giovedì 31 marzo 2005

il compleanno di Pietro Ingrao

La Stampa 31 Marzo 2005
OLTRE DUEMILA PERSONE IERI ALL’AUDITORIUM DI ROMA PER UNO DEI GRANDI PROTAGONISTI DELLA SINISTRA
Ingrao, festa per i 90 anni
e difesa della Costituzione

Riccardo Barenghi
Molta politica e poche lacrime. Un’ovazione per la sua critica alle riforme
«Stanno stracciando la nostra Carta. Mi indigno, dovevamo fare di più»
ROMA. DI fronte a più di duemila persone accorse all’Auditorium di Roma, la domanda era d’obbligo: «Ma perché oggi, nel 2005, siamo così in tanti a voler rendere omaggio a un comunista come Pietro Ingrao?».
La risposta, che Ingrao dà senza volerla dare, sta tutta nella sua capacità di parlare di politica, di attualità politica, anche quando si starebbe parlando d’altro, di storia, di biografie, di episodi del passato. Anche lui, ovviamente, parla del passato. Ricorda di come scoprì la differenza tra le classi – «noi padroni e loro i contadini» – di come la guerra di Spagna gli cambiò la vita «gettandomi a pedate nell’antifascismo, io che amavo il cinema, volevo fare il regista», la sua militanza nel Pci, i suoi errori come quello sulla rivolta ungherese, riparla di quando decise di non accettare un seconda volta la presidenza della Camera, di quando ancora rifiutò di ricandidarsi alle elezioni nel ‘92. E ancora, riflette sui limiti della politica, uno che alla politica ha dato anima e corpo per tutta la vita, sottolinea i suoi fallimenti, anzi il fallimento per lui decisivo, quello del comunismo, ragiona su quello che c’è oltre la politica stessa, ossia l’individuo, l’essere umano che la politica non basta a spiegare. Ma alla fine Ingrao si chiede: «Ma allora perché io a novant’anni mi iscrivo a Rifondazione comunista?». E si risponde: «Perché siamo a un punto in cui la politica è obbligata. Stanno stracciando la Costituzione. E qui io mi indigno e mi domando se ieri, l’altro ieri non dovevamo fare di più, uno scatto ancora più grande. Devo essere sincero con voi, ho paura che non sia colto l’evento, la soglia in cui siamo». Naturalmente è un’ovazione.
Ma Ingrao non ha finito. Ricomincia dalla filosofia, il discorso è serio e anche complicato, cos’è l’uomo, cos’è l’essere, «cos’è lui, chi sono io. L’essere appunto, è l’essere la grande domanda del nostro tempo. Ed è per questo che io sono spaventato quando guardo Berlusconi». Applausi, risate, Ingrao continua: «La mia paura è che mi venga tolta quest’idea dell’umano. Vi prego, non permettete che questo accada».
Scende commosso dal palco, prima di lui avevano parlato Luciana Castellina, che fu giovane dirigente della Fgci e del Pci prima di essere radiata col gruppo del «manifesto» (l’altro errore di cui Ingrao si è autocriticato). Castellina ricorda cosa fu l’ingraismo, prima di tutto un metodo di fare lotta politica, il diritto al dissenso, la critica all’Unione sovietica. Ricorda che per i cinquant’anni di Ingrao, nel ‘65, lei e Sandro Curzi (presente in sala) gli regalarono un paio di mocassini, «forse il primo che hai avuto». Con un bigliettino che diceva: «Cammina coi tempi, cammina con noi». Era un invito a rompere gli indugi, invito che Ingrao non seguì restando dentro quel partito fino a quando non fu il partito a lasciare lui.
A proposito, Gad Lerner, che conduce la serata, legge un messaggio affettuoso di Achille Occhetto che appunto a quel partito decise di cambiare nome e di farlo diventare un’altra cosa (cosa di cui oggi è segretario Piero Fassino, seduto in prima fila). E viene in mente che quando Occhetto annunciò la svolta, Ingrao si trovava in Spagna per partecipare ai funerali di Dolores Ibarruri, storica dirigente comunista. Occhetto telefonò a Ingrao e gli chiese gentilmente di non fare commenti fino a quando non fosse tornato e lui non avesse potuto spiegargli tutto. Ingrao atterrò a Fiumicino e trovò ad accoglierlo Alfredo Reichlin (anche lui ieri in prima fila), dirigente comunista da sempre, suo ex allievo, che gli spiegò le ragioni della svolta. Ma non riuscì a convincerlo, così come non c’erano riusciti nel gennaio del ‘66 l’allora segretario Luigi Longo e il suo gruppo dirigente. A quel congresso, famoso appunto per lo scontro tra Ingrao e Amendola (e ieri era strano vedere Ingrao sottobraccio a Giorgio Napolitano, che di Amendola ha ereditato tutto, anche il conflitto con Ingrao) e per una frase del leader della sinistra comunista, che così rompeva l’unanimismo, esprimeva pubblicamente il suo dissenso: «Non sarei sincero se dicessi che sono rimasto persuaso».
Non fu persuaso nemmeno da Occhetto, ma non lasciò il Pds così come non aveva lasciato il Pci. Non seguì quelli che avevano fatto con lui la battaglia contro la svolta nella neonata Rifondazione, restò «nel gorgo» come disse allora. Ma un paio d’anni dopo, decise di uscire da quel gorgo, senza entrare da altre parti o partiti. Il suo discorso di addio, il 14 maggio del 1993 alla scuola del partito delle Frattocchie, passò alla cronaca non solo per il fatto politico ma anche per le sue lacrime.
Ieri invece poche lacrime, anzi nel suo discorso nessuna. E neanche negli altri, a parte un momento di commozione di Ettore Scola. Di questo novantenne, sempre tanto amato dal popolo della sinistra quanto poco seguito sul piano politico, il poeta Gianni D’Elia ha letto qualche poesia (Ingrao ne ha scritte parecchie, raccolte in diversi libri), Scola ha ricordato episodi di vita comune, il sindaco Veltroni ha ripercorso tutte le tappe fondamentali della vita di Ingrao, dagli anni trenta a ieri. Facendo sue le parole usate da Vittorio Foa proprio su questo giornale: «Ingrao è un modello esemplare e il suo è un mondo pulito».
Il suo sì, ma quello in cui ha vissuto, politicamente parlando, tanto pulito non lo è stato. È lui stesso che lo riconosce e ormai da tempo immemorabile. Forse anche quando scrisse quel terribile editoriale sull’«Unità» a proposito dell’insurrezione ungherese, il 25 ottobre del 1956, editoriale che ieri compariva alla mostra sulla sua vita insieme all’autocritica che fece nel ‘91. Bene, in quell’editoriale in cui Ingrao si schierava senza mezzi termini «da una parte della barricata» (questo era il titolo) e la parte che sceglieva era il governo ungherese, insomma il sistema sovietico con tutte le sue repressioni e mostruosità. Anche tra quelle righe in cui gli insorti venivano definiti «controrivoluzionari» da sconfiggere con le armi, compariva una critica a quel sistema socialista. Ma non era il luogo né il momento di farla, lì bisognava che il sistema vincesse, ci si doveva schierare da una parte o dall’altra. I conti si sarebbero fatti dopo.
Non furono mai fatti sul serio e fino in fondo, e quel sistema crollò sul suo fallimento. Portandosi dietro anche le speranze di comunisti diversi.

L'Unità 31 Marzo 2005
Ieri all’Auditorium di Roma omaggio al grande dirigente comunista per i suoi novant’anni. Concerto, cinema, rievocazioni, e tanta gente comune e personalità ad applaudirlo
Ingrao, festa di compleanno per un compagno di tutti
Bruno Gravagnuolo

Una folla traboccante, commossa. E un parterre variegato. Di politici, compagni, amici, familiari, ammiratori, giovani, gente qualsiasi, e tutti con in testa una cosa semplice: avere un debito con Pietro Ingrao. L’aver imparato qualcosa da lui. Dal suo linguaggio, dalla sua politica, dal suo esempio. E al centro lui, Pietro Ingrao quasi dimesso, come l’omino di Charlot. Commosso ovviamente, ma meravigliato da tanto affetto debordante. Ecco di là delle tante belle parole dette, la serata di ieri in onore di Pietro Ingrao all’Auditorium di Roma è stata questo. Una grande manifestazione di affetto, punteggiata di riflessioni e memoria, di immagini e suoni, come quelli straordinari di Bach, Liszt e Scarlatti alla fine del tributo voluto dal Centro per la Riforma dello Sato, dal Comune e dalla Provincia. Bella la mostra, frutto della donazione di Ingrao di documenti e foto, con il famoso editoriale sui fatti di Ungheria, dolorosamente rinnegato tanti anni dopo dal grande dirigente comunista. Bella la galleria di ritratti «caravaggeschi» di Alberto Olivetti, effettuati nel 1984 a Lenola e dove campeggia un Ingrao chiaroscurale e solcato dal dubbio. Incisivo e vero il film di Alberto Sesti, dove Ingrao racconta di sé, della politica e del suo amare un cinema di immagini, più che di contenuti: alla Chaplin, Eisenstein, Keaton.
Il cinema dunque, che è poesia di immagini in movimento, incastro figurato di emozioni. Nient’altro che il tema dominante emerso in tutta la serata: il rapporto in Ingrao tra politico e impolitico. E tra politica ed emozioni. Quasi a fotografare l’istante in cui, in una vita scatta l’impulso imperioso e indicibile a scegliere un orizzonte, e a stare da una parte. A stare dentro «la misura e a rifiutarla», come dice lo stesso Ingrao in una lettera in risposta a Goffredo Bettini, che nel 1992 lo interrogava sulle ragioni del suo «fare», interrogando al contempo se stesso sulle ragioni di un fascino. Quello dell’«ingraismo», per dirla con una parola di maniera che Ingrao non ama, e che pure fu realtà che ha contato nella biografia di una generazione di comunisti: intellettuali e di popolo.
Ma riordiniamo gli appunti di una serata che vede Ingrao attorniato dai cronisti al suo ingresso all’Auditorium. Parlano Vincenzo Vita, Marialuisa Boccia. E anche Piero Fassino segretario dei Ds, e uomo della svolta Pds che Ingrao non accettò: «Lui rappresenta la storia della sinistra e d’Italia, ed è punto di riferimento per tutti. anche per chi non ne ha condiviso le idee. Esempio di rigore morale e di generosità, che ci ha insegnato tante cose. Un nostro orgoglio». Gad Lerner, nel presentare gli ospiti, cerca di decifrare l’influsso e «l’incidenza» del festeggiato: «Un compagno di noi tutti, proprio per la sobrietà della rinuncia di cui ha dato prova nel suo far politica. I l che significa un’altra idea della politica, la capacità di fermarsi sul limite, di interrogarsi e ricominciare daccapo. E poi la forza di non stare nelle definizioni». Luciana Castellina racconta del nesso «tra passione ingraiana per il Cinema, Hollywood, mito americano degli anni trenta e passione per la democrazia radicale». E del modo in cui quell’impasto incide sui giovani comunisti degli anni 60. Un filo di battaglia che parte da lontano, traversa gli anni del centrosinistra, si tende nello scontro dentro il Pci sul «modello di sviluppo e arriva oggi ai confini dei no-global, della non-violenza e della lotta per la pace». Gianni D’Elia, fa l’esegesi delle poesie di Ingrao e le riconnette all’Ermetismo, a Leopardi. Parla di Ingrao come di «Un Montale con l’assillo della vita altrui o di un Ungaretti che ha fatto la Resistenza». E lungo l’esegesi di D’Elia si scende di nuovo al cuore pulsante dell’agire di Ingrao. Al perché nel 1936 quel giovane ragazzotto di Lenola, che voleva fare cinema e poesia, sceglie la politica trascinato dai compagni, Alicata, Bufalini e gli altri. «Non per eticismo - spiega lo stesso Ingrao - ma per un bisogno tutto fisico e corporale di immedesimazione col destino e il dolore degli altri». Già, la rivolta, l’identificazione, lo stare assieme, lo stupore della bellezza, la passione del conoscere. Eccole le molle di Ingrao. Molle benefiche e anche foriere di errori, quando la spinta vitale, imbrigliata o potenziata dall’appartenenza, generò equivoci o atti di fede. È un pendolo emotivo che Ingrao stesso conosce bene, e che tante volte ha raccontato nel denunciare i suoi sbagli, come quello sull’Ungheria, quando chinò il capo dinanzi a Togliatti. Chiudono la serata Ettore Scola e Veltroni. In entrambi c’è una nota dominante a descrivere Ingrao: la passione per gli altri che riscatta la politica. La passione, e la ragione come passione, a bilanciarsi. Sempre e comunque contro «i cinici feudatari della modernità». Auguri Pietro. Avanti così.

