioni».
embrione
come la vede Ferrara...
Il Foglio 11.2.05
L’embrione sul lettino
Benoît Bayle, psichiatra perinatale, spiega perché non è indifferente il modo con cui si è concepiti. Tecnica e selezione preimpianto non sono senza conseguenze per la psiche del bambino nato dalla provetta
Parigi. “Casimir, cinque anni, è nato a seguito di fecondazione in vitro. Dopo la fecondazione di numerosi ovuli, sono stati concepiti dieci embrioni. Tre sono stati immediatamente trasferiti in utero, altri due sono stati distrutti, perché non potevano essere congelati e altri cinque embrioni congelati sono tuttora conservati. Casimir chiede spesso un fratellino, ma i suoi genitori non sono disponibili. La madre, ora quarantaduenne, si è inserita nel mondo del lavoro dopo anni di dure prove subite a causa della sterilità. Il laboratorio che conserva gli embrioni ha scritto più volte ai genitori, perché il termine legale di conservazione è scaduto. Ma loro non si decidono a rispondere a quella lettera, che significa l’abbandono degli embrioni… ”. E una delle molte storie raccontate da Benoît Bayle, psichiatra perinatale all’ospedale di Chartres, nel suo libro intitolato “L’embryon sur le divan. Psychopathologie de la conception humaine” (Masson). Al Foglio, che lo ha incontrato, spiega di voler “esprimere una preoccupazione, un’inquietudine che riguarda tutta la nostra società. Quando si tratta dell’origine dell’essere umano, le questioni in ballo sono troppo importanti per far finta che non esistano. Quale sarà l’impatto di questi concepimenti embrionari multipli? Come si inscrivono nell’immaginario dei genitori e del bambino sopravvissuto la morte e l’abbandono di questi embrioni usciti dalla stessa scena concezionale? Il figlio nato da procreazione artificiale va considerato fantasmaticamente come un sopravvissuto, riuscito a sfuggire alla potenza mortifera di tecniche che mettono in pericolo la sua esistenza?”.
La psicopatologia del concepimento, materia di cui Bayle è studioso, non è certo tra le più note al grande pubblico. Ma a essa sono affidate le speranze di trovare risposta a quelle come ad altre domande troppo spesso eluse. Secondo Bayle, “non è affatto sorprendente imbattersi in patologie psichiatriche nella popolazione dei bambini concepiti artificialmente, anche se non dobbiamo da questo tirare arbitrarie conclusioni che depongano a favore di una prevalenza del rischio psichiatrico tra i concepiti artificialmente rispetto ai concepiti naturalmente. Tuttavia, alcuni casi clinici dimostrano che il contesto del concepimento influenza lo sviluppo psicologico di quei bambini”. Di quel nesso si occupa Bayle, al quale chiediamo se sia possibile predire una patologia psichica di cui potrebbe soffrire un bambino non ancora nato: “Diciamo che è già una cura cercare di liberare il concepito da una problematica che si costituisce durante la gravidanza. Ma non bisogna cadere nel determinismo: è un modello che rifiuto. Io non individuo patologie, ma problematiche psicopatologiche. Un esempio tra tanti, e non legato alle tecniche di procreazione artificiale: un bambino concepito dopo la morte precoce di un fratello o una sorella può essere segnato da un’ansia particolare durante la gravidanza, i genitori possono avere difficoltà ad amarlo perché significa in un certo senso dimenticare quelli che non ci sono più, oppure vivere con il terrore costante che quanto accaduto si ripeta ancora, che il bambino muoia. Tutti questi problemi possono comparire, non sono obbligatori, possono essere fisiologici e non patologici o, al contrario, l’assenza di questi problemi potrebbe essere problematica. Se ci si situa in termini di psicopatologia del concepimento, si possono individuare elementi suscettibili di pregiudicare lo sviluppo del bambino e si cercherà di attenuarne gli effetti”.
Un’identità non solo biologica
Alcuni anni fa Bayle ha avuto modo di lavorare in un centro di procreazione medicalmente assistita (pma). Spiega che per lui “è prioritario capire meglio il concepimento umano in sé, e se sia possibile individuare problematiche psicologiche esistenti fin dal concepimento del bambino. Lo psichiatra perinatale si interessa alla gravidanza e al post partum, fino a circa un anno di età del bambino. Cerco di dimostrare che si possono individuare problematiche psicopatologiche fin dal concepimento. In questi casi si deve seguire, naturalmente, la madre, ma in una prospettiva nuova: liberare il bambino che deve nascere da problemi già individuati. Non c’è ormai più bisogno di dimostrare come la gravidanza sia un momento di profondi sconvolgimenti psichici nella donna. La mia idea è che bisogna interpretare questi sconvolgimenti non soltanto dal punto di vista della donna che diventa madre, ma anche come interazione tra la donna e il nascituro, lui stesso portatore di un’identità particolare. E’ questo l’elemento nuovo della psicopatologia del concepimento: il bambino è portatore di un’identità che non è soltanto biologica, di un’identità concezionale d’ordine psico-socio-culturale che può influenzare il suo sviluppo. Attenzione, non sto parlando di un embrione che pensa o dotato di una coscienza di sé. Io dico che l’embrione non è soltanto un corpo biologico, ma un corpo soggettivato, portatore di una storia”.
Da questo punto di vista, allora, il concepimento in vitro può essere considerato di per sé un’“anomalia” foriera di problemi futuri? A giudizio di Bayle “è sempre pericoloso parlare di patologia del concepimento. Direi che in generale possono esistere problematiche ambientali e identitarie. Posso dire che l’identità di un essere concepito attraverso pma è particolare. Diciamo che di norma un bambino è concepito da un uomo e una donna: ha una struttura psicogenetica che lo collega all’uomo e alla donna che lo hanno concepito. In un concepimento artificiale, questa struttura viene modificata: si stabiliscono nuove relazioni del soggetto rispetto alla propria identità e rispetto all’ambiente esterno. Verrà infatti sì concepito da un uomo e una donna, ma con l’aiuto di un terzo, il medico. Questo terzo soggetto non è cosa da poco, visto che è all’origine della sua stessa vita. L’essere così concepito ha già un debito nei confronti della società (o della tecnica, o della scienza o della medicina), cui deve una parte della sua esistenza. Dunque viene modificata una parte della struttura identitaria dell’essere concepito. In termini identitari, inoltre, un bambino nato con fecondazione assistita viene concepito al di fuori del sesso: la sua origine è al di fuori della sessualità carnale psicoaffettiva. E’ una particolarità. Dire ciò che può significare è per ora impossibile, ma non si tratta di questioni banali”.
Ma la particolarità non è propria di qualsiasi concepimento? La pma non appartiene all’ambito più profondamente intimo della coppia come il concepimento naturale? “E’ vero che la sessualità dei genitori è nascosta, implicita, intima e il bambino concepito è l’incarnazione dell’amore carnale psicoaffettivo dei genitori. Anche nel caso della pma il bambino è senz’altro l’incarnazione dell’amore dei suoi genitori, che lo hanno molto desiderato. Con una particolarità non da poco: quello che dovrebbe far parte dell’intimo diventa in qualche modo di dominio pubblico. Si verifica un’intrusione della tecnica nell’origine dell’essere. E’ una particolarità che dà luogo a una molteplicità di sviluppi possibili, in grado di avere su alcuni bambini un impatto patologico e su altri no. L’importante, per me, è non negare la particolarità. Sono sempre più convinto che il concepimento non sia soltanto un atto genetico, ma sia allo stesso tempo un fenomeno biologico e psico-socio-culturale. E l’essere umano si situa, fin dal suo concepimento, su questi due registri. La pma, innegabilmente, modifica in parte questi registri e conferisce al bambino una storia particolare. Penso per esempio agli embrioni ‘persi’, a quelli congelati, a quelli che non si annidano dopo un trasferimento, a quelli eliminati in caso di gravidanza multipla a rischio con il cosiddetto aborto selettivo. Tutto ciò partecipa già alla storia dell’essere umano concepito, potrebbe segnarne lo sviluppo o condizionare i rapporti con i genitori. Può per esempio crearsi un legame particolare con il bambino nato con pma, dopo una serie di tentativi falliti ed embrioni persi”.
I problemi del figlio troppo desiderato
Si può obiettare che in questo senso le tecniche di fecondazione assistita non inventano molto. Possono esserci bambini nati – naturalmente – dopo aborti spontanei a ripetizione, dopo aborti terapeutici o dopo interruzioni volontarie di gravidanza… “E’ vero – risponde Bayle – la procreazione medicalmente assistita non ha inventato nulla da questo punto di vista, ma ho l’impressione che concentri una serie di eventi importanti. Si crea un legame precoce con l’embrione, perché se ne ha notizia fin dal concepimento. In realtà la pma è la parte emersa di quel gigantesco iceberg che è la rivoluzione del concepimento. Mi colpisce, per esempio, la nozione sempre più diffusa di ‘figlio desiderato’ su cui riposa la rivoluzione concezionale e che sottintende l’eliminazione dei figli non desiderati. Ecco: si ha torto di credere che l’eliminazione dei non desiderati non significhi nulla, non resti nella teste della gente soltanto perché quelli non nasceranno. Il lavoro psicologico sul concepimento dimostra, al contrario, che resta uno spazio per questi bambini non nati, che fa gravare sui figli desiderati un peso particolare, un debito, una missione non facile: corrispondere a un desiderio. Il figlio desiderato non può deludere, né al momento del concepimento né per tutta la vita. L’evoluzione in atto rende lecito chiedersi davanti a qualsiasi bambino concepito: lo tengo? E’ importante affrontare e studiare questa problematica per la nostra società. Quello che mi preoccupa è che nella medicina della riproduzione il peso della morte diventa sempre più importante. Se ne deve misurare l’impatto. L’uomo deve fare i conti con la propria distruttività, non imparare a conviverci. E’ quello che ha fatto sinora, con la dichiarazione dei diritti umani, condannando la tortura e le guerre. E’ giusto che ora riflettiamo su questo tipo di distruttività implicita nella rivoluzione concezionale che stiamo vivendo. Stiamo modificando la struttura psicogenetica dell’uomo. E questo merita una riflessione, scientifica, umanistica, filosofica”.
L’embrione sul lettino
Benoît Bayle, psichiatra perinatale, spiega perché non è indifferente il modo con cui si è concepiti. Tecnica e selezione preimpianto non sono senza conseguenze per la psiche del bambino nato dalla provetta
Parigi. “Casimir, cinque anni, è nato a seguito di fecondazione in vitro. Dopo la fecondazione di numerosi ovuli, sono stati concepiti dieci embrioni. Tre sono stati immediatamente trasferiti in utero, altri due sono stati distrutti, perché non potevano essere congelati e altri cinque embrioni congelati sono tuttora conservati. Casimir chiede spesso un fratellino, ma i suoi genitori non sono disponibili. La madre, ora quarantaduenne, si è inserita nel mondo del lavoro dopo anni di dure prove subite a causa della sterilità. Il laboratorio che conserva gli embrioni ha scritto più volte ai genitori, perché il termine legale di conservazione è scaduto. Ma loro non si decidono a rispondere a quella lettera, che significa l’abbandono degli embrioni… ”. E una delle molte storie raccontate da Benoît Bayle, psichiatra perinatale all’ospedale di Chartres, nel suo libro intitolato “L’embryon sur le divan. Psychopathologie de la conception humaine” (Masson). Al Foglio, che lo ha incontrato, spiega di voler “esprimere una preoccupazione, un’inquietudine che riguarda tutta la nostra società. Quando si tratta dell’origine dell’essere umano, le questioni in ballo sono troppo importanti per far finta che non esistano. Quale sarà l’impatto di questi concepimenti embrionari multipli? Come si inscrivono nell’immaginario dei genitori e del bambino sopravvissuto la morte e l’abbandono di questi embrioni usciti dalla stessa scena concezionale? Il figlio nato da procreazione artificiale va considerato fantasmaticamente come un sopravvissuto, riuscito a sfuggire alla potenza mortifera di tecniche che mettono in pericolo la sua esistenza?”.
