martedì 15 luglio 2003

Hannah Arendt secondo Pietro Citati

Repubblica 15.7.03
La fanciulla con gli occhi brillanti che cercava la verità del mondo
la vita e le idee /1

Conobbe Henrich Blücher, un bellissimo tedesco dal naso in su, che fumava la pipa e aveva sette anni più di lei
Scrisse cose bellissime ma il suo incantesimo veniva da più lontano, dall´essenza segreta della persona, da un dono occulto
Fu a Praga , a Ginevra e poi a Parigi dove cominciò a lavorare per organizzazioni ebraiche d´assistenza: vi rimase fino al 1941
Nell´autunno del 1924 si iscrisse a filosofia, teologia e filologia classica presso l´Università di Marburg dove insegnava Martin Heidegger di cui si innamorò in modo assoluto, come colpita da una folgore che l´avesse carbonizzata
Il filosofo, allora trentacinquenne, non aveva ancora scritto "Essere e tempo" ma era già riconosciuto come il re del pensiero
Come dissero Hans Jonas e Mary McCarthy il suo sguardo radioso diventava pieno di solitudine
Nell´estate del 1933 abbandonò la Germania e anche il suo professore di Heidelberg Karl Jaspers

di PIETRO CITATI
Le origini dell´antisemitismo sono antichissime. Era già diffuso, lungo i paesi del Mediterraneo, nel quarto o terzo secolo avanti Cristo, quando ebbe luogo la prima emigrazione giudaica. Sugli Ebrei circolavano leggende simili a quelle narrate dai cattolici sino alla fine del diciannovesimo secolo, e oggi ripetute dai musulmani. Persino Tacito, il più grande e severo tra gli storici, che non sapeva niente di Israele, raccontava che gli Ebrei - questa taeterrima gens, «pervicacemente superstiziosa», «odiata dagli dèi» - veneravano una testa d´asino. Un altro storico, Apione, diceva che nel loro Tempio compivano sacrifici rituali di stranieri, ingrassati a forza come Pollicino. Solo la menzogna è immortale.
La spiegazione di questo antisemitismo è semplice. Tra i popoli del Mediterraneo e del Medio Oriente, gli Ebrei erano (quasi) gli unici monoteisti. Mentre gli altri popoli possedevano un pantheon colorato, che accoglieva sempre nuove figure, fuse e mescolate con quelle antiche, gli Ebrei avevano un solo Dio: unico, esclusivo, eternamente immutabile, che non nasceva come gli dèi greci e non moriva come quelli egiziani. Questo Dio era possente e tremendo, e non poteva venir rappresentato con immagini umane o animali. Bisognava osservare la Legge, che egli aveva promulgato, i riti che aveva imposto, ed essere puri. Chi cercava di restare puro, doveva vivere separato: non condividere i pranzi con i vicini pagani, dove si mangiavano cibi che il rito proscriveva; e a volte nemmeno parlarne la lingua. Come dice Tacito, questi «misantropi» erano «separati a tavola». Nessuno straniero doveva entrare, pena la morte, nel Tempio di Gerusalemme. Nessun Ebreo doveva venerare le statue degli altri dèi o degli imperatori, mentre i pagani veneravano sia Dioniso sia Osiride, sia Demetra sia Iside, Augusto, Nerone o Caligola.
Proprio perché gli Ebrei vivevano separati, attraevano le immaginazioni dei popoli antichi. Molti stranieri portavano offerte votive e ordinavano sacrifici ai sacerdoti dell´immenso Tempio scintillante d´oro, due volte costruito, due volte distrutto: la seconda volta per sempre. Quale era il vero Dio di Israele? Cosa accadeva nel Tempio di Gerusalemme, dove i pagani non potevano penetrare? Qual era il nome segreto di Jahve, ignoto persino al suo popolo? Quando sarebbe venuto il Messia, il Cristo? Forse non ci fu evento che colpì le fantasie antiche come ciò che accadde nel 63 a.C. Pompeo Magno entrò nel Tempio di Gerusalemme, penetrò sino al Santo dei Santi, la piccola stanza dove aleggiava lo Spirito di Dio, e dove solo il Sommo Sacerdote poteva insinuarsi una volta l´anno. Non scorse nulla. La stanza era completamente vuota. Dunque il cuore della religione giudaica era un bugigattolo pieno di ragni? Alcuni Greci e Romani compresero che il Santo dei Santi era vuoto perché solo il Vuoto può alludere all´essenza inafferrabile e incomprensibile di Dio.
[*** ]
Nell´autunno del 1924, Hannah Arendt, si iscrisse a filosofia, teologia e filologia classica presso l´università di Marburg - l´università dove insegnava Martin Heidegger. Era una bellezza ebrea, una di quelle brune e ricciute figlie di Sion ricordate nel Cantico dei Cantici attorno all´Amato. Aveva «occhi brillanti e scintillanti come stelle quando era felice e appassionata»: vere finestre, dalle quali si intravedeva il vasto lago dell´anima. Amava ridere con gli amici: chiacchierare per ore: essere corteggiata; prendersi gioco di sé stessa e degli altri. Desiderava la felicità con un candore infantile; e, malgrado le sventure sue e del suo popolo, avrebbe conosciuto la gioia leggera degli dèi greci. «Sono molto felice, avrebbe detto venti anni più tardi, perché non si può andare contro la propria vitalità naturale. Il mondo, così come Dio l´ha creato, a me sembra buono». Possedeva il dono della naturalezza: il senso che tutte le cose che si dicono e i gesti che si fanno sono giusti. Per adattarsi alle speranze del cuore, portava un elegantissimo abito verde. Die grüne, «la verde», la soprannominavano gli studenti di Marburg.