Aprileonline.info 31.3.05
Pietro Ingrao, l'arte nobile della politica
Anniversari. Compie novant'anni il leader comunista che ha saputo unire in modo originale la tradizione del movimento operaio con le idee dei nuovi movimenti
ALDO GARZIA

Pietro Ingrao ha compiuto ieri novant'anni. Una bella manifestazione gli ha reso omaggio al Parco della musica di Roma, mentre oggi un incontro in suo onore si svolgerà alla Camera dei deputati di cui è stato presidente negli anni difficili dell'uccisione di Aldo Moro e dei governi di unità nazionale.
Ingrao è un protagonista indelebile della politica italiana. Con atto generoso, che avrebbe potuto risparmiarsi alla sua età, ha deciso proprio nelle scorse settimane di aderire a Rifondazione comunista in concomitanza con il congresso di quel partito.
E' una scelta in continuità con l'intero arco della sua vita, che lo ha visto simboleggiare l'anomalia di una sinistra comunista sempre collocata sulla frontiera delle novità e del rinnovamento del movimento operaio italiano e in perenne ascolto dei nuovi movimenti che dal 1968 in poi hanno fatto irruzione sulla scena.
Il fascino della personalità di Ingrao sta nella sua indomabile sete di conoscere, capire, approfondire, senza arrendersi mai a una visione accomodante e tecnicistica della politica. Resta un mistero il grumo di questo modo di fare e di pensare l'agire politico per un intellettuale di Lenola, profonda provincia italiana, che in gioventù aveva soprattutto la passione del cinema e della poesia (la poesia gli tornerà utile, e pubblicherà finalmente i suoi libri in versi, quando la scomparsa del Pci gli porrà il problema di usare un altro linguaggio – più complesso e meno certo di quello della politica – per capire il mondo nuovo seguito al crollo del Muro di Berlino). Lo stesso Ingrao ha più volte ricordato come siano stati proprio gli eventi tragici del Novecento a sospingerlo oltre l'intimismo intellettuale che avrebbe preferito: il fascismo, la guerra civile spagnola, la seconda guerra mondiale.
Quanto all'elaborazione più strettamente politica, il nome di Ingrao è legato all'analisi del capitalismo italiano, alla sollecitazione della democrazia partecipativa, allo studio sistematico del potere decentrato degli enti locali, alla riforma delle istituzioni e – in anni più recenti – alla crisi degli "Stati nazione" e all'affacciarsi dell'Europa politica come chance positiva ("Masse e potere", libro scritto in collaborazione con Romano Ledda, è testo fondamentale di quella stagione). Il Centro per la riforma dello Stato da lui presieduto prima e dopo l'incarico di presidente della Camera è stato fucina di discussioni, ricerche e formazione di nuove generazioni di studiosi. Con la forza delle idee, Ingrao ha cercato di lasciare un'impronta sulle discussioni più vitali degli ultimi quarant'anni della sinistra italiana.
Poi c'è l'Ingrao uomo di partito. Quello che ha diretto per dieci anni "l'Unità" e che poi nel 1966, all'XI Congresso del Pci (il primo dopo la morte di Palmiro Togliatti), pose il problema del pluralismo interno e della liceità del dissenso legandolo a un'altra lettura delle modernizzazioni capitalistiche che attraversavano l'Italia.
Nacque in quel contesto una generazione di "ingraiani", alcuni dei quali diedero vita a "il manifesto" e si separarono dall'antico maestro rimasto fedele al partito (il "gorgo", come dirà oltre trent'anni dopo). Una fedeltà ribadita, pur guidando il fronte del "no" alla svolta di Achille Occhetto, fino al 1993 quando uscì dal Pds con uno sparuto gruppo di collaboratori dando un giudizio molto netto sulla vocazione centrista che aveva ormai conquistato la Quercia.
Negli ultimi dieci anni Ingrao non ha mai smesso di pensare, scrivere, parlare, partecipare alle manifestazioni contro la guerra in Kosovo, Afghanistan e Iraq. E' sempre stato un punto di riferimento. In questo ultimo decennio si è anche ricongiunto con "il manifesto", partecipando prima all'esperienza del "Cerchio quadrato" (un inserto settimanale) e poi alla rivista mensile diretta da Lucio Magri.
Del resto, tra le sue autocritiche c'è sempre stata quella di aver contribuito nel 1969 alla radiazione dal Pci di Luigi Pintor, Rossana Rossanda, Aldo Natoli, Luciana Castellina, Valentino Parlato, Lucio Magri e tanti altri (un'altra autocritica è la mancata intuizione che l'invasione sovietica in Ungheria del 1956 già poneva il tema della crisi irreversibile del "socialismo reale").
In tanti hanno segnalato uno iato tra l'ingraismo come metodo, approccio, elaborazione, attenzione ai movimenti, al femminismo e all'ecologismo rispetto alle scelte dell'Ingrao politico, sempre in anticipo o in ritardo rispetto al che fare concreto, incapace di difendere i suoi collaboratori più vicini dalle mannaie della logica di partito quando nel Pci era in vigore il centralismo democratico.
C'è del vero in questa analisi, e Pietro Ingrao – con fare civettuolo – qualche volta ha ricordato che l'unico "ingraiano" in definitiva è lui stesso, perché sarebbe davvero troppo pensare che c'è un "ingraismo" come nucleo di pensiero e poi ci sono gli "ingraiani" che a quella riflessione fanno riferimento.
Facile ribattere che nessuno è esente da difetti. A chi si è speso, come Ingrao, in battaglie lunghe novant'anni gli si perdona tutto, proprio tutto. Ma è il metodo ingraiano, quello puntiglioso e perfezionista negli scritti e nelle interviste, mai banale nelle cose dette, che resta il punto di riferimento al di là delle contingenze delle fasi politiche.
C'è solo un dolore in queste giornate di festa. L'assenza di Laura Lombardo Radice Ingrao, compagna di una vita, che un libro curato da Chiara Ingrao ha di recente restituito in tutta la sua complessità. Ci sono però i figli Chiara, Renata, Guido, Bruna e Celeste, i nipoti e i pronipoti. Oltre agli "ingraiani" – ce ne sono ancora, caro Pietro – che ti vogliono bene.


Aprileonline.info 31.3.05
''Pietro Ingrao ha incarnato una parte essenziale dell’anima della sinistra italiana''
Anniversari. Parla Fabio Mussi, vicepresidente della Camera dei Deputati, coordinatore della Sinistra Ds, in occasione del 90° compleanno di Pietro Ingrao
Caterina Perniconi

On. Mussi, come hai conosciuto Pietro Ingrao?
Mi sono iscritto al Pci un po’ prima dell’11° congresso del partito, nel 1966, che fu un congresso di grande battaglia politica, quello in cui nacque ciò che più tardi venne chiamato ingraismo. Ingrao combatté in minoranza un congresso che affrontò questioni strategiche, come il rapporto tra il Pci e il governo centrato sull’alleanza tra Dc e Psi, il rapporto con i paesi socialisti, fino al tema delle alleanze sociali e di classe. Ma questa è una vicenda che ho ricostruito più tardi, perché ero ai primi passi di una militanza nel Pci. Mi capitò invece di incontrare più significamene Ingrao nel 1968 partecipando ai grandi movimenti studenteschi, che segnarono un tratto della storia d’Italia. Ingrao non fu l’unico interlocutore attivo con i movimenti del gruppo dirigente del Pci, penso per esempio al dialogo che riuscì ad aprire l’allora segretario Luigi Longo, ma non c’è dubbio che Ingrao fu tra gli interlocutori privilegiati per il modo in cui pose il tema del rapporto tra partito e movimenti.
Questa è una delle caratteristiche principali dell’ingraismo.
Lo è, e inoltre non è vero che Ingrao sia stato restio a porsi e a porre questioni che si direbbero più propriamente politiche e istituzionali. Fu infatti tra i primi a sollevare l’esigenza di una vera e propria fase costituente, cioè di un nuovo patto che ponesse su basi rinnovate la democrazia italiana. E non dimentichiamoci che fu tra i primi ad aprire un dialogo anche con settori della Dc.
Ma tu sei stato più berlingueriano che ingraiano.
Io ed altri fummo più berlingueriani che ingraiani, tuttavia Ingrao ha incarnato una parte essenziale dell’anima della sinistra italiana. Quella portata a guardare le cose dal basso, dal crogiolo di idee e valori che si muovono nella società.
Ed oggi l’ingraismo esiste ancora?
Esiste, ed è un modo di affrontare le questioni che è giusto che viva col passare delle generazioni.
Ma secondo te ha dei limiti?
Se devo indicare un limite lo trovo nel rapporto tra il pensiero e l’azione, in particolare sul tema della decisione. Com’è noto, decidere significa letteralmente tagliare, e quando si decide obbligatoriamente si amputa una parte dell’informazione. Ed il rapporto con le cose d’Ingrao, tutto volto a “scavarle” - termine che a lui caro -, a guardarle da diverse angolazioni, a cercare nella complessità un’interpretazione compiuta, capita che porti qualche volta a rallentare la decisione, cioè a tagliare in una direzione o in un’altra. È un limite che al tempo stesso è un lato suggestivo della sua personalità.
Alla vigilia dell’ultimo congresso di Rifondazione, Ingrao ha aderito al partito di Bertinotti. Come giudichi questa collocazione politica?
Ingrao ha fatto una libera scelta che merita assoluto rispetto. Tuttavia resta un riferimento per tutta la sinistra. E a 90 anni è una delle personalità eminenti della Repubblica e della democrazia.
La contrarietà, potremmo dire repulsione, alla guerra che ha caratterizzato tutta la vita di Ingrao, potrebbe essere stata la discriminante nella scelta di aderire a Rifondazione in un momento così delicato per la politica mondiale?
Ingrao appartiene ad una generazione che ha vissuto la guerra, e che ha dovuto prender partito in numerosi conflitti, qualche volta giustamente, come nel caso della guerra in Vietnam, qualche volta sbagliando, com’egli stesso ha riconosciuto, nel caso dell’invasione dell’Ungheria. Ma Ingrao è venuto via via radicalizzando, anche attraverso una lettura forte dell’articolo 11 della Costituzione, l’opposizione alla guerra. Credo che questa possa essere una delle cause della sua scelta che, naturalmente, ha una radice nella contrarietà alla svolta di Occhetto dell’89, che io insieme ad altri - che oggi come me condividono la radicalità del discorso sulla guerra - allora condividemmo. E che a distanza di 15 anni, non m’impedisce di vederne i limiti.

