La Stampa 27 Dicembre 2003
Sartre in prigione
scrive su Gesù
di Giorgio Calcagno
CHE cosa faceva il soldato Jean-Paul Sartre, caduto prigioniero dei tedeschi dopo la disfatta del 1940, nello Stalag XII di Treviri? Teneva lezioni su Heidegger per i preti suoi compagni di reclusione, partecipava ai loro dibattiti di teologia; e, per allietare il Natale di tutti, scriveva un testo teatrale sulla nascita di Gesù. Anzi, ne curava di persona l’allestimento, dando la propria voce a uno dei Re Magi.
Il più laico dei filosofi novecenteschi, sotto la corazza di un inespugnabile ateismo, nascondeva dunque un cuore di credente? Non è proprio così, basta leggere la sua opera. Ma non è nemmeno, esistenzialmente, il contrario. Sartre aveva fatto i suoi conti con la fede fin da ragazzo, respingendola: «Avevo bisogno di un Creatore e mi davano un Gran padrone», come avrebbe scritto in Les mots. Nella sua prospettiva, per una rivendicazione radicale della libertà umana, Dio diventava un elemento di disturbo. Pure, se il filosofo negava, l’uomo continuava ad essere attratto; e, posto in condizioni eccezionali, in mezzo a uomini di fede con i quali sentiva di condividere tanti valori, teneva acceso il dialogo.
Il risultato, che oggi per la prima volta viene alla luce in Italia, è Bariona o il figlio del tuono: lettura affascinante, malgrado varie improprietà della traduzione; sempre rispettosa dell’evento, mai devozionale. È un testo che lo stesso Sartre aveva smarrito e che solo alcuni compagni cattolici di prigionia avevano conservato: cercando di convincerlo, molti anni dopo, a pubblicarlo. Sartre accettò, a condizione che fosse preceduto da una sua lettera, per stabilire le distanze: «Se ho preso il mio soggetto nella mitologia del Cristianesimo, ciò non significa che la direzione del mio pensiero sia cambiata». Egli voleva solo attuare, «in quella sera di Natale, l’unione più vasta di cristiani e di non credenti».
Solo per quella sera di Natale? Bariona, letto oggi, non ci appare un semplice scritto di occasione. C’è dentro molto del pensiero filosofico, e soprattutto politico, di Sartre: che vedeva, nel sovrintendente romano della Giudea, una sorta di gauleiter tedesco. Ma c’è anche autentica poesia, nel suo linguaggio; c’è uno sviluppo drammatico vero. E c’è, inatteso, uno stupore incantato per il mistero cristiano: che, contro i distinguo dell’autore, sarebbe difficile non scambiare per un’adesione personale. Come la intese, uno dei prigionieri, che si convertì perché toccato dalla recitazione di Sartre.
Il testo viene presentato da Antonio Delogu, studioso della filosofia francese nel Novecento, che mette a fuoco il rapporto sempre dialettico fra Sartre e il problema religioso: nelle sue conclusioni negato, ma non eliminabile mai, nel percorso. Il capofila dell’esistenzialismo, ricorda Delogu, fu avversato tanto dai marxisti quanto dai cattolici, che lo rifiutavano senza cogliere quanto di cristiano si nascondeva nel suo fondo. Fu difeso solo da un filosofo polacco, che nell’affrontare il tema della libertà dell’uomo, rinviava alla fondamentale opera sartriana, L’essere e il nulla. Era un prete di Cracovia, si chiamava Karol Wojtyla.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
sabato 27 dicembre 2003
Marx oggi
La Stampa 27 Dicembre 2003
UN CONCORSO DELLA TV TEDESCA
Marx perde il pelo
ma non i fan
di Angelo d'Orsi
AL passaggio di millennio, nell'anno 2000, il Times di Londra aveva indetto un sondaggio tra i suoi lettori chiedendo loro chi fosse l'uomo più importante dei dieci secoli ormai conclusi. Con grande sorpresa generale, i compassati britannici risposero, in maggioranza, attribuendo la palma del secondo millennio dell'era volgare a Karl Marx. Il risultato generò sconcerto, specie tra i tanti ex del marxismo, ivi compresi alcuni politici italiani, i quali commentarono dicendo che in fondo c'erano anche altri nomi significativi in quel millennio. Molti eccepirono sui dati numerici, dicendo trattarsi di un sondaggio troppo limitato per essere significativo. Ebbene, abbiamo ora un altro sondaggio, questa volta tedesco: e i germanici, si sa, fanno le cose con grande serietà. Infatti, nella scorsa estate, la televisione di Stato tedesca (ZDF) promosse un maxiconcorso intitolato: Chi sono i tedeschi più importanti? In una fase iniziale durata un paio di mesi (luglio ed agosto) si mise a punto una rosa di 200 nomi tratti dai vari ambiti dell'agire umano: politica, religione, cultura, spettacolo, sport... Una trasmissione televisiva settimanale (da settembre a novembre), si incaricò di stabilire al termine dell'esperimento il tedesco più importante della storia. L'elezione avvenne attraverso il telefono, gli sms, o per normale telefono, con l'accertata impossibilità, per i soliti furbi, di votare più volte! Si è trattato di un fatto di massa, insieme di intrattenimento, ma anche di vivace dibattito politico-culturale: addirittura con raccolte di fondi, volantini e manifesti per sostenere i «candidati», interventi parlamentari, grande coinvolgimento di personaggi del presente a sostegno dei vari personaggi del passato.
In una fase finale i candidati giunti alla «top ten» (il gruppo dei primi dieci), si sono sfidati davanti al pubblico televisivo per interposta persona, ossia grazi ai propri sostenitori che ne cantavano le lodi spiegando perché il pubblico dovesse votare Einstein o Goethe, Bach o Lutero, Adenauer o Brandt…Ma, sorpresa, nella classifica compariva, sia pur decimo, Karl Marx! Ebbene, agli scontri diretti il vecchio barbone dell'autore del Capitale la spuntava sia sull'elmo chiodato di Otto von Bismarck, sia sulla faccia perbene di Willy Brandt. Infine, nelle votazioni finali, giunte dopo dibattiti condotti senza esclusioni di colpi (compresa la storia della sua relazione clandestina con la collaboratrice domestica!), Marx si è aggiudicato un molto onorevole terzo posto: meglio di lui hanno fatto soltanto il cancelliere della ricostruzione Konrad Adenauer (vincitore del sondaggio) e il padre del Protestantesimo, Martin Lutero. Interessante osservare che se il distacco da Adenauer è stato cospicuo, leggerissimo quello da Lutero; in totale Marx ha ottenuto oltre mezzo milioni di voti ed è risultato il «candidato» più votato nelle regioni dell'Est, oltre che nelle grandi città (Berlino, Amburgo, Brema). Come se non bastasse a corroborare il proprio piazzamento giungeva un primo posto nella categoria «Attualità».
E ora in attesa di commenti che ci dicano che il sondaggio non vale nulla, non rimane forse che prendere atto di due fatti. 1) quella di Marx è una presenza forte e ineliminabile nella storia del mondo; 2) oggi, davanti alla complessità della globalizzazione e alla sua difficile «governance», davanti a un processo di concentrazione crescente di ricchezze e di risorse sulla scena mondiale, davanti alla condizione di guerra permanente, riaffiorano, con un che di beffardo, le analisi marxiane. Forse anche chi non crede nel comunismo come soluzione ai mali del mondo, non farà male a tirar fuori dallo scaffale i testi del «Moro» (come lo chiamava il suo amico Engels).
