APCOM 7.5.06 - 01:10
MEDICINA/ LA SEROTONINA AGISCE SU DISTURBI DEL COMPORTAMENTO
La sua mancanza causerebbe gravi disordini psichiatrici
Roma, 7 mag. (Apcom) - La diminuzione dei livelli di serotonina, un neurotrasmettitore molto importante, nelle zone frontali del cervello sarebbe la causa di molte malattie psichiatriche, come i disordini ossessivo-compulsivi, la schizofrenia e certe forme di comportamenti derivanti dalla tossicodipendenza.
Gi? si sapeva dell'importante ruolo della serotonina e della possibile associazione tra la mancanza di questa sostanza chimica e problemi psichiatrici, ma mai prima d'ora si era considerato questo problema in riferimento ad una specifica zona del cervello. Hannah Clarke dell'Università di Cambridge, Cambridge, in Gran Bretagna, riferisce in una ricerca pubblicata sulla rivista Science che per verificare tale ipotesi, ha diminuito i livelli di serotonina nella corteccia frontale del cervello di alcune scimmie, in una zona deputata all'apprendimento, alla concentrazione, alla presa di decisioni e alla pianificazione del futuro.
Le scimmie hanno mostrato subito dei cambiamenti, con comportamenti meno flessibili e con evidente coercizione a ripetere all'infinito certe azioni, piuttosto che adattarsi alle circostanze. I ricercatori riferiscono che i comportamenti osservati a seguito della diminuzione dei livelli di serotonina sono gli stessi osservati nell'uomo quando è colpito da disordini psichiatrici.
copyright @ 2004 APCOM
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
venerdì 7 maggio 2004
cristiani:
«ama il prossimo tuo...»
altri massacri anche in Indonesia, in Thailandia, in Sudan
Repubblica 7.5.04
Miliziani cristiani hanno attaccato la comunità musulmana
Secondo la Croce Rossa ci sono almeno 630 vittime
Nigeria, scontri a Yelwa
centinaia di morti
Case in fiamme a Yelwa
YELWA - Almeno 630 persone sono morte nel massacro di Yelwa, nella Nigeria centrale, dove domenica scorsa la locale comunità musulmana è stata attaccata da miliziani cristiani. Lo hanno detto oggi testimoni e un responsabile della Croce Rossa, presso una fossa comune.
"La cifra è esatta - ha detto Abdu Mamairiga, responsabile della Croce Rossa per la gestione delle catastrofi nazionali in Nigeria - Tutti i corpi sono stati riuniti presso la residenza del capo (locale) e sono stati sepolti dietro ad essa". Gli abitanti di Yelwa parlano di 630 vittime ma per l'esponente della Croce Rossa "potrebbero essercene altri". D'altro canto l'agenzia France Presse ha riportato il racconto di un dirigente locale, Yakubu Haruna, vicino a un terrapieno di 50 metri per 10 servito da fossa comune: "Abbiamo sepolto oltre 630 persone - ha dichiarato Haruna - Alcune sono state seppellite dietro alle loro case".
Domenica la polizia aveva riferito di un attacco, portato da miliziani cristiani dell'etnia Tarok contro la comunità islamica di Yelwa, che aveva causato almeno 67 vittime. Ma con il passare dei giorni il bilancio si è aggravato fino a comprendere centinaia di vittime. Testimoni hanno riferito di decine di cadaveri mutilati e straziati per le strade, mentre migliaia di abitanti scandivano slogan islamici e invocano vendetta contro gli assalitori.
Il sanguinoso raid si inquadra nelle tensioni interetniche e interconfessionali che nei mesi scorsi hanno fatto diverse centinaia di morti nei villaggi al confine fra gli stati di Plateau e Taraba, nella Nigeria centrale. Da mesi nella zona è riesplosa la tradizionale rivalità fra i musulmani Fulani, che sono allevatori di bestiame, e i cristiani Tarok, che sono invece agricoltori. La maggior parte delle vittime risultano uccise a coltellate o perite nei roghi delle loro abitazioni date alle fiamme.
Miliziani cristiani hanno attaccato la comunità musulmana
Secondo la Croce Rossa ci sono almeno 630 vittime
Nigeria, scontri a Yelwa
centinaia di morti
Case in fiamme a Yelwa
YELWA - Almeno 630 persone sono morte nel massacro di Yelwa, nella Nigeria centrale, dove domenica scorsa la locale comunità musulmana è stata attaccata da miliziani cristiani. Lo hanno detto oggi testimoni e un responsabile della Croce Rossa, presso una fossa comune.
