venerdì 22 ottobre 2004

Edoardo Boncinelli:
pochi geni, immensi risultati biologici

Corriere della Sera 22.10.04
Pensavamo di averne 100 mila, invece sono 20 mila. L'importante è la combinazione
L'uomo ha meno geni del rospo, ma li usa meglio
di EDOARDO BONCINELLI

«Il cervello è più grande del cielo - dice Emily Dickinson - perché lo contiene senza sforzo e, in aggiunta, contiene anche te». Il nostro cervello è il gioiello dell'evoluzione biologica, la perla più pura emersa dalla creta originaria, contenente tanta acqua e una certa quantità di detriti inorganici. Eppure sembra che il nostro cervello, in tutta la sua potenza, non sia che il prodotto di ventimila geni.
Ventimila geni, più o meno quanti ne ha il vermiciattolo Caenorhabditis elegans, il cui corpo è costituito di solo mille cellule, e decisamente meno di quanti ne abbia una piantina alta una diecina di centimetri, la Arabidopsis. Insomma, il romanzo del nostro patrimonio genetico non ha più di ventimila capitoli. Quindici anni fa pensavamo di averne centomila; tre anni fa capimmo di averne circa trentamila; la valutazione finale, pubblicata adesso sulla rivista Nature, dice più o meno ventimila.
Ci dobbiamo preoccupare? Ci dobbiamo sentire umiliati? Dobbiamo cominciare ad adorare i rospi, il frumento o il riso, che ne hanno almeno cinquanta volte tanti? Nemmeno per idea. Ventimila possono bastare, se utilizzati giudiziosamente, ovvero se la relativa scarsezza di geni è compensata da una grande ricchezza, se non un'esuberanza, di processi regolativi. Un gene specifica la struttura di un prodotto biologico, in genere una proteina. Ma poi occorre stabilire quanta farne, in che tessuti farla e quando farla. I circuiti regolativi, che a questo punto ci aspettiamo sempre più complessi e interconnessi, servono proprio a specificare questi parametri. Sapevamo che anche la differenza fondamentale fra noi e gli scimpanzé risiedeva primariamente in una diversa capacità regolativa dei circuiti genici, decisamente più alta in noi che in loro, e il dato odierno non fa che rafforzare questa impressione.
Quanti e quali sono questi meccanismi regolativi? Una concisa ma aggiornatissima esposizione di tali temi si può trovare in un libro pubblicato da poco negli Stati Uniti e che uscirà il 28 di questo mese in traduzione italiana da Codice Edizioni. Si tratta de La nascita della mente. Come un piccolo numero di geni crea la complessità della mente del ricercatore della New York University Gary Marcus, che il 31 sarà al Festival della Scienza di Genova. Il problema che il nostro autore si pone è proprio quello di cui stiamo parlando: le poche migliaia di geni che possediamo sono sufficienti a formare, oltre al nostro corpo, anche un cervello funzionante, dotato di tutte le sue facoltà mentali, o dobbiamo al contrario invocare meccanismi diversi? Fermo restando che meccanismi diversi possono sempre essere dietro l'angolo e comparire da un momento all'altro, ci sono buone ragioni per ritenere che se ne possa anche fare a meno. I geni che abbiamo possono in sostanza benissimo bastare. E Marcus ci spiega perché, basandosi su ciò che sappiamo oggi sulla regolazione genica e sullo sviluppo embrionale degli animali superiori e dell'uomo. Attraverso quali vie, in sostanza, le istruzioni genetiche contenute nel nostro genoma e le vicende della nostra vita giungono a formare e modellare la nostra mente, nei suoi aspetti conoscitivi e razionalizzanti e in quelli più propriamente emotivi? La domanda ha una storia molto lunga. Si tratta del famoso dilemma innato-appreso, che nei Paesi di lingua inglese prende il nome di dilemma nature-nurture, che possiamo rendere con «natura o educazione?».
