una segnalazione di Roberto Altamura
Liberazione, 29.1.05
Bandire l’odio dalla politica
«… pulsione di annientamento dell’altro…»
di Rina Gagliardi
estratto dall’articolo in prima pagina:
«… L’ altro elemento potenzialmente molto efficace è quello che fa perno, stravolgendolo, sul bisogno diffuso – per quanto inespresso e confuso – di nuova politica. Perché è vero (lo diceva Massimo Cacciari a Otto e mezzo opportunamente stimolato da Ritanna Armeni) che in tutta la politica è immanente, implicita, in agguato costante, la categoria dell’odio. Carl Schmitt lo spiegò bene a suo tempo, prima di trasformarsi in un apologeta del nazismo: la politica è fondata, come tale, sul conflitto amico – nemico. Perciò può sempre degenerare in pulsione di annientamento dell’altro, in fanatismo, in intolleranza, perfino a prescindere dalle sue degenerazioni in regimi più o meno tirannici. Storicamente, la sinistra, i rivoluzionari, hanno risposto a questo pericolo costruendo un’altra politica: le grandi epopee collettive del movimento operaio del XX secolo, con l’ingresso delle masse in prima persona nella politica stessa, che ne rompeva la logica separata, e diventava pratica di liberazione. L’odio di classe trascendeva l’odio dell’individuo, o anche del singolo operaio verso il suo padrone: era la rappresentazione simbolica di un’alterità irriducibile all’esistente, oltre che dell’insopportazione dell’ingiustizia e dello sfruttamento. Era una parzialità che poteva farsi generale, nel progetto – e nel sogno – di una nuova società: per questa via etica e politica potevano ricomporsi, non idealisticamente, e la ragione (la ragione storica) poteva naturalmente “mischiarsi” con le umane passioni.
Ma oggi? Oggi, a quasi vent’anni dall’89, quella organica connessione si è rotta: la sinistra (la sua maggioranza) ha il pallido volto non solo del “riformismo senza riforme”, ma del relativismo “laico” – dell’alternanza. Su questo vuoto drammatico può crescere l’operazione della destra: essa può rilanciare con arroganza i suoi “valori” perché avverte la debolezza “intrinseca” di una sinistra che di valori – etici e politici – non ne ha più, così come, in generale, non ha più una sua idea alternativa, riconoscibile di società. Essa colpisce il bersaglio nel punto più esposto: là dove, a sinistra, della politica emerge, resta scoperto, il suo lato arido. La sua natura di tecnica per la conquista e la gestione del potere. … »
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 30 gennaio 2005
a Roma, nel 1725
nasceva il S. Maria della Pietà, il manicomio di Roma
Corriere della Sera 30.1.05
luoghi CAPITALI
L’ospedale che accoglieva «poveri forestieri e pazzi»
di Angela Groppi
Nel 1725 Benedetto XIII concesse la cinquecentesca Chiesa di S. Maria della Pietà, con gli edifici compresi tra piazza Colonna e piazza di Pietra in cui era ospitato l'Ospedale dei pazzerelli, all'Arciconfraternita dei Bergamaschi costretta a lasciare S. Macuto al Collegio Romano. Questa ne prese possesso nel 1728, consacrandola ai santi Bartolomeo e Alessandro patroni della città di Bergamo. I lavori di trasformazione dell'area si protrassero per circa un decennio. L'Ospedale, istituito a metà '500 dalla Compagnia della Madonna della Pietà per accogliere «poveri forestieri e pazzi dell'alma città di Roma», e poi specializzatosi nella cura dei folli, fu trasferito a via della Lungara, in alcuni padiglioni attigui all'Ospedale di S. Spirito in Sassia. Al momento del trasferimento definitivo, tra la fine del 1728 e i primi mesi del 1729, ospitava 150 ricoverati e 15 persone di servizio. L'abbandono dei vecchi edifici suscitò le polemiche di coloro che ritenevano la centralità dell'ospedale e la sua vicinanza a Montecitorio, fondamentali «affinché si potess'accorrere a tutti quelli accidenti che possono temersi da gente furiosa», come era accaduto quando un pazzo aveva cominciato «ad infuriare contro gli altri del Luogo Pio e se non v'era l'immediato e istantaneo soccorso delli soldati vicini si sarebbe giustamente potuto temere un disordine molto maggiore di quello che seguì». Inoltre la pazzia non era un male contagioso da isolare ai margini della città.
luoghi CAPITALI
L’ospedale che accoglieva «poveri forestieri e pazzi»
di Angela Groppi
Nel 1725 Benedetto XIII concesse la cinquecentesca Chiesa di S. Maria della Pietà, con gli edifici compresi tra piazza Colonna e piazza di Pietra in cui era ospitato l'Ospedale dei pazzerelli, all'Arciconfraternita dei Bergamaschi costretta a lasciare S. Macuto al Collegio Romano. Questa ne prese possesso nel 1728, consacrandola ai santi Bartolomeo e Alessandro patroni della città di Bergamo. I lavori di trasformazione dell'area si protrassero per circa un decennio. L'Ospedale, istituito a metà '500 dalla Compagnia della Madonna della Pietà per accogliere «poveri forestieri e pazzi dell'alma città di Roma», e poi specializzatosi nella cura dei folli, fu trasferito a via della Lungara, in alcuni padiglioni attigui all'Ospedale di S. Spirito in Sassia. Al momento del trasferimento definitivo, tra la fine del 1728 e i primi mesi del 1729, ospitava 150 ricoverati e 15 persone di servizio. L'abbandono dei vecchi edifici suscitò le polemiche di coloro che ritenevano la centralità dell'ospedale e la sua vicinanza a Montecitorio, fondamentali «affinché si potess'accorrere a tutti quelli accidenti che possono temersi da gente furiosa», come era accaduto quando un pazzo aveva cominciato «ad infuriare contro gli altri del Luogo Pio e se non v'era l'immediato e istantaneo soccorso delli soldati vicini si sarebbe giustamente potuto temere un disordine molto maggiore di quello che seguì». Inoltre la pazzia non era un male contagioso da isolare ai margini della città.
una segnalazione di Loredana Riccio
Liberazione 30.1.05
Sei donna solo se muori per amore
di Maria Rosaria Cutrufelli
C'è una differenza importante, una differenza significativa, fra il caso di Rita Fedrizzi e quello della donna in coma all'ospedale San Martino di Genova. Rita Fedrizzi scoprì mentre era incinta di essere malata di un tumore che richiedeva cure pesanti, che il feto non avrebbe tollerato, perciò doveva scegliere: o abortire e curarsi o rinunciare alla vita. Rita Fedrizzi ha scelto di morire e questa sua scelta, pienamente consapevole, merita rispetto.
All'ospedale di Genova si sta consumando invece una vicenda di altro tipo: c'è una donna in coma "depassè ", come dicono i medici, con attività cerebrale nulla, che viene tenuta artificialmente in vita nel tentativo di salvare il feto di venti settimane che porta in grembo. I medici hanno spegato al padre - l'unico che, per legge, ha in questo caso diritto di scelta - i rischi di una nascita prematura, alla venticinquesima settimana: anche se sopravvivesse, il bambino avrebbe elevate possibilità di serissimi handicap.
Di fronte ad una simile tragedia, a una scelta che avverrà comunque nel dolore e nello strazio, ci si aspetterebbe da tutti quanti - medici, opinione pubblica, autorità di ogni genere - un rispettoso silenzio. Invece si è scatenata una ridda di opinioni (non richieste), appelli alla "salvezza di una vita", prove più o meno palesi di condizionamento. Parlano minisri e vescovi, con parole pesanti. parlano medici che ad ogni costo vogliono dire la loro, tanto che la famiglia ha chiesto "piu' discrezione". Già non viviamo in un epoca che nutre un vero e proprio culto per la "privacy"? E quale vicenda è (o meglio dovrebbe essere) più privata di questa? Ma il perché di tanto accanimento, di tanta insensibilità verso il dolore di un uomo che ha perso la moglie e che si trova a dover scegliere l'impossibile, è fin troppo palese: da tempo ormai ci troviamo di fronte ad una volontà (politica) di riconquistare posizioni perdute, annullando il diritto femminile a una procreazione consapevole e liberamente scelta.
A cos'altro mira la proposta - insistente, ripetuta in varie sedi - di concedre statuto di persona all'embrione? Che certo è "vivo", come puo' esserlo ogni sigola cellula del nostro corpo, ma non è "persona", mentre la sua eventuale madre, lei sì, è (o vorrebbe essere) "persona". Anche la vita delle donne dovrebbe essere "sacra", o no? Forse secondo alcuni ci sono vite "sacre" e vite invece che sono a "servizio". Che valgono solo a certe condizioni. Il corpo di una donna, il mio corpo di donna, ha valore solo se ubbidisce all'imperativo della procreazione. La vita di una donna, la mia vita di donna, ha valore solo quando la immolo per qualcuno. Il sacrificio è ciò che rende una donna "persona". E quando ti sottrai al sacrificio, quando rivendichi la tua propria vita, allora vuol dire che possiedi una "concezione materialistica" del mondo.
Il sacrificio liberamente scelto è un atto eroico, addirittura sublime, ne convengo. Ma può oggi una donna scegliere davvero liberamente? Ci dicono che viviamo in una società e in un'epoca in cui le donne godono di pari diritti con gli uomini. Formalmente sì, forse godiamo (non sempre, non ovunque) di pari diritti, ma sicuramente non di pari "valore": questo è il punto a mio parere. Si tratta di una storia antica, che affonda le sue radici addirittura nel mito. Ci racconta Euripide, in una delle più belle tragedie dell'antichità classica, che Admeto, re della Tessaglia, fu condannato a morte dagli dei ma che Apollo gli concesse la grazia, a un patto: che qualcun'altro si offrisse di morire al posto suo. Admeto chiese dapprima al padre, ma questo non volle rinunciare ai suoi ultimi giorni per amore del figlio. L'unica disposta a sacrificarsi fu Alcesti, la giovane e bella sposa di Admeto: lei disse di sì, che sarebbe morta al posto suo (e Admeto accettò senza batter ciglio, giurandole in cambio un ricordo eterno). Morire per amore: è dunque ancora questo il solo "valore" possibile di una donna?
Liberazione 30.1.05
Sei donna solo se muori per amore
di Maria Rosaria Cutrufelli
C'è una differenza importante, una differenza significativa, fra il caso di Rita Fedrizzi e quello della donna in coma all'ospedale San Martino di Genova. Rita Fedrizzi scoprì mentre era incinta di essere malata di un tumore che richiedeva cure pesanti, che il feto non avrebbe tollerato, perciò doveva scegliere: o abortire e curarsi o rinunciare alla vita. Rita Fedrizzi ha scelto di morire e questa sua scelta, pienamente consapevole, merita rispetto.
All'ospedale di Genova si sta consumando invece una vicenda di altro tipo: c'è una donna in coma "depassè ", come dicono i medici, con attività cerebrale nulla, che viene tenuta artificialmente in vita nel tentativo di salvare il feto di venti settimane che porta in grembo. I medici hanno spegato al padre - l'unico che, per legge, ha in questo caso diritto di scelta - i rischi di una nascita prematura, alla venticinquesima settimana: anche se sopravvivesse, il bambino avrebbe elevate possibilità di serissimi handicap.
Di fronte ad una simile tragedia, a una scelta che avverrà comunque nel dolore e nello strazio, ci si aspetterebbe da tutti quanti - medici, opinione pubblica, autorità di ogni genere - un rispettoso silenzio. Invece si è scatenata una ridda di opinioni (non richieste), appelli alla "salvezza di una vita", prove più o meno palesi di condizionamento. Parlano minisri e vescovi, con parole pesanti. parlano medici che ad ogni costo vogliono dire la loro, tanto che la famiglia ha chiesto "piu' discrezione". Già non viviamo in un epoca che nutre un vero e proprio culto per la "privacy"? E quale vicenda è (o meglio dovrebbe essere) più privata di questa? Ma il perché di tanto accanimento, di tanta insensibilità verso il dolore di un uomo che ha perso la moglie e che si trova a dover scegliere l'impossibile, è fin troppo palese: da tempo ormai ci troviamo di fronte ad una volontà (politica) di riconquistare posizioni perdute, annullando il diritto femminile a una procreazione consapevole e liberamente scelta.
A cos'altro mira la proposta - insistente, ripetuta in varie sedi - di concedre statuto di persona all'embrione? Che certo è "vivo", come puo' esserlo ogni sigola cellula del nostro corpo, ma non è "persona", mentre la sua eventuale madre, lei sì, è (o vorrebbe essere) "persona". Anche la vita delle donne dovrebbe essere "sacra", o no? Forse secondo alcuni ci sono vite "sacre" e vite invece che sono a "servizio". Che valgono solo a certe condizioni. Il corpo di una donna, il mio corpo di donna, ha valore solo se ubbidisce all'imperativo della procreazione. La vita di una donna, la mia vita di donna, ha valore solo quando la immolo per qualcuno. Il sacrificio è ciò che rende una donna "persona". E quando ti sottrai al sacrificio, quando rivendichi la tua propria vita, allora vuol dire che possiedi una "concezione materialistica" del mondo.
Il sacrificio liberamente scelto è un atto eroico, addirittura sublime, ne convengo. Ma può oggi una donna scegliere davvero liberamente? Ci dicono che viviamo in una società e in un'epoca in cui le donne godono di pari diritti con gli uomini. Formalmente sì, forse godiamo (non sempre, non ovunque) di pari diritti, ma sicuramente non di pari "valore": questo è il punto a mio parere. Si tratta di una storia antica, che affonda le sue radici addirittura nel mito. Ci racconta Euripide, in una delle più belle tragedie dell'antichità classica, che Admeto, re della Tessaglia, fu condannato a morte dagli dei ma che Apollo gli concesse la grazia, a un patto: che qualcun'altro si offrisse di morire al posto suo. Admeto chiese dapprima al padre, ma questo non volle rinunciare ai suoi ultimi giorni per amore del figlio. L'unica disposta a sacrificarsi fu Alcesti, la giovane e bella sposa di Admeto: lei disse di sì, che sarebbe morta al posto suo (e Admeto accettò senza batter ciglio, giurandole in cambio un ricordo eterno). Morire per amore: è dunque ancora questo il solo "valore" possibile di una donna?