UN CONCORSO DELLA TV TEDESCA
Marx perde il pelo
ma non i fan
di Angelo d'Orsi
AL passaggio di millennio, nell'anno 2000, il Times di Londra aveva indetto un sondaggio tra i suoi lettori chiedendo loro chi fosse l'uomo più importante dei dieci secoli ormai conclusi. Con grande sorpresa generale, i compassati britannici risposero, in maggioranza, attribuendo la palma del secondo millennio dell'era volgare a Karl Marx. Il risultato generò sconcerto, specie tra i tanti ex del marxismo, ivi compresi alcuni politici italiani, i quali commentarono dicendo che in fondo c'erano anche altri nomi significativi in quel millennio. Molti eccepirono sui dati numerici, dicendo trattarsi di un sondaggio troppo limitato per essere significativo. Ebbene, abbiamo ora un altro sondaggio, questa volta tedesco: e i germanici, si sa, fanno le cose con grande serietà. Infatti, nella scorsa estate, la televisione di Stato tedesca (ZDF) promosse un maxiconcorso intitolato: Chi sono i tedeschi più importanti? In una fase iniziale durata un paio di mesi (luglio ed agosto) si mise a punto una rosa di 200 nomi tratti dai vari ambiti dell'agire umano: politica, religione, cultura, spettacolo, sport... Una trasmissione televisiva settimanale (da settembre a novembre), si incaricò di stabilire al termine dell'esperimento il tedesco più importante della storia. L'elezione avvenne attraverso il telefono, gli sms, o per normale telefono, con l'accertata impossibilità, per i soliti furbi, di votare più volte! Si è trattato di un fatto di massa, insieme di intrattenimento, ma anche di vivace dibattito politico-culturale: addirittura con raccolte di fondi, volantini e manifesti per sostenere i «candidati», interventi parlamentari, grande coinvolgimento di personaggi del presente a sostegno dei vari personaggi del passato.
In una fase finale i candidati giunti alla «top ten» (il gruppo dei primi dieci), si sono sfidati davanti al pubblico televisivo per interposta persona, ossia grazi ai propri sostenitori che ne cantavano le lodi spiegando perché il pubblico dovesse votare Einstein o Goethe, Bach o Lutero, Adenauer o Brandt…Ma, sorpresa, nella classifica compariva, sia pur decimo, Karl Marx! Ebbene, agli scontri diretti il vecchio barbone dell'autore del Capitale la spuntava sia sull'elmo chiodato di Otto von Bismarck, sia sulla faccia perbene di Willy Brandt. Infine, nelle votazioni finali, giunte dopo dibattiti condotti senza esclusioni di colpi (compresa la storia della sua relazione clandestina con la collaboratrice domestica!), Marx si è aggiudicato un molto onorevole terzo posto: meglio di lui hanno fatto soltanto il cancelliere della ricostruzione Konrad Adenauer (vincitore del sondaggio) e il padre del Protestantesimo, Martin Lutero. Interessante osservare che se il distacco da Adenauer è stato cospicuo, leggerissimo quello da Lutero; in totale Marx ha ottenuto oltre mezzo milioni di voti ed è risultato il «candidato» più votato nelle regioni dell'Est, oltre che nelle grandi città (Berlino, Amburgo, Brema). Come se non bastasse a corroborare il proprio piazzamento giungeva un primo posto nella categoria «Attualità».
E ora in attesa di commenti che ci dicano che il sondaggio non vale nulla, non rimane forse che prendere atto di due fatti. 1) quella di Marx è una presenza forte e ineliminabile nella storia del mondo; 2) oggi, davanti alla complessità della globalizzazione e alla sua difficile «governance», davanti a un processo di concentrazione crescente di ricchezze e di risorse sulla scena mondiale, davanti alla condizione di guerra permanente, riaffiorano, con un che di beffardo, le analisi marxiane. Forse anche chi non crede nel comunismo come soluzione ai mali del mondo, non farà male a tirar fuori dallo scaffale i testi del «Moro» (come lo chiamava il suo amico Engels).
Voltaire: il Dizionario filosofico
Il Corriere della Sera 27.12.03
LE GRANDI INIZIATIVE La «Biblioteca del Sapere» dal 30 dicembre. Ecco chi capì per primo il valore di un’enciclopedia
La Rivoluzione? Un libro maneggevole
Con il Dizionario filosofico, Voltaire insegna: solo un’opera pratica può cambiare le idee e la società
Chi avesse la pazienza di sfogliare uno dei 52 volumi della corrispondenza di Voltaire, pubblicati a Oxford dalla fondazione intitolata al filosofo, troverà un’intuizione capace di ripagarlo della fatica fatta per raggiungere la pagina in questione (è quella indicata 13235): mai venti volumi in-folio hanno scatenato delle rivoluzioni, sono i piccoli dizionari portatili che le accendono. Perché, come osserva ancora Voltaire circa tremila pagine prima, «queste opere pratiche mettono in mano, al momento, la cosa di cui avete bisogno». Il ragionamento non fa una grinza. Le enciclopedie possono cambiare le idee, le società, gli uomini, ma devono essere maneggevoli. Altrimenti i loro formati ingombranti le rendono sterili, oltre che pesanti e polverose. Voltaire fu il pensatore che più di ogni altro seppe sfruttare questa regola pubblicando il Dizionario filosofico, un’opera che seppe lasciare traccia profonda nelle idee d’Europa. O meglio, le purgò rendendole appunto più maneggevoli. Mario Bonfantini, che curava per Einaudi la traduzione italiana di questo libro nel 1950 (è ancora tra le più valide nella nostra lingua), in un tempo in cui leggerlo era ancora argomento di confessione, scriveva nella sua premessa: «È essenziale per cogliere alle origini e intendere nei suoi temi fondamentali tutto quel complesso di sentimenti, di giudizi storici e di principi teorici che formano l’ideologia sulla quale si è soprattutto modellata nel suo sviluppo la civiltà democratica europea del XIX secolo». Senza queste pagine, in altre parole, i punti fermi liberali che oggi governano la convivenza civile se ne starebbero più nelle menti accademiche o in qualche biblioteca che non nelle società.
Come nacque il Dizionario filosofico? Oltre ad un successo editoriale tra i più grandi del ’700, esso fu scritto anche per contenere in sintesi il pensiero di Voltaire e gli ideali dell’Illuminismo. Per taluni aspetti è una vera e propria bibbia del pensiero laico. Il progetto mosse i primi passi durante gli anni berlinesi dell’irrequieto intellettuale, al tempo in cui era ospite alla corte di Federico di Prussia. Nel 1752 a Berlino, con l’incoraggiamento di questo intelligente monarca, si pensò di raccogliere in un’opera disposta secondo l’ordine alfabetico e concepita collettivamente, una serie di voci contro il fanatismo e i pregiudizi. Voltaire ci mise subito la penna e si fece notare per il tono irreligioso; Federico, con ironia, si limitò a rilevare che se fosse stata pubblicata avrebbe avuto guai con Roma.