Aveva grandi mete: ricercare i doni dello spirito, l´essenza della vita, il cuore delle cose, la verità nascosta del mondo. Per lei, era un compito, che imponeva in primo luogo a sé stessa. Voleva diventare ciò che era, realizzando sino in fondo l´idea che Dio aveva posto in lei quando l´aveva creata - a tutti i costi, anche se ciò, forse, avrebbe significato avvilirsi nell´esistenza. Con una parte di sé, era luciferina e intoccabile: indifferente a ciò che la vita le imponeva, perché mai avrebbe potuto intaccare l´essenza adamantina della sua anima. Perciò, durante la giovinezza e la maturità, fu dura, arrogante, cocciuta, piena di disprezzo e di terribili collere, impaziente, sarcastica, sferzante. Non ebbe mai pietà o compassione verso sé stessa. Non conobbe il sentimento della vanità personale, perché le premeva realizzare l´idea che Dio aveva posto in lei, idea della quale non aveva nessun merito. Non provava nessuna considerazione di sé: disprezzava o nascondeva i propri sentimenti, fingeva che tutto procedesse bene anche se nell´intimo era disperata; cercava di proteggersi con la più austera e severa discrezione - discrezione che il mondo moderno ha dimenticato. Era generosissima. Il suo primo gesto era quello di sacrificarsi, come aveva appreso da una delle figure essenziali della sua mente, Gesù Cristo.
Come dissero Hans Jonas e Mary McCarthy, quegli occhi radiosi di felicità diventavano, all´improvviso, pieni di solitudine: «profondi, tenebrosi, stagni di interiorità». La creatura della luce era anche una figlia della notte. La mattina stentava ad uscire dai sogni; e solo a poco a poco riusciva faticosamente a mettere piede nel giorno. Spesso disse scherzando agli amici che non possedeva un´anima: ma, quando inviò a Heidegger la prosa intitolata Ombre, non era altro che anima, un´ombrosa e illimitata anima romantica. Non aveva rapporti con la realtà e gli avvenimenti: viveva solitaria in un sonno incantato: conosceva solo i propri riflessi: provava angoscia, nostalgia, attesa; quella che Goethe chiamava Sorge, la Cura, le oscurava la luce. Il minimo evento, il minimo oggetto, qualsiasi parola potevano ferirla; e spesso si colpiva e si feriva con le sue mani. Ma questo intreccio, nei suoi sguardi di luce e di tenebra, questa alternanza, nella sua esistenza, di felicità leggera e di nostalgia, di dolore e di durezza, attraeva gli amici. In quei vasti occhi, «uno sprofondava e temeva di non poter più riaffiorare alla superficie». Per tutta la vita, il suo fascino attrasse coloro che la incontravano: studenti ebrei e cattolici, professori, romanzieri, poeti, portieri, albergatori, editori, giornalisti alla caccia di interviste. Scrisse cose bellissime: ma il suo incantesimo veniva da più lontano, dall´essenza segreta della persona, da quel dono occulto che qualcuno - forse il Dio della Bibbia - nascose dentro di lei.
Quando, a diciotto anni, si iscrisse a Marburg, una fama la precedeva: quella di Martin Heidegger, allora trentacinquenne, che non aveva ancora scritto Essere e tempo, ma era già riconosciuto «come il re nascosto del regno del pensiero». Con lui - si diceva - il pensiero aveva ripreso a vivere; e il patrimonio culturale del passato, che si credeva estinto, parlava con una nuova voce. Il suo era un pensiero appassionato, nel quale «pensare ed essere vivo erano la stessa cosa». Quando Hannah Arendt ascoltò Heidegger dalla cattedra, pensò che nessuno aveva mai parlato in quel modo di filosofia; e per cinquant´anni ricordò, piena di timore e di venerazione, il periodo di Marburg, «quando tu eri il mio insegnante». Guardando verso la cattedra, gli occhi le brillavano. Essere lodata da lui la faceva arrossire. Siccome quello di Heidegger era un pensiero appassionato, si innamorò con passione dell´anima e del corpo di quel pensiero: non distinse tra filosofia e persona. Lo vide per la prima volta da solo all´inizio del febbraio 1925: quando - ricorda Heidegger in uno dei rari passi delle sue lettere che leggiamo senza disgusto - «una fanciulla con l´impermeabile, il cappello calcato sopra i grandi occhi, entrò per la prima volta nel mio studio, e, timida e riservata, diede una breve risposta a tutte le mie domande».
Almeno da parte di Hannah Arendt, fu il grande amore. Venticinque anni dopo, mentre componeva il suo Denktagebuch, il suo Zibaldone, comprese di essere stata colpita dalla folgore, che l´aveva bruciata dalla testa ai piedi e fatta rinascere. Era stato uno sguardo, un fulmine sacro: una forza divina, che abitava nel cuore, ma non era un sentimento e non apparteneva al cuore, aveva fatto risplendere le tenebre, trasformandole in luce e cancellando le altre passioni e desideri. Quel fuoco l´aveva carbonizzata, arso lo spazio tra lei e Heidegger, stabilito l´identità assoluta tra loro, distrutto il mondo, cancellato gli altri uomini. Non c´era più, da parte sua, che «inflessibile dedizione a qualcosa di unico»: «cuore spezzato e donato».