Corriere della Sera 30.1.05
DIBATTITO A LONDRA
«Cannabis e schizofrenia Serve indagine sui legami»
LONDRA - Un’associazione inglese per la salute mentale - convinta che l’uso della «cannabis» provochi malattie mentali - ha chiesto che venga studiato e dimostrato il pericolo di psicosi nelle persone a rischio di malattie mentali, che fumano canapa indiana. E la richiesta ha aperto un dibattito in Gran Bretagna. Secondo la denuncia, i rischi per persone predisposte alla schizofrenia non sono stati definiti. L’associazione ha inoltre messo in evidenza che un anno fa il governo ha declassato la «cannabis» da droga di classe B a droga di classe C, aggiungendo che il governo ha dato il via a campagne che ignorano i danni mentali derivanti dall’uso di droga.
DIBATTITO A LONDRA
«Cannabis e schizofrenia Serve indagine sui legami»
LONDRA - Un’associazione inglese per la salute mentale - convinta che l’uso della «cannabis» provochi malattie mentali - ha chiesto che venga studiato e dimostrato il pericolo di psicosi nelle persone a rischio di malattie mentali, che fumano canapa indiana. E la richiesta ha aperto un dibattito in Gran Bretagna. Secondo la denuncia, i rischi per persone predisposte alla schizofrenia non sono stati definiti. L’associazione ha inoltre messo in evidenza che un anno fa il governo ha declassato la «cannabis» da droga di classe B a droga di classe C, aggiungendo che il governo ha dato il via a campagne che ignorano i danni mentali derivanti dall’uso di droga.
Cina
Corriere della Sera 30.1.05
L’ex leader riformista cremato lo stesso giorno in cui sono ripresi i voli tra «madrepatria» e Taiwan
Cina, ultimo addio a Zhao. Con onore
Il regime consente i funerali nel «cimitero degli eroi». La Tv: «Commise un grave errore»
Fabio Cavalera
PECHINO - I cinesi, attenti registi della politica, hanno scelto lo stesso uomo - Jia Qingling, il numero quattro del regime - per celebrare a distanza di poche ore una dall'altra due cerimonie che sono la proiezione dei drammi della Cina di ieri, quella del massacro di piazza Tienanmen, e della speranze della Cina del domani, quella della distensione con Taiwan. Non è stato un caso che i due eventi si siano inseguiti quasi a marcare altrettante tappe della Cina postmaoista, un Paese che resta sospeso fra miracolo economico liberista e forte conservazione interna.
I vertici del Paese hanno tentato di dare al primo evento - il funerale dell'ex segretario Zhao Ziyang - un contenuto di basso profilo che consentisse a un tempo di compiere un modesto passo di riconciliazione verso la dissidenza e contemporaneamente di impedire nuove scintille di piazza in memoria delle proteste represse nel sangue nel 1989.
Per ridurne al minimo l'impatto hanno dunque scelto di ricordare «il compagno Zhao Ziyang» nello stesso giorno in cui, con grande dispendio di messaggi mediatici, hanno festeggiato dopo 55 anni di «congelamento» i sette voli di collegamento diretto fra la «madrepatria» e Taiwan. Oltre che la ripresa del dialogo con il «presidente indipendentista» di Taiwan.
E' toccato a Jia Qinglin, membro del Politburo del partito comunista e presidente della Conferenza consultiva nazionale, rappresentare i massimi dirigenti della Cina alle esequie e alla cremazione dell'ex segretario Zhao Ziyang cacciato e arrestato perché si era opposto all’applicazione della legge marziale contro gli studenti. Ci è voluta una settimana e mezzo, tanto è trascorso dalla morte di Zhao, affinché i familiari e il partito riuscissero a trovare un accordo sulle modalità dell'addio all'ottantacinquenne precursore del riformismo.
Duemila persone sono accorse al cimitero Baobashun, il cimitero degli eroi della Rivoluzione, per l'ultimo saluto a Zhao. Erano state autorizzate dal governo e invitate dai figli. Presidiata piazza Tienanmen, vietate le riprese televisive, allontanati in modo aggressivo giornalisti occidentali e quanti desideravano portare un fiore bianco di tributo. Il tutto - pur senza tacere di timidi segnali di cambiamento - a ricordare che, sul fronte interno, l'oscurantismo resta la caratteristica prevalente del regime. La cerimonia ha testimoniato le contraddizioni della vecchia Cina incerta e divisa sull'opportunità di avviare una stagione di vere riforme politiche.
Zhao Ziyang è stato cancellato per 15 anni dalla memoria della Cina. Rievocarlo era reato gravissimo, un attentato all’«integrità» dello Stato. Ieri Zhao ha ricevuto una minima riabilitazione. Non soltanto per il motivo che la televisione ha finalmente parlato di lui (non avveniva dal 1989, tanto che molti giovani oggi in Cina non sanno chi è stato Zhao) ma soprattutto perché il partito lo ha riconosciuto di nuovo come un figlio che ha «dato un contributo utile alla causa del partito e del popolo» e lo ha avvolto prima della cremazione nella bandiera rossa. D'altro canto - ed ecco il peso del passato - il lungo comunicato consegnato all’agenzia non menziona le cariche (premier e segretario generale del partito) che Zhao ha ricoperto, si limita ad affermare che ha occupato importanti ruoli dirigenziali, aggiunge che «nei tumulti politici del 1989» commise «un grave errore». Una formula questa che ha irritato la famiglia al punto da impedire la lettura del documento durante il funerale e di differirne la diffusione attraverso i media ufficiali.
Cerimonia di profilo basso che ha certificato le paure e gli imbarazzi della vecchia e nuova nomenklatura cinese ancora incapace di prendere la strada del riconoscimento delle libertà e dei diritti civili.
L'immagine della vecchia Cina che i dirigenti del Paese, proprio nelle ore del funerale di Zhao, hanno tentato di nascondere dando spazio a lunghi collegamenti televisivi per i primi voli di collegamento diretto fra Taiwan, Pechino e Shanghai. E riportando con enfasi le aperture di Jia Qingling (pronti a negoziare con il presidente indipendentista di Taiwan, naturalmente sul principio sintetizzato nella formula «un Paese, due sistemi», ovvero la riunificazione sotto Pechino ma con riconoscimento di un sistema «locale» rappresentativo). Gesto di distensione che Taiwan ha apprezzato e che proietta l'ombra di una Cina opposta alla prima Cina. Tanto autoritaria e chiusa, l’una. Quanto dinamica a livello internazionale e impegnata a rimuovere le tensioni ereditate dalla Rivoluzione del 1949, l'altra.
L’ex leader riformista cremato lo stesso giorno in cui sono ripresi i voli tra «madrepatria» e Taiwan
Cina, ultimo addio a Zhao. Con onore
Il regime consente i funerali nel «cimitero degli eroi». La Tv: «Commise un grave errore»
Fabio Cavalera
PECHINO - I cinesi, attenti registi della politica, hanno scelto lo stesso uomo - Jia Qingling, il numero quattro del regime - per celebrare a distanza di poche ore una dall'altra due cerimonie che sono la proiezione dei drammi della Cina di ieri, quella del massacro di piazza Tienanmen, e della speranze della Cina del domani, quella della distensione con Taiwan. Non è stato un caso che i due eventi si siano inseguiti quasi a marcare altrettante tappe della Cina postmaoista, un Paese che resta sospeso fra miracolo economico liberista e forte conservazione interna.
I vertici del Paese hanno tentato di dare al primo evento - il funerale dell'ex segretario Zhao Ziyang - un contenuto di basso profilo che consentisse a un tempo di compiere un modesto passo di riconciliazione verso la dissidenza e contemporaneamente di impedire nuove scintille di piazza in memoria delle proteste represse nel sangue nel 1989.
Per ridurne al minimo l'impatto hanno dunque scelto di ricordare «il compagno Zhao Ziyang» nello stesso giorno in cui, con grande dispendio di messaggi mediatici, hanno festeggiato dopo 55 anni di «congelamento» i sette voli di collegamento diretto fra la «madrepatria» e Taiwan. Oltre che la ripresa del dialogo con il «presidente indipendentista» di Taiwan.
E' toccato a Jia Qinglin, membro del Politburo del partito comunista e presidente della Conferenza consultiva nazionale, rappresentare i massimi dirigenti della Cina alle esequie e alla cremazione dell'ex segretario Zhao Ziyang cacciato e arrestato perché si era opposto all’applicazione della legge marziale contro gli studenti. Ci è voluta una settimana e mezzo, tanto è trascorso dalla morte di Zhao, affinché i familiari e il partito riuscissero a trovare un accordo sulle modalità dell'addio all'ottantacinquenne precursore del riformismo.
Duemila persone sono accorse al cimitero Baobashun, il cimitero degli eroi della Rivoluzione, per l'ultimo saluto a Zhao. Erano state autorizzate dal governo e invitate dai figli. Presidiata piazza Tienanmen, vietate le riprese televisive, allontanati in modo aggressivo giornalisti occidentali e quanti desideravano portare un fiore bianco di tributo. Il tutto - pur senza tacere di timidi segnali di cambiamento - a ricordare che, sul fronte interno, l'oscurantismo resta la caratteristica prevalente del regime. La cerimonia ha testimoniato le contraddizioni della vecchia Cina incerta e divisa sull'opportunità di avviare una stagione di vere riforme politiche.
Zhao Ziyang è stato cancellato per 15 anni dalla memoria della Cina. Rievocarlo era reato gravissimo, un attentato all’«integrità» dello Stato. Ieri Zhao ha ricevuto una minima riabilitazione. Non soltanto per il motivo che la televisione ha finalmente parlato di lui (non avveniva dal 1989, tanto che molti giovani oggi in Cina non sanno chi è stato Zhao) ma soprattutto perché il partito lo ha riconosciuto di nuovo come un figlio che ha «dato un contributo utile alla causa del partito e del popolo» e lo ha avvolto prima della cremazione nella bandiera rossa. D'altro canto - ed ecco il peso del passato - il lungo comunicato consegnato all’agenzia non menziona le cariche (premier e segretario generale del partito) che Zhao ha ricoperto, si limita ad affermare che ha occupato importanti ruoli dirigenziali, aggiunge che «nei tumulti politici del 1989» commise «un grave errore». Una formula questa che ha irritato la famiglia al punto da impedire la lettura del documento durante il funerale e di differirne la diffusione attraverso i media ufficiali.
Cerimonia di profilo basso che ha certificato le paure e gli imbarazzi della vecchia e nuova nomenklatura cinese ancora incapace di prendere la strada del riconoscimento delle libertà e dei diritti civili.
L'immagine della vecchia Cina che i dirigenti del Paese, proprio nelle ore del funerale di Zhao, hanno tentato di nascondere dando spazio a lunghi collegamenti televisivi per i primi voli di collegamento diretto fra Taiwan, Pechino e Shanghai. E riportando con enfasi le aperture di Jia Qingling (pronti a negoziare con il presidente indipendentista di Taiwan, naturalmente sul principio sintetizzato nella formula «un Paese, due sistemi», ovvero la riunificazione sotto Pechino ma con riconoscimento di un sistema «locale» rappresentativo). Gesto di distensione che Taiwan ha apprezzato e che proietta l'ombra di una Cina opposta alla prima Cina. Tanto autoritaria e chiusa, l’una. Quanto dinamica a livello internazionale e impegnata a rimuovere le tensioni ereditate dalla Rivoluzione del 1949, l'altra.
«non c'è un gene dell'omosessualità»
Repubblica 30.1.05
Ricerca Usa, in tre cromosomi il mistero delle tendenze sessuali
ROMA - Il mistero dell'orientamento sessuale è in tre cromosomi. Un gruppo di ricercatori dell'Università dell'Illinois ha studiato su 500 uomini gay ed eterosessuali. È la prima ricerca condotta di questo tipo su tutto il genoma umano. Coordinati da Brian Mustanski, hanno confrontato il genoma di 456 individui da 146 famiglie in cui c'erano alcuni gay. Alcune sequenze di Dna sui cromosomi 7, 8, 10, si ritrovano di più nei gay. Ma, precisano i ricercatori, «Una cosa è sicura: non c'è gene dell'omosessualità che è una condizione che dipende da fattori più complessi, anche ambientali».
Ricerca Usa, in tre cromosomi il mistero delle tendenze sessuali
ROMA - Il mistero dell'orientamento sessuale è in tre cromosomi. Un gruppo di ricercatori dell'Università dell'Illinois ha studiato su 500 uomini gay ed eterosessuali. È la prima ricerca condotta di questo tipo su tutto il genoma umano. Coordinati da Brian Mustanski, hanno confrontato il genoma di 456 individui da 146 famiglie in cui c'erano alcuni gay. Alcune sequenze di Dna sui cromosomi 7, 8, 10, si ritrovano di più nei gay. Ma, precisano i ricercatori, «Una cosa è sicura: non c'è gene dell'omosessualità che è una condizione che dipende da fattori più complessi, anche ambientali».
Private ha vinto a Locarno
«ritengo Bellocchio il più giovane di tutti i registi»
La Stampa 30 Gennaio 2005
di Alain Elkann
SAVERIO Costanzo, il suo film «Private» ha vinto il Festival di Locarno l’anno scorso e in questi giorni è in proiezione nelle sale italiane. Un film che non riguarda fatti di casa nostra, ma un grande tema dell’umanità, israeliani e palestinesi, come mai questa scelta?
«La scelta è dovuta all’incontro con le persone che diventa il motore della storia: un padre, una famiglia».
In che senso parla d’incontro?
«E’ una storia vera, ho avuto la fortuna di conoscere quest’uomo, di cui non posso rivelare l’identità per motivi di sicurezza. Ci siamo incontrati nella Striscia di Gaza dove mi trovavo per caso, ero andato a trovare una giornalista mia amica che lavora lì e mi ha portato nei territori occupati a pranzo in questa famiglia».
Dunque?
«Sono rimasto per lungo tempo lì. Prima facevo solo documentari sui luoghi ma entrando in quella casa mi sono accorto della potenza metaforica proprio della casa, nel racconto. Non potendo girare il documentario all’interno per motivi di sicurezza ho scelto di fare un film. Sono però rimasto due mesi con loro, a raccogliere informazioni. Quindi sono tornato in Italia e abbiamo sceneggiato il film».
Che però avete girato a Riace in Calabria...