"La cifra è esatta - ha detto Abdu Mamairiga, responsabile della Croce Rossa per la gestione delle catastrofi nazionali in Nigeria - Tutti i corpi sono stati riuniti presso la residenza del capo (locale) e sono stati sepolti dietro ad essa". Gli abitanti di Yelwa parlano di 630 vittime ma per l'esponente della Croce Rossa "potrebbero essercene altri". D'altro canto l'agenzia France Presse ha riportato il racconto di un dirigente locale, Yakubu Haruna, vicino a un terrapieno di 50 metri per 10 servito da fossa comune: "Abbiamo sepolto oltre 630 persone - ha dichiarato Haruna - Alcune sono state seppellite dietro alle loro case".
Domenica la polizia aveva riferito di un attacco, portato da miliziani cristiani dell'etnia Tarok contro la comunità islamica di Yelwa, che aveva causato almeno 67 vittime. Ma con il passare dei giorni il bilancio si è aggravato fino a comprendere centinaia di vittime. Testimoni hanno riferito di decine di cadaveri mutilati e straziati per le strade, mentre migliaia di abitanti scandivano slogan islamici e invocano vendetta contro gli assalitori.
Il sanguinoso raid si inquadra nelle tensioni interetniche e interconfessionali che nei mesi scorsi hanno fatto diverse centinaia di morti nei villaggi al confine fra gli stati di Plateau e Taraba, nella Nigeria centrale. Da mesi nella zona è riesplosa la tradizionale rivalità fra i musulmani Fulani, che sono allevatori di bestiame, e i cristiani Tarok, che sono invece agricoltori. La maggior parte delle vittime risultano uccise a coltellate o perite nei roghi delle loro abitazioni date alle fiamme.
«Cesare o dio?»
la vocazione teocratica di cristianesimo e islamismo
La Stampa 7.5.04
IL WORLD POLITICAL FORUM OGGI ALLA KERMESSE TORINESE. TEMA: STATO E RELIGIONI, RAPPORTO DI INCONTRI E SCONTRI
PADRONI del SACRO
di Mario Baudino
(...)
Il filosofo Emanuele Severino porta al dibattito una analisi piuttosto spietata su quella che chiama la "vocazione teocratica" delle religioni. "È indubbia per l'Islam - dice -, ed è meno accentuata in altri culti, ma ben presente nella tradizione cristiana". Non come qualcosa di estraneo al messaggio evangelico. Anzi: "Sta proprio nell'affermazione di Gesù di dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio".
Questa frase è stata letta perlopiù come un rivoluzionario invito alla divisione dei poteri, ma una lettura del genere, spiega Severino, rappresenta solo "l'intenzione esplicita della Chiesa, a partire da quanto diceva San Tommaso sull'autonomia di fede e ragione. Nonostante questo, il cristianesimo in sé persegue una teocrazia, e i fondamentalismi ne sono la prova. A Cesare non si può dare qualcosa che sia contro Dio, perché Gesù dice anche che non si possono servire due padroni, Dio e mammona. Quindi lo Stato non può essere contro Dio, e Cesare non può che essere cristiano". Per il filosofo Ragione, Stato, Fede, Dio sono le categorie su cui si sviluppa la nostra storia. E il modo in cui si strutturano ci riguarda da vicino. "Il nemico dell'Islam non è allora l'Occidente, cui peraltro appartiene. È la contemporaneità filosofica che dice: "l'agire umano è destinato a procedere senza vincoli". Sembra un problema antico, e invece è attualissimo: Cesare e Dio, Cesare o Dio?
(...)
IL WORLD POLITICAL FORUM OGGI ALLA KERMESSE TORINESE. TEMA: STATO E RELIGIONI, RAPPORTO DI INCONTRI E SCONTRI
PADRONI del SACRO
di Mario Baudino
(...)
Il filosofo Emanuele Severino porta al dibattito una analisi piuttosto spietata su quella che chiama la "vocazione teocratica" delle religioni. "È indubbia per l'Islam - dice -, ed è meno accentuata in altri culti, ma ben presente nella tradizione cristiana". Non come qualcosa di estraneo al messaggio evangelico. Anzi: "Sta proprio nell'affermazione di Gesù di dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio".
Questa frase è stata letta perlopiù come un rivoluzionario invito alla divisione dei poteri, ma una lettura del genere, spiega Severino, rappresenta solo "l'intenzione esplicita della Chiesa, a partire da quanto diceva San Tommaso sull'autonomia di fede e ragione. Nonostante questo, il cristianesimo in sé persegue una teocrazia, e i fondamentalismi ne sono la prova. A Cesare non si può dare qualcosa che sia contro Dio, perché Gesù dice anche che non si possono servire due padroni, Dio e mammona. Quindi lo Stato non può essere contro Dio, e Cesare non può che essere cristiano". Per il filosofo Ragione, Stato, Fede, Dio sono le categorie su cui si sviluppa la nostra storia. E il modo in cui si strutturano ci riguarda da vicino. "Il nemico dell'Islam non è allora l'Occidente, cui peraltro appartiene. È la contemporaneità filosofica che dice: "l'agire umano è destinato a procedere senza vincoli". Sembra un problema antico, e invece è attualissimo: Cesare e Dio, Cesare o Dio?