La psicopatologia del concepimento, materia di cui Bayle è studioso, non è certo tra le più note al grande pubblico. Ma a essa sono affidate le speranze di trovare risposta a quelle come ad altre domande troppo spesso eluse. Secondo Bayle, “non è affatto sorprendente imbattersi in patologie psichiatriche nella popolazione dei bambini concepiti artificialmente, anche se non dobbiamo da questo tirare arbitrarie conclusioni che depongano a favore di una prevalenza del rischio psichiatrico tra i concepiti artificialmente rispetto ai concepiti naturalmente. Tuttavia, alcuni casi clinici dimostrano che il contesto del concepimento influenza lo sviluppo psicologico di quei bambini”. Di quel nesso si occupa Bayle, al quale chiediamo se sia possibile predire una patologia psichica di cui potrebbe soffrire un bambino non ancora nato: “Diciamo che è già una cura cercare di liberare il concepito da una problematica che si costituisce durante la gravidanza. Ma non bisogna cadere nel determinismo: è un modello che rifiuto. Io non individuo patologie, ma problematiche psicopatologiche. Un esempio tra tanti, e non legato alle tecniche di procreazione artificiale: un bambino concepito dopo la morte precoce di un fratello o una sorella può essere segnato da un’ansia particolare durante la gravidanza, i genitori possono avere difficoltà ad amarlo perché significa in un certo senso dimenticare quelli che non ci sono più, oppure vivere con il terrore costante che quanto accaduto si ripeta ancora, che il bambino muoia. Tutti questi problemi possono comparire, non sono obbligatori, possono essere fisiologici e non patologici o, al contrario, l’assenza di questi problemi potrebbe essere problematica. Se ci si situa in termini di psicopatologia del concepimento, si possono individuare elementi suscettibili di pregiudicare lo sviluppo del bambino e si cercherà di attenuarne gli effetti”.
Un’identità non solo biologica
Alcuni anni fa Bayle ha avuto modo di lavorare in un centro di procreazione medicalmente assistita (pma). Spiega che per lui “è prioritario capire meglio il concepimento umano in sé, e se sia possibile individuare problematiche psicologiche esistenti fin dal concepimento del bambino. Lo psichiatra perinatale si interessa alla gravidanza e al post partum, fino a circa un anno di età del bambino. Cerco di dimostrare che si possono individuare problematiche psicopatologiche fin dal concepimento. In questi casi si deve seguire, naturalmente, la madre, ma in una prospettiva nuova: liberare il bambino che deve nascere da problemi già individuati. Non c’è ormai più bisogno di dimostrare come la gravidanza sia un momento di profondi sconvolgimenti psichici nella donna. La mia idea è che bisogna interpretare questi sconvolgimenti non soltanto dal punto di vista della donna che diventa madre, ma anche come interazione tra la donna e il nascituro, lui stesso portatore di un’identità particolare. E’ questo l’elemento nuovo della psicopatologia del concepimento: il bambino è portatore di un’identità che non è soltanto biologica, di un’identità concezionale d’ordine psico-socio-culturale che può influenzare il suo sviluppo. Attenzione, non sto parlando di un embrione che pensa o dotato di una coscienza di sé. Io dico che l’embrione non è soltanto un corpo biologico, ma un corpo soggettivato, portatore di una storia”.
Da questo punto di vista, allora, il concepimento in vitro può essere considerato di per sé un’“anomalia” foriera di problemi futuri? A giudizio di Bayle “è sempre pericoloso parlare di patologia del concepimento. Direi che in generale possono esistere problematiche ambientali e identitarie. Posso dire che l’identità di un essere concepito attraverso pma è particolare. Diciamo che di norma un bambino è concepito da un uomo e una donna: ha una struttura psicogenetica che lo collega all’uomo e alla donna che lo hanno concepito. In un concepimento artificiale, questa struttura viene modificata: si stabiliscono nuove relazioni del soggetto rispetto alla propria identità e rispetto all’ambiente esterno. Verrà infatti sì concepito da un uomo e una donna, ma con l’aiuto di un terzo, il medico. Questo terzo soggetto non è cosa da poco, visto che è all’origine della sua stessa vita. L’essere così concepito ha già un debito nei confronti della società (o della tecnica, o della scienza o della medicina), cui deve una parte della sua esistenza. Dunque viene modificata una parte della struttura identitaria dell’essere concepito. In termini identitari, inoltre, un bambino nato con fecondazione assistita viene concepito al di fuori del sesso: la sua origine è al di fuori della sessualità carnale psicoaffettiva. E’ una particolarità. Dire ciò che può significare è per ora impossibile, ma non si tratta di questioni banali”.
Ma la particolarità non è propria di qualsiasi concepimento? La pma non appartiene all’ambito più profondamente intimo della coppia come il concepimento naturale? “E’ vero che la sessualità dei genitori è nascosta, implicita, intima e il bambino concepito è l’incarnazione dell’amore carnale psicoaffettivo dei genitori. Anche nel caso della pma il bambino è senz’altro l’incarnazione dell’amore dei suoi genitori, che lo hanno molto desiderato. Con una particolarità non da poco: quello che dovrebbe far parte dell’intimo diventa in qualche modo di dominio pubblico. Si verifica un’intrusione della tecnica nell’origine dell’essere. E’ una particolarità che dà luogo a una molteplicità di sviluppi possibili, in grado di avere su alcuni bambini un impatto patologico e su altri no. L’importante, per me, è non negare la particolarità. Sono sempre più convinto che il concepimento non sia soltanto un atto genetico, ma sia allo stesso tempo un fenomeno biologico e psico-socio-culturale. E l’essere umano si situa, fin dal suo concepimento, su questi due registri. La pma, innegabilmente, modifica in parte questi registri e conferisce al bambino una storia particolare. Penso per esempio agli embrioni ‘persi’, a quelli congelati, a quelli che non si annidano dopo un trasferimento, a quelli eliminati in caso di gravidanza multipla a rischio con il cosiddetto aborto selettivo. Tutto ciò partecipa già alla storia dell’essere umano concepito, potrebbe segnarne lo sviluppo o condizionare i rapporti con i genitori. Può per esempio crearsi un legame particolare con il bambino nato con pma, dopo una serie di tentativi falliti ed embrioni persi”.
I problemi del figlio troppo desiderato
Si può obiettare che in questo senso le tecniche di fecondazione assistita non inventano molto. Possono esserci bambini nati – naturalmente – dopo aborti spontanei a ripetizione, dopo aborti terapeutici o dopo interruzioni volontarie di gravidanza… “E’ vero – risponde Bayle – la procreazione medicalmente assistita non ha inventato nulla da questo punto di vista, ma ho l’impressione che concentri una serie di eventi importanti. Si crea un legame precoce con l’embrione, perché se ne ha notizia fin dal concepimento. In realtà la pma è la parte emersa di quel gigantesco iceberg che è la rivoluzione del concepimento. Mi colpisce, per esempio, la nozione sempre più diffusa di ‘figlio desiderato’ su cui riposa la rivoluzione concezionale e che sottintende l’eliminazione dei figli non desiderati. Ecco: si ha torto di credere che l’eliminazione dei non desiderati non significhi nulla, non resti nella teste della gente soltanto perché quelli non nasceranno. Il lavoro psicologico sul concepimento dimostra, al contrario, che resta uno spazio per questi bambini non nati, che fa gravare sui figli desiderati un peso particolare, un debito, una missione non facile: corrispondere a un desiderio. Il figlio desiderato non può deludere, né al momento del concepimento né per tutta la vita. L’evoluzione in atto rende lecito chiedersi davanti a qualsiasi bambino concepito: lo tengo? E’ importante affrontare e studiare questa problematica per la nostra società. Quello che mi preoccupa è che nella medicina della riproduzione il peso della morte diventa sempre più importante. Se ne deve misurare l’impatto. L’uomo deve fare i conti con la propria distruttività, non imparare a conviverci. E’ quello che ha fatto sinora, con la dichiarazione dei diritti umani, condannando la tortura e le guerre. E’ giusto che ora riflettiamo su questo tipo di distruttività implicita nella rivoluzione concezionale che stiamo vivendo. Stiamo modificando la struttura psicogenetica dell’uomo. E questo merita una riflessione, scientifica, umanistica, filosofica”.
storia
foibe
il manifesto.it 12.2.05
LA STAGIONE DI SANGUE
Istria 1943. La rivolta e le foibe
Dopo l'8 settembre, italiani e slavi si sollevarono spontaneamente. Tra caos, vendette e battaglie contro i tedeschi avanzanti, molti furono uccisi. Colpevoli e no
GIACOMO SCOTTI
L'8 settembre 1943, alla notizia della capitolazione italiana, in Istria ci fu una generale e pressoché spontanea rivolta che coinvolse in ugual misura le popolazioni italiane nei centri costieri e quelle croate e slovene nell'interno. Nell'uno e nell'altro caso gli insorti mostrarono simpatia e solidarietà con le truppe in grigioverde che altrettanto spontaneamente avevano mostrato la propria gioia per la «fine della guerra»; la rivolta si diresse contro i carabinieri, la polizia e soprattutto i gerarchi fascisti. In quell'ondata insurrezionale cedettero le armi circa 8.000 soldati italiani. A comprova della partecipazione degli italiani all'insurrezione stanno i fatti del 9 settembre a Pola dove, quel giorno, ci fu una strage. Le autorità italiane, cui i lavoratori di varie fabbriche avevano chiesto le armi per battersi contro i tedeschi fortificatisi a Scoglio Olivi (un piccolo reparto preesistente all'armistizio) fecero aprire il fuoco sulla folla affluita ai Giardini; furono uccisi tre operai - Cicognani, Zachtila e Zuppini - e feriti un gran numero di altri. Le forze armate italiane presenti nella piazzaforte di Pola sarebbero state sufficienti per aver ragione non solo delle poche centinaia di tedeschi presenti in città da fine di luglio, ma anche di unità ben maggiori, se i comandi del XXIII Corpo d'Armata e dell'Ammiragliato avessero rispettato le clausole dell'armistizio e lo stesso proclama di Badoglio. Invece ci si affrettò a trattare con i tedeschi, cui furono poi ceduti i pieni poteri civili e militari. Il 12 settembre fu consegnata a un loro reparto di soli 300 uomini l'intera piazzaforte. Circa 15.000 uomini in uniforme e 400 detenuti - politici e comuni - che si trovavano nel carcere cittadino finirono nelle mani del nemico. Migliaia di ufficiali e marinai italiani, avendo rifiutato l'offerta di servire l'invasore, furono deportati in Germania ai lavori forzati. Solo una minoranza di militari, con in testa le Camicie nere, passò al servizio dei tedeschi.
La minaccia tedesca
La svolta in Istria si ebbe il 13 settembre. Quel giorno si capì definitivamente che su tutto incombeva la minaccia tedesca. Nella penisola stava scendendo un'intera divisione germanica. Così, in piena autonomia, gli improvvisati capi del movimento insurrezionale di Parenzo, Rovigno ed Albona, tutti italiani, decisero di opporsi con le armi all'avanzata dei tedeschi - decisione presa anche sull'onda di una terribile notizia giunta da Pola. Quel 13 settembre nel capoluogo istriano, con l'aiuto dei loro carcerieri, i detenuti politici e comuni rinchiusi nel carcere di via dei Martiri riuscirono ad evadere. Inseguiti da pattuglie tedesche aiutate da manipoli di fascisti, furono in gran parte abbattuti in strada; altri venticinque, catturati, finirono impiccati agli alberi di via Medolino o fucilati in località Montegrande, alla periferia della città. Fu questo il primo grande eccidio di civili nella serie di massacri compiuti dall'esercito tedesco in Istria nel settembre-ottobre del '43.