il manifesto 31.3.05
Carrellate di una scelta di vita
I materiali dell'«archivio Ingrao» in mostra all'Auditorium di Roma
Diario politico Foto, libri, appunti, lettere esposti fino a domenica. E il «Centro riforma dello stato» annuncia l'acquisizione dell'Archivio Ingrao
ROBERTO CICCARELLI

«La scelta della politica fermò il mio ardore poetico ma fu una scelta necessaria». Pietro Ingrao si racconta davanti alla foto segnaletica trasmessa dal Ministero degli Interni alla «Questura littoria» di Napoli, esposta nella mostra «Pietro Ingrao: una storia italiana» nella sala «risonanze» dell'auditorium di Roma fino a domenica prossima. «La tempesta inaudita che di lì a poco ci avrebbe colpito non l'avevamo ancora intuita. Furono persone come Antonio Amendola che ci fecero capire ciò che noi giovani non avevamo ancora chiaro». Era da poco entrato in clandestinità e viaggiava tra Milano e la Calabria. Il 2 gennaio del 1943 si trovava nella provincia di Napoli «per programmazione film et cortometraggio». Il cinema, scoperto al Centro sperimentale di cinematografia dove frequentò il corso di regia, e poi la poesia italiana (Montale, Saba e Ungaretti) e quella francese (Baudelaire, Rimbaud e Mallarmé) conosciuta al liceo, a Formia, dove incontrò due professori antifascisti, poi assassinati alla Fosse Ardeatine: Pilo Albertelli e Gioacchino Gesmundo: «Con quest'ultimo il discorso politico antifascista divenne esplicito. Era un allievo di Giuseppe Lombardo Radice, ci parlava di Marx e Bakunin e Tocqueville».
Dopo la resistenza in cui «combattemmo in quegli anni `40 decisivi per il mondo», Ingrao divenne direttore dell'Unità. Nella mostra c'è anche il pannello dell'editoriale «Da una parte della barricata a difesa del socialismo» che scrisse il 25 ottobre 1956 in occasione dei fatti d'Ungheria. «L'analisi era falsa - si legge nel pannello successivo in un brano tratto dal suo volume del 1991 Le cose impossibili - perché tagliava con l'accetta una vicenda molto articolata [...]. L'errore politico fu serio anche con conseguenze immediate nella vita italiana. Facilitò il distacco del Psi». Scorrono i momenti fondamentali della vita di Ingrao: una bella fotografia di Lucio Magri, Rossana Rossanda e Luigi Pintor del 1969, la presidenza della Camera (1976-1979), l'addio al partito del Pds nel 1991, le battaglie contro le nuove guerre con la pubblicazione dell'ultimo libro del 2003 La guerra sospesa. I nuovi connubi tra politica e armi (Dedalo). «Mi dispiace che la guerra ora stia tornando, noi speravamo che quella contro il nazifascismo fosse stata davvero l'ultima» ha aggiunto Ingrao.
Tra gli appunti vergati a mano su fogli improvvisati e le pagine dei suoi saggi e dei suoi libri di poesia, tra i quali «L'alta febbre del fare» (1994) e «Sul calar della sera» (2000), squadernati sotto le teche della mostra, affiora la biografia, e la coscienza critica, di uno degli intellettuali che hanno fatto la storia del comunismo italiano tra politica, cinema, poesia e giornalismo. La mostra all'auditorium romano è stata organizzata dal Centro per la Riforma dello Stato (Crs), di cui Ingrao è stato a lungo presidente, con il sostegno dell'Archivio centrale dello Stato, dell'archivio dell'Unità e dell'archivio audiovisivo del Movimento operaio e democratico. Le carte, i documenti e le fotografie presentati sono solo alcuni dei documenti dell'«Archivio Ingrao» che costituirà, insieme a quelli ancora da sistemare e catalogare, una parte fondamentale della nuova «Fondazione del Crs»: «E' l'annuncio che vogliamo dare in occasione dei festeggiamenti per i suoi novant'anni», ha detto Mario Tronti, presidente del Crs.
Promosso da un comitato scientifico che vede la partecipazione di Maria Luisa Boccia, Umberto Coldagelli, Giuseppe Cotturri, Alberto Olivetti, Alessandro Portelli, Gianpasquale Santomassimo, Ansano Giannarelli, e coordinato da Giovanni Cerchia, l'«archivio Ingrao» ha ricevuto un contributo dalla Provincia di Roma. «Il materiale qui esposto ha un valore smisurato - ha detto Vincenzo Vita, assessore alle politiche culturali della Provincia, intervendo alla presentazione della mostra insieme a Giorgio Napolitano, il presidente dell'Auditorium, Goffredo Bettini e il segretario dei Ds Piero Fassino -. Per la Provincia essere a fianco di Ingrao in questo giorno particolare rappresenta un momento emozionante». «Questo archivio vogliamo metterlo a disposizione non solo degli studiosi, ma dell'intera cittadinanza - ha aggiunto Maria Luisa Boccia - perché le intuizioni di Ingrao costituiscono un patrimonio per l'intera sinistra».

AGI.online
90*INGRAO:CASINI, È STATO IL CAMPIONE DLLA CENTRALITÀ DEL PARLAMENTO

(AGI) - Roma, 31 mar. - "Nell'esperienza di presidente della Camera, seguita a quella di presidente del gruppo comunista, Pietro Ingrao ha portato tutto se stesso. Vi ha portato, innanzitutto, la sua visione intransigente della centralita' del Parlamento, radicata nel primato della sovranita' popolare: la 'via maestra' indicata dalla Costituzione, come egli ebbe a ricordare nel suo discorso di insediamento".
E' proprio il presidente Casini a prendere la parola per primo nella sala della Lupa alla Camera, alla presenza del presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, per festeggiare i novantanni di Pietro Ingrao. Tra gli ospiti Giuliano Amato, Massimo D'Alema, Piero Fassino, Stefano Rodota', Arnaldo Forlani, il presidente della Corte Costituzionale Piero Alberto Capotosti, Valentino Parlato, Fausto Bertinotti, Giorgio Napolitano, Emilio Colombo e Carlo Scognamiglio. Ed e' proprio il ricordo, in particolare,dell'Ingrao presidente della Camera, che gli consente di sviluppare le sue idee sulla centralita' del Parlamento.
"Fu il periodo - spiega Casini - in cui l'idea della centralita' del Parlamento assunse sostanza e spessore, attraverso la custodia attenta della prerogativa parlamentare nel quadro dell'equilibrio tracciato dalla Carta Costituzionale". "Si inauguro' - rileva ancora il presidente della Camera - una stagione innovativa, alimentata da una consapevolezza che e' stata da allora acquista al patrimonio della vita delle nostra istitituzione: un Parlamento che voglia realmente svolgere un ruolo generale deve essere in grado di conoscere e di governare immediatamente nella realta' che lo circonda di confrontarsi in modo continuo e trasparente con tutti i protagonisti di questi mutamenti.
"Sappiamo - afferma Casini - che gli eventi politici ed istituzionali degli ultimi anni hanno rinnovato la riflessione sull'idea della centralitia' del Parlamento, che ha oggi assunto un significato diverso da quello originario. Resta, tuttavia, integra l'intuizione di Ingrao che non ha mai rinunciato a vedere nel Parlamento il luogo della sintesi politica piu' alta della comunita' nazionale: il passagio obbligato per dare sostanza democratica alle opinioni, alle idee e alle proposte volte ad orientare il futuro del Paese".
(AGI) Lam/Aug 311251 MAR 05 -

brevi dal web

corriere.it 31 marzo 2005-03-31
Le rivelazioni della scienza e le speranze di curare i diversi disturbi
Insonni, mattinieri, nottambuli
La colpa si nasconde nei geni

Una scoperta apre la strada a nuovi farmaci biotech

Troppo mattinieri? Colpa dei geni, anzi, di uno in particolare, che un gruppo di ricercatori americani ha appena individuato, descrivendolo sulle pagine della rivista Nature. Collocato sul cromosoma 17, rende alcune persone incapaci di resistere al sonno già alle sette di sera, subito dopo cena, e le sveglia in piena notte, alle due o alle tre, già pronte per incominciare la giornata. Ma non ci sono vantaggi per queste «allodole estremiste»: la loro è una condizione che spesso non è compatibile con una vita normale, li lascia spossati per l’intera giornata e li espone a un maggior rischio di incidenti.
«Stiamo parlando di una malattia vera e propria — commenta Mario Giovanni Terzano, direttore del centro di medicina del sonno all’Università di Parma — e di un campo dove le ricerche genetiche sono molto attive. Altri seri disturbi del sonno, come la narcolessia che provoca un desiderio incontrollabile di dormire o la sindrome delle gambe senza riposo, caratterizzata da crampi che impediscono a una persona di stare a letto, riconoscono una base genetica».
L’ultima scoperta spiega un disturbo che gli esperti chiamano sindrome familiare della fase del sonno anticipata, in sigla Fasps, una condizione che colpisce lo 0,3 per cento della popolazione umana. I ricercatori dell’Università della California a San Francisco, guidati da Ying-Hui Fu, hanno dapprima identificato nuclei familiari che da almeno tre generazioni presentavano, in alcuni componenti, la malattia. Poi sono andati a caccia del gene alterato. Lo hanno trovato: il gene difettoso codifica per una proteina, chiamata casein- chinasi I delta, che sembrerebbe giocare un ruolo critico nel regolare l’orologio biologico di ognuno di noi.
Non contenti della scoperta hanno voluto verificarla sugli animali: hanno sostituito, nei topolini, il gene sano con quello difettoso e hanno subito notato che gli animali non riuscivano a resistere al sonno serale, proprio come gli umani malati.
«Anche per i nottambuli estremi, per coloro cioè che non riescono a coricarsi se non di primissimo mattino e si svegliano molto tardi — aggiunge Terzano — sono state trovate alcune alterazioni nel loro Dna. Ma ancora una volta parliamo di disturbi veri e propri. Che proprio per questo vengono attentamente analizzati dai genetisti. E’ però probabile che anche il comportamento delle cosiddette allodole, cioè di coloro che tendono a coricarsi presto, verso le nove, dieci di sera e si svegliano di buon mattino, o dei gufi che, invece, preferiscono le ore piccole, sia in qualchemodo condizionato geneticamente ».
E l’insonnia allora? Quella che affligge almeno tre americani su quattro, secondo l’ultima indagine della National Sleep Foundation, e almeno un italiano su cinque secondo i dati presentati dall’Associazione italiana di medicina del sonno durante l’ultima giornata internazionale del dormire sano del marzo scorso? «Se è vero che l’orologio biologico è controllato dai geni — commenta Terzano — è altrettanto vero che esistono molti fattori ambientali che interferiscono con un buon riposo. Come lo stress, per esempio. O l’ansia. O la depressione».
Spesso alcuni semplici accorgimenti possono aiutare a riposare meglio, come evitare pasti abbondanti di sera, mantenere gli stessi orari del sonno, stare in un ambiente tranquillo prima di coricarsi. E, quando è necessario, ricorrere ai farmaci (ne stanno arrivando di nuovi sul mercato) e anche a psicoterapie.Male nuove ricerche genetiche fanno sperare in cure molto più mirate, capaci per esempio di contrastare gli effetti dell’alterazione genetica, e di aiutare così a ristabilire i normali ritmi circadiani di sonno-veglia, alterati negli insonni cronici e anche in coloro che soffrono di sindrome da jet lag, tipica di chi viaggia in aereo attraverso molti fusi orari, o di chi alterna il lavoro notturno con quello diurno.