(...)
il catto-freudismo di un filosofo "laico" e "di sinistra"
il prof. Cacciari e il «male radicale»
Repubblica 7.5.04
COMMENTO
Il male radicale
di MASSIMO CACCIARI
ECCOCI a ripetere per l'ennesima volta la medesima domanda: com'è possibile? Per carità di patria, fingiamo pure di ignorare quante Abu Ghraib siano perfettamente attive nel mondo in questo stesso momento, in quante cosiddette carceri si consumino i delitti incidentalmente e ingenuamente fotografati in Iraq. Come se non avessimo letto i resoconti di Amnesty International. Come non sapessimo tutti i motivi, anche quelli inconfessati e inconfessabili, per cui alcune potenze non hanno aderito alla Corte penale internazionale.
La Corte penale internazionale dovrebbe avere giurisdizione sui criminali di guerra, sui genocidi, sui delitti contro l'umanità. Ipocrisia sconfinata: mai si è chiacchierato tanto di diritti umani e mai si è forse così alacremente lavorato a costruire un mondo inumano.
Inumano? La retorica offende le vittime più dei torturatori. La realtà cruda è un'altra: solo quando lo scopriamo in tutta la sua oscenità, solo quando è sbattuto in prima pagina, ci ridestiamo al male radicale che ci affligge, che è proprio esclusivamente di noi uomini. Ma per volgerne via subito lo sguardo e consolarci dicendo che mai saremmo capaci di quegli atti. Che essi, appunto, non appartengono all'umano. E a chi allora? All'animale, forse? Assolutamente no. Agli angeli? Neppure, credo. Guardiamo allora in faccia l'orrore di queste immagini, se vogliamo tentare di conoscere noi stessi. Allora soltanto potremo sperare di oltrepassare la condizione che rende possibile l'orrore, per cui continuamente esso fa ritorno.
È la condizione della paura, dell'ignoranza che genera paura. Della paura che genera odio. Tutto ciò che lo istiga e ispira, tutto ciò che dissimula sotto la maschera di intolleranze liberatrici la prepotenza del credersi e proclamarsi superiori, tutto ciò che ritiene nemico ogni prossimo che non si identifichi a noi, sta oggettivamente dalla parte dei torturatori. Tutto ciò che combatte il terrore con le armi del terrore non ha alcun diritto di giudicare i criminali di Abu Ghraib. Ma proprio per questo, pietà per i torturatori. Non solo perché non sanno quello che fanno e si fanno. Pietà anche per la nostra natura che in loro si disvela secondo la più perfetta misura della sua miseria. Essa consiste essenzialmente nel credere che la propria superiorità (e perciò la propria stessa sicurezza) si esprima nella capacità di abbassare l'altro, di umiliarlo. Che la nostra vittoria consista nella totale sconfitta di chi ci ha affrontato. In questa fede trova fondamento il nostro male radicale. I torturatori di Abu Ghraib non sanno che la tortura innalza, invece, la vittima; che il terrore che infliggono non rifletterà, alla fine, che la loro stessa angoscia impotente. Quando i vincitori vedono nell'annichilimento del nemico la misura della propria forza, la loro vittoria è destinata a trasformarsi in impotente prosecuzione della guerra.
Forse anche a loro nelle scuole e nelle accademie tutto ciò era stato insegnato. Umano, troppo umano: comprendere ciò che sarebbe bene, e tanto a parole esaltarlo quanto contraddirlo nei fatti.
COMMENTO
Il male radicale
di MASSIMO CACCIARI
ECCOCI a ripetere per l'ennesima volta la medesima domanda: com'è possibile? Per carità di patria, fingiamo pure di ignorare quante Abu Ghraib siano perfettamente attive nel mondo in questo stesso momento, in quante cosiddette carceri si consumino i delitti incidentalmente e ingenuamente fotografati in Iraq. Come se non avessimo letto i resoconti di Amnesty International. Come non sapessimo tutti i motivi, anche quelli inconfessati e inconfessabili, per cui alcune potenze non hanno aderito alla Corte penale internazionale.
La Corte penale internazionale dovrebbe avere giurisdizione sui criminali di guerra, sui genocidi, sui delitti contro l'umanità. Ipocrisia sconfinata: mai si è chiacchierato tanto di diritti umani e mai si è forse così alacremente lavorato a costruire un mondo inumano.