Ricordò la sua adolescenza, quando immaginava che poteva esistere soltanto nell´amore e proprio per questo aveva paura di perdersi. Ora si era perduta completamente: era precipitata nell´abisso erotico, dimenticando e cancellando il proprio io. Non c´era più: solo un´ombra, con «gli stagni tenebrosi degli occhi». Si accorse che con Heidegger non parlava mai o non diceva mai vere parole: la persona di lui le era indifferente, e non le importava nulla delle sue qualità e dei suoi difetti. Sebbene lo stringesse tra le braccia, egli era un estraneo: uno straniero che aveva incontrato per caso. Tra loro il mondo «era bruciato». «Nell´amore, rifletté venticinque anni dopo nel Denktagebuch, non c´è comunità, perché la sfera di ciò che è comune, il mondo, in esso viene consumato». Queste erano le leggi dell´amore: niente speranza, niente comunità, niente fiducia, niente amicizia, niente parole - solo estraneità e solitudine, sebbene il lampo continuasse a bruciare e il fuoco ad ardere sino alla fine della vita. Era divenuta un fantasma, distesa accanto a un cupo fantasma.
Mentre amava Heidegger senza rimedio, Hannah Arendt comprese che non poteva continuare a vederlo, perché tra loro non c´era mondo, e lei aveva bisogno di mondo. Non poteva abitare nella estraneità, nella solitudine e nel silenzio. Così rinunciò a lui: lo abbandonò, sia pure dapprima in modo non definitivo, pronta a rivederlo ad una stazione o in un albergo. Lui, forse, aveva bisogno di questo sanguinoso sacrificio. Hannah andò a studiare prima a Freiburg, poi ad Heidelberg. Non aveva più nulla: non esigeva nulla; era divenuta nulla, senza nome né corpo. «Ti amo come il primo giorno», «sono decisa a non amare più nessuno», ripeteva. Un giorno, mentre stava alla stazione, lo vide da lontano al finestrino di un treno: il treno partì, e lui, si allontanò dalla stazione senza vederla né riconoscerla. Si sentì abbandonata per sempre, con la paura cieca di una bambina abbandonata dalla madre. Lei stava in basso, sola, ferma vicino al binario del treno, e doveva «aspettare, aspettare, aspettare» qualcuno che non sarebbe mai ritornato.
Così, per venticinque anni, lasciando la Germania e l´Europa, custodì Heidegger nella memoria: perché l´amore, si accorse, vive soprattutto nell´abbandono. Gli amanti sono persone che si lasciano e si ricordano l´uno dell´altro, nel silenzio intollerabile della mente. Gli fu fedele nella memoria: non dimenticò mai «il re nascosto», che le aveva parlato nelle aule di Marburg e nella sua mansarda. Quando lo rivide, nel marzo 1950, comprese che non aveva mai cessato di amarlo, e costruì la sua teoria dell´amore. Fu ingiusta: perché quella teoria raccoglie ed elabora soltanto i suoi ricordi di Heidegger, come se tutta la storia erotica del mondo si fosse concentrata nei pochi mesi di Marburg. Dimenticò che aveva amato moltissimo, sia pure senza fulmini e fuoco e rivelazioni sacre, il suo secondo marito, Heinrich Blücher, conosciuto nel 1936 a Parigi.
Questi cinquant´anni di lettere conservate e perdute, di pensieri e ricordi taciuti e di frasi criptiche sparse nei libri, formano una delle grandi storie amorose del secolo, che Hannah Arendt - proprio lei, la felice, la ridente - visse come un´angosciosa eroina romantica. Lei prestò la voce, intonò la musica, dettò il tono, impose le frasi. Non c´era altra voce, perché Martin Heidegger era un fantasma ridicolo. «All´improvviso, egli scrisse, l´essere ci folgora. Lo scrutiamo, lo custodiamo - ci lanciamo nella danza». Per cinquant´anni, Heidegger fu un mediocre professore tedesco che danzava: un penoso e pedante pastore dell´Essere. Non era mai naturale, non sorrideva mai, non si distendeva mai, si prendeva terribilmente sul serio, perché il suo pensiero - e lui attraverso il suo pensiero - doveva essere tradotto, interpretato, moltiplicato, adorato, come l´unica Bibbia dell´Occidente.
Le lettere di Heidegger alla Arendt attendono di essere affidate a due moderni Bouvard e Pécuchet che le copino e le chiosino per il divertimento di tutti. «La tua essenza di pura fanciulla»: «La Cosa decisiva rimane il mantenere integra la più autentica autenticità femminile»: «Il tuo grande momento, in cui diventi una santa»: «Ci sono ombre soltanto dove c´è il sole»: «Sei semplicemente felice e in cammino verso la felicità» (mentre lei soffriva terribilmente). Decorava le sue lettere con frasi musicali, per creare attorno ad esse la giusta atmosfera: «Bach, Concerto brandeburghese n.3. Secondo movimento. Allegro» o «Beethoven, Opus 111. Adagio Finale». Inviava alla Arendt, a Manhattan, una foglia d´edera: la foglia apparteneva a un viticcio, che anni prima contadini della Foresta Nera avevano data a sua moglie: «Decorano le loro stanze con questa edera, senza sapere più niente delle corone del dio cui piaceva adornarsi d´edera». Attraverso l´Atlantico la foglia d´edera avrebbe dovuto creare quell´atmosfera di frenesia dionisiaca, che il vecchio professore aveva desiderato invano per tutta la vita.