«Sì. Abbiamo scelto di trovare un terzo luogo dove ambientare questo psicodramma. Abbia tentato l’astrazione dal reale per restituire la situazione vera. Protagonista del film è la casa dove vive una famiglia palestinese che a un certo punto viene occupata da soldati israeliani».
Sono tutti attori?
«Sì, professionisti molto importanti nel loro paese. Mohammed Bakri è una icona che vive molto intensamente la causa palestinese mentre il cattivo israeliano del film è un divo televisivo, Lior Miller e il suo pubblico è rappresentato dagli israeliani indifferenti. Gli israeliani non sanno molte cose non perché non vogliono saperle ma perché non ricevono le notizie».
Che cosa voleva comunicare con questo film?
«Che entrambi i popoli sono vittime della stessa guerra e che le scelte dei politici ricadono sulla gente comune. Persone non giudicabili attraverso generalizzazioni».
Pensa che il conflitto si risolverà prima o poi?
«Gli attori del film non hanno alcuna fiducia circa la risoluzione del conflitto. Però ritorna la parola del padre di famiglia nel film, che è il protagonista, quando dice una cosa vera: “gli israeliani che vogliono far terminare il conflitto e che ne hanno il potere, devono cominciare dalle scuole dei palestinesi e dare loro cultura, formazione. Insomma bisogna iniziare dalle giovani generazioni».
Sul set c’erano israeliani e palestinesi. Hanno lavorato in amicizia?
«Non proprio. Era richiesto loro di essere lì non solo come professionisti, ma anche come uomini, questo li rendeva in certi momenti fieramente palestinesi e fieramente israeliani. A volte si creavano tensioni molto forti».
Per lei era difficile rimanere neutro?
«L’ossessione dell’oggettività era fortissima perché entrambi cercavano di portarmi dalla loro parte. I palestinesi mostrandosi ancora più come delle vittime e gli israeliani tentando di essere più dolci e più docili di come in realtà sono».
Tutti contenti del risultato?
«Moltissimo. Si sono sentiti tutti riconosciuti per quello che volevano».
Il film è stato visto in Israele? in Palestina?
«Per ora al Festival di Haifa e dopo la proiezione tutta la sala ha voluto per due ore parlare con noi. Erano molto emozionati».
Lei insisterà su questo filone o sta preparando un altro film?
«Sto scrivendo una nuova sceneggiatura basata su un libro di Furio Monicelli “Un gesuita perfetto”. Un giovane che rinuncia alla libertà del mondo per chiudersi in un noviziato di gesuiti dove attraversa un percorso di fede, trova la libertà nella prigionia, nell’assenza del mondo».
Fa leggere le sue sceneggiature a suo padre Maurizio Costanzo?
«Solo per l’ultimo film non è accaduto, ma è stato un caso. Io stavo molto all’estero».
Che rapporto avete tra padre e figlio?
«Un rapporto di grande rispetto. Lui ha visto il film ed è rimasto molto colpito».
Che cosa le ha insegnato suo padre?
«Mi insegna soprattutto vederlo vivere. Il rispetto per il lavoro. Mi sento una responsabilità maggiore».
Il successo le ha cambiato la vita?
«No. I risultati contano poco per me. Conta di più il percorso che si fa per arrivare ai risultati».
Come giudica il cinema italiano?
«Molto bene. Ci sono registi da Bellocchio, che io ritengo il più giovane di tutti i registi, a Garrone, a Sorrentino, che fanno film italiani che potrebbero essere girati in qualsiasi parte del mondo».
Quali sono i temi che la affascinano?
«Il tema della libertà. Credo che il male del mondo sia dovuto a un carico di responsabilità rispetto alla libertà che gli uomini non sanno gestire. Per essere liberi ci vuole autodisciplina e un senso di responsabilità, bisogna che le scelte siano soprattutto morali. Io temo che non siano più di moda le scelte morali».
Allora che bisogna fare?
«La mia soluzione è quella di fare scelte sempre morali».
Che è successo nella sua vita perché lei senta così tanto questo bisogno? Non si vede libero?
«Forse mi sento troppo libero è ho paura di gestire questa libertà».
Con se stesso è rigoroso?
«Moltissimo. Ma non è facile evitare le tentazioni che porta la libertà»
Allora che fa?
«Imparo a resistere».
di Alain Elkann
SAVERIO Costanzo, il suo film «Private» ha vinto il Festival di Locarno l’anno scorso e in questi giorni è in proiezione nelle sale italiane. Un film che non riguarda fatti di casa nostra, ma un grande tema dell’umanità, israeliani e palestinesi, come mai questa scelta?
«La scelta è dovuta all’incontro con le persone che diventa il motore della storia: un padre, una famiglia».
In che senso parla d’incontro?
«E’ una storia vera, ho avuto la fortuna di conoscere quest’uomo, di cui non posso rivelare l’identità per motivi di sicurezza. Ci siamo incontrati nella Striscia di Gaza dove mi trovavo per caso, ero andato a trovare una giornalista mia amica che lavora lì e mi ha portato nei territori occupati a pranzo in questa famiglia».
Dunque?
«Sono rimasto per lungo tempo lì. Prima facevo solo documentari sui luoghi ma entrando in quella casa mi sono accorto della potenza metaforica proprio della casa, nel racconto. Non potendo girare il documentario all’interno per motivi di sicurezza ho scelto di fare un film. Sono però rimasto due mesi con loro, a raccogliere informazioni. Quindi sono tornato in Italia e abbiamo sceneggiato il film».
Che però avete girato a Riace in Calabria...
«Sì. Abbiamo scelto di trovare un terzo luogo dove ambientare questo psicodramma. Abbia tentato l’astrazione dal reale per restituire la situazione vera. Protagonista del film è la casa dove vive una famiglia palestinese che a un certo punto viene occupata da soldati israeliani».
Sono tutti attori?
«Sì, professionisti molto importanti nel loro paese. Mohammed Bakri è una icona che vive molto intensamente la causa palestinese mentre il cattivo israeliano del film è un divo televisivo, Lior Miller e il suo pubblico è rappresentato dagli israeliani indifferenti. Gli israeliani non sanno molte cose non perché non vogliono saperle ma perché non ricevono le notizie».
Che cosa voleva comunicare con questo film?
«Che entrambi i popoli sono vittime della stessa guerra e che le scelte dei politici ricadono sulla gente comune. Persone non giudicabili attraverso generalizzazioni».
Pensa che il conflitto si risolverà prima o poi?
«Gli attori del film non hanno alcuna fiducia circa la risoluzione del conflitto. Però ritorna la parola del padre di famiglia nel film, che è il protagonista, quando dice una cosa vera: “gli israeliani che vogliono far terminare il conflitto e che ne hanno il potere, devono cominciare dalle scuole dei palestinesi e dare loro cultura, formazione. Insomma bisogna iniziare dalle giovani generazioni».
Sul set c’erano israeliani e palestinesi. Hanno lavorato in amicizia?
«Non proprio. Era richiesto loro di essere lì non solo come professionisti, ma anche come uomini, questo li rendeva in certi momenti fieramente palestinesi e fieramente israeliani. A volte si creavano tensioni molto forti».
Per lei era difficile rimanere neutro?
«L’ossessione dell’oggettività era fortissima perché entrambi cercavano di portarmi dalla loro parte. I palestinesi mostrandosi ancora più come delle vittime e gli israeliani tentando di essere più dolci e più docili di come in realtà sono».
Tutti contenti del risultato?
«Moltissimo. Si sono sentiti tutti riconosciuti per quello che volevano».
Il film è stato visto in Israele? in Palestina?
«Per ora al Festival di Haifa e dopo la proiezione tutta la sala ha voluto per due ore parlare con noi. Erano molto emozionati».
Lei insisterà su questo filone o sta preparando un altro film?
«Sto scrivendo una nuova sceneggiatura basata su un libro di Furio Monicelli “Un gesuita perfetto”. Un giovane che rinuncia alla libertà del mondo per chiudersi in un noviziato di gesuiti dove attraversa un percorso di fede, trova la libertà nella prigionia, nell’assenza del mondo».
Fa leggere le sue sceneggiature a suo padre Maurizio Costanzo?
«Solo per l’ultimo film non è accaduto, ma è stato un caso. Io stavo molto all’estero».
Che rapporto avete tra padre e figlio?
«Un rapporto di grande rispetto. Lui ha visto il film ed è rimasto molto colpito».
Che cosa le ha insegnato suo padre?
«Mi insegna soprattutto vederlo vivere. Il rispetto per il lavoro. Mi sento una responsabilità maggiore».
Il successo le ha cambiato la vita?
«No. I risultati contano poco per me. Conta di più il percorso che si fa per arrivare ai risultati».
Come giudica il cinema italiano?
«Molto bene. Ci sono registi da Bellocchio, che io ritengo il più giovane di tutti i registi, a Garrone, a Sorrentino, che fanno film italiani che potrebbero essere girati in qualsiasi parte del mondo».
Quali sono i temi che la affascinano?
«Il tema della libertà. Credo che il male del mondo sia dovuto a un carico di responsabilità rispetto alla libertà che gli uomini non sanno gestire. Per essere liberi ci vuole autodisciplina e un senso di responsabilità, bisogna che le scelte siano soprattutto morali. Io temo che non siano più di moda le scelte morali».
Allora che bisogna fare?
«La mia soluzione è quella di fare scelte sempre morali».
Che è successo nella sua vita perché lei senta così tanto questo bisogno? Non si vede libero?
«Forse mi sento troppo libero è ho paura di gestire questa libertà».
Con se stesso è rigoroso?
«Moltissimo. Ma non è facile evitare le tentazioni che porta la libertà»
Allora che fa?
«Imparo a resistere».
poeti
un'intervista a Evtushenko
La Provincia 30.1.05
Evtushenko Il grande poeta che racconta i dolori del mondo Già dissidente durante il comunismo, racconta la Russia di oggi con le sue speranze ma anche gli squilibri di un nuovo capitalismo che «è lotta tra forti per possedere di più»
di Francesco Mannoni
Giacca nera trapuntata di fili dorati, mimica facciale da attore consumato, voce impostata, enfasi accentuata: è il grande poeta dissidente russo Evgenij Evtushenko, vincitore della XXIV edizione del premio Grinzane Cavour, l'uomo che dalla remota stazione siberiana di Zima, con i suoi versi forti, dolci e struggenti ha conquistato il mondo. A Torino ha dato ancora una volta prova della sua instancabile attività culturale divisa tra poesia, narrativa, recitazione, cinema e fotografia, incantando con la sua straordinaria sensibilità. Nato nel 1933 a Zima, da bambino è a Mosca, e nei primi anni Cinquanta compie e suoi studi presso l'istituto Gorky. Ben presto, con le sue poesie diventa il capostipite della generazione di poeti che rifiuta la dottrina del socialismo reale, e le sue richieste di maggiore libertà artistica e gli attacchi alla burocrazia stalinista ne fanno il leader dei giovani intellettuali sovietici, ma anche una sorta di sorvegliato speciale del regime. Con i suoi numerosi libri, da La stazione di Zima, Baby Yar, Selected Poems, La centrale idroelettrica di Bratsk, Non morire prima di essere morto fino a Autobiografia precoce (pubblicati da Garzanti e da altri editori) ottenne successo in tutto il mondo e si qualificò come l'interprete dell'anima russa e delle sue tante contraddizioni. Di pari passo il suo impegno politico che va dal supporto a Solzenicyn quando il vincitore del premio Nobel fu arrestato e mandato in esilio, alla grande ammirazione per Gorbaciov. Tra alti e bassi, per quarant'anni ha dominato la scena sovietica, denunciando l'antisemitismo russo, i crimini di Stalin e la burocrazia fino al crollo del totalitarismo sovietico.
Lei ha scritto: «La paura è una predisposizione genetica della mia generazione»: è ancora così?
Per la generazione nata in Russia sotto Stalin, la paura maggiore era quella di essere arrestati o di perdere qualcuno dei propri famigliari, magari al fronte. La guerra è stata tremenda, e i nostri giornali non hanno scritto la verità e rivelato che era un disastro per il popolo russo, contro il quale Stalin aveva scatenato un altro conflitto personale che ha causato la morte di venti milioni di persone. Ha ammazzato i migliori poeti, i contadini, gli operai, tutti gli spiriti liberi e indipendenti che lo contestavano. Che tipo d'uomo era Stalin? Un mostro, un perverso? Stalin era un idealista fanatico, il genere più pericoloso d'idealisti. Distruggeva l'uomo ubbidiente, e quello indipendente lo irritava perché pensava che contrastasse le idee principali del comunismo. Stalin autorizzò la proiezione dei film di Chaplin in Russia perché pensava che attraverso quel piccolo uomo umiliato dalla società capitalistica, i russi capissero che era la vittima, il bullone di una macchina complessa; ma i russi che videro «Tempi moderni», capirono la metafora e identificarono l'operaio del film con la loro condizione schiacciata dal potere dell'ideologia. Quali sono le paure nella Russia d'oggi? Le paure oggi sono diverse. Senza voler difendere Stalin, posso affermare che in Unione Sovietica la vita non era poi così tremenda. Gli idealisti comunisti volevano costruire un futuro migliore per i propri figli, e lottavano per gli ideali romantici della nazione con determinazione. Allora tutte le medicine e tanti altri servizi erano gratuiti, cosa che adesso con la riforma delle pensioni Putin vuole togliere al popolo russo. Non c'erano differenze tra la gente, i burocrati erano controllati dallo Stato e non erano bustarellizzati come adesso. C'era la lotta contro il parassitismo e non esisteva la paura di perdere il lavoro, cosa importante per la psicologia umana. In America, il Paese più ricco del mondo, esiste questa paura, e la gente vive in una sorta di paludosa apatia civica.
Lei come si trova nella Nuova Russia senza comunismo?
Ho sempre lottato e lotto con i miei poemi, e non mi formalizzo di fronte ai cambiamenti, ma nella Russia d'oggi è facile perdere il lavoro e si può essere discreditati per sempre da accuse banali come le molestie sessuali. In passato, coraggiosi giornalisti russi pagati dal governo perché la stampa apparteneva al regime, criticavano il loro padrone; oggi che tutta l'informazione è privata, questo non avviene. Le grandi compagnie proprietarie dei giornali, sono in buoni rapporti con lo Stato che dà loro molti privilegi, e i giornalisti che non seguono una certa linea, sono teneramente messi da parte, perché la libertà e l'indipendenza si sono ristrette in Russia. Non ci sono ancora sindacati forti per difendere i diritti dei lavoratori contro certi imprenditori che si comportano come imperatori in alcune province, e molti giornalisti sono stati ammazzati perché scrivevano la verità. È il capitalismo che avanza, una lotta fra poteri forti per comandare, possedere di più.