Come accade per tutte le domande di grande momento, si tende a proporre risposte basate su convinzioni a priori. Alcuni tendono ad affermare che tutto dipende dai geni che un individuo possiede; altri tendono ad attribuire tutto il merito alle sue esperienze di vita, come se i geni contassero poco o niente. Nell’uno e nell'altro campo si giunge spesso ad affermazioni assurde. Alcuni autori, fra cui il nostro, affrontano invece il problema in maniera seria e informata.
Non sono mai riuscito veramente a capire perché secondo alcuni trentamila (o ventimila) geni sono pochi. Su quale criterio si basa questa affermazione? Per coloro che credono che la mente sia una cosa diversa dal cervello, per produrla non basterebbero neppure un milione di geni. Per coloro che invece credono che i geni abbiano un ruolo nella costruzione della mente, non vedo perché ventimila dovrebbero essere pochi. Quanti dovrebbero essere per essere abbastanza? Il nostro autore salta a piè pari questa domanda e fa del suo meglio per persuaderci del fatto che partendo da un numero non grandissimo di geni si può giungere alla formazione di un numero enorme di caratteristiche biologiche, nel corpo e nel cervello.
Leggendo quest'opera ci si rende conto che quello che viene detto della formazione e del funzionamento del cervello potrebbe essere detto, quasi parola per parola, della formazione e del funzionamento di qualsiasi struttura biologica o parte del nostro corpo. I geni non «sanno» se stanno facendo un cervello o una milza. I meccanismi sono assolutamente gli stessi e spiegare come si forma il cervello è solo un pochino più complicato che spiegare come si forma la milza. Marcus avrebbe potuto parlare alla stesso modo della formazione di un arto o di un capillare, ma non c'è dubbio che sarebbe stato meno interessante. Dobbiamo comunque apprezzare lo sforzo di questo e di pochi altri autori per fare arrivare al grande pubblico almeno il sapore delle più recenti scoperte della biologia molecolare dello sviluppo dei mammiferi, un campo nel quale sono state fatte più scoperte negli ultimi venticinque anni che in tutta la storia precedente. E questo non per magia o per una supposta superiorità dei contemporanei, ma semplicemente perché ci sono oggi nel mondo più persone che si dedicano alla ricerca in questo campo di quante ce ne siano state mai in tutte le epoche passate messe insieme. La ricerca la fanno gli uomini, anche se l'apporto di apparecchiature e metodologie nuove è d'importanza fondamentale, e gli uomini sono più numerosi che mai. Chi ignora a bella posta e con compiacimento quello che la biologia moderna sta scoprendo, «perché tanto non potrà poi essere così importante», che cosa direbbe se gli facessero notare che in questo momento stanno operando tre Aristotele, due Platone, quattro Galileo, cinque Pascal e una manciata di Malpighi e di Spallanzani?