[ *** ]
Nell´estate del 1933, Hannah Arendt abbandonò la Germania: Hitler, il nazismo, Heidegger, i professori e gli scrittori divenuti nazisti, e perfino il suo professore di Heidelberg, Karl Jaspers, un futuro eroe dell´antinazismo, che qualche mese prima, quando Hitler stava per prendere il potere, lodava «la buona volontà e lo slancio» dei giovani nazionalsocialisti e le chiese perché lei, ebrea, volesse «distinguersi dall´essenza tedesca».
Fu a Praga, a Ginevra; e nell´autunno, a Parigi, dove cominciò a lavorare per organizzazioni ebraiche d´assistenza. A Parigi, rimase fino al 1941: dichiarò più tardi che erano stati gli anni più felici della sua vita, nei quali lei e il suo secondo marito, Heinrich Blücher, «siamo veramente divenuti ciò che siamo».
Abitò prima in un alberghetto a rue Saint-Jacques, poi a rue de la Convention: infine per molti anni, insieme a Heinrich Blücher, all´albergo Principautés unies, 6 rue Servandoni, camera numero 19, tra Saint-Sulpice e il Jardin du Luxembourg. Joseph Roth viveva a due passi, in un albergo a rue de Tournon: Walter Benjamin, cugino del primo marito di Hannah Arendt, più lontano, a 10 rue Dombasle. La Arendt pensava che Parigi fosse l´unico luogo dove vivere. La città era come una casa con moltissime stanze: si sentiva libera, a suo agio; e insieme era «alloggiata», «protetta», rinchiusa dalle facciate uniformi che fiancheggiavano le strade come muri interni. Usciva lungo rue de Vaugirard, nel Jardin du Luxembourg o a boulevard Saint-Germain, o nelle stradine che portavano fino alla Senna: poteva passeggiare senza fine né scopo, davanti ai caffè lungo le strade, immersa e abbandonata nella fluida moltitudine della folla. Era la sua città, che proteggeva gli stranieri e gli apatridi come lei, tutti coloro che non desideravano guadagnare, far carriera e raggiungere una meta.
Da ragazza, mentre viveva a Königsberg o studiava a Marburg, corteggiata dai giovani compagni cattolici, non si era mai sentita ebrea. Scrisse a Jaspers che essere ebrei significava obbedire a un destino; e lei voleva liberarsi dal destino. Con la violenza dei fatti, Hitler le fece comprendere che era ebrea, nient´altro che ebrea: quello era il suo destino, e lei doveva seguirlo sino in fondo. Non se ne sarebbe mai più distaccata. «Se si viene attaccati in quanto ebrei, dobbiamo difenderci - avrebbe detto - in quanto ebrei: non in quanto tedeschi, non in quanto cittadini del mondo, non in quanto difensori dei diritti umani». Un tempo, non accettava sé stessa, né le condizioni esterne, i dati, i limiti, tra i quali viveva. Ora aveva una specie di gratitudine per tutto ciò che era così come era: per ciò che le era stato dato dalla natura e non poteva essere costruito dalla sua volontà. Essere ebrea era il cuore della sua esistenza.
Le notizie erano sempre più terribili: gli ebrei venivano cacciati dal lavoro, perseguitati, chiusi nei campi di concentramento, e fra poco sarebbero stati uccisi a milioni. Hannah Arendt aveva l´orgoglio di essere una paria; invisibile, nascosta, oscura, senza luce, senza passaporto, sebbene protetta dagli alberi e dai muri di Parigi. Era una persona umiliata ed offesa, che aveva subìto ingiustizia: una mendicante che viveva ai margini della società; una straniera che veniva da lontano, senza leggi né istituzioni, casa né protezione. Aveva perso il mondo, come accade agli innamorati. Ma gli abitanti della Realtà ignorano le consolazioni dei paria. I paria vedono e capiscono meglio: conoscono il piacere infantile di inventare e raccontare storie; e, soprattutto, quando sono cacciati dal mondo, si raccolgono tra loro, si serrano strettamente gli uni agli altri, si aiutano, con un calore, un affetto e una gioia così profondi, con un tale piacere di essere in vita, da suggerire «che l´esistenza raggiunge la sua pienezza solo tra coloro che sono umiliati e offesi». Questa fu la gioia di Hannah Arendt, negli otto anni in cui abitò a Parigi.
In quegli anni, la Arendt accusò gli ebrei d´Europa di avere dimenticato ed abbandonato la loro anima. Li accusò di essersi confusi con i francesi, i tedeschi, gli inglesi e i russi, posseduti da un perverso piacere di trasformarsi e cancellarsi. Li accusò di essere passivi, fuggendo per sopravvivere. Erano soltanto dei parvenus, servi dei potenti di ogni paese: non formavano più un popolo, e non conoscevano più l´arte della politica e della guerra. Pensò, e più tardi scrisse queste cose con furore, rabbia ed ingiustizia. Ma aveva dimenticato, o non conosceva, gli aspetti principali della tradizione ebraica.