Ma da quel giorno l’idea di un libro svelto, graffiante, anticonformista non abbandonò più Voltaire. Tra i numerosi documenti di questa passione, valga la lettera che egli scrive a Madame du Deffand il 18 febbraio 1760, dove confessa di «essere assorbito» dal progetto di «mettere in ordine alfabetico tutto ciò che penso su questo mondo e sull’altro». Ovviamente il progetto, secondo l’intenzione dell’autore, è rivolto a l’usage des honnêtes gens. Certo, così non la pensavano tutti. Quando nel 1764 l’opera vede la luce anonima ha come titolo Dictionnaire Philosophique Portatif. Reca l’indicazione di Londra ma è stampata a Ginevra. Gli attacchi più forti contro il cattolicesimo sono attribuiti ad autori fittizi; chi scriveva si dava, come dire?, l’aria di riportare le opinioni a titolo di informazione. Questo non intenerì la facoltà di teologia della Sorbona, che la condannò e, secondo la consuetudine, fece bruciare l’opera sulla pubblica piazza per mano del boia. Si finse di ignorare l’autore, ma c’era come un tacito accordo tra le autorità francesi e Voltaire. Al quale la cosa andava benissimo: pochi mesi dopo, nel dicembre di quel 1764 (ma con la data 1765), ripubblicò l’opera incriminata con qualche aggiunta. E altre ne mise nelle quattro edizioni dell’anno successivo, l’ultima delle quali uscì ad Amsterdam. Nel 1767 è ancora Londra ad ospitare una nuova tiratura con altre ventiquattro voci; infine ecco quella di Ginevra (ma senza indicazione della città) del 1769: è la definitiva secondo le intenzioni dell’autore e reca come titolo La Raison par alphabet.
Per precisione occorre ricordare che al progetto Voltaire lavorò e pasticciò ancora. Dal 1770 al 1774, ad esempio, egli scrisse gli articoli delle Questions sur l’Encyclopédie, nelle quali riproduceva - rimaneggiate e no - alcune voci del suo Dizionario. Quando gli editori di Kehl realizzarono, tra il 1784 e il 1789, in 70 volumi (ma i veri bibliofili cercano quella in 92, uscita contemporaneamente) la prima edizione completa delle opere del filosofo scomparso nel 1778, mescolarono il tutto. Anzi vi aggiunsero anche alcuni estratti delle voci che aveva scritto per l’Encyclopédiedi Diderot e d’Alembert, nonché materiale che vagolava in altri dizionari e opuscoli.
Noi non ce la sentiamo di condannare questo metodo dei primi editori, ovvero accumulare tutto quello che poteva considerarsi parallelo al testo del Dictionnaire, anche perché la scelta fu fatta dal curatore che - non dimentichiamolo - era Condorcet. In un certo senso metteva a disposizione dei lettori una specie di «dizionario aperto», come ameremmo chiamarlo oggi, in cui si rifletteva la cultura di Voltaire. Certo, in talune ripetizioni può sembrare un pasticcio, ma questa è la sorte di opere simili.
Le quali, come dimostra il Dictionnaire, accanto alle idee liberali possono recare pregiudizi ed errori. Ma oggi vediamo di più i vantaggi che non i guai. E in molti sono convinti che Voltaire abbia sottratto un po’ di lavoro al boia, il quale, due anni dopo aver bruciato l’opera «diabolica», doveva decapitare il cavaliere de La Barre. Colpevole, a diciott’anni, di non essersi scoperto il capo al passaggio di una processione.
LE GRANDI INIZIATIVE La «Biblioteca del Sapere» dal 30 dicembre. Ecco chi capì per primo il valore di un’enciclopedia
La Rivoluzione? Un libro maneggevole
Con il Dizionario filosofico, Voltaire insegna: solo un’opera pratica può cambiare le idee e la società
Chi avesse la pazienza di sfogliare uno dei 52 volumi della corrispondenza di Voltaire, pubblicati a Oxford dalla fondazione intitolata al filosofo, troverà un’intuizione capace di ripagarlo della fatica fatta per raggiungere la pagina in questione (è quella indicata 13235): mai venti volumi in-folio hanno scatenato delle rivoluzioni, sono i piccoli dizionari portatili che le accendono. Perché, come osserva ancora Voltaire circa tremila pagine prima, «queste opere pratiche mettono in mano, al momento, la cosa di cui avete bisogno». Il ragionamento non fa una grinza. Le enciclopedie possono cambiare le idee, le società, gli uomini, ma devono essere maneggevoli. Altrimenti i loro formati ingombranti le rendono sterili, oltre che pesanti e polverose. Voltaire fu il pensatore che più di ogni altro seppe sfruttare questa regola pubblicando il Dizionario filosofico, un’opera che seppe lasciare traccia profonda nelle idee d’Europa. O meglio, le purgò rendendole appunto più maneggevoli. Mario Bonfantini, che curava per Einaudi la traduzione italiana di questo libro nel 1950 (è ancora tra le più valide nella nostra lingua), in un tempo in cui leggerlo era ancora argomento di confessione, scriveva nella sua premessa: «È essenziale per cogliere alle origini e intendere nei suoi temi fondamentali tutto quel complesso di sentimenti, di giudizi storici e di principi teorici che formano l’ideologia sulla quale si è soprattutto modellata nel suo sviluppo la civiltà democratica europea del XIX secolo». Senza queste pagine, in altre parole, i punti fermi liberali che oggi governano la convivenza civile se ne starebbero più nelle menti accademiche o in qualche biblioteca che non nelle società.
Come nacque il Dizionario filosofico? Oltre ad un successo editoriale tra i più grandi del ’700, esso fu scritto anche per contenere in sintesi il pensiero di Voltaire e gli ideali dell’Illuminismo. Per taluni aspetti è una vera e propria bibbia del pensiero laico. Il progetto mosse i primi passi durante gli anni berlinesi dell’irrequieto intellettuale, al tempo in cui era ospite alla corte di Federico di Prussia. Nel 1752 a Berlino, con l’incoraggiamento di questo intelligente monarca, si pensò di raccogliere in un’opera disposta secondo l’ordine alfabetico e concepita collettivamente, una serie di voci contro il fanatismo e i pregiudizi. Voltaire ci mise subito la penna e si fece notare per il tono irreligioso; Federico, con ironia, si limitò a rilevare che se fosse stata pubblicata avrebbe avuto guai con Roma.
Ma da quel giorno l’idea di un libro svelto, graffiante, anticonformista non abbandonò più Voltaire. Tra i numerosi documenti di questa passione, valga la lettera che egli scrive a Madame du Deffand il 18 febbraio 1760, dove confessa di «essere assorbito» dal progetto di «mettere in ordine alfabetico tutto ciò che penso su questo mondo e sull’altro». Ovviamente il progetto, secondo l’intenzione dell’autore, è rivolto a l’usage des honnêtes gens. Certo, così non la pensavano tutti. Quando nel 1764 l’opera vede la luce anonima ha come titolo Dictionnaire Philosophique Portatif. Reca l’indicazione di Londra ma è stampata a Ginevra. Gli attacchi più forti contro il cattolicesimo sono attribuiti ad autori fittizi; chi scriveva si dava, come dire?, l’aria di riportare le opinioni a titolo di informazione. Questo non intenerì la facoltà di teologia della Sorbona, che la condannò e, secondo la consuetudine, fece bruciare l’opera sulla pubblica piazza per mano del boia. Si finse di ignorare l’autore, ma c’era come un tacito accordo tra le autorità francesi e Voltaire. Al quale la cosa andava benissimo: pochi mesi dopo, nel dicembre di quel 1764 (ma con la data 1765), ripubblicò l’opera incriminata con qualche aggiunta. E altre ne mise nelle quattro edizioni dell’anno successivo, l’ultima delle quali uscì ad Amsterdam. Nel 1767 è ancora Londra ad ospitare una nuova tiratura con altre ventiquattro voci; infine ecco quella di Ginevra (ma senza indicazione della città) del 1769: è la definitiva secondo le intenzioni dell’autore e reca come titolo La Raison par alphabet.