Questi avvenimenti sanguinosi versarono benzina sul fuoco dell'insurrezione popolare istriana - nel corso della quale, contrariamente a quanto vorrebbero far credere i simpatizzanti per quei fascisti che consegnarono migliaia di connazionali ai tedeschi, non fu torto un capello ai soldati italiani. Il patriota istriano Diego de Castro ha scritto che furono proprio sloveni e croati delle regioni interne dell'Istria ad aiutare i soldati italiani sbandati a salvarsi dopo l'8 settembre. Il vescovo di Trieste dell'epoca, mons. Antonio Santin, testimoniò il 18 settembre sul settimanale della Diocesi Vita Nuova (e poi in «Trieste 1943-1945», Udine 1963): «Migliaia e migliaia di questi carissimi fratelli (i militari italiani, ndr) furono vestiti, nutriti, accolti, difesi; essi trovarono l'amore e il calore di una famiglia che si estendeva a tutte le case e a tutti i casolari». A loro volta in «Fratelli nel sangue» (Fiume, 1964) Aldo Bressan e Luciano Giuricin, citano testimoni diretti di quei fatti, scrivendo: «La popolazione (...) porse ogni aiuto possibile alle migliaia e migliaia di soldati italiani demoralizzati (...) che cercavano di raggiungere l'opposta sponda dell'Adriatico».
A Pisino nella notte fra il 12 e 13 settembre una formazione partigiana locale bloccò alla stazione ferroviaria un treno carico di marinai italiani che i tedeschi stavano deportando in Germania: il lungo convoglio, con a bordo tremila e più ragazzi, venne circondato, i marinai furono liberati (altri due treni erano stati fermati già prima di arrivare a Pisino) e poterono avviarsi con mezzi di fortuna, aiutati dalla popolazione, in direzione di Trieste e dell'Italia. Una cinquantina di essi si unirono alle formazioni antifasciste istriane.
Guido Rumici scrive: «In tutta la regione si assistette alla fuga precipitosa di decine di migliaia di soldati e di marinai che in tutta fretta abbandonarono caserme e installazioni militari, sbarazzandosi di armi, divise e munizioni e cercando di intraprendere, singolarmente o a gruppi, la strada del ritorno verso le proprie famiglie». «Nel loro peregrinare, spesso a piedi, per boschi e campagne, ricevettero appoggio e solidarietà dalla popolazione locale che si prodigò spesso rischiando anche in prima persona, per portar loro soccorso e sostegno, ospitandoli, nascondendoli, sfamandoli e aiutandoli a raggiungere la meta». Con ciò non si vuole negare che ci furono anche sporadici episodi di «caccia al fascista», ai capi locali del regime.
Documenti partigiani del settembre-ottobre 1943 forniscono un quadro abbastanza realistico di quella che fu l'insurrezione istriana del settembre. Leggiamo: «La presa del potere e del materiale (bellico) si è svolta per lo più in maniera improvvisata da parte di Comandi di posto arbitrariamente autodefinitisi tali e costituiti in tutta fretta in singole località. La popolazione è insorta spontaneamente, ha preso in mano le armi, ma non si può parlare in alcun modo di reparti militarmente organizzati e di una dirigenza militare».
Sull'onda dell'insurrezione generale e del vuoto di potere, alcuni esponenti croati giunti in Istria da oltre confine, fra cui Ivan Motika, oriundo di Gimino, laureato in giurisprudenza ed ex ufficiale dell'esercito regio jugoslavo, improvvisarono una specie di tribunale del popolo e costituirono una polizia politica segreta o Centro di Informazione, che diedero inizio a processi sommari contro i «nemici del popolo», fascisti o presunti tali. Luciano Giuricin scrive in proposito che il Motika «ebbe sicuramente un ruolo non secondario negli arresti, nelle carcerazioni e negli interrogatori dei prigionieri, come pure negli eccidi delle foibe avvenuti principalmente durante la caotica ritirata delle forze partigiane incalzate dall'offensiva tedesca di ottobre, che portò all'occupazione dell'intera Istria».
I tribunali del popolo
I cosiddetti tribunali del popolo funzionarono nelle peggiori condizioni possibili, alla mercè di «giudici» che talvolta erano persone che avevano avuto a che fare con la legge come pregiudicati e criminali comuni: contrabbandieri, ladri e peggio che ora si servivano di quei «tribunali» per sfogare bassi istinti di vendetta. In un rapporto dell'ottobre '43 firmato da Zvonko Babic, inviato in Istria dal Comitato centrale del Pc croato, si legge: «Nel periodo in cui abbiamo esercitato il potere in Istria (...) la lotta contro i nemici del popolo è stata condotta in maniera disuguale».
«In molte località gli istriani si sono rifiutati di attuare le esecuzioni, al punto che certi Comandi di posto riferivano nei loro rapporti di aver liquidato i condannati a morte nonostante la cosa non fosse vera. Si è manifestata pure l'ignoranza, la mancata conoscenza dei veri nemici del popolo e l'assenza di informazioni sui loro crimini, circostanza questa che adesso, con ritardo, si ritorce contro di noi». Il rapporto continua: «Il territorio più radicalmente ripulito (dai `nemici del popolo', ndr) è quello di Gimino, paese natale di Motika, e quello del Parentino. Un altro errore: nessuno ha mai pensato a costituire campi di concentramento, sicché i nemici del popolo sono stati puniti unicamente con la morte. Fra gli arrestati c'era pure un prete, che dietro intervento del vescovo di Pola e Parenzo è stato rimesso in libertà».
Fra coloro che vennero catturati dagli insorti, consegnati ai tribunali del popolo e da questi condannati a morte e infoibati, vi furono una ventina di zelanti fascisti locali che avevano fatto da guida a due colonne tedesche che tra l'11 e il 13 settembre, muovendo da Pola e da Trieste avevano tentato di raggiungere Fiume, scontrandosi ripetutamente con reparti di insorti. In quegli scontri caddero più di cento patrioti istriani, in maggioranza italiani di Parenzo, Rovigno e Albona, ma anche diversi soldati italiani unitisi agli insorti.
In concomitanza con l'insurrezione, ma soprattutto dopo gli scontri del 13 settembre, cominciarono gli arresti di gerarchi fascisti, di podestà e di altri funzionari ma anche di semplici iscritti al fascio, sia per iniziativa di singoli che per ordine dei vari Cpl. In questa operazione furono impegnati sia italiani che croati.
A Rovigno, cittadina abitata quasi esclusivamente da italiani, gli arresti dei «nemici del popolo» cominciarono alla fine della seconda settimana di settembre. Il mattino del 16, eseguendo un piano tracciato dal Comitato rivoluzionario che in giornata assunse i pieni poteri, entrarono in città cento e più partigiani italiani e croati che, insieme ai dirigenti antifascisti locali disarmarono le superstiti formazioni militari italiane di stanza sul posto. L'indomani, con l'aiuto di comunisti locali, arrestarono un centinaio di persone indicate come «i più incalliti fascisti macchiatisi di crimini», colpevoli di avere «per decenni terrorizzato la popolazione della città». A giudicarli furono dei comunisti italiani, loro concittadini, che alla fine, il 17 settembre, trattennero 14 fascisti (tutti italiani, ex squadristi e confidenti dell'Ovra) che spedirono a Pisino, a disposizione del Tribunale militare.
Non solo comunisti
Più o meno le cose andarono così anche nelle altre località dell'Istria. Non in tutte, però, gli uomini incaricati di dare la caccia al fascista erano comunisti o antifascisti. «Tra questi partigiani dell' ultima ora c'erano - in non pochi casi - quelli che avevano indossato la camicia nera solo qualche settimana indietro o la divisa di carabiniere sino all'8 settembre, personaggi che, armi alla mano, si erano autoproclamati capi partigiani». E prevalse la violenza.
Per quanto riguarda i militanti del Pci, essi poterono orientarsi seguendo le direttive di un manifesto diffuso dopo il 25 luglio 1943 in tutta la Regione Giulia a firma dei comitati regionali dei partiti d'azione, comunista, liberale e socialista, nonché dei movimenti cristiano sociale e di unità proletaria. In esso si chiedeva l'armistizio immediato, la cacciata dei tedeschi e «la punizione dei responsabili di vent'anni di crimini, di ruberie e del tradimento della nazione». All'atto pratico, come rivelano i risultati di vari incontri avuti con i massimi esponenti degli insorti croati dagli esponenti istriani del Pci Pino Budicin, Aldo Rismondo, Aldo Negri, Alfredo Stiglich ed altri, fu difficile conciliare i criteri per la punizione dei fascisti; e nei fatti fu l'anarchia.
I primi e più massicci arresti avvennero nelle zone di Rovigno e di Albona, dove il comando del movimento insurrezionale e partigiano fu assunto da comunisti affiliati al Pc italiano, a Parenzo e dintorni, a Gimino e nel Pisinese. Tuttavia, mentre nelle prime due località ci furono dei filtri e si cercò di evitare ingiustizie per quanto possibile (tanto è vero che ad Albona diverse persone arrestate come fasciste furono liberate per intervento di Aldo Negri, ma poi nuovamente arrestate da personaggi estranei al locale Comando partigiano) nel Parentino, nel Pisinese e in quel di Gimino invece gli arresti oltre ad essere massicci furono pure indiscriminati. La maggioranza degli arrestati era formata da gerarchi fascisti locali che si erano meritati l'odio delle popolazioni, ma nel mucchio capitarono anche persone che oltre alla tessera del Pnf non avevano colpe da espiare - o con i quali i delatori avevano vecchi conti personali da regolare. La caccia al fascista cominciò verso la metà del mese. Ma appena il 24 settembre, di fronte a fenomeni di esecuzioni sommarie ed arbitrarie, segnalati dalle varie località dell'Istria al Comando partigiano costituitosi nel frattempo a Pisino, fu costituito un «Tribunale militare mobile» che avrebbe dovuto arginare o eliminare le illegalità. I processi si celebrarono a Pisino, ad Albona e Pinguente, località nelle quali esistevano i centri di raccolta (prigioni) degli arrestati. Nella maggior parte i prigionieri furono inviati a Pisino e rinchiusi nel castello dei Montecuccoli, da dove o venivano rispediti a casa, se ritenuti innocenti, oppure condannati a morte e condotti sui luoghi di esecuzione, per lo più foibe carsiche o cave di bauxite. Quando arriveranno i tedeschi, troveranno a Pisino ancora un centinaio di prigionieri in attesa di processo. A Pinguente furono assolte e liberate dagli stessi partigiani oltre 100 persone.
Ma quanti furono gli infoibati in Istria?