Avvenimenti da oggi in edicola
un'intervista a Fatema Mernissi

Avvenimenti n 41, da oggi in edicola

I NUOVI ARABI COSMOCIVICI
Intervista alla scrittrice e sociologa marocchina Fatema Mernissi, autrice di liberi su Sherazade e sulle donne nei paesi arabi. " Da noi - dice- è ci sono molti pacifisti, ma i vostri media non li vedono".
di Daniela Preziosi

In Marocco è in corso un “boom” della società civile. Un fenomeno enorme, in atto anche in altri paesi. Abbiamo 140 stazioni satellitari che ci mostrano quello che succede, ci avviamo a una vera cyberdemocrazia. Ma i vostri media non sono interessati. Hanno l’ossessione del terrorista, gli danno la caccia. E non vedono altro". Provocatoria come sempre, la scrittrice marocchina Fatema Mernissi. Sociologa, docente universitaria, studiosa del Corano e delle Mille e una notte, femminista, discendente di una genìa di donne vissute nell’harem. Che più? L’ultima volta che l’avevamo incontrata le avevamo chiesto, fra l’altro, se il velo per le islamiche non le sembrava un’imposizione patriarcale. Risposta: "E la vostra taglia 40 cos’è, una scelta di libertà femminista?". Esce in questi giorni il suo ultimo saggio Karawan. Dal deserto al web (Giunti, 250 pagine, 12 euro). Il mondo della globalizzazione, scrive Mernissi, è un mondo di gente che si sposta, dove il viaggiatore è "un magnifico potenziale" di conoscenza, di incontro di civiltà; rappresenta "la straordinaria possibilità, all’alba del XXI secolo, di scovare ai quattro angoli del mondo coloro che si battono per le stesse idee e cullano gli stessi sogni a proposito di un pianeta in cui i cittadini possano tessere mille dialoghi, un pianeta dove non ci sia posto per i terroristi". Karawan è una Carovana della società civile, un reportage su un ceto medio troppo spesso ignorato. Un viaggio nel Marocco dei villaggi che si autorganizzano per produrre artigianato, dei giovani che si inventano un’idea esportabile sul web, delle artiste tessitrici di tappeti, degli scrittori del deserto, degli insegnanti, dei medici. Lei sostiene che il “turismo civico” è la grande risorsa dei nostri tempi. Perché? Per guadagnarci da vivere ma più spesso per turismo tutti ormai debbono viaggiare. Al posto di passare attraverso le agenzia turistiche, che fanno marketing e pacchetti all inclusive, propongo di viaggiare attraverso le Organizzazione non governative. Viaggiare nel deserto con le associazioni civiche, per esempio quelle di Zagora, significa rendersi contro di quello che gli abitanti del posto hanno a cuore: non uccidere gli uccelli, non distruggere i palmeti. Si possono vedere le persone nella loro vita quotidiana, ci si può rendere conto, comunicando con loro, che questa gente ha gli stessi problemi vostri. Non è come andare in un hotel a quattro stelle, dove vi trattano a secondo del denaro che hai. Chi è quello che lei definisce il “ cittadino cosmocivico”? I sufi dicono che lo straniero è un riflesso nel proprio occhio, è il nostro specchio. Possiamo dire che lo straniero è una riflessione e per questo abbiamo bisogno di parlare con gli stranieri: perché è così che noi ci scopriamo. Il viaggio è la scoperta di sé parlando con il diverso. Il “cosmocivico” è chi sa che la differenza arricchisce. Pensiamo a un cowboy e a Sinbad:, per il cowboy lo straniero è il nemico e bisogna ucciderlo; per Sinbad lo straniero è l’occasione di scambio. Comprare i tappeti in un grande magazzino di Marrakesh non è la stessa cosa che comprarlo da un artigiano dell’Alto Atlante o del deserto. Tutto quello che ho indosso proviene dagli artigiani, mai del supermermercato. È più difficile scegliere i prodotti, ma lo stesso vestito ce l’ho da dieci anni, e parlare con gli artigiani è stato entrare in contatto con un altro ritmo di vita. A parte la dimensione commerciale, c’è lo scambio con l’altro. Viaggiando nel Marocco del sud per scrivere il mio libro ho imparato moltissime cose. Per esempio ho scoperto che la gente del Nord parla molto mentre nel Sud i mercanti non parlano molto. Non hanno l’energia da sprecare e quindi non mercanteggiano. Nel deserto bisogna essere sempre molto concentrati perché il pericolo può in qualsiasi momento coglierti di sorpresa. Così nel suq, quando stavo per iniziare un discorso, mi rendevo conto che il mio interlocutore non voleva parlare ma voleva capire quello che pensavo. E così anch’io ho imparato; ho cominciato a scegliere di parlare di meno per guardare la persona davanti a me e cercare di capire che cosa stava pensando. Lei descrive la società civile marocchina. Crede che lo stesso fenomeno si in atto anche negli altri del paesi arabi? Sì, e faccio un semplice esempio. Nel mondo arabo il satellite sta costruendo la cyber-democrazia. Prima del satellite e di internet gli Stati e i regimi controllavano l’informazione e censuravano i cittadini. Il satellite ha distrutto il controllo e la censura, e