Per precisione occorre ricordare che al progetto Voltaire lavorò e pasticciò ancora. Dal 1770 al 1774, ad esempio, egli scrisse gli articoli delle Questions sur l’Encyclopédie, nelle quali riproduceva - rimaneggiate e no - alcune voci del suo Dizionario. Quando gli editori di Kehl realizzarono, tra il 1784 e il 1789, in 70 volumi (ma i veri bibliofili cercano quella in 92, uscita contemporaneamente) la prima edizione completa delle opere del filosofo scomparso nel 1778, mescolarono il tutto. Anzi vi aggiunsero anche alcuni estratti delle voci che aveva scritto per l’Encyclopédiedi Diderot e d’Alembert, nonché materiale che vagolava in altri dizionari e opuscoli.
Noi non ce la sentiamo di condannare questo metodo dei primi editori, ovvero accumulare tutto quello che poteva considerarsi parallelo al testo del Dictionnaire, anche perché la scelta fu fatta dal curatore che - non dimentichiamolo - era Condorcet. In un certo senso metteva a disposizione dei lettori una specie di «dizionario aperto», come ameremmo chiamarlo oggi, in cui si rifletteva la cultura di Voltaire. Certo, in talune ripetizioni può sembrare un pasticcio, ma questa è la sorte di opere simili.
Le quali, come dimostra il Dictionnaire, accanto alle idee liberali possono recare pregiudizi ed errori. Ma oggi vediamo di più i vantaggi che non i guai. E in molti sono convinti che Voltaire abbia sottratto un po’ di lavoro al boia, il quale, due anni dopo aver bruciato l’opera «diabolica», doveva decapitare il cavaliere de La Barre. Colpevole, a diciott’anni, di non essersi scoperto il capo al passaggio di una processione.
visioni: Ildegarda di Bingen
Corriere della Sera 27.12.03
Esce il «Libro delle opere divine», il più importante tra i testi profetici della mistica cattolica che fondò, nel XII secolo, il monastero di Bingen
Le visioni di Ildegarda. E l’uomo si fa Dio
di GIORGIO MONTEFOSCHI
Vorremmo annullare il tempo e, con un salto all'indietro, tornare nella Germania del XII secolo dopo Cristo, soltanto per entrare nelle gelide aule del convento benedettino di Rupertsberg, nei suoi corridoi bui profumati di lievito e di incenso, e assistere al grande esorcismo che, nel 1169, Ildegarda di Bingen, badessa di quel convento, ordinò nei confronti della monaca Sigewize di Colonia, posseduta dal demonio. Sette sacerdoti percossero la sventurata con una verga, uno dopo l'altro, mentre intorno si intrecciavano le preghiere; ma tutto fu inutile, perché il diavolo non la abbandonò. Così, Ildegarda chiese e ottenne di tenere la monaca vicino a sé. Passò del tempo. Poi, non sappiamo come, attraverso quali sortilegi, alla vigilia del Sabato Santo, il demonio sparì.
Chi era Ildegarda di Bingen? Chi era la donna che nel 1169 aveva settantatré anni, scriveva ai papi e a Federico Barbarossa, era in contatto con Bernardo di Chiaravalle, aveva predicato - fatto assai insolito per quei tempi - nelle cattedrali di Colonia e di Treviri, di Liegi e di Magonza? La monaca aristocratica che paragonava se stessa a una poverella, a una «piuma abbandonata al vento della fiducia di Dio», possedeva uno sguardo che andava ben oltre i confini della vita monastica; una cultura che certamente non si limitava alle Sacre Scritture; e, a dispetto delle malattie che la tormentarono tutta la vita, una tempra d'acciaio. Lo sguardo ampio le permetteva di avere un sentimento cosmologico pari a quello che, non molti anni più tardi, ispirò Dante: accompagnato dalla consapevolezza dei molti problemi che travagliavano la chiesa, a cominciare dai rapporti con i movimenti eretici e riformatori, per finire ai dissidi con l'impero. L'amore per il sapere fortificava la sua fede nelle fonti dell'enciclopedismo medievale, nei testi di Dionigi Areopagita e Agostino: e di molti altri, forse letti in segreto, come Seneca con ogni probabilità. Il carattere forte la sorreggeva nella volontà, impedendole di cedere alle debolezze del corpo, nonostante le emicranie fortissime, gli squassanti dolori alle ossa: infatti, viaggiava; predicava; interpellava abati e principi; curava i malati; come le streghe della tradizione contadina, faceva magie con le erbe; coltivava la musica e il canto.
Ebbe visioni fin dall'infanzia - motivo per il quale i genitori, ritenendola diversa dagli altri, la fecero entrare bambina nel convento di Disibodenberg. Tuttavia, per lunghi anni, le tenne segrete. Solo nel 1136, quando aveva quarant'anni, una voce misteriosa le impose di mettere per iscritto quello che vedeva nel silenzio della mente. Nacquero, in tal modo, i suoi libri profetici: il Liber Scivias, il Liber vitae meritorum; e il Liber divinorum operum, il Libro delle opere divine, la sua opera più importante, che oggi leggiamo nei Classici dello Spirito della Mondadori.
Com'erano le visioni di Ildegarda, queste visioni tenute nascoste perché, come tutte le cose eccezionali, si temeva fossero ispirate dal demonio? Lo spiega lei stessa. «Queste cose - scrisse - non le ascolto con le orecchie del corpo e neppure nei pensieri del mio cuore... ma unicamente all'interno della mia anima, con gli occhi aperti, per cui nelle visioni non subisco il venir meno dell'estasi: le vedo in stato di veglia, di giorno e di notte». C'è una voce misterica così terrena, infatti così superbamente carnale, una seduzione «stregonesca» così profonda in questo libro visionario ma «vigile», scritto «a occhi aperti» - sottratto alle tenebre che avrebbero invaso il cuore di Santa Teresa e di San Juan de la Cruz, scandito, rispetto ai tremori di Angela da Foligno, ai deliri cantilenanti di Maria Maddalena de' Pazzi, nella luce ferma del cristallo - che lascia il lettore moderno sbalordito. Perché, se è vero, come diceva Bernardo di Chiaravalle, che nelle visioni divine le immagini sopraggiungono non solo per attenuare lo «splendore insopportabile» della luce divina, ma anche per «rendere possibile la comunicazione agli altri uomini», è altrettanto vero che la quantità di carne e sangue, di scienza e pensiero, di natura e di mondo che queste immagini riflettono, non ha confini.
Del resto, non potrebbe essere altrimenti, quando al centro di tutto stanno la creazione e l'uomo. Il disegno è complesso e semplice. Dio aveva creato gli angeli; ma uno di loro, il più bello, Lucifero, s'inorgoglì e pensò stoltamente di potersi equiparare a Lui. Dio, allora, lo cacciò negli abissi eterni e, per riparare a questa offesa della creazione, fece l'uomo. Lo fece a sua immagine e somiglianza, nella ragione e nella carne, perché il Figlio avrebbe dovuto rivestirsi con veste di carne, per la redenzione dell'uomo.