ilmanifesto.it 30 marzo 2005
Sotto il velo sensuale della santità
Prendendo spunto dalla scultura di santa Cecilia di Stefano Maderno, lo storico dell'arte Georges Didi-Huberman analizza in «Ninfa moderna» la grazia fluida e pagana del panneggio
MARCO DOTTI

Stando a quanto riporta la Leggenda aurea di Jacopo da Varazze, santa Cecilia morì esangue, dopo una tremenda agonia. Condannata in ragione della propria fede, il boia la ferì per ben tre volte senza riuscire, con i suoi cruenti colpi d'ascia, a staccarle la testa dal collo. Poiché era fatto divieto a chiunque di accanirsi una quarta volta sul corpo di un condannato, la giovane donna venne abbandonata al proprio destino. Si racconta che, immobile e in estasi, per tre giorni e tre notti abbia dispensato conforto e invocato protezione non per sé, ma per tutti coloro che, convertiti al culto di Cristo, si approssimavano a una fine non meno atroce. Ad alcuni secoli di distanza, precisamente il 20 ottobre del 1599, nell'imminenza del Giubileo proclamato da Clemente VIII, le spoglie della santa furono scoperte in una cripta, nascoste dentro una piccola cassa di cipresso nero. Le cronache raccontano che Cecilia venne trovata «adagiata sul lato destro, le ginocchia appena ripiegate», con «una stoffa leggera di seta verde, rigata di rosso scuro, che avvolgeva interamente il suo corpo disegnandone esattamente le linee». Le sue membra si mostravano «perfettamente integre», la sua carne intatta, screziata solamente da una lieve rigatura di sangue rappreso, che traspariva da sotto il velo. In una cappella buia della basilica trasteverina che porta il suo nome, un simulacro di marmo - realizzato, in occasione del ritrovamento, da Stefano Maderno - ha conservato memoria della postura «impossibile» in cui il corpo di santa Cecilia pare sia stato rinvenuto. La scultura di Maderno, osserva Georges Didi-Huberman nel suo breve, intenso saggio Ninfa moderna. Saggio sul panneggio caduto (traduzione di Aurelio Pino, Il Saggiatore, 2004, pp. 158, euro 19), sembra volere fissare una «durata improbabile», con la santa immobile ma ancora intenta a sussurrare parole di fede, mentre i muscoli del collo cominciavano a sfibrarsi, una goccia di sangue bianco stillava dalla ferita e la testa iniziava a reclinare, mossa dallo spasimo, in una torsione innaturale. Stesa come una bestia abbattuta su un tavolaccio di marmo, nella scultura di Maderno Cecilia espone il proprio collo tagliato alla disponibilità e allo sguardo del devoto, proprio come, secoli prima, lo aveva offerto serena alla lama del carnefice. È proprio quest'organo straziato, difatti, che induce alla contemplazione, più che se il viso della santa, come nota ancora Didi-Huberman, «fosse atteggiato a una mimica estatica». Infatti, dalla figura di Maderno promana un sentimento di «totale abbandono», accentuato dall'assenza del volto e dalla presenza di un panneggio che - sostituto di un ben più macabro flusso - ricopre fin sopra il capo il corpo esile della martire. La postura della statua è, comunque, sconcertante per almeno due ordini di ragioni. In primo luogo, proprio perché costringe l'osservatore a collocarsi non davanti alla figura intera, ma di fronte al «tratto organico del suo sacrificio». In secondo luogo perché, a dispetto delle ricorrenze archeologiche e delle attestazioni dei cronisti, a una attenta disamina essa si mostra frutto di una sostanziale invenzione di Maderno. Negli anni della Controriforma, in un clima di generale recupero del «periodo eroico» delle catacombe, mentre l'intero sottosuolo di Roma si apprestava a diventare terreno di scavo per ogni sorta di speleologia cristiana a fini devozionali, il ritrovamento dei resti e il particolare agiografico della postura divennero un vero e proprio «avvenimento pubblico», innescando, a loro volta, un inevitabile «derivato spettacolare» che prenderà corpo proprio nel simulacro di Maderno. Un «derivato spettacolare», quello dello scultore ticinese, da intendersi nei termini di una «invenzione propriamente artistica» capace di prolungare il miracolo di un corpo glorioso, e intatto, «nel prodigio della sua rappresentazione». La postura, la testa, il velo, la cicatrice sul collo, le mani giunte in preghiera, tutto deriverebbe, quindi, «da una composizione raffinata, non dall'osservazione di un cadavere che da quattordici secoli si decompone nella sua bara». Ma ciò che Maderno non ha del tutto inventato, rispettando in tal modo «il referente archeologico, ossia la reliquia», è la «connivenza fondamentale tra l'invenzione del corpo santo, nel 1599, e il paradosso visivo proposto dal mucchio di veli o di stracci scoperto dalle autorità ecclesiastiche». La scultura trae infatti la sua forza e la sua bellezza non tanto dalla capacità di Maderno di «modellare la visione fuggevole» della santa, quanto dalla sua indubbia maestria nel «trasformare il mucchio informe di panni ... in opera scultorea, solida, durevole; un'opera della visibilità in ritirata, anziché fuggevole». In quella che, a prima vista, potrebbe apparire come l'«antimenade» per eccellenza, concepita quasi per annullare ogni residuo di paganesimo greco-romano, Didi-Huberman invita dunque a rintracciare sopravvivenze di un modello antico e, in ultima istanza, a scoprirvi un «rifugio cristiano di ninfa».
«Ninfa», a cui alludono titolo e impostazione del lavoro, è l'eroina impersonale - indagata nel solco delle ricerche e delle non meno straordinarie intuizioni di Aby Warburg - della sopravvivenza storica delle immagini. Grazie alla evidenza del panneggio che la ricopre, la Santa Cecilia di Maderno sembra rivelare tratti di una sensualità così leggera da rivelarsi propria di «una ninfa dell'Antichità», o del suo immediato sostituto: «un panno spiegazzato e gettato a terra, che da solo riassume tutti i disordini del desiderio». Proprio il «panneggio» dotato, nella prospettiva di Warburg, di autonomia visiva e di vita propria, riveste qui il ruolo di un «utensile patetico», ed è indagando la sua inarrestabile caduta che Didi-Huberman individua i residui della sopravvivenza impura di un'immagine - la ninfa danzante e il suo panneggio, appunto - segnata da una «inarrestabile caduta» verso il suolo.
Una sorta di grazia «fluida», quella della Ninfa declinante, che ritorna anche in un altro recentissimo lavoro dello storico dell'arte, Gestes d'air et de pierre. Corps, parole, souffle, image (Éditions du Minuit, 2005, pp. 89, euro 9). Si tratta, in questo caso, di un dialogo in absentia con l'opera dello psicoanalista Pierre Fédida, e con le sue indagini sull' «ascolto visivo» e sullo statuto della materia «fluida, eterea e ondeggiante» delle immagini. In entrambi i casi, Didi-Huberman invita a soffermare lo sguardo sulle persistenze e sopravvivenze di Ninfa nei luoghi più impensati, dalle vergini del Ghirlandaio, alle veneri di Botticelli e Tiziano, dagli stracci di Germaine Krull, fino alle pieghe delle sculture involontarie di Brassaï o al drappo insanguinato ritratto, nel 1928, in un'anonima stanza d'albergo, dove l'antica «creatura della sopravvivenza», avvezza alle trasmigrazioni, «rallenta il passo e termina a terra», trovando così rifugio fra «i resti, nelle pieghe e nelle tracce della propria decadenza»; ma anche nel rifiuto, nella tela straziata, nello miseria dello spettacolo urbano, e nel luminoso degrado della sua inarrestabile prostituzione.

eutanasia

ANSA.IT 15.25 31.3.05
Eutanasia: sondaggio, quasi metà italiani a favore
Il 49,6% dice sì alla "dolce morte"

(ANSA) - ROMA, 31 MAR - Si dichiara favorevole all'eutanasia quasi la metà degli italiani e di questi il 76% troverebbero il coraggio di farlo in prima persona. È il risultato del sondaggio di Donna Moderna, ma il 50,6% difende la vita a tutti i costi.«Non mi stupisco che un parente chieda di avere voce in capitolo in un simile dramma», sostiene il filosofo Massimo Cacciari, «ma prima della sua volontà c'è quella del malato. Sono necessarie norme che consentano di dichiarare, preventivamente, la propria scelta».