(2-continua. La prima parte è stata pubblicata il 4 febbraio)
LA STAGIONE DI SANGUE
Istria 1943. La rivolta e le foibe
Dopo l'8 settembre, italiani e slavi si sollevarono spontaneamente. Tra caos, vendette e battaglie contro i tedeschi avanzanti, molti furono uccisi. Colpevoli e no
GIACOMO SCOTTI
L'8 settembre 1943, alla notizia della capitolazione italiana, in Istria ci fu una generale e pressoché spontanea rivolta che coinvolse in ugual misura le popolazioni italiane nei centri costieri e quelle croate e slovene nell'interno. Nell'uno e nell'altro caso gli insorti mostrarono simpatia e solidarietà con le truppe in grigioverde che altrettanto spontaneamente avevano mostrato la propria gioia per la «fine della guerra»; la rivolta si diresse contro i carabinieri, la polizia e soprattutto i gerarchi fascisti. In quell'ondata insurrezionale cedettero le armi circa 8.000 soldati italiani. A comprova della partecipazione degli italiani all'insurrezione stanno i fatti del 9 settembre a Pola dove, quel giorno, ci fu una strage. Le autorità italiane, cui i lavoratori di varie fabbriche avevano chiesto le armi per battersi contro i tedeschi fortificatisi a Scoglio Olivi (un piccolo reparto preesistente all'armistizio) fecero aprire il fuoco sulla folla affluita ai Giardini; furono uccisi tre operai - Cicognani, Zachtila e Zuppini - e feriti un gran numero di altri. Le forze armate italiane presenti nella piazzaforte di Pola sarebbero state sufficienti per aver ragione non solo delle poche centinaia di tedeschi presenti in città da fine di luglio, ma anche di unità ben maggiori, se i comandi del XXIII Corpo d'Armata e dell'Ammiragliato avessero rispettato le clausole dell'armistizio e lo stesso proclama di Badoglio. Invece ci si affrettò a trattare con i tedeschi, cui furono poi ceduti i pieni poteri civili e militari. Il 12 settembre fu consegnata a un loro reparto di soli 300 uomini l'intera piazzaforte. Circa 15.000 uomini in uniforme e 400 detenuti - politici e comuni - che si trovavano nel carcere cittadino finirono nelle mani del nemico. Migliaia di ufficiali e marinai italiani, avendo rifiutato l'offerta di servire l'invasore, furono deportati in Germania ai lavori forzati. Solo una minoranza di militari, con in testa le Camicie nere, passò al servizio dei tedeschi.
La minaccia tedesca
La svolta in Istria si ebbe il 13 settembre. Quel giorno si capì definitivamente che su tutto incombeva la minaccia tedesca. Nella penisola stava scendendo un'intera divisione germanica. Così, in piena autonomia, gli improvvisati capi del movimento insurrezionale di Parenzo, Rovigno ed Albona, tutti italiani, decisero di opporsi con le armi all'avanzata dei tedeschi - decisione presa anche sull'onda di una terribile notizia giunta da Pola. Quel 13 settembre nel capoluogo istriano, con l'aiuto dei loro carcerieri, i detenuti politici e comuni rinchiusi nel carcere di via dei Martiri riuscirono ad evadere. Inseguiti da pattuglie tedesche aiutate da manipoli di fascisti, furono in gran parte abbattuti in strada; altri venticinque, catturati, finirono impiccati agli alberi di via Medolino o fucilati in località Montegrande, alla periferia della città. Fu questo il primo grande eccidio di civili nella serie di massacri compiuti dall'esercito tedesco in Istria nel settembre-ottobre del '43.
Questi avvenimenti sanguinosi versarono benzina sul fuoco dell'insurrezione popolare istriana - nel corso della quale, contrariamente a quanto vorrebbero far credere i simpatizzanti per quei fascisti che consegnarono migliaia di connazionali ai tedeschi, non fu torto un capello ai soldati italiani. Il patriota istriano Diego de Castro ha scritto che furono proprio sloveni e croati delle regioni interne dell'Istria ad aiutare i soldati italiani sbandati a salvarsi dopo l'8 settembre. Il vescovo di Trieste dell'epoca, mons. Antonio Santin, testimoniò il 18 settembre sul settimanale della Diocesi Vita Nuova (e poi in «Trieste 1943-1945», Udine 1963): «Migliaia e migliaia di questi carissimi fratelli (i militari italiani, ndr) furono vestiti, nutriti, accolti, difesi; essi trovarono l'amore e il calore di una famiglia che si estendeva a tutte le case e a tutti i casolari». A loro volta in «Fratelli nel sangue» (Fiume, 1964) Aldo Bressan e Luciano Giuricin, citano testimoni diretti di quei fatti, scrivendo: «La popolazione (...) porse ogni aiuto possibile alle migliaia e migliaia di soldati italiani demoralizzati (...) che cercavano di raggiungere l'opposta sponda dell'Adriatico».
A Pisino nella notte fra il 12 e 13 settembre una formazione partigiana locale bloccò alla stazione ferroviaria un treno carico di marinai italiani che i tedeschi stavano deportando in Germania: il lungo convoglio, con a bordo tremila e più ragazzi, venne circondato, i marinai furono liberati (altri due treni erano stati fermati già prima di arrivare a Pisino) e poterono avviarsi con mezzi di fortuna, aiutati dalla popolazione, in direzione di Trieste e dell'Italia. Una cinquantina di essi si unirono alle formazioni antifasciste istriane.
Guido Rumici scrive: «In tutta la regione si assistette alla fuga precipitosa di decine di migliaia di soldati e di marinai che in tutta fretta abbandonarono caserme e installazioni militari, sbarazzandosi di armi, divise e munizioni e cercando di intraprendere, singolarmente o a gruppi, la strada del ritorno verso le proprie famiglie». «Nel loro peregrinare, spesso a piedi, per boschi e campagne, ricevettero appoggio e solidarietà dalla popolazione locale che si prodigò spesso rischiando anche in prima persona, per portar loro soccorso e sostegno, ospitandoli, nascondendoli, sfamandoli e aiutandoli a raggiungere la meta». Con ciò non si vuole negare che ci furono anche sporadici episodi di «caccia al fascista», ai capi locali del regime.
Documenti partigiani del settembre-ottobre 1943 forniscono un quadro abbastanza realistico di quella che fu l'insurrezione istriana del settembre. Leggiamo: «La presa del potere e del materiale (bellico) si è svolta per lo più in maniera improvvisata da parte di Comandi di posto arbitrariamente autodefinitisi tali e costituiti in tutta fretta in singole località. La popolazione è insorta spontaneamente, ha preso in mano le armi, ma non si può parlare in alcun modo di reparti militarmente organizzati e di una dirigenza militare».
Sull'onda dell'insurrezione generale e del vuoto di potere, alcuni esponenti croati giunti in Istria da oltre confine, fra cui Ivan Motika, oriundo di Gimino, laureato in giurisprudenza ed ex ufficiale dell'esercito regio jugoslavo, improvvisarono una specie di tribunale del popolo e costituirono una polizia politica segreta o Centro di Informazione, che diedero inizio a processi sommari contro i «nemici del popolo», fascisti o presunti tali. Luciano Giuricin scrive in proposito che il Motika «ebbe sicuramente un ruolo non secondario negli arresti, nelle carcerazioni e negli interrogatori dei prigionieri, come pure negli eccidi delle foibe avvenuti principalmente durante la caotica ritirata delle forze partigiane incalzate dall'offensiva tedesca di ottobre, che portò all'occupazione dell'intera Istria».
I tribunali del popolo
I cosiddetti tribunali del popolo funzionarono nelle peggiori condizioni possibili, alla mercè di «giudici» che talvolta erano persone che avevano avuto a che fare con la legge come pregiudicati e criminali comuni: contrabbandieri, ladri e peggio che ora si servivano di quei «tribunali» per sfogare bassi istinti di vendetta. In un rapporto dell'ottobre '43 firmato da Zvonko Babic, inviato in Istria dal Comitato centrale del Pc croato, si legge: «Nel periodo in cui abbiamo esercitato il potere in Istria (...) la lotta contro i nemici del popolo è stata condotta in maniera disuguale».
«In molte località gli istriani si sono rifiutati di attuare le esecuzioni, al punto che certi Comandi di posto riferivano nei loro rapporti di aver liquidato i condannati a morte nonostante la cosa non fosse vera. Si è manifestata pure l'ignoranza, la mancata conoscenza dei veri nemici del popolo e l'assenza di informazioni sui loro crimini, circostanza questa che adesso, con ritardo, si ritorce contro di noi». Il rapporto continua: «Il territorio più radicalmente ripulito (dai `nemici del popolo', ndr) è quello di Gimino, paese natale di Motika, e quello del Parentino. Un altro errore: nessuno ha mai pensato a costituire campi di concentramento, sicché i nemici del popolo sono stati puniti unicamente con la morte. Fra gli arrestati c'era pure un prete, che dietro intervento del vescovo di Pola e Parenzo è stato rimesso in libertà».
Fra coloro che vennero catturati dagli insorti, consegnati ai tribunali del popolo e da questi condannati a morte e infoibati, vi furono una ventina di zelanti fascisti locali che avevano fatto da guida a due colonne tedesche che tra l'11 e il 13 settembre, muovendo da Pola e da Trieste avevano tentato di raggiungere Fiume, scontrandosi ripetutamente con reparti di insorti. In quegli scontri caddero più di cento patrioti istriani, in maggioranza italiani di Parenzo, Rovigno e Albona, ma anche diversi soldati italiani unitisi agli insorti.
In concomitanza con l'insurrezione, ma soprattutto dopo gli scontri del 13 settembre, cominciarono gli arresti di gerarchi fascisti, di podestà e di altri funzionari ma anche di semplici iscritti al fascio, sia per iniziativa di singoli che per ordine dei vari Cpl. In questa operazione furono impegnati sia italiani che croati.
A Rovigno, cittadina abitata quasi esclusivamente da italiani, gli arresti dei «nemici del popolo» cominciarono alla fine della seconda settimana di settembre. Il mattino del 16, eseguendo un piano tracciato dal Comitato rivoluzionario che in giornata assunse i pieni poteri, entrarono in città cento e più partigiani italiani e croati che, insieme ai dirigenti antifascisti locali disarmarono le superstiti formazioni militari italiane di stanza sul posto. L'indomani, con l'aiuto di comunisti locali, arrestarono un centinaio di persone indicate come «i più incalliti fascisti macchiatisi di crimini», colpevoli di avere «per decenni terrorizzato la popolazione della città». A giudicarli furono dei comunisti italiani, loro concittadini, che alla fine, il 17 settembre, trattennero 14 fascisti (tutti italiani, ex squadristi e confidenti dell'Ovra) che spedirono a Pisino, a disposizione del Tribunale militare.
Non solo comunisti
Più o meno le cose andarono così anche nelle altre località dell'Istria. Non in tutte, però, gli uomini incaricati di dare la caccia al fascista erano comunisti o antifascisti. «Tra questi partigiani dell' ultima ora c'erano - in non pochi casi - quelli che avevano indossato la camicia nera solo qualche settimana indietro o la divisa di carabiniere sino all'8 settembre, personaggi che, armi alla mano, si erano autoproclamati capi partigiani». E prevalse la violenza.
Per quanto riguarda i militanti del Pci, essi poterono orientarsi seguendo le direttive di un manifesto diffuso dopo il 25 luglio 1943 in tutta la Regione Giulia a firma dei comitati regionali dei partiti d'azione, comunista, liberale e socialista, nonché dei movimenti cristiano sociale e di unità proletaria. In esso si chiedeva l'armistizio immediato, la cacciata dei tedeschi e «la punizione dei responsabili di vent'anni di crimini, di ruberie e del tradimento della nazione». All'atto pratico, come rivelano i risultati di vari incontri avuti con i massimi esponenti degli insorti croati dagli esponenti istriani del Pci Pino Budicin, Aldo Rismondo, Aldo Negri, Alfredo Stiglich ed altri, fu difficile conciliare i criteri per la punizione dei fascisti; e nei fatti fu l'anarchia.