L'oggetto della contemplazione di Ildegarda, dunque, non è l'astratto generarsi del Verbo nell'intelletto, bensì, come scrive Marta Cristiani nella sua introduzione: «La concretezza del farsi carne del Verbo nella natura dell'uomo-microcosmo, sintesi di tutta la natura creata». Nella forma dell'uomo, Dio raffigura tutte le sue opere, infatti: l'universo e le sue energie, la terra e i pianeti, il caldo e il freddo, l'umido e il secco, il sole e la luna, l'acqua e il fuoco. Tutto è a servizio dell'uomo. E l'uomo non potrebbe vivere senza la creazione. Così come Dio non potrebbe vivere senza l'uomo.
Perché questa è la verità sconvolgente, colma di conforto, che ci propone Ildegarda: quanto, fino a che punto, Dio ama l'uomo. Un tempo, i profeti possedevano questa verità nel cuore. Ma non capivano ancora bene. La vedevano nell’ombra. Poi, quando il Figlio assunse la carne, la verità esplose come l'urlo di una partoriente. Traboccò nel Figlio. Come la gioia della madre trabocca nel figlio. E fu chiara ogni cosa.
Tuttavia, non è sempre così. L'uomo dimentica. Dimentica l'uomo medievale; quello d'oggi. Dimentica questa comunione della carne e dello spirito. Dimentica addirittura - ed è una immagine sublime, non visionaria, questa che ci propone Ildegarda - di essere, lui uomo, «madre di Dio», quando, seguendo le sue parole, lo genera dentro di sé. L'uomo è fatto di carne e d'anima. Il suo è, quindi, un continuo salire e scendere. Quando la debolezza della carne, «la seduzione immonda e viscida del piacere» trascinano l'uomo in basso, la cecità del cuore corrisponde a quella degli occhi.
Quando le energie dell'anima trasformano i desideri in virtù, l'oscurità scompare e, salendo la scala dell'umiltà, l'uomo si avvicina a Dio. Lo vedrà soltanto alla fine dei tempi. Per ora, deve limitarsi a vederlo riflesso nelle immagini, nelle parole. Lo può vedere nella bellezza del creato; nel firmamento; nel suo stesso corpo: tutto è a misura dell'uomo, tutto corrisponde all'uomo. Il cranio, il cuore, il fegato, i polmoni, le viscere, il reticolo delle vene, la misura delle gambe e delle braccia: come è possibile non riconoscere che il cranio è tondo perché rappresenta l'universo, che la bocca sostiene la verità della Parola, che le vene conducono l'amore, e ogni cosa, ogni cosa è misura, corrispondenza amorosa di Dio e l'uomo? Immagini davvero grandiose colmano questo libro dello spirito che continuamente torna su se stesso a ribadire una luce e una verità carnali che, a tratti, lo accostano alla scrittura di Montaigne.
Non sono, certo, le immagini delle visioni vere e proprie: quelle figure per metà animali, per metà umane; le simbologie grottesche e inquietanti che compaiono anche nei codici miniati, sui portali delle cattedrali romaniche, nei pavimenti delle chiese. Sono, queste immagini grandiose, quelle dell'uomo che Dio, per la voce di Ildegarda, espande nell'universo. Le immagini che ogni domenica, le consorelle di Ildegarda, vestite di abiti sfarzosi, coperte di gioielli splendidi, cercavano di evocare nella purezza del canto. In quel convento di Rupertsberg, nel quale Ildegarda non dimenticò mai le sue ascendenze aristocratiche. E di essere donna. Diceva, infatti, che nella creazione l'uomo rappresenta la divinità; la donna, l'umanità di Cristo.
Il libro: Ildegarda di Bingen «Il libro delle opere divine», a cura di Marta Cristiani e Michela Pereira, Meridiani dello Spirito-Mondadori pagine CLXXIV-1236, €49
Esce il «Libro delle opere divine», il più importante tra i testi profetici della mistica cattolica che fondò, nel XII secolo, il monastero di Bingen
Le visioni di Ildegarda. E l’uomo si fa Dio
di GIORGIO MONTEFOSCHI
Vorremmo annullare il tempo e, con un salto all'indietro, tornare nella Germania del XII secolo dopo Cristo, soltanto per entrare nelle gelide aule del convento benedettino di Rupertsberg, nei suoi corridoi bui profumati di lievito e di incenso, e assistere al grande esorcismo che, nel 1169, Ildegarda di Bingen, badessa di quel convento, ordinò nei confronti della monaca Sigewize di Colonia, posseduta dal demonio. Sette sacerdoti percossero la sventurata con una verga, uno dopo l'altro, mentre intorno si intrecciavano le preghiere; ma tutto fu inutile, perché il diavolo non la abbandonò. Così, Ildegarda chiese e ottenne di tenere la monaca vicino a sé. Passò del tempo. Poi, non sappiamo come, attraverso quali sortilegi, alla vigilia del Sabato Santo, il demonio sparì.
Chi era Ildegarda di Bingen? Chi era la donna che nel 1169 aveva settantatré anni, scriveva ai papi e a Federico Barbarossa, era in contatto con Bernardo di Chiaravalle, aveva predicato - fatto assai insolito per quei tempi - nelle cattedrali di Colonia e di Treviri, di Liegi e di Magonza? La monaca aristocratica che paragonava se stessa a una poverella, a una «piuma abbandonata al vento della fiducia di Dio», possedeva uno sguardo che andava ben oltre i confini della vita monastica; una cultura che certamente non si limitava alle Sacre Scritture; e, a dispetto delle malattie che la tormentarono tutta la vita, una tempra d'acciaio. Lo sguardo ampio le permetteva di avere un sentimento cosmologico pari a quello che, non molti anni più tardi, ispirò Dante: accompagnato dalla consapevolezza dei molti problemi che travagliavano la chiesa, a cominciare dai rapporti con i movimenti eretici e riformatori, per finire ai dissidi con l'impero. L'amore per il sapere fortificava la sua fede nelle fonti dell'enciclopedismo medievale, nei testi di Dionigi Areopagita e Agostino: e di molti altri, forse letti in segreto, come Seneca con ogni probabilità. Il carattere forte la sorreggeva nella volontà, impedendole di cedere alle debolezze del corpo, nonostante le emicranie fortissime, gli squassanti dolori alle ossa: infatti, viaggiava; predicava; interpellava abati e principi; curava i malati; come le streghe della tradizione contadina, faceva magie con le erbe; coltivava la musica e il canto.
Ebbe visioni fin dall'infanzia - motivo per il quale i genitori, ritenendola diversa dagli altri, la fecero entrare bambina nel convento di Disibodenberg. Tuttavia, per lunghi anni, le tenne segrete. Solo nel 1136, quando aveva quarant'anni, una voce misteriosa le impose di mettere per iscritto quello che vedeva nel silenzio della mente. Nacquero, in tal modo, i suoi libri profetici: il Liber Scivias, il Liber vitae meritorum; e il Liber divinorum operum, il Libro delle opere divine, la sua opera più importante, che oggi leggiamo nei Classici dello Spirito della Mondadori.