ha permesso ai cittadini di cominciare ad esprimersi. Oggi ci sono 140 satelliti arabi, e in ogni canale c’è un grande dibattito, e per ogni avvenimento c’è il capo dello Stato che esprime il suo commento ma anche il cittadino che prende in mano il telefono e dice la sua. Questo ha rovesciato i rapporti di potere. Oggi nel mondo arabo il popolo diventa sempre più forte. Il signor Bush dice che ci vuole portare la democrazia con le bombe: ma non è al corrente della rivoluzione che il mondo arabo vive dagli anni 90. Nella prima Guerra del Golfo si poteva solo vedere le bombe su Bagdad sulla Cnn. Oggi nessuno più guarda la Cnn, siamo più dipendenti dai media occidentali, gli arabi producono la loro informazione. Il signor Bush non lo sa, ma sarebbe utile che guardasse al Jazeera prima di bombardarla. Ma la diffusione del satellite significa anche che i terroristi hanno scelto i canali tv per farsi pubblicità e diffondere terrore. Il terrorista che manda in onda un filmato dove sta per tagliare la testa a qualcuno per un arabo è un criminale,un assassino. E soprattutto, ha già perso. I terroristi hanno già perso nel mondo arabo, diversamente da quello che pensano gli occidentali. Però per noi terroristi sono tutti quelli che uccidono, anche i soldati dello stato italiano o americano. Secondo le informazioni di fonte araba, nel settembre 2004, l’armata americana che il signor Bush ha inviato in Iraq ha perso mille uomini e ucciso 20mila iracheni. C’è nel mondo arabo il movimento pacifista più forte forse del mondo, perché gli arabi sono le vittime della violenza, quelli che ogni giorno rischiano di morire. Uccidere non è un atto che dà forza, è un atto criminale, e il miovimento pacifista musulmano condanna tutte le violenze, terroristi e militari. Ma diciamo anche che al confronto dei militari non c’è nessun terrorista che abbia ucciso 20mila persone, come invece hanno fatto i nordamericani. Nei nostri paesi da una parte ci sono gli uomini armati, dall’altra i cittadini disarmati. La soluzione è fermare tutti gli assassini. La mobilitazione della società civile e cosmocivica è una forza enorme che si sta manifestando nel mondo arabo, eppure voi con le vostre telecamere non la riprendete. Ma questo è un vostro problema, non nostro. I vostri media vedono solo i terroristi. Per questo credo nell’importanza del viaggio individuale: che ogni italiano debba trasformarsi in un Sinbad. Forza, viaggiate, vedete voi stessi, muovetevi per andare a scoprire. I media sono uno dei “nostri” problemi. Ma uno dei “vostri” problemi è: cosa nutre il terrorismo islamico? Il terrorismo arabo non è musulmano. Il terrorismo è legato al controllo del petrolio. Mettetevelo in testa. Dicendo musulmani si fa una divisione che non esiste. Proviamo a dire “petrolio musulmano”: tutti gli italiani consumano petrolio musulmano. Le compagnie vogliono controllare il petrolio e per farlo debbono uccidere la democrazia nel mondo arabo, perché la democrazia crea attori politici, e invece così poche persone possono decidere per tutto il petrolio arabo. Le compagnie petrolifere hanno creato il terrorismo che non è un fenomeno arabo: è un “fenomeno petrolifero”. Europei, superate la divisione infantile fra l’Islam e l’Occidente. Non c’è occidente: tutti i paesi che consumano petrolio arabo sono paesi musulmani. Che ne dite di cominciare a pensare che siete già nel mondo musulmano? Attenzione: l’idea non quella è di privare gli europei del petrolio ma di trattare. Questo è il futuro, non ci sono frontiere, l’insicurezza è per tutti, anche per noi arabi. La guerra dimostra che per avere il petrolio non si possono più ammazzare gli arabi. La società civile marocchina è piena di donne che si danno da fare. Perché? Perché le donne sono comunicatrici. Sharazade (la protagonista delle Mille e una notte, ndr) usa la parola per salvare la vita. Questo spiega anche la enorme presenza di donne nei media. Il modello marocchino, e cioè la costruzione di una rete della società civile, è esportabile agli altri paesi arabi, almeno a quelli moderati? Certo. Le Ong agiscono in tutto il mondo, ma da noi è forte la tradizione della autogestione delle comunità, che nel sud del Marocco, nelle montagne e nel deserto è ancora praticata. In questo momento nei paesi arabi, per esempio in Algeria e in Tunisia c’è il boom della società civile, anche se non la sente parlare. Il paese dove ci sono più Ong è la Palestina. Qual è l’atteggiamento della monarchia nei confronti dell’emergere della società civile? Il giovane re ha capito che il Marocco non ha il petrolio e che non può competere sui servizi. Così ha fatto una cosa intelligente: privatizzare Maroc Telecom. Questo ha permesso che ci fosse una competizione e che si abbassassero le tariffe di telefono e internet. La gente improvvisamente ha scoperto internet e si collegata con il mondo. Ed è stata una rivoluzione.