Dopo la cacciata da Gerusalemme nel primo secolo, gli ebrei avevano formato una classe dirigente a Roma, Baghdad, in Egitto, in Spagna, nell´Impero ottomano, in Austria-Ungheria: medici, ambasciatori, banchieri, consiglieri segreti; in primo luogo perché avevano riconosciuto in questo compito una missione religiosa. Essi pensavano che, a causa di un peccato di Israele, Dio avesse affidato la sovranità agli imperatori di Roma, ai califfi di Baghdad, agli imperatori ottomani, consegnando agli ebrei il compito di governare la terra al servizio dei potenti. Come disse ironicamente uno dei Rothschild, «noi non siamo dei principi, ma li governiamo». Hannah Arendt non comprese quasi nulla di questa vicenda di trionfi, persecuzioni ed esili, fasti e miserie, che formò la grandezza della Spagna, dell´Impero ottomano e dell´Austria-Ungheria. Vide servilità e passività in ciò che era attenzione, duttilità, cautela, molteplicità di talenti, accortezza, discrezione, qualche volta desolazione.
Non comprese cosa era stata l´apertura dei ghetti, e l´assimilazione ebraica nell´Europa del diciannovesimo secolo - una storia grandiosa, dolorosa e divertente, raccontata qualche anno prima da Proust e da Kafka. E ignorò o volle ignorare la tradizione giudaica nascosta: la mistica e teologia cabbalistica, che Scholem cominciava a raccontare in quegli anni, ricostruendo il passato sconosciuto di Israele. Non avrebbe potuto dire come Scholem: «Niente di ciò che è ebraico mi è estraneo». Malgrado la sua fedeltà, aveva perduto le proprie radici. Non aveva più passato: o soltanto il passato della tradizione greca e cristiana. Dietro le sue spalle, non c´era più Bibbia, né Talmud, né Zohar, né Sabbetay Sevi. In questo, era identica a una ebrea francese sua coetanea: Simone Weil.
Nella primavera del 1936, a Parigi, Hannah Arendt conobbe Heinrich Blücher, un bellissimo tedesco dal naso in su, che fumava la pipa, e aveva sette anni più di lei. Era l´opposto di Heidegger. Mentre Heidegger era un solenne professore e rettore universitario, Blücher, che si incuriosiva e incapricciava di tutto, musica e operetta, non aveva mai compiuto studi regolari: mentre il primo conosceva il furore della scrittura, il secondo avrebbe soltanto parlato e parlato, con molto talento, per tutta la vita: mentre Heidegger era un uomo della Legge, il secondo era talmente fuori legge, che non conosceva nemmeno il proprio recapito: mentre il primo coltivava con feroce tenacia il successo del suo pensiero, Blücher disprezzava qualsiasi idea borghese di successo: mentre Heidegger era tetro e austero (almeno con Hannah), il secondo era spiritoso, parodistico, un personaggio berlinese di Brecht fuggito dal teatro e disceso per le vie di Parigi: mentre il primo era stato nazista, Blücher era stato spartachista e comunista, sebbene avesse perduto ogni fiducia nelle «scimmie inviate dalla Direzione del Partito». Il clima cambiò. Le operette e le canzoni alla moda sostituirono Bach, Concerto brandeburghese numero 3 secondo movimento e Beethoven, Opus 111 Adagio. L´alberghetto di rue Servandoni pieno di dischi prese il posto della baita nella Foresta Nera, dove Essere e Tempo nasceva tra i pensosi abeti coperti di neve. Dopo mesi di passione sublime e silenziosa, di appuntamenti sulle panchine e alle stazioni, Hannah Arendt cominciò a respirare.
Qualche volta, Heinrich Blücher era sciocco. Scriveva come Stalin o Zdanov. «Noi dobbiamo sviluppare nelle masse popolari ebraiche gli elementi rivoluzionari anti-imperialisti». «Deve costituirsi una élite ebraica che veda che gli interessi del popolo ebreo sono indissociabili da quelli della rivoluzione degli operai, contadini e manovali contro l´imperialismo». «La nostra parola d´ordine è: "Operai e lavoratori ebrei! Liberiamo insieme, con gli operai e lavoratori arabi, la Palestina dal giogo dei ladroni inglesi e delle borghesia ebraica loro alleata". Questa è una politica ebraica materialista». Col suo acutissimo e crudele sguardo ironico, dubito che Hannah Arendt abbia mai ammirato la Questione ebraica secondo Heinrich Blücher. Era una donna; e sapeva che le donne debbono perdonare e tollerare, con apparente dolcezza, i vanitosi proclami dei loro signori, specie se sono belli, fumano la pipa e le amano.