Ma è stata sempre minata in Russia la strada della verità?
Il miglior periodo della verità è stato quello di Gorbaciov, quando la libertà di pensiero era incredibile e i russi vissero una nuova era per quattro o cinque anni. Ammiro molto Gorbaciov, anche se non fu necessariamente decisivo nel momento in cui lo buttarono via come presidente. Tutti gli imperi erano al collasso, probabilmente perché come i dinosauri avevano la testa lontana dalla coda, ma l'Unione Sovietica era un esperimento della vita di molti popoli di diverse nazionalità, e queste chanches si persero dopo il colpo di Stato di Eltsin. Churchill una volta disse che Kruscev voleva saltare attraverso un abisso. Gorbaciov, ambivalente ma molto buono, innocente e onestissimo, non reagendo in tempo, si era fermato sopra un abisso.
Lei è stato dissidente attivo in uno dei peggiori momenti repressivi del comunismo staliniano e post staliniano: come ha fatto a evitare arresto e deportazione, tragedie che hanno colpito molti altri letterati?
Sin da giovane ero molto noto ed ero sostenuto dal popolo. In quel tempo c'erano molti processi ai dissidenti, ma io non avevo paura. Oltre a scrivere dei versi contro l'invasione di Praga e prendere le difese di Solzenicyn, pensavo di salvare l'idea del socialismo come una forma di religione, di cristianesimo. A volte mi hanno chiamato antipatriota, ma come si può arrestare un uomo le cui canzoni in Russia le cantano tutti? Persino Kruscev e Breznev, l'uomo che mandò i carri armati a Praga, anche se forse avrebbero voluto togliermi dalla circolazione, cantavano le mie canzoni con le lacrime agli occhi.
Come ha costruito il suo successo?
Ho sempre avuto contatti con gli operai e gli studenti. Quando ero criticato a Mosca andavo in Siberia a fare dimostrazioni con gli operai nella stazione elettrica più grande d'Europa, realizzata senza l'impiego dei prigionieri siberiani. Giovani della mia generazione distruggevano le baracche dei prigionieri dopo averci dormito per parecchie notti prima di realizzare un proprio cottage. L'ingegnere progettista del complesso simbolico, un membro del partito e del Cominter regionale, mi minacciò velatamente: «Tu sei siberiano - mi disse - e non ricordi che in Siberia il sole nasce cinque ore prima di Mosca». L'allusione era chiara, ma io non mi turbai. Il mondo ha seguito con interesse le manifestazioni nella piazza di Kiev occupata dai sostenitori di Yushenko.
Quella che chiamano la democratura di Putin permetterebbe a Mosca una manifestazione come quella fatta dagli ucraini?
In quello che è successo a Kiev non c'è niente di nuovo per me. Nei primi giorni della Perestrojka, ho partecipato a molte manifestazioni del genere. Ho sangue ucraino, russo, polacco, tedesco e tartaro nelle vene, e come tutti i russi, quando esiste un conflitto etnico più che ideologico, preferisco non parteggiare per nessuno, perché sono cose delicatissime. L'Ucraina era una madre della Russia storica, molte famiglie ucraine e russe hanno mescolato il loro sangue. È impossibile dividere l'Ucraina, sarebbe come costruire un nuovo muro di Berlino, lanciare un pomo della discordia. Queste situazioni che per me sono ferite dolorose, spesso sono provocate. Bisogna fare pace, fermarle.
Cosa pensa invece della Cecenia, e del terribile episodio di terrorismo nella scuola di Beslan?
Ho scritto un poema sui bambini di Beslan e sui tragici fatti in Ossezia, e alcuni musicisti italiani vogliono farne un'opera. In questo poema ho scritto che è una viltà quello che era stato fatto. Gli esplosivi nella scuola era come se fossero stati collocati dallo stalinismo, perché quella dei rapporti fra ceceni e russi è una storia lunga e brutta: nessuno ha dimenticato quando dopo la seconda guerra mondiale Stalin ha spedito tutto il popolo ceceno nelle steppe. C'è un'amarezza storica in ogni ceceno, molti dei quali erano eroi dell'Unione Sovietica, ma furono trattati come traditori potenziali. Conosco l'odio cieco, ma Beslan è stato un crimine imperdonabile.
Nessuna giustificazione per i terroristi ceceni quindi?
Non posso giustificare i terroristi ceceni anche se la Russia ha fatto molti sbagli, ma i bambini non avevano alcuna colpa; bisogna parlare perché molti errori potevano essere evitati.
Lei è il poeta più ascoltato dai russi e dai giovani in particolare. Perché gli altri poeti non godono del suo prestigio?
È vero, i giovani soprattutto mi ascoltano più degli altri perché non dimentico mai le lotte civili, i confronti inevitabili tra gli uomini. Forse gli altri non sono attivi come me. Ci sono molti poeti capaci in Russia, ma non scrivono di certe cose per evitare conseguenze politiche. Io scrivo su tutti gli argomenti, anche quelli che disturbano. Sogno un poeta giovane e battagliero che susciti la mia invidia. Ma ancora non appare.
Evtushenko Il grande poeta che racconta i dolori del mondo Già dissidente durante il comunismo, racconta la Russia di oggi con le sue speranze ma anche gli squilibri di un nuovo capitalismo che «è lotta tra forti per possedere di più»
di Francesco Mannoni
Giacca nera trapuntata di fili dorati, mimica facciale da attore consumato, voce impostata, enfasi accentuata: è il grande poeta dissidente russo Evgenij Evtushenko, vincitore della XXIV edizione del premio Grinzane Cavour, l'uomo che dalla remota stazione siberiana di Zima, con i suoi versi forti, dolci e struggenti ha conquistato il mondo. A Torino ha dato ancora una volta prova della sua instancabile attività culturale divisa tra poesia, narrativa, recitazione, cinema e fotografia, incantando con la sua straordinaria sensibilità. Nato nel 1933 a Zima, da bambino è a Mosca, e nei primi anni Cinquanta compie e suoi studi presso l'istituto Gorky. Ben presto, con le sue poesie diventa il capostipite della generazione di poeti che rifiuta la dottrina del socialismo reale, e le sue richieste di maggiore libertà artistica e gli attacchi alla burocrazia stalinista ne fanno il leader dei giovani intellettuali sovietici, ma anche una sorta di sorvegliato speciale del regime. Con i suoi numerosi libri, da La stazione di Zima, Baby Yar, Selected Poems, La centrale idroelettrica di Bratsk, Non morire prima di essere morto fino a Autobiografia precoce (pubblicati da Garzanti e da altri editori) ottenne successo in tutto il mondo e si qualificò come l'interprete dell'anima russa e delle sue tante contraddizioni. Di pari passo il suo impegno politico che va dal supporto a Solzenicyn quando il vincitore del premio Nobel fu arrestato e mandato in esilio, alla grande ammirazione per Gorbaciov. Tra alti e bassi, per quarant'anni ha dominato la scena sovietica, denunciando l'antisemitismo russo, i crimini di Stalin e la burocrazia fino al crollo del totalitarismo sovietico.
Lei ha scritto: «La paura è una predisposizione genetica della mia generazione»: è ancora così?
Per la generazione nata in Russia sotto Stalin, la paura maggiore era quella di essere arrestati o di perdere qualcuno dei propri famigliari, magari al fronte. La guerra è stata tremenda, e i nostri giornali non hanno scritto la verità e rivelato che era un disastro per il popolo russo, contro il quale Stalin aveva scatenato un altro conflitto personale che ha causato la morte di venti milioni di persone. Ha ammazzato i migliori poeti, i contadini, gli operai, tutti gli spiriti liberi e indipendenti che lo contestavano. Che tipo d'uomo era Stalin? Un mostro, un perverso? Stalin era un idealista fanatico, il genere più pericoloso d'idealisti. Distruggeva l'uomo ubbidiente, e quello indipendente lo irritava perché pensava che contrastasse le idee principali del comunismo. Stalin autorizzò la proiezione dei film di Chaplin in Russia perché pensava che attraverso quel piccolo uomo umiliato dalla società capitalistica, i russi capissero che era la vittima, il bullone di una macchina complessa; ma i russi che videro «Tempi moderni», capirono la metafora e identificarono l'operaio del film con la loro condizione schiacciata dal potere dell'ideologia. Quali sono le paure nella Russia d'oggi? Le paure oggi sono diverse. Senza voler difendere Stalin, posso affermare che in Unione Sovietica la vita non era poi così tremenda. Gli idealisti comunisti volevano costruire un futuro migliore per i propri figli, e lottavano per gli ideali romantici della nazione con determinazione. Allora tutte le medicine e tanti altri servizi erano gratuiti, cosa che adesso con la riforma delle pensioni Putin vuole togliere al popolo russo. Non c'erano differenze tra la gente, i burocrati erano controllati dallo Stato e non erano bustarellizzati come adesso. C'era la lotta contro il parassitismo e non esisteva la paura di perdere il lavoro, cosa importante per la psicologia umana. In America, il Paese più ricco del mondo, esiste questa paura, e la gente vive in una sorta di paludosa apatia civica.
Lei come si trova nella Nuova Russia senza comunismo?
Ho sempre lottato e lotto con i miei poemi, e non mi formalizzo di fronte ai cambiamenti, ma nella Russia d'oggi è facile perdere il lavoro e si può essere discreditati per sempre da accuse banali come le molestie sessuali. In passato, coraggiosi giornalisti russi pagati dal governo perché la stampa apparteneva al regime, criticavano il loro padrone; oggi che tutta l'informazione è privata, questo non avviene. Le grandi compagnie proprietarie dei giornali, sono in buoni rapporti con lo Stato che dà loro molti privilegi, e i giornalisti che non seguono una certa linea, sono teneramente messi da parte, perché la libertà e l'indipendenza si sono ristrette in Russia. Non ci sono ancora sindacati forti per difendere i diritti dei lavoratori contro certi imprenditori che si comportano come imperatori in alcune province, e molti giornalisti sono stati ammazzati perché scrivevano la verità. È il capitalismo che avanza, una lotta fra poteri forti per comandare, possedere di più.
Ma è stata sempre minata in Russia la strada della verità?
Il miglior periodo della verità è stato quello di Gorbaciov, quando la libertà di pensiero era incredibile e i russi vissero una nuova era per quattro o cinque anni. Ammiro molto Gorbaciov, anche se non fu necessariamente decisivo nel momento in cui lo buttarono via come presidente. Tutti gli imperi erano al collasso, probabilmente perché come i dinosauri avevano la testa lontana dalla coda, ma l'Unione Sovietica era un esperimento della vita di molti popoli di diverse nazionalità, e queste chanches si persero dopo il colpo di Stato di Eltsin. Churchill una volta disse che Kruscev voleva saltare attraverso un abisso. Gorbaciov, ambivalente ma molto buono, innocente e onestissimo, non reagendo in tempo, si era fermato sopra un abisso.
Lei è stato dissidente attivo in uno dei peggiori momenti repressivi del comunismo staliniano e post staliniano: come ha fatto a evitare arresto e deportazione, tragedie che hanno colpito molti altri letterati?
Sin da giovane ero molto noto ed ero sostenuto dal popolo. In quel tempo c'erano molti processi ai dissidenti, ma io non avevo paura. Oltre a scrivere dei versi contro l'invasione di Praga e prendere le difese di Solzenicyn, pensavo di salvare l'idea del socialismo come una forma di religione, di cristianesimo. A volte mi hanno chiamato antipatriota, ma come si può arrestare un uomo le cui canzoni in Russia le cantano tutti? Persino Kruscev e Breznev, l'uomo che mandò i carri armati a Praga, anche se forse avrebbero voluto togliermi dalla circolazione, cantavano le mie canzoni con le lacrime agli occhi.
Come ha costruito il suo successo?
Ho sempre avuto contatti con gli operai e gli studenti. Quando ero criticato a Mosca andavo in Siberia a fare dimostrazioni con gli operai nella stazione elettrica più grande d'Europa, realizzata senza l'impiego dei prigionieri siberiani. Giovani della mia generazione distruggevano le baracche dei prigionieri dopo averci dormito per parecchie notti prima di realizzare un proprio cottage. L'ingegnere progettista del complesso simbolico, un membro del partito e del Cominter regionale, mi minacciò velatamente: «Tu sei siberiano - mi disse - e non ricordi che in Siberia il sole nasce cinque ore prima di Mosca». L'allusione era chiara, ma io non mi turbai. Il mondo ha seguito con interesse le manifestazioni nella piazza di Kiev occupata dai sostenitori di Yushenko.
Quella che chiamano la democratura di Putin permetterebbe a Mosca una manifestazione come quella fatta dagli ucraini?
In quello che è successo a Kiev non c'è niente di nuovo per me. Nei primi giorni della Perestrojka, ho partecipato a molte manifestazioni del genere. Ho sangue ucraino, russo, polacco, tedesco e tartaro nelle vene, e come tutti i russi, quando esiste un conflitto etnico più che ideologico, preferisco non parteggiare per nessuno, perché sono cose delicatissime. L'Ucraina era una madre della Russia storica, molte famiglie ucraine e russe hanno mescolato il loro sangue. È impossibile dividere l'Ucraina, sarebbe come costruire un nuovo muro di Berlino, lanciare un pomo della discordia. Queste situazioni che per me sono ferite dolorose, spesso sono provocate. Bisogna fare pace, fermarle.
Cosa pensa invece della Cecenia, e del terribile episodio di terrorismo nella scuola di Beslan?
Ho scritto un poema sui bambini di Beslan e sui tragici fatti in Ossezia, e alcuni musicisti italiani vogliono farne un'opera. In questo poema ho scritto che è una viltà quello che era stato fatto. Gli esplosivi nella scuola era come se fossero stati collocati dallo stalinismo, perché quella dei rapporti fra ceceni e russi è una storia lunga e brutta: nessuno ha dimenticato quando dopo la seconda guerra mondiale Stalin ha spedito tutto il popolo ceceno nelle steppe. C'è un'amarezza storica in ogni ceceno, molti dei quali erano eroi dell'Unione Sovietica, ma furono trattati come traditori potenziali. Conosco l'odio cieco, ma Beslan è stato un crimine imperdonabile.