I primi e più massicci arresti avvennero nelle zone di Rovigno e di Albona, dove il comando del movimento insurrezionale e partigiano fu assunto da comunisti affiliati al Pc italiano, a Parenzo e dintorni, a Gimino e nel Pisinese. Tuttavia, mentre nelle prime due località ci furono dei filtri e si cercò di evitare ingiustizie per quanto possibile (tanto è vero che ad Albona diverse persone arrestate come fasciste furono liberate per intervento di Aldo Negri, ma poi nuovamente arrestate da personaggi estranei al locale Comando partigiano) nel Parentino, nel Pisinese e in quel di Gimino invece gli arresti oltre ad essere massicci furono pure indiscriminati. La maggioranza degli arrestati era formata da gerarchi fascisti locali che si erano meritati l'odio delle popolazioni, ma nel mucchio capitarono anche persone che oltre alla tessera del Pnf non avevano colpe da espiare - o con i quali i delatori avevano vecchi conti personali da regolare. La caccia al fascista cominciò verso la metà del mese. Ma appena il 24 settembre, di fronte a fenomeni di esecuzioni sommarie ed arbitrarie, segnalati dalle varie località dell'Istria al Comando partigiano costituitosi nel frattempo a Pisino, fu costituito un «Tribunale militare mobile» che avrebbe dovuto arginare o eliminare le illegalità. I processi si celebrarono a Pisino, ad Albona e Pinguente, località nelle quali esistevano i centri di raccolta (prigioni) degli arrestati. Nella maggior parte i prigionieri furono inviati a Pisino e rinchiusi nel castello dei Montecuccoli, da dove o venivano rispediti a casa, se ritenuti innocenti, oppure condannati a morte e condotti sui luoghi di esecuzione, per lo più foibe carsiche o cave di bauxite. Quando arriveranno i tedeschi, troveranno a Pisino ancora un centinaio di prigionieri in attesa di processo. A Pinguente furono assolte e liberate dagli stessi partigiani oltre 100 persone.
Ma quanti furono gli infoibati in Istria?
(2-continua. La prima parte è stata pubblicata il 4 febbraio)
abusi contro le donne
L'Unità 12.2.05
«Fermiamo gli abusi contro le donne»
A Bologna convegno europeo dei centri antiviolenza. «Anche qui lontani dalle indicazioni Ue»
Natascia Ronchetti
BOLOGNA Maria Chiara Risoldi dice che spesso le donne si caricano sulle spalle la colpa delle violenze subite, fisiche o psicologiche. A volte cercano di intravedere nella violenza, per sopravvivere, persino qualche forma di amore, e allora anche «uno schiaffo è meglio dell’indifferenza», il silenzio preferibile all’abbandono e al riscatto. Tranelli della mente e del cuore che ben conosce, prodotti da una cultura maschile di cui fanno le spese anche gli uomini. «Nel 99 per cento dei casi, quelli che esercitano forme di violenza sulle donne sono disturbati». Gli abusi contro le donne tra le mura domestiche, sono così tanti, così diffusi in tutte le fasce sociali, che gli esperti del Consiglio d’Europa hanno suggerito di rivedere anche gli obiettivi minimi fissati dall’Unione Europea nel rapporto tra numero di posti di accoglienza per donne maltrattate e numero di abitanti; di portarli da uno ogni 10 mila a 1 ogni 7.500. In entrambi i casi l’Italia è lontanissima dal traguardo, fanalino di coda dell’Europa.
Persino l’avanzata Emilia Romagna, persino l’avanzata Bologna, non riescono a tenere il passo nelle politiche di genere, dice Angela Romanini, della Casa delle Donne di Bologna. «A Bologna, in base alle indicazioni europee, dovremmo avere almeno 150 posti-nucleo per donne maltrattate e per i loro figli quando ne hanno. Ne abbiamo solo 10». Ieri a Bologna si sono date appuntamento responsabili di centri antiviolenza italiani e stranieri. Siracusa, Modena, Firenze, Trieste, Belluno. Bologna, appunto. Con loro, l’assessore comunale a Scuola, Formazione e Politiche delle Differenze, Maria Virgilio. Poi Judith Herman, dell’associazione ungherese Nane, e Rosa Logar, del Wave di Vienna, che presenterà il progetto all’Onu, a New York. Il Wave è la rete europea dei centri antiviolenza che in collaborazione con esperte di Portogallo, Romania, Ungheria, Germania, Finlandia, Austria, Grecia, Italia, ha redatto il manuale europeo per la gestione e l’apertura di un centro antiviolenza. Uno strumento pratico e teorico per aiutare chi vuole aprire un centro o migliorarne il servizio.
Italia fanalino di coda, dicevamo: nella consapevolezza, nell’impegno politico, nelle risorse per le politiche di genere. «Quante più donne avremo nelle istituzioni tanto più queste problematiche saranno affrontate», dice Chiara Sebastiani, docente alla facoltà di Scienze politiche a Bologna, della Commissione Pari Opportunità, Cultura, Università del Quartiere San Vitale. Solo quest’anno l’Istat ha deciso di inserire nel proprio rilevamento anche i dati relativi alle violenze sulle donne. Le dimensioni del fenomeno si conosceranno entro la fine dell’anno. Ma le stime, anche in base alle situazioni negli altri Paesi europei dove i maltrattamenti, in varie forme, riguardano da un terzo a un quarto della popolazione femminile, dicono che circa un quinto delle donne italiane tra i 20 e i 70 anni sono vittime di qualche forma di abuso.
«Se davvero c’è un luogo insicuro per la donna, questo è la casa l’ambiente domestico, delle relazioni con il marito, il padre, i fratelli... «E sono monchi e inadeguati anche i pochi servizi funzionanti in Italia. Monchi nell’approccio, dice ancora Romanini, che si limita ad una gestione dell’emergenza e dell’accoglienza e non prevede piani di azione che agiscano contemporaneamente su più livelli. Manca, dice, una legge, che affronti il problema complessivamente, che contempli «anche un piano di recupero degli uomini violenti», maggiore collaborazione tra le forze dell’ordine. Ma il primo scoglio è culturale, ammonisce Chiara Sebastiani. «La violenza culturale trova molta rappresentazione anche nei mass media, nessuno pensa che il grosso dei rischi per una donna è tra le mura domestiche, a causa della violenza di un uomo che quasi sempre è cresciuto a sua volta nella violenza». Maria Virgilio ricorda che la giunta Guazzaloca aveva manifestato più volte la propria ostilità alla Casa delle Donne, e rammenta il caso recente del medico bolognese che si è ucciso dopo aver ucciso la figlia. «Dopo è emersa una storia di abusi anche nei confronti della moglie. Eppure che si diceva di lui: stimatissimo...».
Gli strumenti normativi per intervenire in «simili casi ci sono, ma tutto si muove con lentezza», dice Risoldi. «La vittima non deve essere lasciata sola, la società ha il dovere di schierarsi, senza dimenticare che il copione della violenza si ripete, e allora si ritrovano madri vittime di violenza che sono violente con i figli, un copione anche tra coppie omosessuali, donne o uomini che siano...». Spirale perversa. Risoldi mette a nudo anche l’incompletezza della formazione nelle facoltà di Psicologia, «dove non si incrocia un percorso di genere e di differenza», sicchè accade spesso che uno psicologo uomo non possieda gli strumenti per aiutare adeguatamente una donna che ha subito violenza». La società maschile inanella varie forme di «difesa»; e allora quante volte capita di sentire: «è la donna che se la cerca»; quante volte, dice Risoldi, a una donna maltrattata si chiede, colpevolizzandola: «Scusi, ma cosa ha fatto per irritarlo così?».
«Fermiamo gli abusi contro le donne»
A Bologna convegno europeo dei centri antiviolenza. «Anche qui lontani dalle indicazioni Ue»
Natascia Ronchetti
BOLOGNA Maria Chiara Risoldi dice che spesso le donne si caricano sulle spalle la colpa delle violenze subite, fisiche o psicologiche. A volte cercano di intravedere nella violenza, per sopravvivere, persino qualche forma di amore, e allora anche «uno schiaffo è meglio dell’indifferenza», il silenzio preferibile all’abbandono e al riscatto. Tranelli della mente e del cuore che ben conosce, prodotti da una cultura maschile di cui fanno le spese anche gli uomini. «Nel 99 per cento dei casi, quelli che esercitano forme di violenza sulle donne sono disturbati». Gli abusi contro le donne tra le mura domestiche, sono così tanti, così diffusi in tutte le fasce sociali, che gli esperti del Consiglio d’Europa hanno suggerito di rivedere anche gli obiettivi minimi fissati dall’Unione Europea nel rapporto tra numero di posti di accoglienza per donne maltrattate e numero di abitanti; di portarli da uno ogni 10 mila a 1 ogni 7.500. In entrambi i casi l’Italia è lontanissima dal traguardo, fanalino di coda dell’Europa.
Persino l’avanzata Emilia Romagna, persino l’avanzata Bologna, non riescono a tenere il passo nelle politiche di genere, dice Angela Romanini, della Casa delle Donne di Bologna. «A Bologna, in base alle indicazioni europee, dovremmo avere almeno 150 posti-nucleo per donne maltrattate e per i loro figli quando ne hanno. Ne abbiamo solo 10». Ieri a Bologna si sono date appuntamento responsabili di centri antiviolenza italiani e stranieri. Siracusa, Modena, Firenze, Trieste, Belluno. Bologna, appunto. Con loro, l’assessore comunale a Scuola, Formazione e Politiche delle Differenze, Maria Virgilio. Poi Judith Herman, dell’associazione ungherese Nane, e Rosa Logar, del Wave di Vienna, che presenterà il progetto all’Onu, a New York. Il Wave è la rete europea dei centri antiviolenza che in collaborazione con esperte di Portogallo, Romania, Ungheria, Germania, Finlandia, Austria, Grecia, Italia, ha redatto il manuale europeo per la gestione e l’apertura di un centro antiviolenza. Uno strumento pratico e teorico per aiutare chi vuole aprire un centro o migliorarne il servizio.
Italia fanalino di coda, dicevamo: nella consapevolezza, nell’impegno politico, nelle risorse per le politiche di genere. «Quante più donne avremo nelle istituzioni tanto più queste problematiche saranno affrontate», dice Chiara Sebastiani, docente alla facoltà di Scienze politiche a Bologna, della Commissione Pari Opportunità, Cultura, Università del Quartiere San Vitale. Solo quest’anno l’Istat ha deciso di inserire nel proprio rilevamento anche i dati relativi alle violenze sulle donne. Le dimensioni del fenomeno si conosceranno entro la fine dell’anno. Ma le stime, anche in base alle situazioni negli altri Paesi europei dove i maltrattamenti, in varie forme, riguardano da un terzo a un quarto della popolazione femminile, dicono che circa un quinto delle donne italiane tra i 20 e i 70 anni sono vittime di qualche forma di abuso.
«Se davvero c’è un luogo insicuro per la donna, questo è la casa l’ambiente domestico, delle relazioni con il marito, il padre, i fratelli... «E sono monchi e inadeguati anche i pochi servizi funzionanti in Italia. Monchi nell’approccio, dice ancora Romanini, che si limita ad una gestione dell’emergenza e dell’accoglienza e non prevede piani di azione che agiscano contemporaneamente su più livelli. Manca, dice, una legge, che affronti il problema complessivamente, che contempli «anche un piano di recupero degli uomini violenti», maggiore collaborazione tra le forze dell’ordine. Ma il primo scoglio è culturale, ammonisce Chiara Sebastiani. «La violenza culturale trova molta rappresentazione anche nei mass media, nessuno pensa che il grosso dei rischi per una donna è tra le mura domestiche, a causa della violenza di un uomo che quasi sempre è cresciuto a sua volta nella violenza». Maria Virgilio ricorda che la giunta Guazzaloca aveva manifestato più volte la propria ostilità alla Casa delle Donne, e rammenta il caso recente del medico bolognese che si è ucciso dopo aver ucciso la figlia. «Dopo è emersa una storia di abusi anche nei confronti della moglie. Eppure che si diceva di lui: stimatissimo...».