Inumano? La retorica offende le vittime più dei torturatori. La realtà cruda è un'altra: solo quando lo scopriamo in tutta la sua oscenità, solo quando è sbattuto in prima pagina, ci ridestiamo al male radicale che ci affligge, che è proprio esclusivamente di noi uomini. Ma per volgerne via subito lo sguardo e consolarci dicendo che mai saremmo capaci di quegli atti. Che essi, appunto, non appartengono all'umano. E a chi allora? All'animale, forse? Assolutamente no. Agli angeli? Neppure, credo. Guardiamo allora in faccia l'orrore di queste immagini, se vogliamo tentare di conoscere noi stessi. Allora soltanto potremo sperare di oltrepassare la condizione che rende possibile l'orrore, per cui continuamente esso fa ritorno.
È la condizione della paura, dell'ignoranza che genera paura. Della paura che genera odio. Tutto ciò che lo istiga e ispira, tutto ciò che dissimula sotto la maschera di intolleranze liberatrici la prepotenza del credersi e proclamarsi superiori, tutto ciò che ritiene nemico ogni prossimo che non si identifichi a noi, sta oggettivamente dalla parte dei torturatori. Tutto ciò che combatte il terrore con le armi del terrore non ha alcun diritto di giudicare i criminali di Abu Ghraib. Ma proprio per questo, pietà per i torturatori. Non solo perché non sanno quello che fanno e si fanno. Pietà anche per la nostra natura che in loro si disvela secondo la più perfetta misura della sua miseria. Essa consiste essenzialmente nel credere che la propria superiorità (e perciò la propria stessa sicurezza) si esprima nella capacità di abbassare l'altro, di umiliarlo. Che la nostra vittoria consista nella totale sconfitta di chi ci ha affrontato. In questa fede trova fondamento il nostro male radicale. I torturatori di Abu Ghraib non sanno che la tortura innalza, invece, la vittima; che il terrore che infliggono non rifletterà, alla fine, che la loro stessa angoscia impotente. Quando i vincitori vedono nell'annichilimento del nemico la misura della propria forza, la loro vittoria è destinata a trasformarsi in impotente prosecuzione della guerra.
Forse anche a loro nelle scuole e nelle accademie tutto ciò era stato insegnato. Umano, troppo umano: comprendere ciò che sarebbe bene, e tanto a parole esaltarlo quanto contraddirlo nei fatti.
giudici, psichiatri, prigioni
La Stampa 7.5.04
SECONDO I GIUDICI IL RICOVERO NON SERVE
«L’ospedale psichiatrico è inutile per un omicida»
di A.Gaino
«L’ospedale psichiatrico giudiziario è soltanto un luogo di contenimento e non anche di cura. Non si può mandarvi a vivere per 5 anni un imputato di omicidio giudicato totalmente infermo di mente e attualmente ricoverato in una comunità psichiatrica protetta».
La legge, quando si tratti di soggetti socialmente pericolosi come in questo caso, non detta alternative al vecchio manicomio giudiziario. Perciò la prima Corte d’assise ha sollevato un’eccezione di costituzionalità che, se accolta dalla Consulta, potrebbe rivelarsi dirompente per il «sistema custodialistico» degli ospedali psichiatrici giudiziari e la pessima fama che li circonda. Il caso è quello del ventiseienne Davide Santoli che, il 20 ottobre 2002, uccise a coltellate il padre a Cambiano. A conclusione del dibattimento, accusa e difesa hanno concordato che il giovane non può essere punibile e il pm Manuela Pedrotta ne ha chiesto l’internamento in un ospedale psichiatrico giudiziario. I giudici hanno rinviato la sentenza per evitare che le terapie cui è sottoposto Santoli in una comunità psichiatrica protetta (i pazienti sono sorvegliati e non possono venirne via) «siano interrotte con pregiudizio della sua salute e dei piccoli miglioramenti prodotti dal complesso trattamento terapeutico cui è sottoposto».
La Corte ha disposto una perizia (lo psichiatra scelto, Mauro Nannini, ha ribadito la diagnosi per Santoli di «perdurante schizofrenia paranoide») e ascoltato gli specialisti che hanno seguito in precedenza Santoli al «Fatebenefratelli» di San Maurizio Canavese e poi nella nuova «struttura chiusa». E ieri ha emesso l’ordinanza scritta a quattro mani dal presidente Franco Giordana e dal giudice a latere Pier Giorgio Balestretti: «Sia la Corte Costituzionale a pronunciarsi se vada privilegiata la sola esigenza di sicurezza sociale» e «o non si debba piuttosto tener conto sia di questo profilo sia del dovere di curare tutti i cittadini, come la carta costituzionale prevede».