Spesso Hannah Arendt e Heinrich Blücher risalivano insieme le piccole strade che attraversano place Saint-Sulpice e la Senna e vanno fino al Louvre. Ammiravano un quadro di Rembrandt: Betsabea con la lettera di Davide. Blücher non aveva letto o aveva dimenticato la Bibbia: non ricordava che il rapidissimo sguardo e la lettera di Davide alla sua suddita e il nascosto coito tra loro avrebbero trascinato dietro di sé le più tremende sventure di Israele - fino alla morte di Absalom con i capelli sospesi nell´enorme albero di terebinto, e al pianto di Davide: «Figlio mio! Absalom figlio mio! Figlio mio Absalom! Fossi io morto per te, Absalom figlio mio!». Nel quadro, Heinrich Blücher ammirò soltanto il corpo nudo, sensuale, appena usato dagli anni, di Betsabea: immaginò la sua toilette di Venere, le sue arti di amante, di dea, di sposa fedele, di prostituta sacra. Pensò che Betsabea fosse Hannah e Davide Lui - «l´uomo di lotta e di sofferenza, il rivoluzionario», che combatteva contro il nazismo.
Sebbene ignorasse la Bibbia, Heinrich Blücher amava Hannah Arendt molto più di quanto il cupo Davide di Rembrandt avesse amato Betsabea. Il suo amore non portò sventure né maledizioni: era passione, calore, fervore, ebbrezza, entusiasmo. Scriveva a Hannah con i colori più sensuali, che forse le sembrarono volgari: «Sono l´uomo il cui destino è di sondare i tuoi abissi - colui che ha l´ancora per ancorarsi in te, e la trivella che farà sgorgare da te tutte le sorgenti vive del piacere - l´uomo che ha l´aratro per lavorarti e animare tutte le linfe nutritive...». Le scriveva con slancio lirico e musicale, che derivava da Goethe, Baudelaire e da Nietzsche: «Mia meraviglia, mia bella, mia adorabile, mia gioia, mia fierezza, mio giardino di tutte le voluttà. Oggi ho passeggiato un´ora al Luxembourg e te sola occupavi le mie riflessioni e i miei pensieri, tutte le meraviglie della natura che osservavo con amore si raggruppavano amabilmente per metterti al loro centro... Il mio desiderio è sempre nuovo come il mio amore». Lei era la sua felicità: la sua luce, che si fondeva e si moltiplicava con la luce del mondo. Per tutto il resto della vita comune, Blücher guardò sempre Hannah con un sorriso affettuoso, indulgente e paterno. La ascoltava parlare, accennando tra sé, come se fosse una studentessa intelligentissima, che, per chissà quale caso, il destino gli aveva mandato.
Le lettere di Hannah Arendt erano più riservate, discrete e pudiche, come se volesse conservare un segreto. Ma aveva fiducia nel marito: lui le dava una grande gioia; aveva bisogno delle sue parole, delle sue lettere, della sua approvazione, della sua protezione. Aveva bisogno della «lente correttiva», che Blücher posava su di lei; e soprattutto della sua vicinanza. «Mi manchi sempre e dovunque - gli scriveva. Non solo la mattina tasto il letto e sono sorpresa di non trovarti: anche durante la giornata spesso mi giro involontariamente per vedere se per caso tu sei lì». Lei e il marito non formavano un solo essere. Non c´era mai stata, tra loro, la identità amorosa, che l´aveva arsa a Marburg, quando aveva amato Heidegger. Lei e Blücher erano due: diversi, divisi; ma si aiutavano a vicenda, dipendevano l´uno dall´altro, superavano insieme ogni prova, si rispecchiavano in una sola figura, camminavano per le strade secondo un medesimo ritmo. Quando erano insieme, formavano un mondo in miniatura, dove potevano salvarsi da ogni disastro. Esso conservava qualcosa dell´universo che li aveva cacciati. Tutte le tradizioni d´Europa, tutte le perle dei poeti e dei filosofi erano custodite nelle loro casseforti invisibili; e partendo di lì, con tenacia e pazienza, potevano ricostruire un mondo dove, un giorno, avrebbero ospitato gli amici.
Questo mondo non esisteva ai tempi di Heidegger. Allora c´era solitudine, silenzio, estraneità: ora compagnia, calore, affetti, comunità, parole. Hannah Arendt sapeva di essere fuggita da Marburg appunto perché là non c´era mondo. Cos´era dunque il rapporto con Heinrich Blücher, l´uomo dal naso in su, che fumava la pipa? Soltanto amicizia erotica? Non sappiamo. Ma certo Hannah Arendt, quando rivide Heidegger nel 1950 e rivelò nel Denktagebuch la sua teoria dell´eros, non ricordò nemmeno di scorcio e da lontano Heinrich Blücher, che amò per trentacinque anni e pianse disperatamente dopo la morte. L´amore assoluto restava Heidegger: la folgore, il fuoco, il gelo, il silenzio, la solitudine.
(1. Continua)

Gianni Vattimo, Luciana Sica, Herbert Marcuse

(citato al seminario)
Repubblica 15.7.03
L´INTERVISTA
Parla Gianni Vattimo: "Il suo pensiero della rivolta lo iscrive fra i grandi pensatori del secolo"
"Ma per lui la vera rivoluzione era anche liberarsi da se stessi"
La sua riflessione ancora attuale: ipotizza una liberazione "estetica" che non si lascia integrare
Riuscì a far capire che non basta rovesciare le classi dominanti, se non ci si libera dalla repressione interiore
LUCIANA SICA

ROMA - E´ un´idea oggi abbastanza diffusa: a Herbert Marcuse nuoce essere ricordato soprattutto come il filosofo della rivoluzione studentesca, mentre è tra i più importanti pensatori del Novecento. Ma quest´idea, a Gianni Vattimo, sembra piuttosto un luogo comune del tutto inconsistente. «Marcuse - dice - è un marxista critico, ma pur sempre un marxista, che non separa facilmente la teoria dalla prassi. Io non opporrei le sue qualità, perché anzi le due cose si tengono strettamente: è proprio il suo pensiero della rivolta che lo iscrive tra i grandi filosofi del secolo. Del resto anche Hegel, quando preparava i suoi scritti, era un ammiratore della Rivoluzione francese».