Com'erano le visioni di Ildegarda, queste visioni tenute nascoste perché, come tutte le cose eccezionali, si temeva fossero ispirate dal demonio? Lo spiega lei stessa. «Queste cose - scrisse - non le ascolto con le orecchie del corpo e neppure nei pensieri del mio cuore... ma unicamente all'interno della mia anima, con gli occhi aperti, per cui nelle visioni non subisco il venir meno dell'estasi: le vedo in stato di veglia, di giorno e di notte». C'è una voce misterica così terrena, infatti così superbamente carnale, una seduzione «stregonesca» così profonda in questo libro visionario ma «vigile», scritto «a occhi aperti» - sottratto alle tenebre che avrebbero invaso il cuore di Santa Teresa e di San Juan de la Cruz, scandito, rispetto ai tremori di Angela da Foligno, ai deliri cantilenanti di Maria Maddalena de' Pazzi, nella luce ferma del cristallo - che lascia il lettore moderno sbalordito. Perché, se è vero, come diceva Bernardo di Chiaravalle, che nelle visioni divine le immagini sopraggiungono non solo per attenuare lo «splendore insopportabile» della luce divina, ma anche per «rendere possibile la comunicazione agli altri uomini», è altrettanto vero che la quantità di carne e sangue, di scienza e pensiero, di natura e di mondo che queste immagini riflettono, non ha confini.
Del resto, non potrebbe essere altrimenti, quando al centro di tutto stanno la creazione e l'uomo. Il disegno è complesso e semplice. Dio aveva creato gli angeli; ma uno di loro, il più bello, Lucifero, s'inorgoglì e pensò stoltamente di potersi equiparare a Lui. Dio, allora, lo cacciò negli abissi eterni e, per riparare a questa offesa della creazione, fece l'uomo. Lo fece a sua immagine e somiglianza, nella ragione e nella carne, perché il Figlio avrebbe dovuto rivestirsi con veste di carne, per la redenzione dell'uomo.
L'oggetto della contemplazione di Ildegarda, dunque, non è l'astratto generarsi del Verbo nell'intelletto, bensì, come scrive Marta Cristiani nella sua introduzione: «La concretezza del farsi carne del Verbo nella natura dell'uomo-microcosmo, sintesi di tutta la natura creata». Nella forma dell'uomo, Dio raffigura tutte le sue opere, infatti: l'universo e le sue energie, la terra e i pianeti, il caldo e il freddo, l'umido e il secco, il sole e la luna, l'acqua e il fuoco. Tutto è a servizio dell'uomo. E l'uomo non potrebbe vivere senza la creazione. Così come Dio non potrebbe vivere senza l'uomo.
Perché questa è la verità sconvolgente, colma di conforto, che ci propone Ildegarda: quanto, fino a che punto, Dio ama l'uomo. Un tempo, i profeti possedevano questa verità nel cuore. Ma non capivano ancora bene. La vedevano nell’ombra. Poi, quando il Figlio assunse la carne, la verità esplose come l'urlo di una partoriente. Traboccò nel Figlio. Come la gioia della madre trabocca nel figlio. E fu chiara ogni cosa.
Tuttavia, non è sempre così. L'uomo dimentica. Dimentica l'uomo medievale; quello d'oggi. Dimentica questa comunione della carne e dello spirito. Dimentica addirittura - ed è una immagine sublime, non visionaria, questa che ci propone Ildegarda - di essere, lui uomo, «madre di Dio», quando, seguendo le sue parole, lo genera dentro di sé. L'uomo è fatto di carne e d'anima. Il suo è, quindi, un continuo salire e scendere. Quando la debolezza della carne, «la seduzione immonda e viscida del piacere» trascinano l'uomo in basso, la cecità del cuore corrisponde a quella degli occhi.
Quando le energie dell'anima trasformano i desideri in virtù, l'oscurità scompare e, salendo la scala dell'umiltà, l'uomo si avvicina a Dio. Lo vedrà soltanto alla fine dei tempi. Per ora, deve limitarsi a vederlo riflesso nelle immagini, nelle parole. Lo può vedere nella bellezza del creato; nel firmamento; nel suo stesso corpo: tutto è a misura dell'uomo, tutto corrisponde all'uomo. Il cranio, il cuore, il fegato, i polmoni, le viscere, il reticolo delle vene, la misura delle gambe e delle braccia: come è possibile non riconoscere che il cranio è tondo perché rappresenta l'universo, che la bocca sostiene la verità della Parola, che le vene conducono l'amore, e ogni cosa, ogni cosa è misura, corrispondenza amorosa di Dio e l'uomo? Immagini davvero grandiose colmano questo libro dello spirito che continuamente torna su se stesso a ribadire una luce e una verità carnali che, a tratti, lo accostano alla scrittura di Montaigne.
Non sono, certo, le immagini delle visioni vere e proprie: quelle figure per metà animali, per metà umane; le simbologie grottesche e inquietanti che compaiono anche nei codici miniati, sui portali delle cattedrali romaniche, nei pavimenti delle chiese. Sono, queste immagini grandiose, quelle dell'uomo che Dio, per la voce di Ildegarda, espande nell'universo. Le immagini che ogni domenica, le consorelle di Ildegarda, vestite di abiti sfarzosi, coperte di gioielli splendidi, cercavano di evocare nella purezza del canto. In quel convento di Rupertsberg, nel quale Ildegarda non dimenticò mai le sue ascendenze aristocratiche. E di essere donna. Diceva, infatti, che nella creazione l'uomo rappresenta la divinità; la donna, l'umanità di Cristo.
Il libro: Ildegarda di Bingen «Il libro delle opere divine», a cura di Marta Cristiani e Michela Pereira, Meridiani dello Spirito-Mondadori pagine CLXXIV-1236, €49
il bene e il male
L'Unità 22.12.2003
Distinguere il bene dal male? La regola non è scritta in natura
di Pietro Greco
Nel libro «Naturalmente buoni» che ha licenziato qualche anno fa per la Garzanti, l'etologo Frans de Waal parla di un grosso serpente, IM, cui un infortunio genetico ha fatto crescere due teste. La mostruosità sta nel fatto che la testa di sinistra, Istinto, e la testa di destra, Mente, lottano strenuamente tra loro per procurare il cibo al medesimo corpo. Il mondo della natura, sosteneva alla fine del '700 Immanuel Kant, non ha alcuna connessione diretta col mondo della morale. E IM sembra appunto il monumento, mostruoso, che la natura ha voluto erigere alla sua stupida amoralità.
Al contrario, l'umanità sembra l'unica specie che sa essere umanitaria. La moralità, sosteneva alla fine dell'800 il biologo Thomas Henry Huxley, è la spada forgiata da Homo sapiens per uccidere il drago del suo passato animale.
Ma hanno davvero ragione Kant e Huxley? La moralità appartiene solo all'uomo ed è sconosciuta al resto della natura? Nel 1997 Frans de Waal ha speso alcune centinaia di pagine per dimostrare che la moralità, il senso del bene e del male, non appartiene solo all'uomo, ma è piuttosto diffuso in molte specie animali. Ma, se esiste una moralità in natura oltre l'uomo, allora esiste una morale naturale che può legittimamente aspirare a farsi riconoscere come morale universale?