SECONDO I GIUDICI IL RICOVERO NON SERVE
«L’ospedale psichiatrico è inutile per un omicida»
di A.Gaino
«L’ospedale psichiatrico giudiziario è soltanto un luogo di contenimento e non anche di cura. Non si può mandarvi a vivere per 5 anni un imputato di omicidio giudicato totalmente infermo di mente e attualmente ricoverato in una comunità psichiatrica protetta».
La legge, quando si tratti di soggetti socialmente pericolosi come in questo caso, non detta alternative al vecchio manicomio giudiziario. Perciò la prima Corte d’assise ha sollevato un’eccezione di costituzionalità che, se accolta dalla Consulta, potrebbe rivelarsi dirompente per il «sistema custodialistico» degli ospedali psichiatrici giudiziari e la pessima fama che li circonda. Il caso è quello del ventiseienne Davide Santoli che, il 20 ottobre 2002, uccise a coltellate il padre a Cambiano. A conclusione del dibattimento, accusa e difesa hanno concordato che il giovane non può essere punibile e il pm Manuela Pedrotta ne ha chiesto l’internamento in un ospedale psichiatrico giudiziario. I giudici hanno rinviato la sentenza per evitare che le terapie cui è sottoposto Santoli in una comunità psichiatrica protetta (i pazienti sono sorvegliati e non possono venirne via) «siano interrotte con pregiudizio della sua salute e dei piccoli miglioramenti prodotti dal complesso trattamento terapeutico cui è sottoposto».
La Corte ha disposto una perizia (lo psichiatra scelto, Mauro Nannini, ha ribadito la diagnosi per Santoli di «perdurante schizofrenia paranoide») e ascoltato gli specialisti che hanno seguito in precedenza Santoli al «Fatebenefratelli» di San Maurizio Canavese e poi nella nuova «struttura chiusa». E ieri ha emesso l’ordinanza scritta a quattro mani dal presidente Franco Giordana e dal giudice a latere Pier Giorgio Balestretti: «Sia la Corte Costituzionale a pronunciarsi se vada privilegiata la sola esigenza di sicurezza sociale» e «o non si debba piuttosto tener conto sia di questo profilo sia del dovere di curare tutti i cittadini, come la carta costituzionale prevede».
un altro esempio dello stile del pensiero della scuola pisana:
«biochimica amorosa»
La Stampa 7.5.04
L’amore che cambia i sessi
di Maria Chiara Bonazzi
LONDRA. L’INNAMORAMENTO rende le donne temporaneamente più simili agli uomini e gli uomini più simili alle donne. Il testosterone è il grande equalizzatore di un rapporto di coppia ai suoi albori: secondo Donatella Marazziti, psichiatra dell'Università di Pisa, i livelli di questo ormone scendono nei maschi e aumentano nelle femmine durante il periodo iniziale di esaltazione, rendendo entrambi i sessi più disposti a chiudere un occhio sui difetti reciproci. E' come se la biochimica amorosa procrastinasse per un anno o due gli inevitabili bisticci del sabato pomeriggio, quando lei vuole andare a vedere i mobili e lui non transige sulla partita di calcetto.
Tanto dura, infatti, l'idillio ormonale fra due innamorati, durante il quale i livelli di testosterone che convergono sembrano scongiurare per il momento le battaglie termonucleari nella guerra fra i sessi. La ricerca, stralciata dalla rivista britannica «New Scientist», ha paragonato 12 uomini e 12 donne che si erano innamorati nel corso degli ultimi 6 mesi con altri 24 volontari single o coinvolti in una relazione di lunga durata. I livelli di testosterone delle coppie novelle non sembrano ricollegabili all’aumento dell’attività sessuale, la cui frequenza era simile fra le coppie veterane. La cosa strana è che, secondo altri studi, la quantità di testosterone nei maschi dovrebbe aumentare con l’amore fisico, anziché diminuire. Evidentemente, in questa fase, la natura insegna a ciascun sesso a vedere il mondo con gli occhi dell’altro, anche se foderati di prosciutto.
Repubblica 7.5.04
Ricerca italiana pubblicata su New Scientist: nei primi mesi di una relazione maschio meno macho, femmina più mascolina
L'amore? Uno scambio di ormoni
Ecco la "chimica" della passione: uomini e donne più simili
Lo studio effettuato all´Università di Pisa da Donatella Marazzita
Durante l'innamoramento il livello di testosterone diminuisce nell'uomo e aumenta nella donna
L'indagine su 12 coppie insieme da non più di sei mesi a confronto con 12 coppie di lunga durata
di ENRICO FRANCESCHINI
LONDRA - Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, dicono qualche volta gli psicologi per spiegare le differenze tra i due sessi. Ma quando un uomo e una donna si innamorano, di colpo è come se appartenessero entrambi allo stesso pianeta. Ad affermarlo è il "New Scientist", prestigiosa rivista scientifica britannica, che cita i risultati di una ricerca effettuata all´università di Pisa da una studiosa italiana, Donatella Marazzita. La quale ha scoperto che, durante la fase dell´innamoramento, il livello di produzione del testosterone, l´ormone maschile associato con l´idea di virilità e aggressività, diminuisce considerevolmente nell´uomo e aumenta considerevolmente nella donna. In pratica, secondo la dottoressa Marazzita, l´uomo diventa meno «macho» e la donna diventa più mascolina: «E´ come se i due sessi, all´improvviso, registrassero un calo delle proprie caratteristiche originali per acquisire un po´ delle caratteristiche del partner». Insomma, quando si innamorano, per effetto di un cambiamento ormonale, uomo e donna diventano più simili, più reciprocamente comprensivi: dunque non c´è da stupirsi se, nei primi mesi di una relazione sentimentale, maschio e femmina vanno d´amore e d´accordo.
