L'Espresso online 4.12.03
UMBERTO CHE AMA LE DONNE Intervista a Veronesi
La vita. La morte. La scienza. La fede. E soprattutto il corpo femminile: "Ne ho a cuore l'integrità", dice l'oncologo, "e mi batto da sempre per tutelarla"
di Stefania Rossini
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Lei, professore, ha toccato come pochi le due grandi energie che muovono il mondo: eros e thanatos. Cominciamo dalla prima. Come mai ha tanto amato il corpo delle donne?
«Ne ho amato l'integrità, che è una delle basi dell'equilibrio del pensiero. Ne ho combattuto l'inutile mutilazione e, quando ho potuto, l'ho sconfitta. Il mio amore per le donne è ideologico, non carnale».
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Quando ha saputo che il suo destino di scienziato si legava al seno?
«Me lo fece capire una giovane paziente che, verso la metà degli anni Sessanta, mi implorò in lacrime di aiutarla. Aveva un piccolo carcinoma e tutti i medici a cui si era rivolta le imponevano l'asportazione totale, altrimenti la mandavano via. Questa era la morale medica: preferire la morte di un paziente alla perdita delle proprie certezze. Ma la ragazza insisteva, doveva sposarsi e sapeva che il rapporto con il partner ne sarebbe stato deteriorato senza scampo».
Senza scampo? Lei ha questa opinione degli uomini?
«Non sempre e non per tutti, fortunatamente. Ma nella maggior parte dei casi un deficit della femmina dà loro un alibi perfetto anche con gli altri, che dicono: "Poveretto, si è dovuto prendere un'altra donna, la moglie ha avuto una mastectomia...". Gli uomini in fatto di sesso sono dei mascalzoni».
Non saranno solo deboli e terrorizzati dal contatto con il dolore?
«Lei è troppo buona. La verità è che l'uomo è poligamo per natura e sfrutta l'occasione di poter spaziare nel mondo femminile con una qualche giustificazione».
Che fine fece quella paziente?
«La operai felicemente. Si sposò ed ebbe molti figli. Quello fu solo il primo passo, il grande studio riconosciuto dall'Organizzazione mondiale della sanità è iniziato dopo, negli anni Settanta. Oggi un medico che facesse una inutile mastectomia sarebbe un criminale».
Non sarà andata sempre così bene. Avrà spesso incontrato anche thanatos, la morte.
«Questa è un'area che tendo a rimuovere, perché la mia è un'esperienza che rende quasi schizofrenico. In me convivono davvero due personalità. La prima si misura in una vita di relazione fatta di volontà, di desiderio di imporre le mie idee nel mondo scientifico e di dare serenità ai miei pazienti».
E l'altra?
«Si nasconde nel mare profondo che si agita dentro di me ed è dominata dal pessimismo più integrale. È la parte che fa perdere le certezze e la fede, che rende nichilisti. Attualmente lo spirito di conservazione fa convivere questi miei mondi. Ogni tanto mi trovo nella disperazione con me stesso, ogni tanto mi rinfranco al pensiero di svolgere un ruolo nello sviluppo di un nuovo pensiero».
Lei che ha visto morire molte persone, può dirlo. Di fronte alla fine, soffre più l'uomo di fede o l'uomo senza fede?
«Se devo dare un giudizio sintetico, non ho dubbi. Muore meglio il paziente senza fede».
È il contrario di quanto si crede...
«Infatti è una credenza senza fondamento. Il laico si sente pienamente un mortale, perché non crede a tutto ciò che la religione gli ha suggerito per consolarlo dell'inesorabilità della fine. Sa che la sua vita è fragile, che deve terminare e vi si prepara nel tempo. Tutti i laici affrontano la morte con distacco, in modo quasi filosofico...».
Posso farle dei nomi che la smentiscono: Pannunzio, Guttuso, Sciascia si sono convertiti in extremis.
«Gli ultimi attimi di vita sono attimi di debolezza e di sconvolgimento totale. Molte cosiddette conversioni si devono allo stordimento dei farmaci, ma anche alle pressioni di chi è intorno al moribondo. Sono sopratutto i familiari a non volersi discostare dalle regole che la società ha codificato intorno alla morte».
Forse perché aiutano a superarne l'impatto.
«È il conformismo che aiuta. Essere nel gruppo e seguirne le regole dà molta sicurezza, purtroppo».
Ma su questo tema lei è davvero così sereno?
«Non ho nessuna paura della morte. Sono sempre stato pronto».
E della malattia, ha paura?
«Neanche. Saprei come combatterla nei suoi aspetti più sgradevoli. Il mio unico grande terrore è quello di perdere le capacità intellettuali. Per sapere se il mio cervello funziona ancora, ogni tanto faccio complicatissimi test di intelligenza. Mi riescono sempre. Naturalmente non li confondo con la creatività, che non appartiene al mondo dell'intelligenza cerebrale, ma a quello della fantasia».
La sua creatività l'ha resa un grande scienziato. Cosa pensa di questa enorme accelerazione dell'autonomia scientifica?
«Ne sono affascinato. Contrariamente a molti, credo che lo scienziato debba avere un suo dovere etico. L'opinione comune è che la scienza non sia né buona né cattiva, e che tutto dipenda dall'uso che se ne fa. Ma l'uomo che ricerca ha la capacità di capire il senso etico di ciò che sta facendo. E di regolarsi di conseguenza».
Non trova però che ci sia un'aspettativa magica nei confronti della scienza? Le si chiede salute, bellezza, immortalità. Non è troppo?
«Perché troppo? Essere sani e belli fa piacere, e anche vivere a lungo è una bella cosa. In quanto all'immortalità, che per ora è una ragionevole aspettativa di vita intorno ai 120 anni, come si fa a non considerarla una conquista?».
E il resto? La clonazione, la duplicazione della vita...
«Questa storia della clonazione è un falso problema. Nessuno penserà mai alla clonazione per avere un figlio, è più facile farlo per via naturale. Se poi una coppia di lesbiche farà una figlia con una madre che dona il Dna e una che dona l'uovo, che sarà mai? Si tratterà al massimo di qualche decina di casi».
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