Cina

Yahoo! Notizie 22.10.04
Cina: prosegue crescita economica

(ANSA)-PECHINO, 22 OTT - La Cina ha registrato nei primi novi mesi di quest'anno una crescita del 9,5%. Lo ha annunciato oggi l'Ufficio centrale per le statistiche. Il valore globale del Pil ha raggiunto 9.310 mililardi di yuan (un euro equivale a 10 yuan). Il valore della produzione industriale e' aumentato del 17%, gli investimenti fissi sono aumentati del 27,7%, ha detto Zheng Jingping, portavoce dell' Ufficio centrale per le statistiche.

sinistra
ancora sul libro di Armando Cossutta

Corriere della Sera 22.10.04
Cossutta e le mille storie del Pci
di PAOLO FRANCHI

Dopo Emanuele Macaluso, dopo Pietro Ingrao, anche Armando Cossutta ha voluto scrivere, per Rizzoli, la sua Storia comunista , presentata ieri a Roma, con la sapiente regia di Eugenio Scalfari, da Massimo D’Alema, Ciriaco De Mita e Oliviero Diliberto. E, ove mai ce ne fosse bisogno, anche il libro dell’Armando conferma quante e quanto diverse siano state, nel gruppo dirigente del Pci, le storie, le culture, le vicende politiche, intellettuali ed umane degli uomini che ne facevano parte. E’ quindi difficile dare torto a D’Alema quando, rispondendo a un quesito di Scalfari che si chiedeva come avrebbe potuto essere definito Cossutta nella geografia interna del vecchio partito, ha risposto semplicemente: cossuttiano. E si è limitato a rinviare quanti volessero capire meglio alla complessa (e poco indagata) storia del comunismo milanese nella seconda metà del Novecento, alla sua robusta destra riformista e a una sinistra interna altrettanto robusta, e a modo suo «responsabile», poco incline al movimentismo, cioè, ma anche poco curiosa dei cambiamenti dell’economia, della società, del costume, del gusto.
Cossutta, in realtà, è stato in qualche misura partecipe di entrambe. Ha interpretato cioè, come lo si poteva interpretare a Sesto San Giovanni operaia e a Milano, poi a Roma, il ruolo dell’uomo di centro, del togliattiano moderato e aperto ai ceti medi, in un Pci che dal centro era governato quasi per definizione. A questo ruolo è rimasto fedele fin quando è stato umanamente possibile. Con Palmiro Togliatti, e si capisce. E poi con Luigi Longo, al quale è stato particolarmente vicino. E anche con Enrico Berlinguer. Ma solo fino a un certo punto. Perché l’emarginazione politica di Cossutta non inizia nell’81, quando dà battaglia contro lo «strappo» (vero o presunto) di Berlinguer con l’Urss, ma alla metà degli anni Settanta. Quando Berlinguer lo estromette dalla segreteria del partito, di cui è stato fin lì il coordinatore, sostenendo che, negli anni, ha accumulato troppo potere, anche se, precisa, senza abusarne: e lo spedisce a occuparsi di enti locali.
Che di questo potere faccia parte integrante il rapporto diretto e privilegiato con Mosca, e che questo rapporto Berlinguer cerchi di reciderlo, o di attenuarlo, non è già allora, nel Pci, un mistero per nessuno. E dunque nessuno si stupisce più di tanto quando, sei anni dopo, il dirigente comunista che quasi per definizione ha rappresentato e governato con mano ferma l’ortodossia di apparato si ritrova, denunciando lo «strappo» e la «mutazione genetica» del partito che ne deriverebbe, nella parte dell’eretico che rivendica il diritto di organizzare i suoi in corrente, e viene accusato apertamente di dare man forte a un «lavorìo» sovietico per minare l’autonomia del Pci.
Di tutto questo, pur tra molte reticenze e molti non detti, c’è, nella «Storia comunista» di Cossutta, ampia traccia. E qui sta forse il suo principale motivo di interesse. Perché, da un punto di vista opposto, per esempio, a quello di Macaluso, aiuta a capire che è negli anni Ottanta, ben prima della caduta del Muro e della svolta di Occhetto, della nascita del Pds e di Rifondazione, e del successivo addio tra l’Armando e Fausto Bertinotti, che il Pci, ormai senza una leadership forte e riconosciuta, entra in agonia; e si dissolvono, assieme all’unità nella diversità del gruppo dirigente, anche i rapporti politici, e persino umani. E’ un paradosso. Ma di un minimo di buone maniere tra post, neo e veterocomunisti italiani si può, forse, cominciare a parlare solo adesso. Quando il vecchio Pci caro all’Armando non c’è più, e Fassino-D’Alema, Cossutta e Bertinotti se ne stanno, più o meno felicemente, ciascuno a casa propria.