La ricerca ha misurato i livelli ormonali in un gruppo di 12 coppie che si erano innamorate da non più di sei mesi, mettendoli a confronto con quelli di 12 coppie di lunga durata. Il calo di testosterone negli uomini e l´aumento nelle donne si è sempre puntualmente verificato nelle coppie insieme da poco tempo. Qualche studioso obietta che il mutamento ormonale potrebbe dipendere dal fatto che, nella prima fase di una relazione, le coppie hanno rapporti sessuali più frequenti. Ma la dottoressa Marazzita assicura di avere controllato che la frequenza dei rapporti sessuali nei due gruppi fosse la stessa. E del resto altre ricerche indicano che, come conseguenza di un alto numero di rapporti sessuali, il testosterone negli uomini dovrebbe aumentare, non diminuire. Una ulteriore conferma del fenomeno è stata ottenuta misurando dopo un paio di anni i livelli ormonali delle medesime 12 coppie di innamorati. Il fenomeno era scomparso: gli uomini avevano ripreso a produrre testosterone in abbondanza, e le donne a produrne molto poco. Ciascun sesso era tornato alle proprie caratteristiche originali.
L’amore che cambia i sessi
di Maria Chiara Bonazzi
LONDRA. L’INNAMORAMENTO rende le donne temporaneamente più simili agli uomini e gli uomini più simili alle donne. Il testosterone è il grande equalizzatore di un rapporto di coppia ai suoi albori: secondo Donatella Marazziti, psichiatra dell'Università di Pisa, i livelli di questo ormone scendono nei maschi e aumentano nelle femmine durante il periodo iniziale di esaltazione, rendendo entrambi i sessi più disposti a chiudere un occhio sui difetti reciproci. E' come se la biochimica amorosa procrastinasse per un anno o due gli inevitabili bisticci del sabato pomeriggio, quando lei vuole andare a vedere i mobili e lui non transige sulla partita di calcetto.
Tanto dura, infatti, l'idillio ormonale fra due innamorati, durante il quale i livelli di testosterone che convergono sembrano scongiurare per il momento le battaglie termonucleari nella guerra fra i sessi. La ricerca, stralciata dalla rivista britannica «New Scientist», ha paragonato 12 uomini e 12 donne che si erano innamorati nel corso degli ultimi 6 mesi con altri 24 volontari single o coinvolti in una relazione di lunga durata. I livelli di testosterone delle coppie novelle non sembrano ricollegabili all’aumento dell’attività sessuale, la cui frequenza era simile fra le coppie veterane. La cosa strana è che, secondo altri studi, la quantità di testosterone nei maschi dovrebbe aumentare con l’amore fisico, anziché diminuire. Evidentemente, in questa fase, la natura insegna a ciascun sesso a vedere il mondo con gli occhi dell’altro, anche se foderati di prosciutto.
Repubblica 7.5.04
Ricerca italiana pubblicata su New Scientist: nei primi mesi di una relazione maschio meno macho, femmina più mascolina
L'amore? Uno scambio di ormoni
Ecco la "chimica" della passione: uomini e donne più simili
Lo studio effettuato all´Università di Pisa da Donatella Marazzita
Durante l'innamoramento il livello di testosterone diminuisce nell'uomo e aumenta nella donna
L'indagine su 12 coppie insieme da non più di sei mesi a confronto con 12 coppie di lunga durata
di ENRICO FRANCESCHINI
LONDRA - Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere, dicono qualche volta gli psicologi per spiegare le differenze tra i due sessi. Ma quando un uomo e una donna si innamorano, di colpo è come se appartenessero entrambi allo stesso pianeta. Ad affermarlo è il "New Scientist", prestigiosa rivista scientifica britannica, che cita i risultati di una ricerca effettuata all´università di Pisa da una studiosa italiana, Donatella Marazzita. La quale ha scoperto che, durante la fase dell´innamoramento, il livello di produzione del testosterone, l´ormone maschile associato con l´idea di virilità e aggressività, diminuisce considerevolmente nell´uomo e aumenta considerevolmente nella donna. In pratica, secondo la dottoressa Marazzita, l´uomo diventa meno «macho» e la donna diventa più mascolina: «E´ come se i due sessi, all´improvviso, registrassero un calo delle proprie caratteristiche originali per acquisire un po´ delle caratteristiche del partner». Insomma, quando si innamorano, per effetto di un cambiamento ormonale, uomo e donna diventano più simili, più reciprocamente comprensivi: dunque non c´è da stupirsi se, nei primi mesi di una relazione sentimentale, maschio e femmina vanno d´amore e d´accordo.