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EINSTEIN

L'Unità 31 Marzo 2005
EINSTEIN, IL PACIFISTA
Pietro Greco
«Nella tragica situazione che oggi affronta l’umanità, noi riteniamo che gli scienziati dovrebbero riunirsi in un congresso per valutare i pericoli che sono sorti come conseguenza dello sviluppo delle armi di distruzione di massa e per discutere una risoluzione nello spirito della seguente bozza di documento.
Non stiamo parlando, in questa occasione, come membri di questa o quella nazione o continente o fede religiosa, ma come esseri umani, membri della specie umana, la cui sopravvivenza è ora messa a rischio.
(…) Facciamo un appello come esseri umani ad altri esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticatevi del resto. Se riuscirete a farlo si aprirà la strada verso un nuovo Paradiso; se non ci riuscirete, si spalancherà dinanzi a voi il rischio di un’estinzione totale».
Princeton, New Jersey, Usa: 11 aprile 1955. Cinquant’anni fa, una settimana prima di morire, Albert Einstein appone la sua firma a una bozza di documento propostagli dal filosofo e logico inglese Bertrand Russell. Il documento, firmato da altri nove scienziati diventerà pubblico il 9 luglio di quell’anno, quando il filosofo inglese ne darà pubblica lettura a Londra. Da allora diventerà noto come il «Manifesto Russell-Einstein». E sarà eletto a manifesto del movimento per la pace da tutti coloro che, nel mondo, non si sentono «membri di questa o quella nazione o continente o fede religiosa», ma si sentono semplicemente «esseri umani, membri della specie umana», la cui sopravvivenza continua a essere messa a rischio.
Un testamento politico
Il manifesto è, giustamente, considerato il testamento politico di Albert Einstein. Lo scienziato di cui festeggiamo quest’anno il centenario dell’annus mirabilis. Il fisico considerato da alcuni il più grande di ogni tempo. L’uomo eletto dalla rivista Time a personaggio più rappresentativo del XX secolo. Il mito inossidabile che è diventato l’icona stessa della scienza.
Conviene riflettere su quel testamento politico di cui ricorre il cinquantenario. Per due motivi. La sua straordinaria attualità. E la inequivocabile falsificazione di quel luogo comune, duro a morire, che vuole il più grande fisico di ogni tempo, il personaggio più rappresentativo del XX secolo, il mito inossidabile, insomma Albert Einstein, un politico ingenuo e, quindi, un pacifista candido.
La tesi dello scienziato che cammina sulle nuvole, fatta propria anche da qualche storico come Charles-Noël Martin, non è fondata. Perché Einstein, al contrario, è stato un politico spesso radicale, ma sempre molto lucido (le due cose non sono affatto in contraddizione). Ed è stato un pacifista militante, ma sempre in grado di modulare l’intensità del suo pacifismo o, se si vuole, la qualità delle sue richieste sulla base di una puntuale analisi del contesto.
Basta scorrere la sua storia per rendersene conto. Molti biografi di Einstein, a partire dal suo amico Abraham Pais, fanno nascere il pacifismo del fisico tedesco nell’insofferenza, manifestata fin dalla fanciullezza e poi nell’adolescenza, per ogni forma di autoritarismo e di militarismo. Per questo definiranno «istintivo» il suo pacifismo.
Ma non è affatto istintiva, almeno non nei contenuti, la prima sortita pubblica del pacifista Einstein, avvenuta nel 1914. Pochi mesi dopo essere giunto a Berlino e pochi giorni dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale. Il giovane, appena trentacinquenne, sconosciuto alle masse e ammesso nel gotha della fisica prussiana su suggerimento di Max Planck e per volontà del Kaiser Guglielmo, non esita a firmare un manifesto - il suo primo manifesto - contro il militarismo prussiano, sfidando le ire della polizia. Ma non c’è solo coraggio, in quel gesto. C’è anche lungimiranza. Nel documento, redatto insieme al biologo Georg Nicolai, Einstein coglie un carattere nuovo della guerra moderna: la distruzione del tessuto culturale e un regresso della civiltà: «Mai prima una guerra aveva distrutto completamente la cooperazione culturale. Ciò avviene nel momento in cui il progresso della tecnologia e delle comunicazioni suggerisce con chiarezza di riconoscere la necessità che le relazioni internazionali si muovano verso l’universale, diffusa civilizzazione».
Ma Einstein e Nicolai suggeriscono anche una via d’uscita dalla barbarie della guerra moderna che infiamma il Vecchio Continente: «Noi dichiariamo qui pubblicamente la nostra fede nell’unità europea: una fede che noi crediamo condivisa da molti. Noi speriamo che questa affermazione pubblica della nostra fede possa contribuire alla crescita di un potente movimento verso questa unità. Il primo passo in questa direzione è l’unione delle forze di tutti coloro che hanno sinceramente a cuore la cultura dell’Europa». E concludono: «Noi cerchiamo di effettuare il primo passo, per raccogliere la sfida. Se la pensate come noi, se siete anche determinati a creare un vasto movimento per l’unità Europea, vi offriamo di impegnarvi solennemente con la vostra firma».
In piena guerra, trent’anni prima di Altiero Spinelli, due scienziati sconosciuti ai più, Albert Einstein e Georg Nicolai, si rivolgono a tutti i cittadini del Vecchio Continente chiedendo loro di superare gli steccati del nazionalismo e di impegnarsi per l’unità dell’Europa. Quale antidoto alla guerra e percorso virtuoso verso l’universale, diffusa civilizzazione.
Il «Manifesto agli Europei» non otterrà un grande successo. Ma non per questo Einstein diminuirà il suo impegno. Anzi per molti versi lo accentua. E quando, a partire dal 1919, anno in cui viene «provata» la sua teoria della relatività generale, diventerà famoso in tutto il mondo e capace di emozionare grandi masse, da Parigi a Tokio, spenderà tutta la sua fama per la causa pacifista. «Non dimentichi di dire che sono un pacifista convinto, che crede che il mondo ne abbia abbastanza della guerra», si raccomanda a un giornalista che lo ha appena intervistato.
La militanza per la pace di Einstein è senza tentennamenti. Si alimenta di buone letture (Kant, Russell) e di buoni contatti (Romain Rolland, il presidente americano Wilson, il filosofo Henri Bergson, Sigmund Freud). Si inserisce appieno nel filone pacifista del razionalismo europeo. E muove lungo due strade maestre: l’internazionalismo, con la richiesta più volte espressa di un governo democratico del mondo; l’antimilitarismo, con la richiesta più volte espressa del disarmo unilaterale delle nazioni. E così vediamo Einstein partecipare al progetto della Società delle Nazioni e, nel contempo, chiedere ai giovani di rifiutare, in ciascun paese, di prestare il servizio militare. È questa la fase che è stata definita di pacifismo radicale di Einstein.
Il nazismo
Questa fase si interrompe tra l’estate del 1932 e l’inverno del 1933, quando Einstein si rende conto che in Germania sta assumendo il potere una forza, quella nazista, contro cui non valgono gli strumenti del pacifismo. Prima che Hitler assuma il potere, nel dicembre 1932, Einstein lascia la Germania. E alla moglie Elsa che sta uscendo di casa a Caputh, fuori Berlino, dice: «Voltati, perché non la vedrai mai più».
Albert Einstein comprende prima di altri e meglio di altri la natura del nazismo. La sua violenza inusitata, che minaccia non solo gli Ebrei e gli oppositori in Germania. Ma l’Europa intera. Anzi, la stessa civiltà europea. A quella forza organizzata, sostiene Einstein, non è possibile opporre altro che la forza organizzata. Così scrive alla fine di luglio del 1933, al pacifista belga Alfred Nahon: «Ciò che dirò ti sorprenderà ... Immagina che il Belgio sia occupato dall’attuale Germania. Le cose andrebbero molto peggio che nel 1914, e sì che allora andarono abbastanza male. Quindi devo chiederti candidamente: se fossi un belga non dovrei, in queste circostanze, rifiutare il servizio militare, piuttosto, dovrei assolverlo con impegno nella certezza che sarei lì per aiutare a salvare la civiltà europea. Ciò non significa che sto abbandonando il principio per cui mi sono battuto finora. Spero sinceramente che verrà il tempo in cui rifiutare il servizio militare diventerà di nuovo il metodo migliore per servire il progresso dell’uomo».
Il movimento pacifista europeo è come scioccato dall’analisi di Einstein. Il quale, dal canto suo, per contrastare Hitler si augura un’alleanza stretta tra Usa, Gran Bretagna, Francia e Unione Sovietica. Un’alleanza che si formerà effettivamente, dieci anni dopo.
Accorgersi, prima di altri, che sta nascendo un potere così violento da non poter essere contrastato coi normali strumenti della civiltà e prefigurare un’alleanza politica che si realizzerà un decennio non è da politico ingenuo. E neppure da pacifista candido. Il pensiero di Einstein è sempre di tipo razionale, fondato su un’attenta analisi del contesto.
La lettera a Roosevelt
Ed è proprio l’analisi del contesto che lo spinge, nel mese di agosto del 1939, a scrivere al presidente americano Franklin Delano Roosevelt per avvertirlo che i fisici hanno realizzato la fissione dell’atomo e scoperto una nuova fonte di energia.
Questa fonte può essere utilizzata per la costruzione di armi di distruzione di massa di potenza devastante. Che in Germania ci sono fisici in grado di mettere a punto queste armi. E che Hitler, invadendo la Cecoslovacchia, è entrato in possesso della materia prima: l’uranio. Occorre che gli Stati Uniti si impegnino a costruire l’arma atomica, non per utilizzarla sul campo ma quale deterrente verso un’eventuale atomica tedesca.
La lettera a Roosevelt non sortisce effetti immediati. Negli Usa il Progetto Manhattan partirà solo due anni dopo. Einstein non vi è in alcun modo coinvolto. Per cui appare del tutto infondato associare la sua figura alla costruzione effettiva dell’arma atomica. Men che meno è possibile associare il nome di Einstein alle esplosioni di Hiroshima e Nagasaki.
Anzi, prima che quelle due immani tragedie si siano consumate, nella primavera del 1945, Albert Einstein è già tornato al suo pacifismo radicale. In Europa la guerra volge al termine. Il nazismo è sconfitto. E quindi, pensa Einstein, è venuta meno la ragione per la costruzione dell’arma atomica. Cosicché scrive una nuova lettera a Roosevelt, pregandolo di ascoltare il suo amico Leo Szilard che intende perorare la sospensione del Progetto Manhattan.
Ma Roosevelt muore e Szilard non riesce a farsi ascoltare. Nei mesi successivi il pacifista Einstein è di nuovo in campo, accanto alla Federazione degli Scienziati Atomici che intendono opporsi alla «logica della bomba». Ancora una volta la sua lucidità politica è tutt’altro che banale.
Comprende che la nuova arma di distruzione di massa cambia i rapporti tra militare e politica. La logica della bomba è autonoma, persino superiore, alla logica del confronto ideologico. E che questa logica mette in ballo la sopravvivenza della civiltà. Forse della stessa umanità. Per cui occorre agire. Da un lato riprendendo l’idea di un governo mondiale, gestito in una prima fase dalle potenze vincitrici della guerra - Usa, Gran Bretagna e Urss - cui affidare il monopolio dell’arma atomica. E dall’altro mobilitando le masse, in una stretta e inedita alleanza con gli scienziati, per impedire l’«assuefazione» alla bomba e costruire un movimento globale per il disarmo atomico.
Solo un visionario?
Intorno a questo progetto Einstein lavorerà fino agli ultimi giorni. E questo lavoro culminerà, come abbiamo detto, nel «Manifesto Russell-Einstein» firmato dal fisico tedesco una settimana prima di morire. Il manifesto diventerà il fondamento del Movimento Pugwash di scienziati che si battono, in modo attivo e analitico, per il disarmo. E uno dei fondamenti di un movimento di massa per la pace che, tra alterne vicende e profondi cambiamenti, è vivo e attivo ancora oggi.
È stata, quella del pacifista Einstein, l’attività di un visionario? Certo, la corsa al riarmo atomico non è stata fermata dall’alleanza tra scienziati e grandi masse. Certo, l’umanità siede ancora oggi su una polveriera in grado di distruggerla. Ma, sostiene lo storico Lawrence S. Wittner, in forze alla State University di New York, se dopo Hiroshima e Nagasaki l’arma atomica non è stata più usata non lo si deve tanto alla saggezza dei governi, ma proprio a quel movimento per il disarmo capace di mobilitare le masse voluto da Albert Einstein.


PROGRAMMI DI OGGI
SFERA
ALBERT EINSTEIN
LA7 ore 21.30

Andrea Monti accompagna stesera i telespettatori in un viaggio che ripercorrerà la vita e le straordinarie scoperte di Albert Einstein, l'uomo, lo scienziato, il filosofo, a 50 anni dalla morte. Attraverso alcuni esperimenti e con l'aiuto di Fabio Bevilacqua, docente di storia della fisica all'Università di Pavia, saranno illustratati i principi della teoria della relatività. Verrà spiegato anche come lo studio fatto da Einstein sul fenomeno dell'effetto fotoelettrico abbia costituito la base scientifica per lo sviluppo della tecnologia laser. Inoltre, alla luce della vincita record di oltre un milione di sterline messa a segno la scorsa estate al casino di Londra da tre giovani giocatori grazie a un metodo basato sul laser, verrà affrontato anche il tema dell'applicazione di criteri scientifici al gioco d'azzardo.