Repubblica 22.10.04
Cossutta e la storia dei comunisti oltre il Pci D'Alema: separati andiamo più d'accordo

ROMA - Sessant´anni da comunista, sessant´anni quasi tutti dentro il Pci. Sono la vita e il lavoro militante di Armando Cossutta i temi del libro "Una storia comunista", scritto dal presidente del Pdci insieme al giornalista Gianni Montesano. Un libro presentato ieri da Massimo D´Alema, Ciriaco De Mita e Oliviero Diliberto, coordinati da Eugenio Scalfari. Uno Scalfari che mette subito in chiaro di non far parte della famiglia comunista e di collocarsi in un altro orizzonte politico-culturale. Gli replica Diliberto: non è vero - dice al fondatore di Repubblica - perché intorno al tavolo si ritrovano esponenti delle culture politiche che hanno dato vita al patto costituente del 1948.
Si parla di storia e politica nella sala del Cenacolo della Camera. Si parla di Togliatti, Longo e Berlinguer. Scalfari muove a Cossutta la critica di essere partito con l´intento di raccontare fatti e aver finito per dare giudizi. Sono un dirigente politico, replica il leader del Pdci, ed è inevitabile. Ed è giusto criticare anche mostri sacri come Togliatti. Secondo Cossutta, "il Migliore" sbagliò, per esempio, a non reagire con più forza alla rottura del patto antifascista e alla cacciata del Pci dal governo nel 1947. Si parla di Berlinguer. Ma D´Alema invita a «sottoscrivere una tregua» nello scontro sulla sua eredità. Ognuno di noi, dice, potrebbe rivendicare qualcosa di Berlinguer.
Meglio pensare invece che l´esperienza unitaria del Pci era finita e prolungarla sarebbe stato solo continuare nelle lotte intestine. La controprova, continua D´Alema, è che «da quando ci siamo separati, da quando ognuno ha trovato una sua casa, i rapporti fra gli ex comunisti sono sereni». Il leader ds spiega questa apparente contraddizione con il «senso di responsabilità verso il paese» degli ex comunisti. Un senso di responsabilità, continua D´Alema che nel momento drammatico di dover scegliere fra l´interesse del paese e l´interesse del partito ha portato «coloro che accusavano un gruppo di "giovanotti" di svendere il patrimonio storico del Pci a schierarsi i "giovanotti"». Piccola polemica sulla nascita del governo D´Alema del 1998 e sulla scissione in Rifondazione da cui nacque il Pdci. Ma D´Alema ha parole di apprezzamento anche per Bertinotti e Rifondazione. La scelte di Fausto, l´adesione e la nascita della Sinistra europea, spiega il presidente dei Ds, proiettano Rifondazione in un orizzonte post comunista. Scelte, dice D´Alema, che danno ragione alla svolta di Occhetto dell´89. Cossutta prende la palla al balzo. «Abbiamo litigato, ma deve sempre essere così la storia della sinistra? Non si può trovare un´intesa senza pretese di dominio? Adesso è Bertinotti a chiedere qualcosa di nuovo. Noi da tempo proponiamo la stessa cosa: una federazione della sinistra».