La ricerca ha misurato i livelli ormonali in un gruppo di 12 coppie che si erano innamorate da non più di sei mesi, mettendoli a confronto con quelli di 12 coppie di lunga durata. Il calo di testosterone negli uomini e l´aumento nelle donne si è sempre puntualmente verificato nelle coppie insieme da poco tempo. Qualche studioso obietta che il mutamento ormonale potrebbe dipendere dal fatto che, nella prima fase di una relazione, le coppie hanno rapporti sessuali più frequenti. Ma la dottoressa Marazzita assicura di avere controllato che la frequenza dei rapporti sessuali nei due gruppi fosse la stessa. E del resto altre ricerche indicano che, come conseguenza di un alto numero di rapporti sessuali, il testosterone negli uomini dovrebbe aumentare, non diminuire. Una ulteriore conferma del fenomeno è stata ottenuta misurando dopo un paio di anni i livelli ormonali delle medesime 12 coppie di innamorati. Il fenomeno era scomparso: gli uomini avevano ripreso a produrre testosterone in abbondanza, e le donne a produrne molto poco. Ciascun sesso era tornato alle proprie caratteristiche originali.
Bellone, LE SCIENZE di Maggio e il Tempo
Le Scienze maggio 04
Il tempo prima del tempo
di Enrico Bellone
Ci sono domande che sembrano non avere età. Esistono, infatti, sin da quando Homo sapiens ha lasciato documenti scritti sulla natura circostante. Hanno cambiato forma di generazione in generazione: ma la loro sostanza è un’invariante dei nostri codici di comprensione, e tale rimane anche nei periodi in cui questi codici subiscono mutamenti forti.
Nell’età di Galilei si stampavano immagini in cui un essere umano cercava di far passare un’asticciola o una mano al di là dei confini dell’universo. E l’immagine conteneva un quesito che ancora oggi permane nel senso comune: ovvero, se il cosmo ha un confine, quali cose popolano lo spazio situato al di là del confine stesso? Nel 383 a.C. nasceva a Stagira il grande Aristotele, secondo il quale il mondo non aveva avuto un principio. Il cosmo era eterno, e non aveva allora senso parlare di un istante iniziale prima del quale non fosse esistito il tempo. Anche oggi, quando qualcuno parla dell’universo in espansione, molte persone si chiedono che cosa c’era prima del big bang, e dove stava. E quando si dice «prima», «che cosa» e «dove», si evocano il tempo, la materia e lo spazio. Come aveva scritto Einstein, nel nostro linguaggio siamo abituati a usare queste tre parole come nomi di entità che si possono pensare come se fossero tra loro indipendenti. Ed è noto che, a suo avviso, avremmo dovuto invece imparare a dire, più semplicemente, che «il mondo è, e non diviene». Una lezione difficile da apprendere, anche nella chiave ottimistica per cui, come Einstein annotava, la scienza è un affinamento del senso comune, anche quando ci appare da esso estranea.
Se ora torniamo al big bang, incappiamo in buone ragioni per credere che si stiano aprendo nuovi scenari post-einsteniani. Ce ne parla Gabriele Veneziano nell’articolo che pubblichiamo a pagina 40. È un articolo che esce in contemporanea con «Scientific American», e che si inserisce nel quadro dei contributi che la nostra rivista regolarmente dedica al problema cosmologico. Vi si inserisce con una doppia valenza: è innovativo, ed è scritto in modo magistrale. Per quanto riguarda l’aspetto innovativo, veda il lettore. Ricordando però che, se oggi si può discutere in forme nuove del big bang, ciò dipende dal fatto che sul finire degli anni sessanta fu lo stesso Gabriele Veneziano a elaborare un modello sulle particelle nucleari che sta alla radice della teoria delle stringhe. Sulla magistralità, essa poggia sulla semplicità argomentativa. Veneziano dimostra infatti che si può scrivere bene di faccende intricate, a patto di conoscere benissimo il problema e di voler farsi capire.