Nessuna giustificazione per i terroristi ceceni quindi?
Non posso giustificare i terroristi ceceni anche se la Russia ha fatto molti sbagli, ma i bambini non avevano alcuna colpa; bisogna parlare perché molti errori potevano essere evitati.
Lei è il poeta più ascoltato dai russi e dai giovani in particolare. Perché gli altri poeti non godono del suo prestigio?
È vero, i giovani soprattutto mi ascoltano più degli altri perché non dimentico mai le lotte civili, i confronti inevitabili tra gli uomini. Forse gli altri non sono attivi come me. Ci sono molti poeti capaci in Russia, ma non scrivono di certe cose per evitare conseguenze politiche. Io scrivo su tutti gli argomenti, anche quelli che disturbano. Sogno un poeta giovane e battagliero che susciti la mia invidia. Ma ancora non appare.
Novi Ligure
cosa dice Omar
La Stampa 30.1.05
Omar: «Sono cambiato. Adesso posso farcela»
«Quel giorno forse è stata colpa della droga, ma non nominatemi Erika. Ora studio e andrei anche a spaccare pietre, sarebbe una giusta punizione»
Giampiero Paviolo
Dice Omar: «Sono sicuro che papà non pensa quello che ha detto, so che mi vorrebbe a casa». Dice Patrizia, la mamma: «Lasciate in pace mio marito, oggi non è venuto per non correre il rischio di dover rispondere alle domande dei giornalisti. Tutto si aggiusterà».
Sì, forse tutto si aggiusterà, anche se pare impossibile a guardare le lacrime di questa donna piegata dal dolore, morta milla volte da quella notte che le ha rubato tutto, il figlio, un’esistenza normale, il lavoro.
Giorno di visite al carcere di Quarto, periferia astigiana. Omar ha per tutti un cognome, Favaro, da quando ha compiuto la maggiore età. Era un ragazzo di 17 anni quando, insieme con la fidanzata Erika De Nardo, massacrò a coltellate la mamma e il fratellino di lei, Susy Cassini e Gianluca, 13 anni appena. Per quel delitto doveva scontare 14 anni. Avendo già consumato un quarto della pena ed essendo all’epoca dei fatti minorenne, potrebbe usufruire di un permesso premio legato a un «progetto di risocializzazione». In parole povere: attività di volontariato. Nei giorni scorsi era sembrato che proprio il padre di Omar intendesse opporsi a un rapido ritorno a casa del figlio: troppo presto, diceva. Lui non vuole crederci: «Senza il loro aiuto non sarei mai uscito da quest’incubo, mi hanno dato la vita un’altra volta». Loro, quel che resta della vita stanno provando a rimetterlo insieme in un’altra città, dopo aver lasciato il piccolo bar di Novi.
Giorno di visite e di confidenze. E’ arrivato un parlamentare della Lega, il deputato europeo Mario Borghezio. Non è uno tenero con chi si è reso responsabile di delitti efferati, e il suo pensiero sui meccanismi premianti preferisce non esprimerlo qui e oggi: «Sono venuto per verificare se dentro il carcere il ragazzo può seguire un percorso culturale che lo aiuti a riabilitarsi, insomma che non sia trascurato nulla». Molto è stato fatto. Non tutto: quando era al Ferrante Aporti ha potuto seguire un corso di cucina («so fare le pizze»), uno di meccanica grazie all’aiuto di un artigiano torinese, un altro di computer, ma è stato costretto a interromperlo prima del tempo, trasferito ad Asti. In compenso, qui ha trovato la possibilità di riprendere gli studi da perito elettrico, bruscamente interrotti il giorno della tragedia di Novi Ligure.
A vederlo così sembra uno come tanti, un ragazzo un po’ malinconico, il fisico asciutto di chi fa sport («gioco a calcetto»), gli occhi intelligenti. Difficile immaginarlo come il pupazzo manovrato da una fidanzata poco più che bambina: «Non lo so, forse è stata colpa della droga, o chissà. Ma basta, non voglio sentir parlare di Erika, mai più. Sento solo un grande rimorso per quello che ho fatto, e tanta voglia di riscattarmi». Borghezio quasi lo provoca: «Se te lo chiedessero andresti, che ne so, a raccogliere pietre nei fiumi per due anni?» «Lo accetterei, forse la sentirei come una cosa giusta».
Tre anni al Ferrante Aporti, quattro compagni di cella, nessun problema di convivenza. I giorni con la psicologa che lo ha sempre seguito, con i sacerdoti, le visite di mamma e papà, il processo. Quello vero e quelli mediatici: «Alcune trasmissioni viste in tv hanno procurato un enorme dolore ai miei, alla mamma in particolare. Un altro rimorso che mi porto dentro. A volte mi arrabbio, come quando presentarono tutta questa storia e l’unico a parlare era il criminologo che ha seguito Erika, nemmeno il mio avvocato c’era. Pazienza, forse è un prezzo da pagare, come una condanna nella condanna».
La maggiore età, il trasferimento a Quarto, sezione A2. In cella con un adulto, un uomo sui quaranta. «Andiamo d’accordo. Che si fa? Lezioni, tanta tv, tanti libri. Sto studiando il periodo di Boccaccio e Dante. Tra tutti preferisco il Manzoni dei ‘’Promessi sposi’’». Briciole di normalità oltre la tragedia: «Della tv mi piacciono i telegiornali, lo sport, i quiz, provo a risolvere quelli di ‘’Passaparo- la’’». Speranze: «Posso farcela. L’esperienza del carcere non è stata negativa, so di essere completamente diverso da quel giorno». Le delusioni: «Una, dura da mandar giù: è stato quando mi hanno negato il permesso per trascorrere il Natale con i miei. Ci speravo, la notizia che il giudice aveva detto no è stata una mazzata. Per fortuna, pochi giorni dopo, si è aperto uno spiraglio. So che non sarà domani, non sarà prestissimo. Ma adesso ho una prospettiva di vita più vicina». Gli amici? «Mi sono mancati, certo, qui è facile avvertire la solitudine. Scrivo molte lettere, in particolare a un sacerdote di Genova che mi è sempre stato vicino. Ecco, una cosa l’ho imparata bene: c’è tanta gente pronta a giudicare senza conoscerti, ma anche tanta disposta ad aiutarti senza giudicare».
Omar: «Sono cambiato. Adesso posso farcela»
«Quel giorno forse è stata colpa della droga, ma non nominatemi Erika. Ora studio e andrei anche a spaccare pietre, sarebbe una giusta punizione»
Giampiero Paviolo
Dice Omar: «Sono sicuro che papà non pensa quello che ha detto, so che mi vorrebbe a casa». Dice Patrizia, la mamma: «Lasciate in pace mio marito, oggi non è venuto per non correre il rischio di dover rispondere alle domande dei giornalisti. Tutto si aggiusterà».
Sì, forse tutto si aggiusterà, anche se pare impossibile a guardare le lacrime di questa donna piegata dal dolore, morta milla volte da quella notte che le ha rubato tutto, il figlio, un’esistenza normale, il lavoro.
Giorno di visite al carcere di Quarto, periferia astigiana. Omar ha per tutti un cognome, Favaro, da quando ha compiuto la maggiore età. Era un ragazzo di 17 anni quando, insieme con la fidanzata Erika De Nardo, massacrò a coltellate la mamma e il fratellino di lei, Susy Cassini e Gianluca, 13 anni appena. Per quel delitto doveva scontare 14 anni. Avendo già consumato un quarto della pena ed essendo all’epoca dei fatti minorenne, potrebbe usufruire di un permesso premio legato a un «progetto di risocializzazione». In parole povere: attività di volontariato. Nei giorni scorsi era sembrato che proprio il padre di Omar intendesse opporsi a un rapido ritorno a casa del figlio: troppo presto, diceva. Lui non vuole crederci: «Senza il loro aiuto non sarei mai uscito da quest’incubo, mi hanno dato la vita un’altra volta». Loro, quel che resta della vita stanno provando a rimetterlo insieme in un’altra città, dopo aver lasciato il piccolo bar di Novi.
Giorno di visite e di confidenze. E’ arrivato un parlamentare della Lega, il deputato europeo Mario Borghezio. Non è uno tenero con chi si è reso responsabile di delitti efferati, e il suo pensiero sui meccanismi premianti preferisce non esprimerlo qui e oggi: «Sono venuto per verificare se dentro il carcere il ragazzo può seguire un percorso culturale che lo aiuti a riabilitarsi, insomma che non sia trascurato nulla». Molto è stato fatto. Non tutto: quando era al Ferrante Aporti ha potuto seguire un corso di cucina («so fare le pizze»), uno di meccanica grazie all’aiuto di un artigiano torinese, un altro di computer, ma è stato costretto a interromperlo prima del tempo, trasferito ad Asti. In compenso, qui ha trovato la possibilità di riprendere gli studi da perito elettrico, bruscamente interrotti il giorno della tragedia di Novi Ligure.
A vederlo così sembra uno come tanti, un ragazzo un po’ malinconico, il fisico asciutto di chi fa sport («gioco a calcetto»), gli occhi intelligenti. Difficile immaginarlo come il pupazzo manovrato da una fidanzata poco più che bambina: «Non lo so, forse è stata colpa della droga, o chissà. Ma basta, non voglio sentir parlare di Erika, mai più. Sento solo un grande rimorso per quello che ho fatto, e tanta voglia di riscattarmi». Borghezio quasi lo provoca: «Se te lo chiedessero andresti, che ne so, a raccogliere pietre nei fiumi per due anni?» «Lo accetterei, forse la sentirei come una cosa giusta».
Tre anni al Ferrante Aporti, quattro compagni di cella, nessun problema di convivenza. I giorni con la psicologa che lo ha sempre seguito, con i sacerdoti, le visite di mamma e papà, il processo. Quello vero e quelli mediatici: «Alcune trasmissioni viste in tv hanno procurato un enorme dolore ai miei, alla mamma in particolare. Un altro rimorso che mi porto dentro. A volte mi arrabbio, come quando presentarono tutta questa storia e l’unico a parlare era il criminologo che ha seguito Erika, nemmeno il mio avvocato c’era. Pazienza, forse è un prezzo da pagare, come una condanna nella condanna».
La maggiore età, il trasferimento a Quarto, sezione A2. In cella con un adulto, un uomo sui quaranta. «Andiamo d’accordo. Che si fa? Lezioni, tanta tv, tanti libri. Sto studiando il periodo di Boccaccio e Dante. Tra tutti preferisco il Manzoni dei ‘’Promessi sposi’’». Briciole di normalità oltre la tragedia: «Della tv mi piacciono i telegiornali, lo sport, i quiz, provo a risolvere quelli di ‘’Passaparo- la’’». Speranze: «Posso farcela. L’esperienza del carcere non è stata negativa, so di essere completamente diverso da quel giorno». Le delusioni: «Una, dura da mandar giù: è stato quando mi hanno negato il permesso per trascorrere il Natale con i miei. Ci speravo, la notizia che il giudice aveva detto no è stata una mazzata. Per fortuna, pochi giorni dopo, si è aperto uno spiraglio. So che non sarà domani, non sarà prestissimo. Ma adesso ho una prospettiva di vita più vicina». Gli amici? «Mi sono mancati, certo, qui è facile avvertire la solitudine. Scrivo molte lettere, in particolare a un sacerdote di Genova che mi è sempre stato vicino. Ecco, una cosa l’ho imparata bene: c’è tanta gente pronta a giudicare senza conoscerti, ma anche tanta disposta ad aiutarti senza giudicare».
Il Messaggero Sabato 29 Gennaio 2005
ALLARME
Oltre la metà degli omicidi avviene in famiglia: «Vittime quasi sempre le donne, a rischio le ex»
di Maria Lombardi
ROMA - Rancori che uccidono, sofferenze che non si possono sopportare oltre, rabbia che non risparmia nulla. Accade in famiglia, sempre più spesso, accade che un coltello o una pistola cancellino d’un tratto gli affetti più grandi. «Solo quando ho visto il sangue, ho capito cosa avevo fatto», quasi non ricorda, il marito, la lama che colpiva la moglie e le grida di lei. «L’ho fatto perché altrimenti l’avrebbe fatto lui», è lucida confessione di una donna malata che ha appena assassinato il suo uomo. Storie come tante altre: la maggior parte degli omicidi (il 51,5%) avviene in famiglia. Negli ultimi dieci anni, i delitti in casa sono aumentati di trenta volte. Le vittime, il più delle volte, donne. «Il caso più frequente è quello in cui il marito uccide la moglie, a casa. Non usa armi da fuoco, ma coltelli, non ha precedenti penali e confessa», spiega Giovan Battista Traverso, psichiatra forense dell’università di Siena. E tante volte quella stessa arma è rivolta contro se stessi: il 68% degli omicidi-suicidi avviene in famiglia.
Molte di queste storie potevano finire diversamente, se solo quelle mogli e quei mariti non fossero stati lasciati soli. Si può fare qualcosa per «prevenire la violenza in famiglia», sostiene Emanuela Moroli, presidente dell’associazione ”Differenza donna”, che al tema ha dedicato un convegno internazionale in corso a Roma (vi hanno preso parte tra gli altri la psicoanalista Carol Tarantelli, Henrik Belfrage, criminologo svedese, il direttore del ”Messaggero” Paolo Gambescia, la criminologa Isabella Merzagora). L’hanno già fatto in Canada, l’unico paese al mondo dove viene utilizzato il programma ”Sara” (Spousal Assault Risk Assessment) una strategia per ridurre la violenza domestica in grado di valutare che rischi corre una donna già vittima di maltrattamenti. «In quel paese - aggiunge Emanuela Moroli - l’incidenza dei delitti in famiglia è crollata del sessanta per cento». ”Sara” è una specie di indagine - fatta dalla forze dell’ordine e dagli operatori sociali - che consente di capire se uomini già individuati come violenti possono commettere ancora quei reati o reati più gravi. «Il programma prevede se per una donna è rischioso o meno a continuare a vivere in quella casa o a frequentare quell’uomo», aggiunge il presidente dell’associazione. In via sperimentale ”Sara” è stato utilizzato anche in Italia lo scorso anno (sono stati nostri partner la Svezia, la Grecia e l’Olanda) e lo sarà anche nel 2005.