Gli strumenti normativi per intervenire in «simili casi ci sono, ma tutto si muove con lentezza», dice Risoldi. «La vittima non deve essere lasciata sola, la società ha il dovere di schierarsi, senza dimenticare che il copione della violenza si ripete, e allora si ritrovano madri vittime di violenza che sono violente con i figli, un copione anche tra coppie omosessuali, donne o uomini che siano...». Spirale perversa. Risoldi mette a nudo anche l’incompletezza della formazione nelle facoltà di Psicologia, «dove non si incrocia un percorso di genere e di differenza», sicchè accade spesso che uno psicologo uomo non possieda gli strumenti per aiutare adeguatamente una donna che ha subito violenza». La società maschile inanella varie forme di «difesa»; e allora quante volte capita di sentire: «è la donna che se la cerca»; quante volte, dice Risoldi, a una donna maltrattata si chiede, colpevolizzandola: «Scusi, ma cosa ha fatto per irritarlo così?».
il signor Brazelton
dice di sapere tutto sui bambini
Corriere della Sera 12.2.05
Insieme
Carlotta Niccolini
Non mangia le verdure. Libera l’altalena dei giardinetti buttando per terra l’occupante. Si rifiuta di usare il vasino. Si calma solo davanti alla tv. Vuole sempre giocare al dottore. Magari non tutti insieme, ma questi sono alcuni dei casi che possono presentarsi ai genitori con bambini da 3 a 6 anni. E può essere rassicurante sapere che c’è qualcuno che ha un’idea di quello che si deve fare. Se negli anni Settanta la bibbia dei genitori occidentali era il manuale del dottor Spock (più tardi in Italia il «nuovo bambino» di Marcello Bernardi), oggi il punto di riferimento è T. Berry Brazelton, 87 enne super pediatra con cattedra ad Harvard, autore di oltre 30 libri sullo sviluppo del bambino, tra cui i classici «Infants and mothers» e «To listen to a child». Ma soprattutto Brazelton è noto per aver elaborato la mappa dei «touchpoints», momenti chiave dello sviluppo, che possono manifestarsi come improvvise impennate o radicali regressioni perché la crescita è un percorso frastagliato. Dopo essersi dedicato ai primi 3 anni di vita del bambino, nel suo nuovo libro Brazelton (con la collaborazione del medico psichiatra Joshua D. Sparrow) affronta l’età dai tre a sei anni. Il «manualone» (500 pagine edite da Fabbri) sarà lo spunto di un incontro con le mamme e i papà milanesi lunedì sera alla Casa della Cultura, presente anche la psicologa Silvia Vegetti Finzi.
Per rendere più piacevole la lettura, Brazelton ha immaginato di seguire la vita quotidiana di 4 bambini tipo, due maschi e due femmine: uno vivace, uno timido, una energica e una socievole. «I genitori - sostiene l’autore - non devono lasciarsi spaventare dai momenti difficili o dai comportamenti "devianti" dei figli, ma approfittarne per sostenerne l’evoluzione, con autorevolezza e con la massima condivisione». La parola chiave è «insieme», perché il bambino è un essere umano intelligente e sensibile, in grado di comprendere e imparare tutto: il trucco è mettersi al suo livello. E non solo in senso metaforico. Per giocare con lui bisogna sdraiarsi per terra e abbassarsi quando si vuole parlare.
Brazelton crede nelle regole e nei limiti: fino a quando non sarà il bambino stesso a imparare a riconoscerli e ad autocontrollarsi. Per esempio di fronte all’aggressività (morsi, botte, parolacce, un tipico «touchpoint» del terzo anno) mamma e papà devono mettere un netto freno. Le azioni violente (canalizzazione incontrollata dell’angoscia infantile) vanno interrotte imponendo un momento di pausa e abbracciando il bambino: «Aiutarlo a scoprire le parole per esprimere i sentimenti che ha trasformato in azioni può essergli d’aiuto per le occasioni successive», suggerisce il pediatra. Le punizioni fisiche, invece, sono bandite: «Un genitore che picchia un bambino, per rabbia o addirittura con intenzione, non è rispettoso della sua persona», prosegue. «Oltretutto una simile reazione trasmette il messaggio che anche il genitore perde il controllo».
Se la televisione era off-limits sotto i due anni, dai tre anni in su Brazelton la concede: ma non più di un’ora al giorno durante la settimana e due nel weekend. L’ideale è guardarla insieme a mamma e papà. «Un’opportunità per condividere le esperienze, le domande e le preoccupazioni. Ma fate anche un elenco di cose diverse dalla tv e dai giochi elettronici che il bambino possa fare per distrarsi da solo, con un amico o con voi. Scorrete l’elenco insieme a vostro figlio e aiutatelo a pianificare la giornata prima che venga assalito dalla noia».
Infine se siete tra quei genitori che si sono autoassolti con la storia della qualità del tempo che vale di più della quantità, purtroppo non ci sono buone notizie. «La nozione di "qualità del tempo" è troppo comoda. Ciò di cui un bambino ha veramente bisogno è il senso di riunione e intimità», sentenzia il dottor Brazelton, che consiglia pure di tenere in casa una grande sedia a dondolo dove poter stare a lungo abbracciati.
Insieme
Carlotta Niccolini
Non mangia le verdure. Libera l’altalena dei giardinetti buttando per terra l’occupante. Si rifiuta di usare il vasino. Si calma solo davanti alla tv. Vuole sempre giocare al dottore. Magari non tutti insieme, ma questi sono alcuni dei casi che possono presentarsi ai genitori con bambini da 3 a 6 anni. E può essere rassicurante sapere che c’è qualcuno che ha un’idea di quello che si deve fare. Se negli anni Settanta la bibbia dei genitori occidentali era il manuale del dottor Spock (più tardi in Italia il «nuovo bambino» di Marcello Bernardi), oggi il punto di riferimento è T. Berry Brazelton, 87 enne super pediatra con cattedra ad Harvard, autore di oltre 30 libri sullo sviluppo del bambino, tra cui i classici «Infants and mothers» e «To listen to a child». Ma soprattutto Brazelton è noto per aver elaborato la mappa dei «touchpoints», momenti chiave dello sviluppo, che possono manifestarsi come improvvise impennate o radicali regressioni perché la crescita è un percorso frastagliato. Dopo essersi dedicato ai primi 3 anni di vita del bambino, nel suo nuovo libro Brazelton (con la collaborazione del medico psichiatra Joshua D. Sparrow) affronta l’età dai tre a sei anni. Il «manualone» (500 pagine edite da Fabbri) sarà lo spunto di un incontro con le mamme e i papà milanesi lunedì sera alla Casa della Cultura, presente anche la psicologa Silvia Vegetti Finzi.
Per rendere più piacevole la lettura, Brazelton ha immaginato di seguire la vita quotidiana di 4 bambini tipo, due maschi e due femmine: uno vivace, uno timido, una energica e una socievole. «I genitori - sostiene l’autore - non devono lasciarsi spaventare dai momenti difficili o dai comportamenti "devianti" dei figli, ma approfittarne per sostenerne l’evoluzione, con autorevolezza e con la massima condivisione». La parola chiave è «insieme», perché il bambino è un essere umano intelligente e sensibile, in grado di comprendere e imparare tutto: il trucco è mettersi al suo livello. E non solo in senso metaforico. Per giocare con lui bisogna sdraiarsi per terra e abbassarsi quando si vuole parlare.
Brazelton crede nelle regole e nei limiti: fino a quando non sarà il bambino stesso a imparare a riconoscerli e ad autocontrollarsi. Per esempio di fronte all’aggressività (morsi, botte, parolacce, un tipico «touchpoint» del terzo anno) mamma e papà devono mettere un netto freno. Le azioni violente (canalizzazione incontrollata dell’angoscia infantile) vanno interrotte imponendo un momento di pausa e abbracciando il bambino: «Aiutarlo a scoprire le parole per esprimere i sentimenti che ha trasformato in azioni può essergli d’aiuto per le occasioni successive», suggerisce il pediatra. Le punizioni fisiche, invece, sono bandite: «Un genitore che picchia un bambino, per rabbia o addirittura con intenzione, non è rispettoso della sua persona», prosegue. «Oltretutto una simile reazione trasmette il messaggio che anche il genitore perde il controllo».
Se la televisione era off-limits sotto i due anni, dai tre anni in su Brazelton la concede: ma non più di un’ora al giorno durante la settimana e due nel weekend. L’ideale è guardarla insieme a mamma e papà. «Un’opportunità per condividere le esperienze, le domande e le preoccupazioni. Ma fate anche un elenco di cose diverse dalla tv e dai giochi elettronici che il bambino possa fare per distrarsi da solo, con un amico o con voi. Scorrete l’elenco insieme a vostro figlio e aiutatelo a pianificare la giornata prima che venga assalito dalla noia».
Infine se siete tra quei genitori che si sono autoassolti con la storia della qualità del tempo che vale di più della quantità, purtroppo non ci sono buone notizie. «La nozione di "qualità del tempo" è troppo comoda. Ciò di cui un bambino ha veramente bisogno è il senso di riunione e intimità», sentenzia il dottor Brazelton, che consiglia pure di tenere in casa una grande sedia a dondolo dove poter stare a lungo abbracciati.