Capire da chi? Da tutti coloro che, pur non lavorando sulle frontiere della fisica, possiedono quella cultura di sfondo che consente loro di porsi domande profonde e di cercarne non soluzioni definitive tra le braccia di qualche filosofia prima, ma soluzioni sempre più generali nella tradizione classica della filosofia naturale. La tradizione, per l’appunto, degli Aristotele, dei Galilei e degli Einstein.
Il tempo prima del tempo
di Enrico Bellone
Ci sono domande che sembrano non avere età. Esistono, infatti, sin da quando Homo sapiens ha lasciato documenti scritti sulla natura circostante. Hanno cambiato forma di generazione in generazione: ma la loro sostanza è un’invariante dei nostri codici di comprensione, e tale rimane anche nei periodi in cui questi codici subiscono mutamenti forti.
Nell’età di Galilei si stampavano immagini in cui un essere umano cercava di far passare un’asticciola o una mano al di là dei confini dell’universo. E l’immagine conteneva un quesito che ancora oggi permane nel senso comune: ovvero, se il cosmo ha un confine, quali cose popolano lo spazio situato al di là del confine stesso? Nel 383 a.C. nasceva a Stagira il grande Aristotele, secondo il quale il mondo non aveva avuto un principio. Il cosmo era eterno, e non aveva allora senso parlare di un istante iniziale prima del quale non fosse esistito il tempo. Anche oggi, quando qualcuno parla dell’universo in espansione, molte persone si chiedono che cosa c’era prima del big bang, e dove stava. E quando si dice «prima», «che cosa» e «dove», si evocano il tempo, la materia e lo spazio. Come aveva scritto Einstein, nel nostro linguaggio siamo abituati a usare queste tre parole come nomi di entità che si possono pensare come se fossero tra loro indipendenti. Ed è noto che, a suo avviso, avremmo dovuto invece imparare a dire, più semplicemente, che «il mondo è, e non diviene». Una lezione difficile da apprendere, anche nella chiave ottimistica per cui, come Einstein annotava, la scienza è un affinamento del senso comune, anche quando ci appare da esso estranea.
Se ora torniamo al big bang, incappiamo in buone ragioni per credere che si stiano aprendo nuovi scenari post-einsteniani. Ce ne parla Gabriele Veneziano nell’articolo che pubblichiamo a pagina 40. È un articolo che esce in contemporanea con «Scientific American», e che si inserisce nel quadro dei contributi che la nostra rivista regolarmente dedica al problema cosmologico. Vi si inserisce con una doppia valenza: è innovativo, ed è scritto in modo magistrale. Per quanto riguarda l’aspetto innovativo, veda il lettore. Ricordando però che, se oggi si può discutere in forme nuove del big bang, ciò dipende dal fatto che sul finire degli anni sessanta fu lo stesso Gabriele Veneziano a elaborare un modello sulle particelle nucleari che sta alla radice della teoria delle stringhe. Sulla magistralità, essa poggia sulla semplicità argomentativa. Veneziano dimostra infatti che si può scrivere bene di faccende intricate, a patto di conoscere benissimo il problema e di voler farsi capire.
Capire da chi? Da tutti coloro che, pur non lavorando sulle frontiere della fisica, possiedono quella cultura di sfondo che consente loro di porsi domande profonde e di cercarne non soluzioni definitive tra le braccia di qualche filosofia prima, ma soluzioni sempre più generali nella tradizione classica della filosofia naturale. La tradizione, per l’appunto, degli Aristotele, dei Galilei e degli Einstein.
in un documentario, una intervista a Marco Bellocchio
Libertà 7.5.04
Stasera il video su Vegezzi(*)
Stasera alle 21.30 nel Salone Nelson Mandela della Camera del Lavoro di via XXIV Maggio a Piacenza verrà presentato in anteprima (ingresso libero) il documentario “La rivolta e l'incanto” su Nello Vegezzi realizzato per l'associazione Kairòs dal regista piacentino Stefano Sanpaolo, con la collaborazione di Mario Sgorbati, Ettore Sola, Federica Ravera. Presenta interviste a Marco e Piergiorgio Bellocchio.
(*) scultore, pittore e poeta dialettale piacentino
(c) 1998-2002 - LIBERTA'
Stasera il video su Vegezzi(*)
Stasera alle 21.30 nel Salone Nelson Mandela della Camera del Lavoro di via XXIV Maggio a Piacenza verrà presentato in anteprima (ingresso libero) il documentario “La rivolta e l'incanto” su Nello Vegezzi realizzato per l'associazione Kairòs dal regista piacentino Stefano Sanpaolo, con la collaborazione di Mario Sgorbati, Ettore Sola, Federica Ravera. Presenta interviste a Marco e Piergiorgio Bellocchio.
(*) scultore, pittore e poeta dialettale piacentino
(c) 1998-2002 - LIBERTA'
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