Un programma che vuole innanzitutto proteggere le donne, «perchè le donne sono più buone degli uomini - sostiene Isabella Merzagora, criminologa dell’università di Milano - e dunque il più delle volte vittime. Basta pensare che solo il 7% degli omicidi è commesso da donne». E quando impugnano un’arma, le donne lo fanno in famiglia (nel 70% dei casi) a differenza degli uomini che uccidono soprattutto ”fuori casa”. Le ragioni di tanta violenza? Il possesso, la gelosia, la paura dell’abbandono. «A rischiare di più - dice la criminologa - sono le ex o quelle che stanno per lasciare un uomo».
ALLARME
Oltre la metà degli omicidi avviene in famiglia: «Vittime quasi sempre le donne, a rischio le ex»
di Maria Lombardi
ROMA - Rancori che uccidono, sofferenze che non si possono sopportare oltre, rabbia che non risparmia nulla. Accade in famiglia, sempre più spesso, accade che un coltello o una pistola cancellino d’un tratto gli affetti più grandi. «Solo quando ho visto il sangue, ho capito cosa avevo fatto», quasi non ricorda, il marito, la lama che colpiva la moglie e le grida di lei. «L’ho fatto perché altrimenti l’avrebbe fatto lui», è lucida confessione di una donna malata che ha appena assassinato il suo uomo. Storie come tante altre: la maggior parte degli omicidi (il 51,5%) avviene in famiglia. Negli ultimi dieci anni, i delitti in casa sono aumentati di trenta volte. Le vittime, il più delle volte, donne. «Il caso più frequente è quello in cui il marito uccide la moglie, a casa. Non usa armi da fuoco, ma coltelli, non ha precedenti penali e confessa», spiega Giovan Battista Traverso, psichiatra forense dell’università di Siena. E tante volte quella stessa arma è rivolta contro se stessi: il 68% degli omicidi-suicidi avviene in famiglia.
Molte di queste storie potevano finire diversamente, se solo quelle mogli e quei mariti non fossero stati lasciati soli. Si può fare qualcosa per «prevenire la violenza in famiglia», sostiene Emanuela Moroli, presidente dell’associazione ”Differenza donna”, che al tema ha dedicato un convegno internazionale in corso a Roma (vi hanno preso parte tra gli altri la psicoanalista Carol Tarantelli, Henrik Belfrage, criminologo svedese, il direttore del ”Messaggero” Paolo Gambescia, la criminologa Isabella Merzagora). L’hanno già fatto in Canada, l’unico paese al mondo dove viene utilizzato il programma ”Sara” (Spousal Assault Risk Assessment) una strategia per ridurre la violenza domestica in grado di valutare che rischi corre una donna già vittima di maltrattamenti. «In quel paese - aggiunge Emanuela Moroli - l’incidenza dei delitti in famiglia è crollata del sessanta per cento». ”Sara” è una specie di indagine - fatta dalla forze dell’ordine e dagli operatori sociali - che consente di capire se uomini già individuati come violenti possono commettere ancora quei reati o reati più gravi. «Il programma prevede se per una donna è rischioso o meno a continuare a vivere in quella casa o a frequentare quell’uomo», aggiunge il presidente dell’associazione. In via sperimentale ”Sara” è stato utilizzato anche in Italia lo scorso anno (sono stati nostri partner la Svezia, la Grecia e l’Olanda) e lo sarà anche nel 2005.
Un programma che vuole innanzitutto proteggere le donne, «perchè le donne sono più buone degli uomini - sostiene Isabella Merzagora, criminologa dell’università di Milano - e dunque il più delle volte vittime. Basta pensare che solo il 7% degli omicidi è commesso da donne». E quando impugnano un’arma, le donne lo fanno in famiglia (nel 70% dei casi) a differenza degli uomini che uccidono soprattutto ”fuori casa”. Le ragioni di tanta violenza? Il possesso, la gelosia, la paura dell’abbandono. «A rischiare di più - dice la criminologa - sono le ex o quelle che stanno per lasciare un uomo».
bimbi in provetta e staminali
La Stampa TuttoScienze 26 Gennaio 2005
Figli in provetta e staminali
Gli italiani dicono sì
Ecco il risultato della nostra indagine, eseguita su un campione rappresentativo di 964 cittadini con età uguale o maggiore di venti anni.
Quasi l'80 per cento degli italiani è favorevole all'utilizzo di cellule staminali di embrioni per la ricerca di nuove terapie mediche. Oltre un terzo lo è addirittura senza condizioni (35%), mentre il 44% lo vincola al fatto che si utilizzino embrioni altrimenti destinati ad essere distrutti. Il 21% è invece contrario in ogni caso. Il dato conferma e rafforza una tendenza già messa in luce da precedenti studi sugli orientamenti dell'opinione pubblica: benché scettici sulle prospettive delle biotecnologie agroalimentari, gli italiani hanno un orientamento molto più favorevole verso le ricerche e le applicazioni biotecnologiche in campo medico. L’aspetto più sorprendente è forse che la fede religiosa non pesi su questo giudizio in modo significativo: tra quanti si definiscono cattolici, la quota dei contrari all'uso di cellule staminali di embrioni è praticamente identica a quella del campione generale (22%). Sempre tra i cattolici, i favorevoli «senza condizioni» superano addirittura, seppure di poco, la media del campione (36%).
Più articolato appare il rapporto con gli orientamenti politici. Tra gli elettori di entrambe le principali coalizioni l'apertura alla ricerca sulle cellule staminali di embrioni è netta: il 39% degli elettori di centrosinistra e il 37% di quelli di centrodestra si dichiara favorevole in ogni caso. Gli assolutamente contrari sono maggiormente presenti fra gli incerti (28%).
Anche nel caso della fecondazione assistita, il fronte dei favorevoli supera abbondantemente quello dei contrari: il 70% dei cittadini interpellati è del parere che il ricorso alla fecondazione assistita debba essere consentito alle coppie che non possono avere figli, mentre il 30% dichiara la propria opposizione. Tra i favorevoli è possibile distinguere tra chi riconosce legittimità alla fecondazione assistita ma non alla donazione di gameti (40 per cento) - e quindi non ne consentirebbe l'utilizzo a coppie sterili - e chi ritiene di non dover introdurre limitazioni di questo genere (30 per cento).
Una questione molto dibattuta è quella della «diagnosi pre-impianto», cioè la questione dell'opportunità di verificare sull'embrione la potenziale insorgenza di determinate patologie ereditarie o non, e di conseguenza di decidere se proseguire o meno la gravidanza. Ebbene, solo un italiano su cinque si dichiara infine apertamente contrario alla possibilità di condurre accertamenti su eventuali malformazioni di embrioni per coppie che ricorrono alla fecondazione assistita; il rimanente 80% si divide fra coloro i quali, pur ammettendo questi accertamenti, richiederebbero poi alla coppia di iniziare comunque la gravidanza (10%) e chi, invece, la lascerebbe libera di decidere se proseguire oppure no in funzione del risultato degli accertamenti (70%). Emerge insomma un chiaro orientamento a lasciare alla coscienza dei futuri genitori il compito di valutare l'opportunità sia di verificare o meno lo stato di salute degli embrioni prima dell'impianto, sia di dare corso alla gravidanza sulla base degli esiti di tale verifica.
L'età e il titolo di studio agiscono come fattori discriminanti nei giudizi, dal momento che un basso livello di scolarità e un'età superiore ai 65 anni favoriscono un atteggiamento contrario alla fecondazione assistita e agli accertamenti sugli embrioni; di converso, un titolo di studio elevato e un'età inferiore ai 50 anni tendono invece a identificare un'apertura verso la fecondazione artificiale (compresa l'eventuale donazione) e alla diagnosi reimpianto senza obbligo di prosecuzione della gravidanza.
E’ evidente il nesso con l’orientamento politico: chi si colloca nell'area centro-sinistra tende ad assumere atteggiamenti più permissivi (i favorevoli alla fecondazione assistita compresa donazione raggiungono il 36% e quelli agli accertamenti sugli embrioni senza obbligo di prosecuzione della gravidanza arrivano al 79%), mentre chi si colloca a centro-destra e gli incerti esprimono orientamenti più restrittivi (rispettivamente 34% e 39% di contrari nel caso della fecondazione assistita, 22% e 25% per la diagnosi pre-impianto). L'orientamento religioso fa invece sentire il suo peso solo in parte. Infatti, mentre è chiaro che coloro i quali si dichiarano non credenti sono più propensi alla fecondazione assistita e agli accertamenti sugli embrioni, riconoscersi nella religione cattolica non porta necessariamente ad assumere atteggiamenti più contrari rispetto alla media.
Figli in provetta e staminali
Gli italiani dicono sì
I problemi legati alla scienza e alla tecnologia diventano ogni giorno più frequenti: con l’obiettivo di fornire una solida base di conoscenze su cui sviluppare il dialogo tra ricercatori, cittadini e classe politica, il centro di ricerche Observa - Science in Society, in collaborazione con TuttoScienze - La Stampa, ha deciso di dare vita all'«Osservatorio Scienza e Società», che si propone di monitorare regolarmente le tendenze e gli orientamenti dell'opinione pubblica italiana verso la ricerca e l'innovazione tecnologica, con particolare riguardo per i temi di maggiore attualità (sito: www.observanet.it).
La rilevazione sugli orientamenti degli italiani nei confronti delle cellule staminali e della fecondazione assistita è il primo appuntamento con l'«Osservatorio Scienza e Società».I temi della fecondazione assistita e della ricerca sulle cellule staminali tengono banco nei media e nel dibattito politico, tanto più ora che stanno per diventare oggetto di referendum. Ma finora poco rilievo ha avuto il punto di vista dei cittadini, cioè dei primi utilizzatori delle pratiche di fecondazione assistita e dei potenziali destinatari di eventuali applicazioni terapeutiche delle cellule staminali. Diventa quindi particolarmente utile e interessante far emergere gli orientamenti dell'opinione pubblica italiana.
Massimiano Bucchi insegna Sociologia della Scienza all'Università di Trento. Fa parte del board scientifico del Public Communication of Science Network e dello European Science and Society Forum. Ha pubblicato saggi su riviste internazionali come «Nature» e «Science» e cinque monografie; tra queste, «Scienza e Società» (Il Mulino, Bologna; edizione internazionale «Science in Society», London and New York, Routledge, 2004).
Federico Neresini insegna Metodologia della ricerca sociale all'Università di Padova. È membro della European Association for the Study of Science and Technology. Tra le sue pubblicazioni, il volume «Sociologia della Salute» (Carocci, Roma, curato con Massimiano Bucchi), e numerosi contributi a «Nature» e «Science».
Gli intervistati sono stati 964, campione per quote, tecnica CATI, periodo 22-30 novembre 2004, margine massimo di errore 3,05 per cento. Tutti i dati tecnici e di approfondimento sul campione utilizzato per l’indagine sono disponbili nel sito: www.lastampa.it
Ecco il risultato della nostra indagine, eseguita su un campione rappresentativo di 964 cittadini con età uguale o maggiore di venti anni.
Quasi l'80 per cento degli italiani è favorevole all'utilizzo di cellule staminali di embrioni per la ricerca di nuove terapie mediche. Oltre un terzo lo è addirittura senza condizioni (35%), mentre il 44% lo vincola al fatto che si utilizzino embrioni altrimenti destinati ad essere distrutti. Il 21% è invece contrario in ogni caso. Il dato conferma e rafforza una tendenza già messa in luce da precedenti studi sugli orientamenti dell'opinione pubblica: benché scettici sulle prospettive delle biotecnologie agroalimentari, gli italiani hanno un orientamento molto più favorevole verso le ricerche e le applicazioni biotecnologiche in campo medico. L’aspetto più sorprendente è forse che la fede religiosa non pesi su questo giudizio in modo significativo: tra quanti si definiscono cattolici, la quota dei contrari all'uso di cellule staminali di embrioni è praticamente identica a quella del campione generale (22%). Sempre tra i cattolici, i favorevoli «senza condizioni» superano addirittura, seppure di poco, la media del campione (36%).
Più articolato appare il rapporto con gli orientamenti politici. Tra gli elettori di entrambe le principali coalizioni l'apertura alla ricerca sulle cellule staminali di embrioni è netta: il 39% degli elettori di centrosinistra e il 37% di quelli di centrodestra si dichiara favorevole in ogni caso. Gli assolutamente contrari sono maggiormente presenti fra gli incerti (28%).
Anche nel caso della fecondazione assistita, il fronte dei favorevoli supera abbondantemente quello dei contrari: il 70% dei cittadini interpellati è del parere che il ricorso alla fecondazione assistita debba essere consentito alle coppie che non possono avere figli, mentre il 30% dichiara la propria opposizione. Tra i favorevoli è possibile distinguere tra chi riconosce legittimità alla fecondazione assistita ma non alla donazione di gameti (40 per cento) - e quindi non ne consentirebbe l'utilizzo a coppie sterili - e chi ritiene di non dover introdurre limitazioni di questo genere (30 per cento).
Una questione molto dibattuta è quella della «diagnosi pre-impianto», cioè la questione dell'opportunità di verificare sull'embrione la potenziale insorgenza di determinate patologie ereditarie o non, e di conseguenza di decidere se proseguire o meno la gravidanza. Ebbene, solo un italiano su cinque si dichiara infine apertamente contrario alla possibilità di condurre accertamenti su eventuali malformazioni di embrioni per coppie che ricorrono alla fecondazione assistita; il rimanente 80% si divide fra coloro i quali, pur ammettendo questi accertamenti, richiederebbero poi alla coppia di iniziare comunque la gravidanza (10%) e chi, invece, la lascerebbe libera di decidere se proseguire oppure no in funzione del risultato degli accertamenti (70%). Emerge insomma un chiaro orientamento a lasciare alla coscienza dei futuri genitori il compito di valutare l'opportunità sia di verificare o meno lo stato di salute degli embrioni prima dell'impianto, sia di dare corso alla gravidanza sulla base degli esiti di tale verifica.