GALILEO

L'Unità 31 Marzo 2005
Curiosità e disubbidienza: le virtù che fecero grande Galileo Galilei
Michele Camerota presenta la biografia dello scienziato a «Leggere per non dimenticare»: ne emerge l’affresco di un’epoca
Renzo Cassigoli

FIRENZE Questo Galileo Galilei di Michele Camerota è qualcosa di più di una biografia del grande uomo di scienza che navigando nell’universo ha inciso in modo determinante sul pensiero scientifico e filosofico. Delineandone l’itinerario biografico e intellettuale, l’autore ne illustra il pensiero come ci è consegnato dall’insieme delle opere scientifiche e letterarie, dal lavoro di un uomo di scienza e, dunque, da un filosofo che ha segnato un’epoca aprendo nuove strade di ricerca guidato dalla curiosità e dalla disubbidienza, le due grandi virtù che lo hanno spinto alla rottura del principio di autorità, andando oltre quell’ipse dixit invocato dai pitagorici più che dagli aristotelici. Osserva il filosofo della scienza Giuliano Toraldo di Francia: «L’ha detto lui, quindi deve essere vero». Galileo rifiuta il principio dell’ipse dixit affermando la necessità per lo scienziato di andare a vedere come stanno le cose: «Potrebbe essere vero, ma potrebbe anche essere sbagliato». Il dubbio, quindi. Come nel Dialogo sui massimi sistemi quando, a Simplicio che richiama a Aristotele, Galileo risponde: «Io non dubito che se Aristotele vivesse ai tempi nostri e ascoltasse i miei ragionamenti e vedesse i miei esperimenti e le mie dimostrazioni, la penserebbe come me». È infatti al grande pisano che si deve il metodo dell’intersoggettività, fondamentale per la scienza moderna, per cui uno scienziato deve trovare il modo di comunicare scoperte e teorie, per rendere intersoggettivo ciò che rimarrebbe soggettivo. Nel libro - che Massimo Bucciantini e Giulio Giorello presentano oggi Leggere per non dimenticare - Camerota disegna un affresco della cultura scientifica e filosofica di un epoca spazzata dalla Controriforma, riuscendo a collegare i diversi aspetti che consentono di capire meglio la personalità e la vicenda del grande pisano esaltando il significato scientifico delle pagine galileiane depositarie di scoperte capitali. Torniamo così al grande filone della simulazione che da Machiavelli, per Campanella e Galileo arriva a Bruno, che sfida il principio di autorità fino al rogo. E qui emerge la complessità della vicenda di Galileo e della ritrattazione a cui fu costretto. «Galileo parlò come uno scienziato, non come un eroe e non voleva esserlo», osserva Toraldo di Francia. «Io vi dico che le cose stanno così e ve lo dimostro, se voi dite che questo è contrario alle sacre scritture, siete padroni di affermarlo». In cosa consiste, allora, la sua ritrattazione? Galileo non fu solo un astronomo, ma un uomo di scienza completo, un filosofo e come tale destinato a scontrarsi con la concezione filosofio-religiosa della chiesa cattolica allora imperante e con l’Inquisizione.

schizofrenia

Repubblica Salute 31.3.05
Schizofrenia tra manuale e farmaco
Antonio Caperna

In aiuto dei malati di schizofrenia e delle famiglie le Associazioni pazienti e l'industria farmaceutica mettono a disposizione un manuale. È "La tua strada verso il futuro", frutto del lavoro di psichiatri e 18 Associazioni di tutta Europa (Cittadinanzattiva, Unasam, Diapsigra e Arap, per l'Italia). Il volume, corredato di vignette, didascalie e facili ma rigorose informazioni, può essere richiesto attraverso le Associazioni o al numero verde della Bristol-Myers Squibb 800-864184. In Italia sono circa 500 mila le persone che devono fare i conti con la schizofrenia e con essi i propri familiari.
Per la vergogna e la poca informazione spesso "alla diagnosi si arriva tardi e da questa all'inizio della terapia trascorrono da uno a 3 anni", spiega Paolo Pancheri, professore di clinica psichiatrica all'Università La Sapienza di Roma, in occasione della presentazione italiana del volume e del lancio di una nuovo farmaco per la schizofrenia, l'aripiprazolo. La nuova terapia a carico del Servizio Sanitario Nazionale è un agonista parziale della dopamina che permette ai pazienti di "recuperare alcune capacità funzionali, gestire meglio le emozioni, avere minori effetti collaterali", sottolinea Eugenio Aguglia, docente di psichiatria all'Università degli Studi di Trieste e presidente della Società Italiana di Psichiatria.

la violenza sulle donne

Corriere della Sera 31.3.05
Una giornalista rompe la barriera della privacy, racconta la sua storia e viene licenziata.
Rapporto di Amnesty International: è il fallimento di un sistema
La Svezia scopre la violenza sulle donne
Finisce il silenzio nel Paese della parità dei sessi. Rivelazioni in tv e email: decenni di abusi nelle case
Gabriela Jacomella

I responsabili della rete avevano tentato di tutto per farla tacere. Il suo boss l’aveva messa in guardia: l’argomento è off-limits, lascia perdere. Lei, 48 anni e da un decennio costretta a subire violenze dall’uomo che amava, non ha ascoltato. E un giorno, nel bel mezzo dell’estate scorsa, ha fissato la telecamera e ha iniziato a parlare, in diretta: «Volete sapere che faccia ha una donna che è stata picchiata? Eccola. Mio marito abusa di me da più di dieci anni». La direzione l’ha licenziata. Poi sono arrivate le prime email, le telefonate. «Anche il mio uomo mi riempie di botte». «Mi ha stuprato, ma nessuno mi crederebbe». La cortina di silenzio e vergogna iniziava a lacerarsi. Non siamo in Arabia Saudita, dove un anno fa la bellissima anchor-woman Rania al-Baz aveva trovato il coraggio di mostrare ai fotografi la devastazione del suo volto, le 13 fratture che avevano cancellato quell’ovale perfetto incorniciato dallo chador. Ai colleghi giornalisti aveva raccontato il pestaggio subito dal marito: «Voglio usare quello che mi è successo perché si cominci a parlare della violenza sulle donne nel nostro Paese».
L’altra donna, quella che solo un’estate fa ha rivelato in tv il suo dramma, può darsi che conoscesse la storia di Rania. Del resto, sono molte le affinità che le uniscono. Maria Carlshamre è anch’essa una giornalista, ha pure lei occhi scuri e capelli neri. Ma è svedese. Vive, cioè, in un Paese dove la parità dei sessi ha smesso da decenni di essere un’utopia, dove i posti nelle stanze dei bottoni si dividono tra quote «azzurre» e «rosa», e l’ipotesi di dar vita a un partito «femminista» piace a un elettore su cinque. Oggi il Paese dell’uguaglianza ha scoperto di essere il Paese delle urla nel silenzio. «La violenza contro le donne è aumentata negli ultimi due anni. Quella commessa da uomini che hanno un legame affettivo con le vittime è altamente sottostimata. Solo il 15-25% sporge denuncia». Una condanna senza appello, pronunciata un anno fa da Amnesty International, impegnata nella campagna mondiale Svaw ( Stop Violence Against Women ): «È il fallimento di un sistema».
Intendiamoci, i mariti o i fidanzati svedesi non sono più violenti dei loro omologhi italiani, spagnoli o americani. Il problema sta nelle donne. Nella loro vergogna. Nelle loro bocche sigillate. Gli episodi di violenza sono aumentati a un ritmo vertiginoso: ?140% tra 1980 e 2000, dati ufficiali. Ma è il sommerso a fare la differenza. Come ovunque. Solo che qui, appunto, siamo nel regno dell’equità. E soprattutto della privacy: insieme alla leadership nella tutela dei diritti «rosa», essa è stata per decenni il «lenzuolo bagnato» che celava drammi laceranti, accusa ora sul New York Times Eva Hassel Calais, tra i coordinatori nazionali, in Svezia, dei centri per donne maltrattate.
«Sono faccende di famiglia», aveva protestato la sorella di Muhammad Al-Fallatta, marito di Rania, quando il fratello era finito sulle prime pagine dei giornali di Riad. Anche a Stoccolma, finora, la violenza domestica era considerata un private matter , un affare privato. «L’idea per cui la violenza in ambito familiare è una questione privata - scrive Amnesty - permette che tale pratica continui senza trovare ostacoli». La legge svedese è tra le più avanzate nella tutela delle donne, «ma questo serve a poco, se la rivoluzione dei sessi non è stata davvero assimilata»: Mariagrazia Campari, avvocato e femminista, della Libera università delle donne di Milano, spiega il controsenso con la teoria degli «estremi che si toccano, è il ritorno del punto di vista della famiglia patriarcale, dove contava solo il maschio, e quanto avveniva entro le mura di casa non era considerato "spendibile" fuori. Poi, certo, può darsi ci sia un desiderio inconscio di mantenere l’immagine di Paese perfetto, basato su canoni superiori di convivenza...».
C’è voluto un anno, in Svezia, perché il private matter diventasse pubblico, in un doloroso processo di autocoscienza. In ottobre Gudrun Schyman, deputato di sinistra e femminista, ha proposto una «tassa sugli uomini» per pagare le conseguenze di botte e stupri. In novembre il ministro della Giustizia Thomas Bodstroem dichiarava: «Il silenzio è un tradimento per le vittime degli abusi e un aiuto per gli uomini violenti». Pochi giorni fa il procuratore generale ha annunciato di voler creare un team di 35 magistrati specializzati nella violenza contro le donne. A Riad, a luglio, Rania al-Baz ha ritirato la denuncia contro il marito, sfinita da minacce e pressioni. In Svezia, oggi, Maria Carlshamre ammette: «Dobbiamo cambiare l’immagine di noi stessi. Non siamo i campioni del mondo dell’uguaglianza».

l'Aripiprazolo fà male

una segnalazione di Sandra Mellone

sul sito del Ministero della Salute, all'indirizzo http://www.ministerosalute.it/medicinali/farmacovigilanza/notainfo.jsp?id=57
c'è una nota informativa importante sull'Aripiprazolo

Aripiprazolo è il principio attivo presente nella specialità medicinale Abilify autorizzata con Procedura di registrazione Comunitaria per il trattamento della schizofrenia.

Aripiprazolo non è autorizzato per il trattamento della psicosi e/o disturbi comportamentali correlati a demenza e non è raccomandato per l’uso in questo gruppo particolare di pazienti.

I risultati di recenti studi clinici hanno evidenziato importanti informazioni di sicurezza riguardanti aripiprazolo ed il suo uso nei pazienti anziani affetti da demenza rispetto al rischio di eventi avversi cerebrovascolari.

depressione

Brescia Oggi 31 Marzo 2005
LO PSICHIATRA
Sacchetti: «Corrono rischi anche le persone apparentemente sane»
li.ce.