Chi vuole trovare una risposta argomentata a queste domande può leggere «Il limite e il ribelle», il libro di Giovanni Boniolo, filosofo della scienza all'università di Padova. Il darwiniano Boniolo mostra come, per molti versi, hanno ragione sia quelli che, come Kant e Huxley, parlano di una specifica moralità dell'uomo, sia quelli che, come Frans de Waal, sostengono che la moralità non è disgiunta dalla biologia. Ma Giovanni Boniolo è tutt'altro che un cerchiobottista. Anzi, individua immediatamente chi ha del tutto torto. Ha del tutto torto, secondo Boniolo, chi asserisce l'esistenza di leggi morali naturali e assolute. In natura non c'è scritto ciò che è bene e ciò che è male.
Come possiamo, dunque, risolvere questo apparente rompicapo? Semplice. Basta seguire la logica di Giovanni Boniolo. Il quale inizia col distinguere tra capacità morale e sistema morale. La prima, la capacità morale, consiste nella capacità di formulare e applicare un qualsivoglia giudizio morale. Se volete, la capacità di distinguere tra un bene e un male. Questa capacità ha una chiara origine biologica. È il frutto dell'evoluzione per selezione naturale. La capacità di formulare giudizi morali è emersa, a un certo punto dell'evoluzione biologica, come un nuovo carattere adattivo, capace di conferire un vantaggio nella lotta per la sopravvivenza. Se mi comporto bene e divido regolarmente il cibo che ho raccolto con tutto il mio gruppo, le possibilità di sopravvivenza di tutti - me compreso - aumentano.
Il sistema morale, spiega Boniolo, è invece l'insieme dei giudizi morali specifici che vengono formulati nell'ambito di una società umana (ma, direbbe de Waal, anche non umana). I sistemi morali (il plurale è di rigore) non hanno un'origine biologica. Ma, come sostenevano Kant e Huxley, sono una costruzione dell'uomo. Frutto della sua evoluzione culturale. Frutto della sua storia. In alcune situazioni è giudicato un bene la divisione equanime del cibo con tutti gli altri componenti del gruppo, in altre situazioni è giudicata meno bene e in altre ancora è giudicata un male. Tutti gli uomini hanno la capacità di formulare giudizi morali. Ma i giudizi morali formulati differiscono da uomo a uomo, da gruppo sociale a gruppo sociale. Persino da religione a religione.
Perché una così grande variabilità? Perché gli uomini, come sostiene il darwiniano Boniolo, formulano i loro giudizi morali non attingendo a una fonte naturale che non esiste, ma sulla base di processi cognitivi espliciti e socialmente negoziati. I giudizi morali e i sistemi morali (gli insiemi di giudizi morali tipici di un gruppo, di un popolo, di una cultura) evolvono nel tempo. Ma non si tratta di un'evoluzione adattiva (evoluzione darwiniana), bensì di un'evoluzione culturale.
Se, dunque, non esiste una morale naturale, se non esiste una morale assoluta, allora crollano i fondamenti etici della nostra società? Niente affatto, sostiene Boniolo. Perché proprio l'assenza di una fonte universale di norme morali aumenta la nostra responsabilità individuale. E proprio l'esistenza di diversi insiemi morali, tutti legittimi, rende la tolleranza di tutti nei confronti di tutti se non un principio morale assoluto, quanto meno una pratica razionale e necessaria.
Giovanni Boniolo, Il limite e il ribelle, Raffaello Cortina, pagg 218, euro 19,80
Distinguere il bene dal male? La regola non è scritta in natura
di Pietro Greco
Nel libro «Naturalmente buoni» che ha licenziato qualche anno fa per la Garzanti, l'etologo Frans de Waal parla di un grosso serpente, IM, cui un infortunio genetico ha fatto crescere due teste. La mostruosità sta nel fatto che la testa di sinistra, Istinto, e la testa di destra, Mente, lottano strenuamente tra loro per procurare il cibo al medesimo corpo. Il mondo della natura, sosteneva alla fine del '700 Immanuel Kant, non ha alcuna connessione diretta col mondo della morale. E IM sembra appunto il monumento, mostruoso, che la natura ha voluto erigere alla sua stupida amoralità.
Al contrario, l'umanità sembra l'unica specie che sa essere umanitaria. La moralità, sosteneva alla fine dell'800 il biologo Thomas Henry Huxley, è la spada forgiata da Homo sapiens per uccidere il drago del suo passato animale.
Ma hanno davvero ragione Kant e Huxley? La moralità appartiene solo all'uomo ed è sconosciuta al resto della natura? Nel 1997 Frans de Waal ha speso alcune centinaia di pagine per dimostrare che la moralità, il senso del bene e del male, non appartiene solo all'uomo, ma è piuttosto diffuso in molte specie animali. Ma, se esiste una moralità in natura oltre l'uomo, allora esiste una morale naturale che può legittimamente aspirare a farsi riconoscere come morale universale?
Chi vuole trovare una risposta argomentata a queste domande può leggere «Il limite e il ribelle», il libro di Giovanni Boniolo, filosofo della scienza all'università di Padova. Il darwiniano Boniolo mostra come, per molti versi, hanno ragione sia quelli che, come Kant e Huxley, parlano di una specifica moralità dell'uomo, sia quelli che, come Frans de Waal, sostengono che la moralità non è disgiunta dalla biologia. Ma Giovanni Boniolo è tutt'altro che un cerchiobottista. Anzi, individua immediatamente chi ha del tutto torto. Ha del tutto torto, secondo Boniolo, chi asserisce l'esistenza di leggi morali naturali e assolute. In natura non c'è scritto ciò che è bene e ciò che è male.
Come possiamo, dunque, risolvere questo apparente rompicapo? Semplice. Basta seguire la logica di Giovanni Boniolo. Il quale inizia col distinguere tra capacità morale e sistema morale. La prima, la capacità morale, consiste nella capacità di formulare e applicare un qualsivoglia giudizio morale. Se volete, la capacità di distinguere tra un bene e un male. Questa capacità ha una chiara origine biologica. È il frutto dell'evoluzione per selezione naturale. La capacità di formulare giudizi morali è emersa, a un certo punto dell'evoluzione biologica, come un nuovo carattere adattivo, capace di conferire un vantaggio nella lotta per la sopravvivenza. Se mi comporto bene e divido regolarmente il cibo che ho raccolto con tutto il mio gruppo, le possibilità di sopravvivenza di tutti - me compreso - aumentano.
Il sistema morale, spiega Boniolo, è invece l'insieme dei giudizi morali specifici che vengono formulati nell'ambito di una società umana (ma, direbbe de Waal, anche non umana). I sistemi morali (il plurale è di rigore) non hanno un'origine biologica. Ma, come sostenevano Kant e Huxley, sono una costruzione dell'uomo. Frutto della sua evoluzione culturale. Frutto della sua storia. In alcune situazioni è giudicato un bene la divisione equanime del cibo con tutti gli altri componenti del gruppo, in altre situazioni è giudicata meno bene e in altre ancora è giudicata un male. Tutti gli uomini hanno la capacità di formulare giudizi morali. Ma i giudizi morali formulati differiscono da uomo a uomo, da gruppo sociale a gruppo sociale. Persino da religione a religione.
Perché una così grande variabilità? Perché gli uomini, come sostiene il darwiniano Boniolo, formulano i loro giudizi morali non attingendo a una fonte naturale che non esiste, ma sulla base di processi cognitivi espliciti e socialmente negoziati. I giudizi morali e i sistemi morali (gli insiemi di giudizi morali tipici di un gruppo, di un popolo, di una cultura) evolvono nel tempo. Ma non si tratta di un'evoluzione adattiva (evoluzione darwiniana), bensì di un'evoluzione culturale.