Liberazione 22.10.04

Il presidente del Pdci alla presentazione del libro "Una storia comunista"
Cossutta: giusta un'aggregazione a sinistra
di Tonino Bucci

«Sì, è vero, nella storia della sinistra abbiamo polemizzato, litigato, ci siamo divisi. Oggi ci sono tre formazioni, i Ds, noi del Pdci e poi Rifondazione comunista. Ma, mi chiedo, deve sempre rimanere così la storia della sinistra? E perché? Perché non si deve trovare tra le forze della sinistra una grande intesa nel rispetto delle differenze, delle distinzioni, senza pretese egemoniche e di dominio»? Armando Cossutta ha dedicato al presente e alle prospettive della sinistra italiana la chiusa dell'intervento alla presentazione del suo libro, Una storia comunista (in uscita per le edizioni Rizzoli, scritto con Gianni Montesano), pure completamente centrato sul «racconto», sulla «autobiografia politica», sulla «cronaca storica» - come è stato definito ieri a Roma, nel corso di una tavola rotonda fra Massimo D'Alema, Oliviero Diliberto, Ciriaco De Mita ed Eugenio Scalfari. Ma sia pure dentro la cornice narrativa del passato - dalla Resistenza, al Pci di Togliatti e Berlinguer, fino alla nascita di Rifondazione - non è mancato un accenno alla fase politica attuale da parte del presidente dei Comunisti italiani.
E lo ha fatto proprio con un riferimento al Prc. «Sono felice che anche Fausto Bertinotti riconosca che non c'è altra prospettiva in Italia al di fuori del centrosinistra: dell'alleanza, cioè, tra le forze della sinistra e forze che di sinistra non sono, ma sono forze democratiche. Che ci sia stato questo cambiamento è cosa positiva e importante. E ora Bertinotti sostiene anche la necessità di dare vita a una aggregazione delle forze della sinistra. Noi l'abbiamo da sempre sostenuto con la proposta della "confederazione", ma chiamiamola come vogliamo, fa lo stesso. Perché non dovremmo riuscire a dare vita a una aggregazione delle forze della sinistra dentro il centrosinistra? Senza questa alleanza tra forze della sinistra e forze democratiche non vi è speranza non solo di battere Berlusconi ma anche di governare validamente in Italia».
L'autobiografia politica di Cossutta tocca tutte le fasi salienti della storia italiana del dopoguerra, in particolare quelle del Pci. Sono nominati tutti i personaggi chiave, soprattutto Togliatti e Berlinguer, «su di essi - spiega Scalfari - prevale quasi sempre un giudizio duplice, fatto di condivisione ma anche di riserve». Una dopo l'altra si accumulano le questioni. Innazitutto, il dissenso con Berlinguer sullo strappo da Mosca: «riconosco che il suo giudizio era storicamente sbagliato, ma avevo ragione nel dire che era l'inizio di una mutazione genetica», si difende Cossutta. Poi, il significato da attribuire alla scelta della «rifondazione»: ricostruire il vecchio Pci o riconoscere la sconfitta del comunismo reale? «Fin dall'inizio mi sono battuto per il nome "Rifondazione comunista", cioè per la rifondazione di un pensiero e di una cultura comunista. Oggi il capitalismo ha vinto, domina - anche perché non c'è più, nel bene e nel male, un contrappeso - ma non può risolvere le proprie contraddizione. Ecco perché il bisogno di una prospettiva comunista risponde a un'esigenza reale, oggettiva».

i candidati alla magistratura:
matti, fino a prova contraria...