IL MESTIERE DI (FAR) CRESCERE Casa della Cultura, via Borgogna 3, lunedì ore 21, ingresso libero, per informazioni tel. 02.79.55.67
Così crescere è un gioco
«sono sempre gli altri ad essere infedeli»
La Stampa TuttoLibri 12.2.05
Sono sempre gli altri ad essere infedeli
I rapporti fra Cristianesimo e Islamismo sono sempre stati caratterizzati da ignoranza, incomprensione e disprezzo reciproco. Ciascuna delle due religioni ha costruito un'immagine aberrante dell'altra, con opposti stereotipi. Finora, gli esperimenti di convivenza sono risultati precari e di scarsa durata. Una storia secolare ricostruita in un saggio di Andrew Wheatcroft
Alessandro Barbero
IN un'epoca in cui appelli alla crociata e alla jihad sono risuonati nelle sedi più improbabili, dalla Casa Bianca alla moschea di Carmagnola, ripensare la lunga storia dei rapporti fra cristiani e musulmani è un esercizio salutare, anche se per nulla confortante. Andrew Wheatcroft è lontanissimo, dal punto di vista ideologico, dal famigerato professor Huntington, teorizzatore dello scontro di civiltà; ma la sua ricerca lascia pochi dubbi sul fatto che i rapporti fra le due religioni, le più formidabili dell'Occidente, sono sempre stati caratterizzati da ignoranza, incomprensione e disprezzo reciproco. Gli esperimenti di convivenza sono risultati, finora, precari e di scarsa durata, simili a quel breve periodo dopo la conquista araba di Damasco, nel VII secolo, in cui «metà della cattedrale di San Giovanni fu usata per il culto cristiano, e metà fu trasformata in moschea. Un sottile muro divisorio, frettolosamente eretto, divideva le due fedi». Spaziando dal Nord Africa altomedievale alla Spagna dei moriscos, dai Balcani ottomani all'Iraq di Saddam Hussein, Wheatcroft nel suo saggio Infedeli mostra come ciascuno dei due mondi, cristiano e musulmano, si sia costruito un'immagine distorta dell'altro, aggrappandosi ad essa con tragica ostinazione. Per entrambi l'infedele non è soltanto diverso, ma impuro, e la sua presenza contamina: perciò bisogna, a seconda delle situazioni, circoscriverlo, isolarlo, sterminarlo. A noi europei è familiare l'orrore dei musulmani osservanti per la carne di maiale; ci è già più difficile accettare che la croce, ingenuamente presentata dalla Chiesa cattolica come un simbolo d'amore universale, sia anch'essa ai loro occhi un oggetto impuro, uno strumento di tortura che gli eretici cristiani, nella loro follia, pretendono abbia suppliziato il corpo stesso di Dio. Ma anche dal punto di vista cristiano la presenza musulmana è stata percepita come impura e contaminante ovunque si sia mantenuta a lungo, in Spagna come nei Balcani. Non è un caso che proprio la ricca e civile Spagna dell'epoca d'oro abbia inventato quella pulizia etnica che più di recente ha straziato la penisola balcanica; la lunga guerra della monarchia castigliana contro i suoi sudditi di origine islamica, col suo triste corteo di deportazioni, pogrom ed esecuzioni di massa, si basava proprio sul terrore della contaminazione, come dimostra l'ossessione della limpieza de sangre che s'impiantò allora nella coscienza degli spagnoli. L'estrema crudeltà che caratterizza i conflitti armati fra cristiani e musulmani si spiega anch'essa con l'orrore dell'impurità, e con la necessità di purificarla fin nei corpi stessi dei nemici. Durante la prima crociata, i cavalieri tagliano le teste dei turchi per appenderle alle selle dei cavalli, e nei loro accampamenti si racconta con un brivido di piacere che i poveri e i delinquenti al seguito dell'esercito mangiano la carne dei musulmani uccisi; tutti questi comportamenti non sarebbero nemmeno concepibili in patria, ma qui la purificazione del paese strappato agli infedeli deve passare attraverso la profanazione dei loro corpi. In modo del tutto speculare i turchi, dopo aver conquistato nel 1571 la fortezza veneziana di Famagosta, sottoporranno il comandante della guarnigione, Marcantonio Bragadin, a un supplizio pubblico la cui calcolata atrocità serve a ribadire l'umiliazione del nemico e la distruzione dell'impurità da lui incarnata; un rituale che culmina quando la pelle di Bragadin, «imbottita di paglia ed elegantemente cucita come una enorme bambola», viene montata sul suo cavallo come un orrendo manichino e fatta sfilare per le vie della città. Nella parte conclusiva del libro, Wheatcroft mette a nudo i meccanismi di distorsione della realtà che hanno condotto ciascuna delle due religioni a costruire un'immagine aberrante dell'altra. In un'intervista, l'autore osserva che aver lavorato per molti anni nell'editoria lo ha reso sensibile alle strategie della comunicazione di massa; l'idea di partenza di Infedeli è appunto di verificare come un uso distorto della comunicazione, attraverso l'oralità, l'immagine e la stampa, abbia concorso alla creazione e alla diffusione degli opposti stereotipi, dal saraceno idolatra al turco massacratore, dal crociato avido e arrogante all'occidentale senza gelosia e dunque senza onore. Sotto questo aspetto emerge peraltro una differenza insospettata fra il mondo cristiano e quello islamico: in quest'ultimo, infatti, la formazione dell'opinione pubblica è sempre stata canalizzata in modo molto più esclusivo dall'oralità, con tutti i limiti che questo comporta. Non solo in età moderna, quando la stampa ha offerto all'Occidente cristiano un'arma che l'Islam, fors'anche per l'intrinseca difficoltà del suo alfabeto, ha troppo tardato ad assimilare; ma anche nel Medioevo, quando l'immenso ruolo che l'immagine aveva in Occidente come veicolo di comunicazione politica e religiosa risulta del tutto assente in un mondo musulmano che proprio per scrupolo religioso scoraggiava l'uso pubblico delle immagini. Wheatcroft aggiunge così una nuova risposta alla questione cruciale del perché, e quando, la società musulmana abbia cominciato a rimanere indietro rispetto a quella cristiana: non certo nella raffinatezza della sua arte o nella sottigliezza del suo pensiero, ma in articolazione dialettica e capacità innovativa. Resta il fatto che pur con mezzi diversi cristianesimo e Islam si sono squadrati l'un l'altro per millequattrocento anni come due persone che si guardano in faccia, secondo una straordinaria immagine di Bachtin: benché entrambi si scrutino con molta attenzione, nessuno dei due può vedere quello che vede l'altro. La scommessa per uscire da questo vicolo cieco è che ciascuno non si accontenti più di spiegare in perfetta buona fede ciò che intende quando parla, ad esempio, di crociata o di jihad, ma riesca a scorgere le risonanze sinistre che queste parole evocano nell'altro: un punto che sta particolarmente a cuore all'anglosassone Wheatcroft, sconvolto dalla leggerezza con cui l'occupante della Casa Bianca, da cristiano born-again, ricorre con i mass-media al vocabolario della crociata.
Sono sempre gli altri ad essere infedeli
I rapporti fra Cristianesimo e Islamismo sono sempre stati caratterizzati da ignoranza, incomprensione e disprezzo reciproco. Ciascuna delle due religioni ha costruito un'immagine aberrante dell'altra, con opposti stereotipi. Finora, gli esperimenti di convivenza sono risultati precari e di scarsa durata. Una storia secolare ricostruita in un saggio di Andrew Wheatcroft
Alessandro Barbero
IN un'epoca in cui appelli alla crociata e alla jihad sono risuonati nelle sedi più improbabili, dalla Casa Bianca alla moschea di Carmagnola, ripensare la lunga storia dei rapporti fra cristiani e musulmani è un esercizio salutare, anche se per nulla confortante. Andrew Wheatcroft è lontanissimo, dal punto di vista ideologico, dal famigerato professor Huntington, teorizzatore dello scontro di civiltà; ma la sua ricerca lascia pochi dubbi sul fatto che i rapporti fra le due religioni, le più formidabili dell'Occidente, sono sempre stati caratterizzati da ignoranza, incomprensione e disprezzo reciproco. Gli esperimenti di convivenza sono risultati, finora, precari e di scarsa durata, simili a quel breve periodo dopo la conquista araba di Damasco, nel VII secolo, in cui «metà della cattedrale di San Giovanni fu usata per il culto cristiano, e metà fu trasformata in moschea. Un sottile muro divisorio, frettolosamente eretto, divideva le due fedi». Spaziando dal Nord Africa altomedievale alla Spagna dei moriscos, dai Balcani ottomani all'Iraq di Saddam Hussein, Wheatcroft nel suo saggio Infedeli mostra come ciascuno dei due mondi, cristiano e musulmano, si sia costruito un'immagine distorta dell'altro, aggrappandosi ad essa con tragica ostinazione. Per entrambi l'infedele non è soltanto diverso, ma impuro, e la sua presenza contamina: perciò bisogna, a seconda delle situazioni, circoscriverlo, isolarlo, sterminarlo. A noi europei è familiare l'orrore dei musulmani osservanti per la carne di maiale; ci è già più difficile accettare che la croce, ingenuamente presentata dalla Chiesa cattolica come un simbolo d'amore universale, sia anch'essa ai loro occhi un oggetto impuro, uno strumento di tortura che gli eretici cristiani, nella loro follia, pretendono abbia suppliziato il corpo stesso di Dio. Ma anche dal punto di vista cristiano la presenza musulmana è stata percepita come impura e contaminante ovunque si sia mantenuta a lungo, in Spagna come nei Balcani. Non è un caso che proprio la ricca e civile Spagna dell'epoca d'oro abbia inventato quella pulizia etnica che più di recente ha straziato la penisola balcanica; la lunga guerra della monarchia castigliana contro i suoi sudditi di origine islamica, col suo triste corteo di deportazioni, pogrom ed esecuzioni di massa, si basava proprio sul terrore della contaminazione, come dimostra l'ossessione della limpieza de sangre che s'impiantò allora nella coscienza degli spagnoli. L'estrema crudeltà che caratterizza i conflitti armati fra cristiani e musulmani si spiega anch'essa con l'orrore dell'impurità, e con la necessità di purificarla fin nei corpi stessi dei nemici. Durante la prima crociata, i cavalieri tagliano le teste dei turchi per appenderle alle selle dei cavalli, e nei loro accampamenti si racconta con un brivido di piacere che i poveri e i delinquenti al seguito dell'esercito mangiano la carne dei musulmani uccisi; tutti questi comportamenti non sarebbero nemmeno concepibili in patria, ma qui la purificazione del paese strappato agli infedeli deve passare attraverso la profanazione dei loro corpi. In modo del tutto speculare i turchi, dopo aver conquistato nel 1571 la fortezza veneziana di Famagosta, sottoporranno il comandante della guarnigione, Marcantonio Bragadin, a un supplizio pubblico la cui calcolata atrocità serve a ribadire l'umiliazione del nemico e la distruzione dell'impurità da lui incarnata; un rituale che culmina quando la pelle di Bragadin, «imbottita di paglia ed elegantemente cucita come una enorme bambola», viene montata sul suo cavallo come un orrendo manichino e fatta sfilare per le vie della città. Nella parte conclusiva del libro, Wheatcroft mette a nudo i meccanismi di distorsione della realtà che hanno condotto ciascuna delle due religioni a costruire un'immagine aberrante dell'altra. In un'intervista, l'autore osserva che aver lavorato per molti anni nell'editoria lo ha reso sensibile alle strategie della comunicazione di massa; l'idea di partenza di Infedeli è appunto di verificare come un uso distorto della comunicazione, attraverso l'oralità, l'immagine e la stampa, abbia concorso alla creazione e alla diffusione degli opposti stereotipi, dal saraceno idolatra al turco massacratore, dal crociato avido e arrogante all'occidentale senza gelosia e dunque senza onore. Sotto questo aspetto emerge peraltro una differenza insospettata fra il mondo cristiano e quello islamico: in quest'ultimo, infatti, la formazione dell'opinione pubblica è sempre stata canalizzata in modo molto più esclusivo dall'oralità, con tutti i limiti che questo comporta. Non solo in età moderna, quando la stampa ha offerto all'Occidente cristiano un'arma che l'Islam, fors'anche per l'intrinseca difficoltà del suo alfabeto, ha troppo tardato ad assimilare; ma anche nel Medioevo, quando l'immenso ruolo che l'immagine aveva in Occidente come veicolo di comunicazione politica e religiosa risulta del tutto assente in un mondo musulmano che proprio per scrupolo religioso scoraggiava l'uso pubblico delle immagini. Wheatcroft aggiunge così una nuova risposta alla questione cruciale del perché, e quando, la società musulmana abbia cominciato a rimanere indietro rispetto a quella cristiana: non certo nella raffinatezza della sua arte o nella sottigliezza del suo pensiero, ma in articolazione dialettica e capacità innovativa. Resta il fatto che pur con mezzi diversi cristianesimo e Islam si sono squadrati l'un l'altro per millequattrocento anni come due persone che si guardano in faccia, secondo una straordinaria immagine di Bachtin: benché entrambi si scrutino con molta attenzione, nessuno dei due può vedere quello che vede l'altro. La scommessa per uscire da questo vicolo cieco è che ciascuno non si accontenti più di spiegare in perfetta buona fede ciò che intende quando parla, ad esempio, di crociata o di jihad, ma riesca a scorgere le risonanze sinistre che queste parole evocano nell'altro: un punto che sta particolarmente a cuore all'anglosassone Wheatcroft, sconvolto dalla leggerezza con cui l'occupante della Casa Bianca, da cristiano born-again, ricorre con i mass-media al vocabolario della crociata.