Oggi in che consiste la grandezza di Marcuse?
«Nell´aver liberato il marxismo dal puro sociologismo... Marcuse, con Eros e civiltà, mostra che non si può immaginare la rivoluzione solo come rovesciamento del potere della classe dominante, ma anche come rottura delle gerarchie repressive interne ai singoli individui. In questo unifica l´eredità di Marx con quella di Hegel, ma anche con l´insegnamento di Nietzsche».
E mostra di aver letto a fondo Freud...
«Senz´altro: legge Freud come Marx. Non è affatto un ideologo della psicoanalisi, Marcuse, ma lega saldamente lo strapotere invadente delle strutture sociali alle repressioni individuali. E quindi non può fare a meno di Freud. Naturalmente il problema è vedere se la fine dell´alienazione sia possibile. Marcuse lo crede davvero?».
Si direbbe di no. In fondo ritiene che la società repressiva sia congegnata in modo da integrare i "portatori di alternative": studenti, intellettuali, emarginati, poveri del mondo... Non è una posizione assolutamente pessimista?
«Non sono sicuro che fosse così disperato. Non era molto ottimista, è vero, ma la sua idea di un´uscita "estetica" dall´alienazione può ancora indicare una direzione realisticamente percorribile».
In che senso? Nel saggio del ´55 che lei citava, Eros e civiltà, Marcuse riconosce nella dimensione estetica il modello di un´esperienza non alienata, rivalutando la nozione romantica del "gioco" come principio di una cultura non repressiva. Ma oggi, di questa analisi, che cosa resta in piedi?
«Resta in piedi che non crediamo più nella possibilità e neppure nella necessità di trasformare totalmente la società. In questo siamo meno pessimisti di lui, nel senso che - pur non aspettandoci la rivoluzione globale - riteniamo possibile realizzare delle zone di esistenza autentica, appunto "estetica". E´ in fondo l´idea di prendersi cura di se stessi, anche al di fuori della presa del potere a tutti i costi, di una possibilità di spazi creativi individuali o di gruppi o anche di comunità».
Lei considera la lezione di Marcuse molto attuale, ma l´impressione è un´altra. Si potrebbe forse riassumere così: Marcuse negli anni Sessanta è un mito, ma poi il suo pensiero - come più in generale quello dei "francofortesi" - diventa quasi una zavorra del passato...
«Per quello che mi riguarda, parlo sempre di Marcuse: lo trovo un pensatore estremamente attuale, che intanto ha il merito di separare il progetto di autenticità dall´idea leninista di rivoluzione».
Ma il best-seller di Marcuse è L´uomo a una dimensione, dove si ipotizza un´omologazione di patrie, di razze, di individui... Non le sembra che il ritorno ai nazionalismi e alle teocrazie lo rendano abbastanza inservibile?
«Certamente, il saggio di Marcuse più attuale è Eros e civiltà, dove l´idea della liberazione sul piano estetico ipotizza molteplici forme di esistenza che non si lasciano integrare da nessuna parte. L´uomo a una dimensione introduce invece quel pessimismo totale sulla società tecnologica che può sfociare soltanto nel terrorismo o nell´inerzia».

cristianesimo dappertutto

Corriere della Sera, 14.7.03
Che sia una di quelle ironiche «astuzie della Storia» di cui ...

Che sia una di quelle ironiche «astuzie della Storia» di cui parlava Hegel? Di certo, il caso è curioso. In effetti, giovedì 10 luglio, a Bruxelles, con solenne cerimonia è stata presentata la bozza definitiva della Costituzione d’Europa. E’ quella nel cui preambolo non si è fatto il nome del Cristianesimo, provocando le ben note polemiche e la protesta della Santa Sede. Ma questa stessa Costituzione, nel definire i propri simboli, ribadisce solennemente che la bandiera europea è azzurra con dodici stelle disposte a cerchio. Ebbene: sia i colori, che i simboli, che la loro disposizione in tondo, vengono direttamente dalla devozione mariana, sono un segno esplicito di omaggio alla Vergine. Le stelle, in effetti, sono quelle dell’Apocalisse al dodicesimo capitolo: «Nel cielo apparve poi un segno grandioso: una Donna vestita di sole con la luna sotto i suoi piedi e sul suo capo una corona di dodici stelle». Quella Donna misteriosa, per la tradizione cristiana, è la madre di Gesù. Anche i colori derivano da quel culto: l’azzurro del cielo e il bianco della purezza verginale. Nel disegno originario, infatti, le stelle erano d’argento e solo in seguito hanno preso il colore dell’oro. Insomma: anche se ben pochi lo sanno, la bandiera che sventola su tutti gli edifici pubblici dell’Unione (e il cerchio di stelle che sovrasta l’iniziale dello Stato sulle targhe di ogni automobile europea) sono l’invenzione di un pittore che si ispirò alla sua fervente devozione mariana.