L'età e il titolo di studio agiscono come fattori discriminanti nei giudizi, dal momento che un basso livello di scolarità e un'età superiore ai 65 anni favoriscono un atteggiamento contrario alla fecondazione assistita e agli accertamenti sugli embrioni; di converso, un titolo di studio elevato e un'età inferiore ai 50 anni tendono invece a identificare un'apertura verso la fecondazione artificiale (compresa l'eventuale donazione) e alla diagnosi reimpianto senza obbligo di prosecuzione della gravidanza.
E’ evidente il nesso con l’orientamento politico: chi si colloca nell'area centro-sinistra tende ad assumere atteggiamenti più permissivi (i favorevoli alla fecondazione assistita compresa donazione raggiungono il 36% e quelli agli accertamenti sugli embrioni senza obbligo di prosecuzione della gravidanza arrivano al 79%), mentre chi si colloca a centro-destra e gli incerti esprimono orientamenti più restrittivi (rispettivamente 34% e 39% di contrari nel caso della fecondazione assistita, 22% e 25% per la diagnosi pre-impianto). L'orientamento religioso fa invece sentire il suo peso solo in parte. Infatti, mentre è chiaro che coloro i quali si dichiarano non credenti sono più propensi alla fecondazione assistita e agli accertamenti sugli embrioni, riconoscersi nella religione cattolica non porta necessariamente ad assumere atteggiamenti più contrari rispetto alla media.
matrimonio?
«Né domani né mai»
La Stampa Tuttolibri 29 Gennaio 2005
Sposarsi non fa romanzo
«Né domani né mai»
di Ferdinando Camon
SULL'indissolubilità del matrimonio cattolico si sono scontrate politica, psicanalisi, psicologia e tutte quelle che si chiamano nuove scienze umane, ma l'indissolubilità è ancora lì, un pilastro della chiesa e della cultura cattolica. Le scienze umane dicono semplicemente: lui cambia, lei cambia, i sentimenti cambiano, lui si sente tradito dal cambiamento di lei, lei si sente tradita dal cambiamento di lui, e allora perché il legame deve restare eterno e soltanto la morte può rescinderlo?
La risposta è altrettanto semplice: nel matrimonio cattolico lui non è legato a lei e lei non è legata a lui, ma ognuno dei due è legato a un terzo elemento, il quale non cambia ma resta fisso e immutabile per l'eternità. Il matrimonio cattolico è un matrimonio a tre. Quando non c'è perfetta conoscenza di questa tripla presenza, il matrimonio è nullo, mai esistito. E come entra l'amore, l'amore tra i due coniugi, in questa unione che scavalca i due? Entra (quando entra) come spinta iniziale, mozione prima all'unione; ma non è determinante perché esista o resista il matrimonio: anche se si spegne la spinta, il matrimonio prosegue, come un volontario dovere.
E' stato il romanticismo a introdurre l'idea del matrimonio come sbocco della passione. Prima il matrimonio poteva essere un accordo, e non è affatto detto che avesse minor durata. La passione era un segmento della vita, mentre il matrimonio proseguiva: di qui le concezioni del matrimonio come altro dall'amore, o come tomba dell'amore, o come negazione del sentimento, e del sentimento come pericoloso, minaccioso, rischioso per il matrimonio.
Con l'avvento della psicanalisi, un secolo fa, nel sentimento è stata fatta confluire anche la sessualità. E il matrimonio come dovere è diventato la sessualità come dovere (il "dovere coniugale"), che è un ossimoro. Il problema del rapporto fra amore e matrimonio, matrimonio e passione, matrimonio come contratto, sessualità e desiderio nel matrimonio, matrimonio come legame a tre, lo vediamo meglio quando osserviamo come ci guardano dalle altre civiltà: in questo momento c'è un film (di Ken Loach) che gira per le nostre sale con molto successo, Un bacio appassionato, ed è incentrato proprio su questo tema, la necessità o inutilità della com-presenza di amore-passione-sessualità nel matrimonio fra una europea cristiana e un pakistano islamico. Indispensabile, dice l'europea. Perché senza quella com-presenza non si parte nemmeno. Dannosa, dice l'intera famiglia islamica. Perché su quella base non si va da nessuna parte.
Non è che da noi matrimonio e amore abbiano sempre marciato insieme. Da Dante a Pontiggia, l'amore è sempre fuori del matrimonio. Svevo teorizza il tradimento come utile alla durata del matrimonio, e ci presenta una moglie che collabora al buon esisto della relazione extraconiugale del marito. Ci possono essere matrimoni e coppie sposate al centro di romanzi, ma la narrazione scorre a monte del matrimonio, perché l'amore è movimento e può far nascere il romanzo, mentre il matrimonio è immobilità e quindi non ha narrabilità.
Fabio Danelon, professore all'università per stranieri di Perugia, ha scritto Né domani, né mai (Marsilio, pp. 358, e28), un complesso e ferreo studio sul matrimonio nella letteratura italiana da Machiavelli a D'Annunzio (gli autori che "sente" di più sono Manzoni e Verga), e sospetta che all'origine ci sia la condanna della sessualità nel primo Cristianesimo, per il quale è meglio "sposarsi che bruciare", espressione peraltro non pacifica, perché per altri padri della chiesa restava meglio "bruciare che sposarsi". Istituendo il matrimonio come "sacramentum", la chiesa esigeva che dipendesse da una libera volontà. Ma volontà non è amore. Per i nostri scrittori più cattolici, Manzoni e Tommaseo, al matrimonio non serve l'amore. E non è soltanto una visione italiana.
Danelon cita Fourier, "fiero avversario d'indissolubilità e monogamia"; Schopenhauer, per il quale i matrimoni "sono finalizzati alla conservazione della specie"; Horkheimer, per il quale "il matrimonio è una mascherata dovuta a ragioni essenzialmente economiche"; Breton, "contrario a ogni repressione"; Foucault, che denuncia "la confisca della sessualità nella funzione riproduttrice della famiglia coniugale". Sono soltanto pochi esempi.
Nell'arco della letteratura italiana qui passata in rassegna, Manzoni e Tommaseo restano i due soli autori a potersi definire "cattolici", sia pure con atteggiamenti molto diversi. Manzoni non è un narratore del matrimonio, il matrimonio subentra di sghembo, alla fine dei Promessi Sposi, e vien liquidato rapidamente e imprecisamente (non si sa nemmeno quanti figli facciano Renzo e Lucia). Non è nemmeno un narratore dell'amore, non c'è amore o passione in Renzo e Lucia (c'era amore in Fermo e Lucia, ma il vero innamorato era don Rodrigo). Accingendosi a scrivere un romanzo che non aumenti la quantità di passione vissuta sulla terra, Manzoni sceglie il tempo che prepara al matrimonio. Da quella preparazione, e da quello sbocco, si sente garantito: "Il romanzo si presenta subito come la storia di un matrimonio che non si deve fare, e il principale ostacolo al matrimonio non è don Rodrigo, ma l'autore stesso".
Quel che Manzoni taglia via, Tommaseo mette al centro, e "affronta la cruciale frizione amour-passion" in questo modo: "La soluzione proposta va tutta a favore della coniugalità e contro l'amore passionale". "Egli coglie, infatti, che una volta accettata l'idea che il matrimonio debba fondarsi sull'amore, ne consegue che, venuta meno la passione, il matrimonio non possa che sciogliersi, il che è inaccettabile per chi lo ritiene un sacramento". "La felicità individuale non è un obiettivo cristiano". La conclusione "si adegua all'ossequio cristiano della pazienza, del dovere, del sacrificio".
Siamo parecchio lontani dal punto di partenza dello studio, che in Machiavelli trovava il matrimonio saturo di "inestimabile noia", "ben più spaventevole dell'inferno", e la moglie sempre pericolosa, che per essere domata ha bisogno dell'infernale Belfagor. Con la Clizia Machiavelli approdava a una desolata "rassegnazione contro i rischi della passione e le gioie della vitalità erotica". Saggia la rassegnazione, perdente la lotta. In Alfieri i matrimoni sono spesso "ferali", perché sono una forma di tirannide: l'indissolubilità sta al matrimonio come l'impossibilità della rivoluzione sta alla tirannide. "Dalla indissolubilità del Matrimonio fattosi sacramento, ne risultano quei tanti di politici mali, che ogni giorno vediamo nelle nostre tirannidi: cattivi mariti, peggiori mogli, non buoni padri, e pessimi figli". L'indissolubilità non fa un cattivo matrimonio, fa una cattiva famiglia. E una cattiva società.
E' certo, per Danelon, che Ortis "non vuole" sposare Teresa. Vuole amarla, non sposarla. Teresa sposa uno che non ama. Il padre di Teresa supplica Jacopo: "Sacrificate la vostra passione alla sua quiete". Il matrimonio come quiete, la passione come nemica della quiete. Entrando nella quiete, Teresa diventa irraggiungibile per la passione, e colui che cova la passione non ha altro sbocco che il suicidio. Nell'"Ortis", osserva di sfuggita Danelon, tutti i matrimoni sono falliti.
Nel matrimonio mastro Gesualdo entra come in una trappola, un passo dopo l'altro finisce per trovarsi prigioniero dell'incomunicabilità: il Mastro-don Gesualdo è il romanzo della coppia che non sa e non può parlarsi, la coppia di estranei: "Nessun idillio è possibile, nessuna felicità accessibile, nessuna serenità individuale che non sia effimera, fugace".
Fin qui, con Machiavelli Alfieri Foscolo Manzoni Tommaseo e Verga, siamo nel rapporto a due, lui e lei. Con L'Innocente, D'Annunzio introduce un terzo, il figlio. E' un figlio della colpa, cioè (come sempre succede) di una doppia colpa, di lui e di lei. Lei ha tradito il marito perché il marito la tradiva. Ora i due vorrebbero riunirsi, ma c'è quell'ostacolo. Il frutto della doppia colpa viene eliminato da un'altra doppia colpa, ci pensa lui ma col consenso di lei. Non è una soluzione che abbia insegnato molto ai tempi successivi. Il figlio come arma nella lotta fra coniugi è diventato di uso corrente, ma oggi non si sopprime un figlio per recuperare un coniuge, semmai si recupera il figlio e si lascia il coniuge alla sua morte. Il fatto è che oggi non siamo sulla linea (magari più avanti ma pur sempre sulla linea) esaminata in questo libro, con frequenza di risultati illuminanti e di preziose scoperte.
Si poteva proseguire, ed esaminare amore-sesso-matrimonio in Moravia Pratolini Bassani Cassola eccetera (tutti narratori di amanti, tranne Cassola, narratore di un vero matrimonio), ma non si arrivava mai all'oggi. Perché l'oggi sta dopo una doppia rivoluzione, che è il divorzio-aborto. Il matrimonio e il parto sono una scelta. La tirannide è finita. Naturalmente, visto dai cattolici, l'aborto è una tirannide dei nati sui nascituri. Ma questo è un altro discorso.
fercamon@libero.it
Sposarsi non fa romanzo
«Né domani né mai»
di Ferdinando Camon
Uno studio sul matrimonio nella letteratura taliana: fonte di «inestimabile noia» nel Machiavelli, «feroce», una forma di tirannide per Alfieri.
Da Dante a Pontiggia l'amore è sempre fuori dal matrimonio (e Svevo teorizzerà il tradimento come utile alla durata delle nozze). Lo stesso Manzoni narra «la storia di un matrimonio che non si deve fare» là dove principale ostacolo al matrimonio «non è Don Rodrigo ma l'autore stesso«
L'altro scrittore cattolico, Tommaseo, a favore della coniugalità e contro l'amore passionale. Diversamente dall'«Ortis» di Foscolo che non vuole sposare Teresa bensì amarla.
Con D'Annunzio tra i coniugi appare il figlio della colpa, mentre bisogna attendere Cassola per assistere a un vero matrimonio
SULL'indissolubilità del matrimonio cattolico si sono scontrate politica, psicanalisi, psicologia e tutte quelle che si chiamano nuove scienze umane, ma l'indissolubilità è ancora lì, un pilastro della chiesa e della cultura cattolica. Le scienze umane dicono semplicemente: lui cambia, lei cambia, i sentimenti cambiano, lui si sente tradito dal cambiamento di lei, lei si sente tradita dal cambiamento di lui, e allora perché il legame deve restare eterno e soltanto la morte può rescinderlo?
La risposta è altrettanto semplice: nel matrimonio cattolico lui non è legato a lei e lei non è legata a lui, ma ognuno dei due è legato a un terzo elemento, il quale non cambia ma resta fisso e immutabile per l'eternità. Il matrimonio cattolico è un matrimonio a tre. Quando non c'è perfetta conoscenza di questa tripla presenza, il matrimonio è nullo, mai esistito. E come entra l'amore, l'amore tra i due coniugi, in questa unione che scavalca i due? Entra (quando entra) come spinta iniziale, mozione prima all'unione; ma non è determinante perché esista o resista il matrimonio: anche se si spegne la spinta, il matrimonio prosegue, come un volontario dovere.
E' stato il romanticismo a introdurre l'idea del matrimonio come sbocco della passione. Prima il matrimonio poteva essere un accordo, e non è affatto detto che avesse minor durata. La passione era un segmento della vita, mentre il matrimonio proseguiva: di qui le concezioni del matrimonio come altro dall'amore, o come tomba dell'amore, o come negazione del sentimento, e del sentimento come pericoloso, minaccioso, rischioso per il matrimonio.
Con l'avvento della psicanalisi, un secolo fa, nel sentimento è stata fatta confluire anche la sessualità. E il matrimonio come dovere è diventato la sessualità come dovere (il "dovere coniugale"), che è un ossimoro. Il problema del rapporto fra amore e matrimonio, matrimonio e passione, matrimonio come contratto, sessualità e desiderio nel matrimonio, matrimonio come legame a tre, lo vediamo meglio quando osserviamo come ci guardano dalle altre civiltà: in questo momento c'è un film (di Ken Loach) che gira per le nostre sale con molto successo, Un bacio appassionato, ed è incentrato proprio su questo tema, la necessità o inutilità della com-presenza di amore-passione-sessualità nel matrimonio fra una europea cristiana e un pakistano islamico. Indispensabile, dice l'europea. Perché senza quella com-presenza non si parte nemmeno. Dannosa, dice l'intera famiglia islamica. Perché su quella base non si va da nessuna parte.