«il Kafka di Benjamin»
La Stampa TuttoLibri 12.2.05
Il Kafka di Benjamin tra vocazione mistica e angoscia moderna
Il sesto volume delle «Opere complete» del pensatore tedesco: tra gli altri scritti, un saggio pionieristico sullo scrittore praghese denso di intuizioni piuttosto esoteriche
Marco Vozza
ALCUNI anni fa, con il consueto caustico acume, Cesare Cases scriveva che «Benjamin va bene per tutti: per il pensiero negativo, per il marxismo antihegeliano e utopista, per l'estetica della ricezione, per quella che vuol trasformare il ricettore in produttore, per i ricamatori di elzeviri e i distillatori di aforismi, per i rivoluzionari molecolari a ruota libera nonché per la filosofia frichettona». Erano gli anni in cui il marxismo cercava di deporre il suo abito dogmatico e trovava nell'autore di Angelus Novus inesauribili suggestioni per una riformulazione messianico-rivoluzionaria della propria dottrina. Oggi quel fervore si è un po' stemperato ed è subentrata maggior sobrietà interpretativa insieme ad un minor afflato sovversivo. A questa secolarizzazione di Benjamin, alla parziale perdita della sua auraticità, contribuisce senza dubbio la pubblicazione presso Einaudi delle sue Opere complete, a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser (con qualche svista, omissione o incertezza di metodo). Pur muovendoci in questa fase più disincantata della sua ricezione, è doveroso comunque ribadire alcuni punti fermi: Walter Benjamin è una figura molto singolare nel panorama filosofico novecentesco, che nel procedimento saggistico ha raggiunto gli esiti più alti della sua speculazione. Ciò che caratterizza l'opera di Benjamin è l'ostinata attenzione per il particolare, il dettaglio, l'istantanea folgorante che illumina l'universale senza pretendere di catturarlo. La sua produzione è costituita per lo più da attività estranee a quelle canoniche della tradizione filosofica: la recensione, la cronaca, il radiodramma, la conversazione. l'immagine di città, la postilla apparentemente marginale ad un testo sottratto all'oblio della storiografia ufficiale. Forse il contributo più rilevante di Walter Benjamin al pensiero contemporaneo consiste nella rinnovata formulazione della questione relativa al rapporto fra immagine poetica e astrazione concettuale, al legame cioè fra arte e filosofia. Non a caso, nei suoi peregrinaggi attraverso il deserto del senso, Benjamin ha frequentato più la letteratura che non la filosofia: anche per questo, i suoi aforismi sono immagini del pensiero, costellazioni di figure che hanno dissodato il terreno della modernità e inciso profondamente sullo stile filosofico contemporaneo. In questo sesto, atteso volume delle sue opere (che comprende anche lo scritto celeberrimo sull'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica e quello mirabile sul narratore), la nostra attenzione è innanzitutto rivolta al grande saggio del 1934 dedicato a Kafka, frutto di un decennio di lavoro alacre e inquieto, cristallizzatosi in diversi progetti e molteplici appunti, per non parlare delle fondamentali osservazioni contenute nelle accuratissime lettere; in una di queste, inviata a Werner Kraft nel novembre del 1934, Benjamin affermava: «questo studio mi ha condotto a un crocevia delle mie idee e delle mie riflessioni, e proprio le ulteriori considerazioni a esso dedicate promettono di avere per me il valore che ha la consultazione di una bussola in un territorio senza strade». Il saggio di Benjamin è pionieristico perché pubblicato a soli dieci anni dalla morte di Kafka, prima dunque che si formasse la vulgata kafkiana, anche se era già nota l'interpretazione edificante che aveva proposto l'amico Max Brod, la cui esegesi teologico-lineare o ingenua è il più cospicuo bersaglio polemico dello stesso Benjamin; a questa va aggiunta in negativo l'interpretazione psicoanalitica. «Ci sono due modi di mancare totalmente gli scritti di Kafka» - esordisce polemicamente Benjamin, il quale diffida anche della lettura esistenzialista che richiama i nomi di Pascal e Kierkegaard: su quest'ultimo il filosofo berlinese prende un abbaglio poiché è agevole mostrare (l'aveva già intuito Adorno) come non soltanto la figura di Abramo sia al centro della riflessione religiosa dello scrittore praghese ma, ancor più radicalmente, l'intera problematica formulata in Aut-Aut nei termini del confronto tra una possibilità estetica e una etica di esistenza fornisca lo schema interpretativo del travagliato rapporto con la fidanzata Felice Bauer. Contrapponendosi a tali canoni di lettura, Benjamin rinuncia a elaborare una coerente griglia interpretativa e si limita a proporre alcune intuizioni (anch'esse piuttosto esoteriche) che vorrebbero illuminare l'oscuro testo kafkiano, del tipo: «Il mondo di Kafka è un teatro universale» oppure: «Il mondo del mito è infinitamente più giovane del mondo di Kafka» o ancora: «Il protagonista del Processo è l'oblìo». Benjamin cioè suggerisce una prospettiva esegetica che fa perno sul messianismo ebraico ma non giunge a completare una articolata ricostruzione critica. Sia detto per inciso, tale progetto di ricerca verrà portato a felice compimento negli anni '80 da due emeriti studiosi italiani, da Giuliano Baioni nel suo: Kafka. Letteratura ed ebraismo (Einaudi), per quanto riguarda l'aspetto storico-culturale, e da Massimo Cacciari nel suo: Icone della legge (Adelphi), sotto il profilo giuridico-filosofico. In quegli stessi anni, Brecht considerava Kafka uno scrittore profetico, quasi un antesignano del bolscevismo, prospettiva che risultava inaccettabile agli occhi di Benjamin, ma che finirà per influenzarlo quando nel 1938 presenterà una rinnovata versione del suo saggio sotto forma di lettera a Scholem, nella quale l'opera di Kafka appare come una ellisse, i cui punti focali sono determinati da un lato dalla vocazione mistica e dall'altra dall'esperienza del moderno uomo metropolitano; una malattia della tradizione, una angosciosa disgregazione dell'esistenza, rispetto alla quale il singolo («solo come Kafka») evade nel mondo complementare della scrittura.
Il Kafka di Benjamin tra vocazione mistica e angoscia moderna
Il sesto volume delle «Opere complete» del pensatore tedesco: tra gli altri scritti, un saggio pionieristico sullo scrittore praghese denso di intuizioni piuttosto esoteriche
Marco Vozza
ALCUNI anni fa, con il consueto caustico acume, Cesare Cases scriveva che «Benjamin va bene per tutti: per il pensiero negativo, per il marxismo antihegeliano e utopista, per l'estetica della ricezione, per quella che vuol trasformare il ricettore in produttore, per i ricamatori di elzeviri e i distillatori di aforismi, per i rivoluzionari molecolari a ruota libera nonché per la filosofia frichettona». Erano gli anni in cui il marxismo cercava di deporre il suo abito dogmatico e trovava nell'autore di Angelus Novus inesauribili suggestioni per una riformulazione messianico-rivoluzionaria della propria dottrina. Oggi quel fervore si è un po' stemperato ed è subentrata maggior sobrietà interpretativa insieme ad un minor afflato sovversivo. A questa secolarizzazione di Benjamin, alla parziale perdita della sua auraticità, contribuisce senza dubbio la pubblicazione presso Einaudi delle sue Opere complete, a cura di Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser (con qualche svista, omissione o incertezza di metodo). Pur muovendoci in questa fase più disincantata della sua ricezione, è doveroso comunque ribadire alcuni punti fermi: Walter Benjamin è una figura molto singolare nel panorama filosofico novecentesco, che nel procedimento saggistico ha raggiunto gli esiti più alti della sua speculazione. Ciò che caratterizza l'opera di Benjamin è l'ostinata attenzione per il particolare, il dettaglio, l'istantanea folgorante che illumina l'universale senza pretendere di catturarlo. La sua produzione è costituita per lo più da attività estranee a quelle canoniche della tradizione filosofica: la recensione, la cronaca, il radiodramma, la conversazione. l'immagine di città, la postilla apparentemente marginale ad un testo sottratto all'oblio della storiografia ufficiale. Forse il contributo più rilevante di Walter Benjamin al pensiero contemporaneo consiste nella rinnovata formulazione della questione relativa al rapporto fra immagine poetica e astrazione concettuale, al legame cioè fra arte e filosofia. Non a caso, nei suoi peregrinaggi attraverso il deserto del senso, Benjamin ha frequentato più la letteratura che non la filosofia: anche per questo, i suoi aforismi sono immagini del pensiero, costellazioni di figure che hanno dissodato il terreno della modernità e inciso profondamente sullo stile filosofico contemporaneo. In questo sesto, atteso volume delle sue opere (che comprende anche lo scritto celeberrimo sull'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica e quello mirabile sul narratore), la nostra attenzione è innanzitutto rivolta al grande saggio del 1934 dedicato a Kafka, frutto di un decennio di lavoro alacre e inquieto, cristallizzatosi in diversi progetti e molteplici appunti, per non parlare delle fondamentali osservazioni contenute nelle accuratissime lettere; in una di queste, inviata a Werner Kraft nel novembre del 1934, Benjamin affermava: «questo studio mi ha condotto a un crocevia delle mie idee e delle mie riflessioni, e proprio le ulteriori considerazioni a esso dedicate promettono di avere per me il valore che ha la consultazione di una bussola in un territorio senza strade». Il saggio di Benjamin è pionieristico perché pubblicato a soli dieci anni dalla morte di Kafka, prima dunque che si formasse la vulgata kafkiana, anche se era già nota l'interpretazione edificante che aveva proposto l'amico Max Brod, la cui esegesi teologico-lineare o ingenua è il più cospicuo bersaglio polemico dello stesso Benjamin; a questa va aggiunta in negativo l'interpretazione psicoanalitica. «Ci sono due modi di mancare totalmente gli scritti di Kafka» - esordisce polemicamente Benjamin, il quale diffida anche della lettura esistenzialista che richiama i nomi di Pascal e Kierkegaard: su quest'ultimo il filosofo berlinese prende un abbaglio poiché è agevole mostrare (l'aveva già intuito Adorno) come non soltanto la figura di Abramo sia al centro della riflessione religiosa dello scrittore praghese ma, ancor più radicalmente, l'intera problematica formulata in Aut-Aut nei termini del confronto tra una possibilità estetica e una etica di esistenza fornisca lo schema interpretativo del travagliato rapporto con la fidanzata Felice Bauer. Contrapponendosi a tali canoni di lettura, Benjamin rinuncia a elaborare una coerente griglia interpretativa e si limita a proporre alcune intuizioni (anch'esse piuttosto esoteriche) che vorrebbero illuminare l'oscuro testo kafkiano, del tipo: «Il mondo di Kafka è un teatro universale» oppure: «Il mondo del mito è infinitamente più giovane del mondo di Kafka» o ancora: «Il protagonista del Processo è l'oblìo». Benjamin cioè suggerisce una prospettiva esegetica che fa perno sul messianismo ebraico ma non giunge a completare una articolata ricostruzione critica. Sia detto per inciso, tale progetto di ricerca verrà portato a felice compimento negli anni '80 da due emeriti studiosi italiani, da Giuliano Baioni nel suo: Kafka. Letteratura ed ebraismo (Einaudi), per quanto riguarda l'aspetto storico-culturale, e da Massimo Cacciari nel suo: Icone della legge (Adelphi), sotto il profilo giuridico-filosofico. In quegli stessi anni, Brecht considerava Kafka uno scrittore profetico, quasi un antesignano del bolscevismo, prospettiva che risultava inaccettabile agli occhi di Benjamin, ma che finirà per influenzarlo quando nel 1938 presenterà una rinnovata versione del suo saggio sotto forma di lettera a Scholem, nella quale l'opera di Kafka appare come una ellisse, i cui punti focali sono determinati da un lato dalla vocazione mistica e dall'altra dall'esperienza del moderno uomo metropolitano; una malattia della tradizione, una angosciosa disgregazione dell'esistenza, rispetto alla quale il singolo («solo come Kafka») evade nel mondo complementare della scrittura.
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