E’ una storia di cui circolano versioni diverse, ma che abbiamo ricostruito con esattezza già nel 1995, in un’inchiesta per il mensile di Famiglia cristiana , Jesus . La vicenda, dunque, inizia nel 1949 quando, a Strasburgo, fu istituito un primo «Consiglio d’Europa», un organismo poco più che simbolico e privo di poteri politici effettivi, incaricato di «porre le basi per un’auspicata federazione del Continente». L’anno dopo, anche per giustificare con qualche iniziativa la sua esistenza, quel Consiglio bandì un concorso d’idee, aperto a tutti gli artisti europei, per una bandiera comune. Alla gara partecipò pure Arsène Heitz, un allora giovane e poco noto designer che al tempo della nostra inchiesta era ancora vivo e lucido, pur se ultra novantenne. Heitz, come moltissimi cattolici, portava al collo la cosiddetta «Medaglia Miracolosa», coniata in seguito alle visioni, nel 1830, a Parigi, di santa Catherine Labouré. Questa religiosa rivelò di avere avuto incarico dalla Madonna stessa di far coniare e di diffondere una medaglia dove campeggiassero le dodici stelle dell’Apocalisse e l’invocazione: «Maria, concepita senza peccato, prega per noi che ricorriamo a te». La devozione si diffuse a tal punto nell’intero mondo cattolico da fare di quella «Medaglia Miracolosa» uno degli oggetti più diffusi, con molte centinaia di milioni di esemplari. Ne aveva al collo una di latta e legata con uno spago anche santa Bernadette Soubirous quando, l’11 febbraio del 1858, ebbe la prima apparizione della Signora, che apparve vestita proprio di bianco e di azzurro.
Ebbene, Arsène Heitz non era soltanto uno degli innumerevoli cattolici ad avere su di sé quella Medaglia nata da un’apparizione, ma nutriva una speciale venerazione per l’Immacolata. Dunque, pensò di costruire il suo disegno con le stelle disposte in circolo, come nella Medaglia, su uno sfondo di azzurro mariano. Il bozzetto, con sua sorpresa, vinse il concorso, la cui commissione giudicatrice era presieduta da un belga di religione ebraica, responsabile dell’ufficio stampa del Consiglio, Paul M. G. Lévy, che non conosceva le origini del simbolo, ma fu probabilmente colpito positivamente dai colori. In effetti, l’azzurro e il bianco (le stelle, lo dicevamo, non erano gialle ma bianche nel bozzetto originale) erano i colori della bandiera del neonato Stato d’Israele. Quel vessillo sventolò la prima volta nel 1891, a Boston, sulla sede della «Società Educativa Israelitica» e si ispirava allo scialle a strisce usato dagli ebrei per la preghiera. Nel 1897, alla Conferenza di Basilea, fu adottato come simbolo dell’Organizzazione Sionista Mondiale, divenendo poi nel 1948 la bandiera della repubblica di Israele. In una prospettiva di fede è felicemente simbolica questa unione di richiami cristiani ed ebraici: la donna di Nazareth, in effetti, è la «Figlia di Sion» per eccellenza, è il legame tra Antico e Nuovo Testamento, è colei nel cui corpo si realizza l’attesa messianica. Anche il numero delle stelle sembra collegare strettamente le due fedi: dodici sono i figli di Giacobbe e le tribù di Israele e dodici gli apostoli di Gesù. Dunque, il giudeo-cristianesimo che ha costruito il Continente unito in uno stendardo.
Sta di fatto che alcuni anni dopo la conclusione del concorso d’idee, nel 1955, il bozzetto di Heitz fu adottato ufficialmente come bandiera della nuova Europa. Tra l’altro, a conferma dell’ispirazione biblica e al contempo devozionale del simbolo, il pittore riuscì a far passare una sua tesi, che fu fatta propria dal Consiglio d’Europa. Ci furono critiche, infatti, visto che gli Stati membri erano all’epoca soltanto sei: perché, allora, dodici stelle? La nuova bandiera non doveva rifarsi al sistema della Old Glory, lo stendardo degli Usa, dove ad ogni Stato federato corrisponde una stella? Arsène Heitz riuscì a convincere i responsabili del Consiglio: pur non rivelando la fonte religiosa della sua ispirazione per non creare contrasti, sostenne che il dodici era, per la sapienza antica, «un simbolo di pienezza» e non doveva essere mutato neanche se i membri avessero superato quel numero. Come difatti avvenne e come ora è stato stabilito definitivamente dalla nuova Costituzione. Quel numero di astri che, profetizza l’Apocalisse, fanno corona sul capo della «Donna vestita di sole» non sarà mai mutato.
Per finire con un particolare che può essere motivo di riflessione per qualche credente: la seduta solenne durante la quale la bandiera fu adottata si tenne, lo dicevamo, nel 1955, in un giorno non scelto appositamente ma determinato solo dagli impegni politici dei capi di Stato. Quel giorno, però, era un 8 dicembre, quando cioè la Chiesa celebra la festa della Immacolata Concezione, la realtà di fede prefigurata da quella Medaglia cui la bandiera era ispirata. Un caso, certo, per molti. Ma forse, per altri, il segno discreto ma preciso di una realtà «altra», in cui ha un significato che per almeno mille anni, sino alla lacerazione della Riforma, proprio Maria sia stata venerata da tutto il Continente come «Regina d’Europa».
messori@numerica.it