«La depressione e la tendenza al suicidio sono fenomeni importanti nell’anziano, ma non particolari: dai dati della letteratura emerge come l’incidenza dei disturbi depressivi nella terza e quarta età sia elevata, ma non più alta di quella riscontrabile in età adulta». Partendo da questa premessa il professor Emilio Sacchetti, ordinario di Psichiatria alla Facoltà di Medicina dell’Università di Brescia e direttore del Dipartimento di Salute mentale degli Spedali Civili, spiega i perché del fenomeno depressivo, con particolare attenzione all’età anziana.
Quali fattori possono rappresentare un campanello d’allarme per propositi suicidi negli anziani?
«Già la condizione depressiva di per sé incrementa di 5-10 volte il rischio di suicidarsi. Se a essa si aggiungono le forme con sintomi deliranti e psicotici, che spesso interessano la popolazione anziana, il rischio si innalza ulteriormente di 5-10 volte. Da ciò è facile capire l’alta diffusione del rischio fra gli anziani - in particolare i maschi, il cui tasso di suicidi è più alto che nelle femmine -, spesso affetti da molte altre patologie di tipo organico, come quelle cardiovascolari o degenerative, le quali non fanno altro che complicare il quadro d’insieme».
Sono a rischio solo gli anziani malati e /o depressi?
«No, si possono togliere la vita anche persone apparentemente sane dal punto di vista mentale. Suicidi definiti “a ciel sereno” accadono a persone che non hanno un’etichetta definita né a priori né a posteriori. Si tratta di eventi scatenati dall’interazione fra diversi fattori di rischio, in cui possono incidere agenti stressanti molto acuti di origine esterna. Ci può essere l’interazione fra molteplici variabili stressanti, come un grosso abbandono, la perdita di contatti sociali e di relazioni, la privazione di punti di riferimento, un sentimento di inutilità, la sensazione di essere abbandonati a sé stessi, di non avere più risorse».
Sta delineando quella che viene percepita come la condizione più diffusa dell’anziano di oggi...
«Certo la tendenza verso un incremento delle aspettative di vita e dell’effettiva sopravvivenza ci pone davanti a problemi drammatici, che prima non erano nemmeno considerati: non a caso si ritiene che negli anni, e con l’invecchiamento della popolazione, la depressione diverrà la seconda causa generale di disabilità. Un fenomeno finora non molto studiato, se è vero che degli ultraottantacinquenni si sa ancora poco».
Com’è possibile porre rimedio alla deriva depressiva e al disagio sempre più avvertito dalla terza età?
«È fondamentale che l’anziano sia tenuto in un ambiente empaticamente caldo e ricco di stimoli, in cui possa percepire il senso di una presenza, riconoscendo in sé un’utilità ancora presente. Questo richiede uno sforzo educativo che deve coinvolgere la comunità e la gente che la abita in un atteggiamento diverso, più accogliente nei confronti della vecchiaia. Creare bellissimi dormitori con menù prelibati, per lasciare poi l’anziano nella solitudine del proprio perimetro esistenziale, non vuol dire affrontare il problema».

Viktor Frankl...???

Avvenire 30.3.05
Editoriale
Viktor Frankl, l'anti-Freud del Novecento
Eugenio Fizzotti

Tra le principali scuole di psicologia, un posto di rilievo è occupato dalla logoterapia e analisi esistenziale di Viktor E. Frankl, psichiatra ebreo viennese, di cui in questi giorni ricorre il centenario della nascita e di cui sono ben note la contrapposizione alle riduttive visioni dello psicologismo e del determinismo di stampo psicoanalitico e comportamentista e il legame con la filosofia esistenzialista e personalista e con le teorie della personalità di matrice umanistica e fenomenologica. Furono singolari alcuni avvenimenti della sua giovinezza: intenso rapporto epistolare con Sigmund Freud, collaborazione attiva alla Società di psicologia individuale di Alfred Adler, apertura nel 1927 a Vienna, Zurigo, Praga e altre città europee di Centri di consulenza psicopedagogica per giovani in difficoltà, laurea in medicina nel 1930, specializzazione in neurologia e psichiatria. Ma fu l'internamento nei lager nazisti (tra cui Auschwitz) dal 1942 al 1945 a fargli comprovare quanto già intuito e analizzato, a proposito dei valori e delle possibilità attraverso le quali l'uomo può sempre, fino all'ultimo istante, cogliere il significato della sua unica e irripetibile esistenza. È la ricerca del senso della vita, infatti, l'originale e attualissimo leit-motive di tutte le numerose opere di Frankl nelle quali, interpretando la parola logos come senso della vita, analizza la condizione umana e la trova caratterizzata dal vuoto e della frustrazione esistenziale, immersa in un contesto indiscutibile di condizionamenti. Eppure, l'esperienza clinica gli ha permesso di evidenziare che il vero e proprio malessere non sta, come direbbe Freud, nella mancata soddisfazione del piacere o, come sosteneva Adler, nel fallimento a livello di potere o di successo, quanto nel non riconoscere la tensione radicale tra la realtà esistenziale in cui si vive e il mondo dei valori che si presenta come appello e come sfida. Se la vita conserva sempre un suo significato, nonostante le limitazioni dovute all'età, alla salute, alla sofferenza, ai fallimenti che possono sopraggiungere a tutti i livelli, ciò è possibile attraverso i valori di creazione (lavoro, attività, impegno politico), i valori di esperienza (amore, musica, arte), ma soprattutto i valori di atteggiamento (situazioni-limite quali la sofferenza inevitabile, la colpa, la morte). L'originalità del pensiero e della pratica terapeutica di Frankl, di conseguenza, emerge dall'attenzione che riserva ad alcuni fenomeni dalla portata tragica per il mondo giovanile (suicidio, aggressività, tossicodipendenza), espressioni eloquenti del vuoto esistenziale, ed a forme nevrotiche ampiamente presenti nel tessuto sociale contemporaneo: la nevrosi meccanica, conseguenza del crescente tempo libero; la nevrosi della domenica, con comportamenti massificanti e alienanti in discoteche, palestre, stadi; la nevrosi da disoccupazione, che assale chi è alla ricerca di lavoro e chi si vede impedito, a seguito del pensionamento, nel partecipare
ai ritmi normali di produttività.

Jules Verne

La Stampa TuttoScienze 30.3.05
100 ANNI DOPO
In Verne più scienza che fiction

NEL capitolo XIV del romanzo di Jules Verne "L'isola misteriosa", Cyrus Smith deve calcolare l'altezza di una grande muraglia e per risolvere il problema ricorre allo stesso espediente usato dal filosofo Talete per misurare l'altezza della piramide di Cheope. Cyrus pianta nel terreno una pertica a circa 500 metri dalla base del muro e si stende sulla sabbia in un punto dal quale il suo raggio visivo risulta esattamente in linea con l'estremità della pertica e con la sommità del muro. Qui il racconto propone una lezione di geometria sulle proprietà dei triangoli simili applicata al calcolo dell'altezza del muro. Tutto questo per dire che nei romanzi di Verne - morto un secolo fa ad Amiens, il 24 marzo 1905, all'età di 77 anni - si trovano spesso riferimenti scientifici: Verne, dunque, fu anche un grande divulgatore. Scoperto Edgar Allan Poe e affascinato dalle avventure di "Gordon Pym", Verne comincia a scrivere romanzi che a partire dal 1863, anno in cui esce "Cinque settimane in pallone", daranno vita alla serie dei suoi viaggi straordinari (62 romanzi e 17 racconti) il cui scopo è "riassumere tutte le conoscenze geografiche, geologiche, fisiche e astronomiche, accumulate dalla scienza moderna e di riscrivere, in modo attraente e pittoresco la storia dell'universo". I protagonisti di questi romanzi sono quasi sempre scienziati: Verne voleva costruire coi suoi racconti una specie di "summa" scientifica. Nel momento di maggior successo, è l'autore più letto, tradotto e pagato. Il suo editore Hetzel gli chiede tre romanzi all'anno, che prima però dovranno uscire a puntate su riviste. Sono nati in questo modo "Viaggio al centro della terra" (1864), "Dalla Terra alla Luna" (1865), "Ventimila leghe sotto i mari" (1869). Nel frattempo acquista uno yacht, il "Saint Michel III", e compie lunghi viaggi per raccogliere informazioni e impressioni che poi sfrutterà nella stesura dei suoi romanzi. In Italia fu ricevuto da Leone XIII, a Venezia illiminarono la facciata dell'albergo dove alloggiava e sul suo terrazzo scrissero il suo nome con dei lumini. Insignito della Legion d'onore, per due volte presidente dell'Accademia delle scienze, collabora alla redazione della «Geografia illustrata della Francia» affiancando la Societé de Géographie. Gli ultimi vent'anni della sua vita saranno funestati da disgrazie e lutti. Costretto a disfarsi del suo yacht, la produzione letteraria cambia registro e all'ottimismo dei primi romanzi subentra un atteggiamento che evidenzia gli aspetti negativi della scienza. Purtroppo Verne è stato sempre considerato un autore per ragazzi ma la sua opera, in realtà, contiene messaggi più profondi e può essere considerata una grande metafora dell'avventura scientifica che si dipana fra l’ottimismo illuministico e il pessimismo dei tempi moderni: si scoprono in lui tematiche di Goethe, di Stevenson e anche di Samuel Butler. A riprova della sua universalità, poco dopo la morte Verne ebbe l'omaggio di Guido Gozzano:
"Maestro, quanti sogni avventurosi
sognammo sulle trame dei tuoi libri!
La Terra il Mare il Cielo l'Universo
per te, con te, poeta dei prodigi,
varcammo in sogno oltre la scienza.
Pace al tuo grande spirito disperso,
tu che illudesti molti giorni grigi
della nostra pensosa adolescenza".

Cartesio

APCOM 30.3.05
L'OLANDA RIABILITA CARTESIO
Il grande filosofo venne espulso dall'università di Utrecht

Genova, 30 mar. (Apcom) - Il grande filosofo e matematico francese René Descartes (Cartesio) è stato ufficialmente riabilitato dall'Università di Utrecht dove tra l'altro aveva insegnato per alcuni anni. Il Senato accademico della città olandese ha infatti abrogato un documento datato 17 marzo 1642 che condannava solennemente la nuova filosofia cartesiana, sottolineando che questa dottrina non sarebbe mai stata insegnata: "Per tutti i tempi a venire".
E' proprio in Olanda che il grande filosofo francese ha vissuto per la maggior parte della sua vita, soprattutto per motivi legati alla libertà di pensiero, certamente maggiore in quel tempo rispetto a quella assicurata in Francia. Ed è proprio in Olanda che ha pubblicato due delle sue opere fondamentali: Meditazioni metafisiche e principi di filosofia.
Ma anche il "cattolico" Cartesio dovette fare i conti con l'intolleranza protestante, come Galileo in Italia pochi anni prima anche Cartesio venne bollato se non di eresia di qualcosa di molto simile. Da qui la condanna del Senato accademico di Utrecht.

copyright @ 2005 APCOM

referendum

L'Unità 31 Marzo 2005
Un cuore rosso ed un «Sì» contro le crociate
Il simbolo e la strategia comunicativa dei referendari: «Nascere, guarire, scegliere»
Maria Zegarelli