Se, dunque, non esiste una morale naturale, se non esiste una morale assoluta, allora crollano i fondamenti etici della nostra società? Niente affatto, sostiene Boniolo. Perché proprio l'assenza di una fonte universale di norme morali aumenta la nostra responsabilità individuale. E proprio l'esistenza di diversi insiemi morali, tutti legittimi, rende la tolleranza di tutti nei confronti di tutti se non un principio morale assoluto, quanto meno una pratica razionale e necessaria.
Giovanni Boniolo, Il limite e il ribelle, Raffaello Cortina, pagg 218, euro 19,80
una teoria del tutto?
L'Unità 22.12.03
Hawking e l’ambiziosa speranza di trovare una teoria del tutto
di Salvo Fallica
I misteri del cosmo spiegati e raccontati con uno stile chiaro ed efficace dal geniale Stephen Hawking. Il grande cosmologo, titolare della cattedra lucasiana di matematica a Cambridge, ne «La Teoria del tutto» si confronta con argomenti complessi, che attengono alla fisica teorica, alla filosofia, al senso dell'esistenza di ogni essere umano: ovvero l'origine ed il destino dell'universo.
Hawking, in questo bel libro, compie un viaggio intellettuale nell'analisi della storia dell'universo: dalla cosmologia di Aristotele alle teorie di Copernico, alla rivoluzione epistemologica di Galileo, ai raffinati studi di Newton e di Einstein. Dalla teoria della relatività generale alla fisica quantistica, sino alle più recenti scoperte della fisica contemporanea. La scienza può rispondere alle domande essenziali della vita? Fino agli anni Venti del secolo scorso, tali quesiti erano di competenza della teologia o della filosofia. Ma in seguito alla scoperta di Hubble del moto di allontanamento delle galassie - e, quindi del fatto che l'universo si sta espandendo - è diventato possibile affrontare questi problemi da un punto di vista scientifico. In altri termini: se il cosmo si espande, dev'esserci stato un momento in cui questa espansione ha avuto inizio, un big bang sul quale è possibile interrogarsi con gli strumenti ed i metodi della scienza.
Con una scrittura brillante Hawking avvicina il lettore ad argomenti quali i diversi modelli esplicativi del big bang e i punti problematici della sua interpretazione classica, i primi stadi della vita dell'universo e le possibili alternative per il suo futuro sviluppo, la formazione delle galassie, la morte delle stelle e la singolarità dei buchi neri, la freccia del tempo nella sua triplice valenza psicologica, termodinamica e cosmologica. Hawking punta all'unificazione della fisica, ad una ambiziosa teoria del tutto. «Un primo passo - sostiene - è quello di combinare la relatività generale con il principio di indeterminazione». Non è affatto semplice giungere ad una teoria unificata della scienza, ma il grande cosmologo ci spera. E si pone, da studioso intelligente, la questione della democraticità della cultura.
Ovvero, dell'accessibilità di tutti alle conoscenze scientifiche. Hawking scrive: «Nel corso del XIX e del XX secolo, (…) la scienza è diventata troppo tecnica e troppo matematica per i filosofi o per chiunque altro, tranne per pochi specialisti. I filosofi hanno quindi a tal punto ridotto l'ambito delle proprie ricerche che Ludwig Wittgenstein, il filosofo più illustre del XX secolo, è venuto ad affermare che: “L'unico compito che resta alla filosofia è l'analisi del linguaggio”». Hawking mostra ottimismo:«..se riuscissimo a scoprire una teoria completa, col tempo tutti - e non solo pochi scienziati - dovrebbero essere in grado di comprenderla, almeno nei suoi principi generali». E così poter discutere sul perché l'universo esiste. «E, se trovassimo la risposta a quest'ultima domanda, decreteremmo il definitivo trionfo della ragione umana, poiché allora conosceremmo il pensiero stesso di Dio».
Stephen Hawking La teoria del tutto, Rizzoli, pagine 176, € 15,00
Hawking e l’ambiziosa speranza di trovare una teoria del tutto
di Salvo Fallica
I misteri del cosmo spiegati e raccontati con uno stile chiaro ed efficace dal geniale Stephen Hawking. Il grande cosmologo, titolare della cattedra lucasiana di matematica a Cambridge, ne «La Teoria del tutto» si confronta con argomenti complessi, che attengono alla fisica teorica, alla filosofia, al senso dell'esistenza di ogni essere umano: ovvero l'origine ed il destino dell'universo.
Hawking, in questo bel libro, compie un viaggio intellettuale nell'analisi della storia dell'universo: dalla cosmologia di Aristotele alle teorie di Copernico, alla rivoluzione epistemologica di Galileo, ai raffinati studi di Newton e di Einstein. Dalla teoria della relatività generale alla fisica quantistica, sino alle più recenti scoperte della fisica contemporanea. La scienza può rispondere alle domande essenziali della vita? Fino agli anni Venti del secolo scorso, tali quesiti erano di competenza della teologia o della filosofia. Ma in seguito alla scoperta di Hubble del moto di allontanamento delle galassie - e, quindi del fatto che l'universo si sta espandendo - è diventato possibile affrontare questi problemi da un punto di vista scientifico. In altri termini: se il cosmo si espande, dev'esserci stato un momento in cui questa espansione ha avuto inizio, un big bang sul quale è possibile interrogarsi con gli strumenti ed i metodi della scienza.
Con una scrittura brillante Hawking avvicina il lettore ad argomenti quali i diversi modelli esplicativi del big bang e i punti problematici della sua interpretazione classica, i primi stadi della vita dell'universo e le possibili alternative per il suo futuro sviluppo, la formazione delle galassie, la morte delle stelle e la singolarità dei buchi neri, la freccia del tempo nella sua triplice valenza psicologica, termodinamica e cosmologica. Hawking punta all'unificazione della fisica, ad una ambiziosa teoria del tutto. «Un primo passo - sostiene - è quello di combinare la relatività generale con il principio di indeterminazione». Non è affatto semplice giungere ad una teoria unificata della scienza, ma il grande cosmologo ci spera. E si pone, da studioso intelligente, la questione della democraticità della cultura.
Ovvero, dell'accessibilità di tutti alle conoscenze scientifiche. Hawking scrive: «Nel corso del XIX e del XX secolo, (…) la scienza è diventata troppo tecnica e troppo matematica per i filosofi o per chiunque altro, tranne per pochi specialisti. I filosofi hanno quindi a tal punto ridotto l'ambito delle proprie ricerche che Ludwig Wittgenstein, il filosofo più illustre del XX secolo, è venuto ad affermare che: “L'unico compito che resta alla filosofia è l'analisi del linguaggio”». Hawking mostra ottimismo:«..se riuscissimo a scoprire una teoria completa, col tempo tutti - e non solo pochi scienziati - dovrebbero essere in grado di comprenderla, almeno nei suoi principi generali». E così poter discutere sul perché l'universo esiste. «E, se trovassimo la risposta a quest'ultima domanda, decreteremmo il definitivo trionfo della ragione umana, poiché allora conosceremmo il pensiero stesso di Dio».
Stephen Hawking La teoria del tutto, Rizzoli, pagine 176, € 15,00
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