Non è che da noi matrimonio e amore abbiano sempre marciato insieme. Da Dante a Pontiggia, l'amore è sempre fuori del matrimonio. Svevo teorizza il tradimento come utile alla durata del matrimonio, e ci presenta una moglie che collabora al buon esisto della relazione extraconiugale del marito. Ci possono essere matrimoni e coppie sposate al centro di romanzi, ma la narrazione scorre a monte del matrimonio, perché l'amore è movimento e può far nascere il romanzo, mentre il matrimonio è immobilità e quindi non ha narrabilità.
Fabio Danelon, professore all'università per stranieri di Perugia, ha scritto Né domani, né mai (Marsilio, pp. 358, e28), un complesso e ferreo studio sul matrimonio nella letteratura italiana da Machiavelli a D'Annunzio (gli autori che "sente" di più sono Manzoni e Verga), e sospetta che all'origine ci sia la condanna della sessualità nel primo Cristianesimo, per il quale è meglio "sposarsi che bruciare", espressione peraltro non pacifica, perché per altri padri della chiesa restava meglio "bruciare che sposarsi". Istituendo il matrimonio come "sacramentum", la chiesa esigeva che dipendesse da una libera volontà. Ma volontà non è amore. Per i nostri scrittori più cattolici, Manzoni e Tommaseo, al matrimonio non serve l'amore. E non è soltanto una visione italiana.
Danelon cita Fourier, "fiero avversario d'indissolubilità e monogamia"; Schopenhauer, per il quale i matrimoni "sono finalizzati alla conservazione della specie"; Horkheimer, per il quale "il matrimonio è una mascherata dovuta a ragioni essenzialmente economiche"; Breton, "contrario a ogni repressione"; Foucault, che denuncia "la confisca della sessualità nella funzione riproduttrice della famiglia coniugale". Sono soltanto pochi esempi.
Nell'arco della letteratura italiana qui passata in rassegna, Manzoni e Tommaseo restano i due soli autori a potersi definire "cattolici", sia pure con atteggiamenti molto diversi. Manzoni non è un narratore del matrimonio, il matrimonio subentra di sghembo, alla fine dei Promessi Sposi, e vien liquidato rapidamente e imprecisamente (non si sa nemmeno quanti figli facciano Renzo e Lucia). Non è nemmeno un narratore dell'amore, non c'è amore o passione in Renzo e Lucia (c'era amore in Fermo e Lucia, ma il vero innamorato era don Rodrigo). Accingendosi a scrivere un romanzo che non aumenti la quantità di passione vissuta sulla terra, Manzoni sceglie il tempo che prepara al matrimonio. Da quella preparazione, e da quello sbocco, si sente garantito: "Il romanzo si presenta subito come la storia di un matrimonio che non si deve fare, e il principale ostacolo al matrimonio non è don Rodrigo, ma l'autore stesso".
Quel che Manzoni taglia via, Tommaseo mette al centro, e "affronta la cruciale frizione amour-passion" in questo modo: "La soluzione proposta va tutta a favore della coniugalità e contro l'amore passionale". "Egli coglie, infatti, che una volta accettata l'idea che il matrimonio debba fondarsi sull'amore, ne consegue che, venuta meno la passione, il matrimonio non possa che sciogliersi, il che è inaccettabile per chi lo ritiene un sacramento". "La felicità individuale non è un obiettivo cristiano". La conclusione "si adegua all'ossequio cristiano della pazienza, del dovere, del sacrificio".
Siamo parecchio lontani dal punto di partenza dello studio, che in Machiavelli trovava il matrimonio saturo di "inestimabile noia", "ben più spaventevole dell'inferno", e la moglie sempre pericolosa, che per essere domata ha bisogno dell'infernale Belfagor. Con la Clizia Machiavelli approdava a una desolata "rassegnazione contro i rischi della passione e le gioie della vitalità erotica". Saggia la rassegnazione, perdente la lotta. In Alfieri i matrimoni sono spesso "ferali", perché sono una forma di tirannide: l'indissolubilità sta al matrimonio come l'impossibilità della rivoluzione sta alla tirannide. "Dalla indissolubilità del Matrimonio fattosi sacramento, ne risultano quei tanti di politici mali, che ogni giorno vediamo nelle nostre tirannidi: cattivi mariti, peggiori mogli, non buoni padri, e pessimi figli". L'indissolubilità non fa un cattivo matrimonio, fa una cattiva famiglia. E una cattiva società.
E' certo, per Danelon, che Ortis "non vuole" sposare Teresa. Vuole amarla, non sposarla. Teresa sposa uno che non ama. Il padre di Teresa supplica Jacopo: "Sacrificate la vostra passione alla sua quiete". Il matrimonio come quiete, la passione come nemica della quiete. Entrando nella quiete, Teresa diventa irraggiungibile per la passione, e colui che cova la passione non ha altro sbocco che il suicidio. Nell'"Ortis", osserva di sfuggita Danelon, tutti i matrimoni sono falliti.
Nel matrimonio mastro Gesualdo entra come in una trappola, un passo dopo l'altro finisce per trovarsi prigioniero dell'incomunicabilità: il Mastro-don Gesualdo è il romanzo della coppia che non sa e non può parlarsi, la coppia di estranei: "Nessun idillio è possibile, nessuna felicità accessibile, nessuna serenità individuale che non sia effimera, fugace".
Fin qui, con Machiavelli Alfieri Foscolo Manzoni Tommaseo e Verga, siamo nel rapporto a due, lui e lei. Con L'Innocente, D'Annunzio introduce un terzo, il figlio. E' un figlio della colpa, cioè (come sempre succede) di una doppia colpa, di lui e di lei. Lei ha tradito il marito perché il marito la tradiva. Ora i due vorrebbero riunirsi, ma c'è quell'ostacolo. Il frutto della doppia colpa viene eliminato da un'altra doppia colpa, ci pensa lui ma col consenso di lei. Non è una soluzione che abbia insegnato molto ai tempi successivi. Il figlio come arma nella lotta fra coniugi è diventato di uso corrente, ma oggi non si sopprime un figlio per recuperare un coniuge, semmai si recupera il figlio e si lascia il coniuge alla sua morte. Il fatto è che oggi non siamo sulla linea (magari più avanti ma pur sempre sulla linea) esaminata in questo libro, con frequenza di risultati illuminanti e di preziose scoperte.
Si poteva proseguire, ed esaminare amore-sesso-matrimonio in Moravia Pratolini Bassani Cassola eccetera (tutti narratori di amanti, tranne Cassola, narratore di un vero matrimonio), ma non si arrivava mai all'oggi. Perché l'oggi sta dopo una doppia rivoluzione, che è il divorzio-aborto. Il matrimonio e il parto sono una scelta. La tirannide è finita. Naturalmente, visto dai cattolici, l'aborto è una tirannide dei nati sui nascituri. Ma questo è un altro discorso.
fercamon@libero.it
una segnalazione di Teresa Colombo
A Pill's Surprises, for Patient and Doctor Alike
By RICHARD A. FRIEDMAN, M.D.
As a psychopharmacologist, I know that every patient responds slightly differently to medication. But it wasn't until I met Susan that I understood just how differently.
She'd come to see me because she was depressed, and I'd successfully treated her with a course of Zoloft, a popular antidepressant. But as often happens, Susan's desire for sex had vanished along with her depressed mood.
"I kind of miss it, but I feel really bad for my husband, who's getting very frustrated," she said.
The sexual side effects of antidepressants like Zoloft and Prozac - the class of drugs known as selective serotonin reuptake inhibitors, or S.S.R.I.'s - are well known. The drugs frequently cause diminished libido, erectile dysfunction in men, and delayed orgasm or an inability to climax at all in women. The same flooding of the brain with serotonin that alleviates depression leads to sexual effects in many patients.
Early on, the rates of sexual side effects from S.S.R.I.'s reported in the medical literature were quite low, in the range of 10 percent to 20 percent. But clinicians knew better. Most of their patients reported some sexual effects, and it quickly became clear that the early reports were wrong.
The reason for this error was simple. Early clinical trials of the drugs did not look for sexual side effects; they just recorded problems that patients spontaneously reported. Because most patients are reluctant to bring up any sexual side effects on their own, the researchers got the false impression that these drugs had little effect on sexuality. When the subjects were specifically asked about sexual side effects, the rates rose to 40 percent to 50 percent.
Susan fell into that unlucky percentage, and she asked me if anything could be done. There were three possible approaches, I told her. She could stop the drug from time to time, a strategy that might temporarily restore her sex drive but could cause discontinuation symptoms; she could lower the dose of the antidepressant, which might provoke a relapse of depression; or we could try to counteract the side effects with another medication.
A temporary escape didn't appeal to Susan, so we decided on the third approach, an antidote. The question was, Which one? Serotonin-blocking drugs like Periactin, an antihistamine, treat sexual side effects, but they can also undo the drugs' antidepressant effects. I decided to prescribe Wellbutrin, a different class of antidepressant that has shown some ability to counteract sexual dysfunction caused by S.S.R.I.'s.
Little did I know.
Two weeks later, Susan called from her cellphone to say that the antidote was working. While shopping, she said, she spontaneously had an orgasm that had lasted on and off for nearly two hours . She was more delighted than alarmed, but I was stunned. I have had my share of therapeutic surprises, but this was hard to believe.
Was this a medical emergency or unrepeatable fluke that Susan needn't worry about? When I saw her the next day in my office, she was calm and somewhat amused by my concern. After all, since when is an orgasm a cause for alarm?
I was worried, though, that the addition of Wellbutrin had set off an episode of mania, an effect that antidepressants can have in up to 5 percent of patients. In that case, her prolonged orgasm might be a symptom of hypersexuality, common in mania. But Susan didn't seem either manic or depressed.
It seems that for her, the Wellbutrin just had an extreme sexually enhancing effect. Several colleagues told me about patients of theirs who had experienced heightened sexual desire on Wellbutrin, but none of the reports came close to Susan's. That Wellbutrin can enhance sexual pleasure isn't surprising: it increases the activity of dopamine, a key neurotransmitter in the brain's reward pathway. In fact, drugs of abuse, like cocaine, alcohol and opiates, release dopamine in this circuit - and so does sex.
A year has passed without a recurrence of this surprising side effect. But Susan is enjoying sex now - clearly more than she did before she became depressed. Because this was her first episode of major depression, the chance of a recurrence was only about 50 percent, so I suggested stopping the antidepressant. She liked that idea, but then paused and asked, "Do I have to stop the Wellbutrin, too?"
We both laughed.
«questo era sul NYTimes di martedì scorso. Si parla anche qui di effetti collaterali di un antidepressivo della famiglia degli SSRI...ma non una parola riguardo al rischio emorragie. Unico problema affrontato: il farmaco provoca calo del desiderio sessuale. Ma per fortuna finisce con una buona notizia: altra pillola insieme all'antidepressivo e l'orgasmo è ancora meglio di prima della depressione!!!»New York Times 25.1.05
A Pill's Surprises, for Patient and Doctor Alike
By RICHARD A. FRIEDMAN, M.D.
As a psychopharmacologist, I know that every patient responds slightly differently to medication. But it wasn't until I met Susan that I understood just how differently.
She'd come to see me because she was depressed, and I'd successfully treated her with a course of Zoloft, a popular antidepressant. But as often happens, Susan's desire for sex had vanished along with her depressed mood.
"I kind of miss it, but I feel really bad for my husband, who's getting very frustrated," she said.
The sexual side effects of antidepressants like Zoloft and Prozac - the class of drugs known as selective serotonin reuptake inhibitors, or S.S.R.I.'s - are well known. The drugs frequently cause diminished libido, erectile dysfunction in men, and delayed orgasm or an inability to climax at all in women. The same flooding of the brain with serotonin that alleviates depression leads to sexual effects in many patients.
Early on, the rates of sexual side effects from S.S.R.I.'s reported in the medical literature were quite low, in the range of 10 percent to 20 percent. But clinicians knew better. Most of their patients reported some sexual effects, and it quickly became clear that the early reports were wrong.
The reason for this error was simple. Early clinical trials of the drugs did not look for sexual side effects; they just recorded problems that patients spontaneously reported. Because most patients are reluctant to bring up any sexual side effects on their own, the researchers got the false impression that these drugs had little effect on sexuality. When the subjects were specifically asked about sexual side effects, the rates rose to 40 percent to 50 percent.
Susan fell into that unlucky percentage, and she asked me if anything could be done. There were three possible approaches, I told her. She could stop the drug from time to time, a strategy that might temporarily restore her sex drive but could cause discontinuation symptoms; she could lower the dose of the antidepressant, which might provoke a relapse of depression; or we could try to counteract the side effects with another medication.
A temporary escape didn't appeal to Susan, so we decided on the third approach, an antidote. The question was, Which one? Serotonin-blocking drugs like Periactin, an antihistamine, treat sexual side effects, but they can also undo the drugs' antidepressant effects. I decided to prescribe Wellbutrin, a different class of antidepressant that has shown some ability to counteract sexual dysfunction caused by S.S.R.I.'s.
Little did I know.
Two weeks later, Susan called from her cellphone to say that the antidote was working. While shopping, she said, she spontaneously had an orgasm that had lasted on and off for nearly two hours . She was more delighted than alarmed, but I was stunned. I have had my share of therapeutic surprises, but this was hard to believe.
Was this a medical emergency or unrepeatable fluke that Susan needn't worry about? When I saw her the next day in my office, she was calm and somewhat amused by my concern. After all, since when is an orgasm a cause for alarm?
I was worried, though, that the addition of Wellbutrin had set off an episode of mania, an effect that antidepressants can have in up to 5 percent of patients. In that case, her prolonged orgasm might be a symptom of hypersexuality, common in mania. But Susan didn't seem either manic or depressed.
It seems that for her, the Wellbutrin just had an extreme sexually enhancing effect. Several colleagues told me about patients of theirs who had experienced heightened sexual desire on Wellbutrin, but none of the reports came close to Susan's. That Wellbutrin can enhance sexual pleasure isn't surprising: it increases the activity of dopamine, a key neurotransmitter in the brain's reward pathway. In fact, drugs of abuse, like cocaine, alcohol and opiates, release dopamine in this circuit - and so does sex.
A year has passed without a recurrence of this surprising side effect. But Susan is enjoying sex now - clearly more than she did before she became depressed. Because this was her first episode of major depression, the chance of a recurrence was only about 50 percent, so I suggested stopping the antidepressant. She liked that idea, but then paused and asked, "Do I have to stop the Wellbutrin, too?"
We both laughed.
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