ROMA Non è vero che questa è una battaglia tra chi difende la vita - la Chiesa e il partito dell’astensione - e chi no - cioé chi è schierato per l’abrogazione di quattro articoli della legge sulla fecondazione assistita. Da qui è partito il Comitato nazionale promotore dei referendum. «Bisogna contrapporsi a questa campagna mediatica fuorviante che sta portando avanti chi difende la legge 40», dice Lanfranco Turci, tesoriere del Comitato. Così è nata l’idea di questo logo, presentato ufficialmente l’altro ieri. Un cerchio, sfondo verde, un grande «sì» con un cuore rosso al posto del puntino, «per nascere, guarire, scegliere».
Libertà di scelta.
«I termini su cui ci siamo concentrati erano questi: la nascita, la cura, la libertà di scelta della persona, della donna, della coppia. Questi erano i concetti su cui abbiamo lavorato a lungo - dice Turci - perché il messaggio che vogliamo lanciare è che non è vero che chi è per il “no” o per l’astensione è per la vita e tutti gli altri sono per il liberismo che non si preoccupa dei valori». Perché non è vero che questa è una campagna referendaria serena, combattuta con toni pacati e argomentazioni scienfitiche, mediche. I toni usati da chi vuole difendere la legge sulla procreazione assistita ricordano più le crociate d’altri tempi che non le campagne di informazione. Lo spiegamento di forze da parte della Chiesa, dal cardinale Camillo Ruini in giù, ma anche della maggioranza in parlamento (e del governo) è ingente. È sceso in campo anche l’ex commissario della Croce Rossa, Maurizio Scelli, prestato alla politica (per il premier) in previsione dell’appuntamento elettorale, che ha ha detto: «La speranza è che il referendum sulla legge sulla procreazione assistita sia più in là possibile, in una bella giornata di mare, in modo che ci si possa astenere dall'andare a votare». L'ex commissario ha assicurato che tutto il movimento da lui fondato si regolerà in questo modo. Al mare, in montagna, una gita fuori porta, ma alle urne no.
Solo embrione. Raramente, poi, si parla di donne e di uomini quando si usano gli argomenti del «no» o dell’astensione. Si parla soltanto dell’embrione. «Il Comitato ci tiene, invece, a mettere in primo piano le persone, quelle a cui questa legge si rivolge e quelle che più ne pagano le conseguenze». Nascere, guarire, scegliere: sono esattamente questi i valori che difende il fronte del «sì». Saranno questi gli argomenti della campagna referendaria che subito dopo le elezioni di domenica e lunedì prossimi entrerà nel vivo. «Stiamo preparando dei manifesti da affiggere in tutte le stazioni - spiega Turci - con i quali manderemo un messaggio preciso: questo è un referendum che riguarda tutti noi».
E ieri anche Romano Prodi, dai microfoni di «Radio anch’io» è tornato sull’argomento: «Non ho mai nascosto le mie convinzioni cattoliche e per me la vita è sacra e inviolabile. Questo non ha nulla a che fare con l'andare a votare per il referendum oppure non andarci».
Gerarchie.
Polemiche, invece, per le dichiarazioni di Marco Pannella, dirette contro la Chiesa: «Le gerarchie vaticane ed ecclesiastiche tentano oggi una rivincita, di stampo assolutista e sanfedista, e tentano di imporre a tutti i cattolici e credenti di unirsi, di aggiungersi al campo degli indifferenti, degli irresponsabili, degli estranei, per scelta, ad ogni impegno morale, civile, democratico nel nostro paese. Tale scelta costituisce un ritorno alle più inique scelte della storia del potere Vaticano, nei suoi peggiori momenti di prevaricazione clericale e violenta contro ogni libertà di ricerca di coscienza, di scienza, di fede». «La violenza delle parole di Marco Pannella dimostra per intero il suo peggiore stile giacobino, illiberale e intollerante - ribatte Luca Volontè, capogruppo Udc alla Camera -. Come nei momenti più bui della rivoluzione francese, l'epoca del terrore, nelle sue parole ritorna la voglia di “ghigliottina” per chiunque dissenta, in qualunque modo, dai suoi convincimenti. Condividiamo e difendiamo senza esitazione l'invito della Chiesa italiana all'astensione e nello stesso tempo sappiamo come tutti gli italiani che questa scelta è piena di ragioni, rispettosa nei confronti del Parlamento e della civiltà italiana».

l'autismo secondo l'University of California

Yahoo! Salute mercoledì 30 marzo 2005
Psichiatria, Psicologia e Neurologia
L'autismo legato ai neuroni specchio
Il Pensiero Scientifico Editore
Emanuela Grasso

Il malfunzionamento dei neuroni specchio potebbe essere un elemento importante nel determinare l’autismo. Questo quanto emerge da uno studio condotto alla University of California di San Diego che sarà pubblicato sul numero in uscita del Journal of Cognitive Brain Research.
I neuroni specchio si trovano nella corteccia premotoria. Sono stati identificati per la prima volta nelle scimmie agli inizi degli anni novanta; gli scienziati scoprirono che questi animali erano in grado di apprendere una serie di movimenti e soprattutto di riconoscerli, non solo dalla loro esperienza diretta ma anche dal confronto con altre scimmie o con gli stessi esseri umani. Vale per questi neuroni la regola del “guardare è un po’ come fare”: i neuroni specchio sono infatti in grado di registrare informazioni riguardanti eventi motori anche senza la necessità che il soggetto abbia un’esperienza riconducibile a quell’apprendimento. Questo tipo di neuroni sono stati individuati, attraverso prove indirette, anche nel genere homo sapiens.
L’attività delle cellule specchio, quindi, può essere attivata dalla visione dell’azione compiuta da un altro individuo, come anche da un’immagine statica o persino dal suono collegato ad un'azione. Le cellule specchio svolgono un ruolo molto importante nella comprensione dei comportamenti altrui, fornendo le basi per poter interagire con gli altri. La domanda chiave che si sono posti i ricercatori è se queste cellule siano coinvolte solamente nel riconoscimento delle azioni, o anche, in modo più profondo, nella comprensione degli intenti che vi sono dietro. Infatti l’azione implica di per sé il concetto di un agente e di un oggetto, quindi un intento e un obiettivo.
Negli uomini, infatti, il sistema dei neuroni specchio sembra sia coinvolto non solo nell’osservazione e nell’esecuzione di movimenti ma anche in processi cognitivi più integrati come il linguaggio, per esempio, o una parte dell’emotività. Proprio perché nei casi di autismo si riscontrano, tra le altre manifestazioni, anche deficit di comunicazione e di comprensione, i ricercatori hanno ipotizzato che un cattivo funzionamento di questo tipo di neuroni potesse essere in parte responsabile del disturbo.
I ricercatori californiani hanno condotto il loro studio su 10 soggetti autistici. Dall’analisi dell’elettroencefalogramma di questi pazienti è stato chiarito come i loro neuroni specchio avessero un’attività elettrica (segno di funzionalità) solo quando era il soggetto a svolgere l’azione. Se la stessa azione veniva svolta da un’altra persona i neuroni dei pazienti non erano in grado, come normalmente avviene, di ritrovare in quei gesti movimenti speculari a quelli fatti da loro poco tempo prima.
“Questa nuova intuzione ci dà la prova che i soggetti autistici hanno disfunzioni nel sistema di neuroni specchio e che le loro difficoltà di comprensione o apprendimento hanno una forte base fisiologica”, ha affermato Lindsay Oberman, autrice dello studio.

FBI a Cogne

La Stampa 31 Marzo 2005
DOMANI IL SOPRALLUOGO: A LUI L’ULTIMA PAROLA SU IMPRONTE E TRACCE DI SANGUE
L’Fbi nella villetta di Cogne
Arriva l’agente che ha dato la caccia a Bin Laden
Alberto Gaino

TORINO. L’Americano compare sulla scena del delitto di cui si è più parlato in questi anni: il massacro del piccolo Samuele Lorenzi nel letto dei genitori, lassù a Cogne, frazione Montroz, il 30 gennaio 2002. La mamma, Annamaria, condannata a 30 anni in primo grado e ora in attesa del processo d’appello. La difesa che compie un sopralluogo nella casa della morte e ne cava prove che scagionerebbero, a suo dire, l’infanticida accusando il vicino di casa Ulisse Guichardaz. Altro colpo di scena: Annamaria Franzoni si ritrova indagata per frode processuale con il marito, l’avvocato e un plotone di consulenti che, strada facendo, si infittisce. Esperti dell’accusa contro quelli della difesa. Si impone una perizia super partes. E il presidente dei gip torinesi, Piergiorgio Gosso, si rivolge anche al Federal Bureau of Investigation. Che, lusingato, accetta e invia a Torino due dei suoi migliori investigatori scientifici: Richard Vorder Bruegge e Brendan F. Shea. Lavoreranno gratis, con il solo rimborso delle spese.
Da Quantico, quartier generale dell’Fbi, avrebbero raccomandato ai propri agenti il massimo anonimato, ma siamo in Italia, i loro nomi e cognomi sono finiti necessariamente sulle due ordinanze emesse dal giudice per convocare l’«incidente probatorio» di stamane, per il conferimento formale degli incarichi peritali. Gli atti sono stati spediti a tutti gli 11 indagati e ai rispettivi legali, oltre che alla procura torinese, e ci scappa pure qualcosa di più delle generalità dei due super agenti speciali. Bastano un paio di telefonate negli States e una ricerca su Internet per scoprire nel dottor Vorder Bruegge un pezzo da novanta delle investigazioni scientifiche. E’ il capo dell’unità di analisi di immagini digitali dell’Fbi, dal suo laboratorio sono passati tutti i maggiori casi planetari: dalla caccia a Bin Laden, via satellite, all’esplosione dello Shuttle, febbraio 2003. E’ lui, l’Americano, destinato a rubare in questi giorni la scena mediatica alla famiglia Lorenzi-Franzoni e al suo avvocato, Carlo Taormina, coinvolto in quest’inchiesta nello stesso ruolo di indagato, per frode processuale e calunnia (nei confronti del vicino di casa). Il giudice lo scrive chiaro nell’ordinanza «integrativa» del 23 marzo scorso: «La delicatezza e la difficoltà dell’indagine, così come la forte risonanza che contraddistingue l’attuale fase procedimentale, impongono la designazione di periti non compresi nell’albo del tribunale di Torino... allo scopo di garantire sia l’alta qualità degli accertamenti sia la totale imparzialità e serenità degli esperti...». Vorder Bruegge ha ormai un’esperienza di almeno 15 anni all’Fbi in un campo, quello delle immagini digitali, sempre più importante nelle investigazioni scientifiche e chi più di lui ha l’autorevolezza tecnica per valutare le tante immagini digitali scattate nella villa di Cogne prima dai carabinieri del Ris (per l’accusa) e poi dai collaboratori della difesa Franzoni?
Lo affianca un biologo, esperto di Dna e di ricostruzione della scena del delitto: oltre a rintracciare un’impronta digitale «imbrattata di sangue» sulla porta della camera da letto dei Lorenzi (che si è pacificamente attribuita a uno dei consulenti svizzeri della difesa), i collaboratori dell’avvocato Taormina sostengono che il «vero» assassino sarebbe fuggito dal garage della villa ed hanno esibito 32 tracce rilevate nel corso del loro sopralluogo (29-30 luglio scorso). Una bella sfida per i due superagenti che lavoreranno con gli altri periti: il medico legale pisano Marco Di Paolo, l’ematologo campano Ciro Di Nunzio, la docente di chimica generale parmense Mariella Careri e il dattiloscopista della polizia scientifica torinese, ispettore Andrea Giuliano.
I due americani erano già ieri a Torino, e stamane li attende un’udienza che si preannuncia non troppo tranquilla per le possibili eccezioni delle difesa. Gli americani sono rigorosi nel loro proverbiale pragmatismo, vorranno andare al sodo in fretta (con un sopralluogo a Cogne già domani) e forse rimarranno esterrefatti per le battaglie procedurali in corso. A parte i colpi mediatici, come la messa in onda al Tg1 di ieri sera, della nota e drammatica testimonianza registrata dai carabinieri della psichiatra Anna Satragni (prima soccorritrice), che disse: «Il pianto di Samuele potrebbe aver provocato una rottura».