Il Gazzettino 22.10.04
MAGISTRATI
Introdotto un test psico-attitudinale. Anm boccia la riforma

Roma. Con un subemendamento al maxiemendamento presentato ieri sulla riforma della giustizia è stato introdotto un test psico-attitudinale obbligatorio per chi vuole diventare magistrato. Gli aspiranti giudici dovranno sottoporsi al test durante gli orali. A volerlo è stata Forza Italia, come ha dichiarato il suo responsabile giustizia, Giuseppe Gargani. Per quanto riguarda l'iter della riforma Castelli afferma che «potrebbe essere approvata entro l'anno», ma a questo punto sembra quasi sicuro il ricorso alla fiducia. L'Associazione magistrati ha ieri bocciato sia la riforma che il test psico-attitudinale.

L'Arena 22.10.04
L'Arena

[...]
È allarmato il segretario dell’Anm, Carlo Fucci: «Siamo di fronte a una delega in bianco al governo, visto che non si dice chi preparerà questi test, né i parametri da seguire, né chi dovrà valutarne l’esito. Di fatto, si dà all’esecutivo la libertà assoluta di stabilire chi può fare il magistrato e chi no. Il che in un Paese con una tradizione giuridica come la nostra, mi sembra paradossale». «È difficile giudicare con un test l’equilibrio di una persona», osserva il segretario di Magistratura democratica, Claudio Castelli. «E il messaggio che passa è il discredito verso chi è entrato in magistratura fino ad oggi». Ma anche al di là della questione dei test (che ora si propongono «psico»-attitudinali, mentre nella prima formulazione poi cassata erano soltanto «attitudinali»), i magistrati restano comunque compatti contro il maxi-emendamento alla riforma dell’ordinamento giudiziario: l’Anm ne trae il segno della chiusura della maggioranza a miglioramenti effettivi della riforma; e i consiglieri del Csm parlano di ritocchi di facciata, che non cambiano l’impianto preoccupante della riforma. Lo scenario rende sempre più concreta la prospettiva dello sciopero, che quasi certamente sarà attuato quando la riforma sarà approvata dal Senato; ma già mercoledì, ha stabilito la giunta dell’Anm, in tutti gli uffici giudiziari si terranno assemblee sulla «controriforma», con sospensione delle udienze per un’ora, dalle 12 alle 13. Nel frattempo, l’Anm - che rappresenta il novanta per cento dei novemila magistrati italiani - continua a lavorare al dossier che invierà ai parlamentari.
[...]

donne e politica

una segnalazione di Gianluca Cangemi

il manifesto 21.10.04

DONNE E UOMINI
Se l'amore entra nel lessico politico
Pratica politica. Come fare un passo indietro per fare posto all'altro
CLARA JOURDAN*

Pensare una politica dell'amore. È un'esigenza emersa al recente convegno di Sydney sull'influenza del pensiero radicale italiano nell'ultimo decennio, racconta Ida Dominijanni (Sotto il cielo della politica, "il manifesto", 28 settembre). Un'esigenza legata alla «consapevolezza che la potenza espropriante dell'amore è l'unica in grado di opporsi alla potenza espropriante della violenza, e di volgere la fragilità e l'esposizione delle nostre 'vite precarie', come le definisce Judith Butler, alla relazione con l'altro e non al suo annientamento». Sì, è proprio necessario. Che la fragilità si volga in violenza lo vediamo in continuazione, dai fatti di cronaca di molestatori di bambini che si scopre essere stati bambini molestati, alle enormi tragedie dell'umanità come lo sterminio di un popolo perpetrato da sopravvissuti allo sterminio del proprio popolo. A riprova, nella pagina a fianco dello stesso giornale del 28/9, un articolo di Manuela Cartosio sull'enigma terribile dei genocidi, a partire dalle interviste che l'inviato di Libération Jean Hatzfeld ha fatto a dieci contadini hutu esecutori della carneficina della popolazione tutsi in Ruanda nel 1994. Ma come pensare una politica dell'amore? Ci sono state nella storia significative indicazioni in questo senso: «ama il prossimo tuo come te stesso», «ama e fa' quel che vuoi», «fate l'amore, non la guerra»... Più recentemente, nel femminismo della differenza si è parlato dell'amore, e in particolare dell'amore femminile della madre, come pratica politica. Amore, in effetti, può essere un altro nome della relazione in cui consiste la politica delle donne che ha così tanto cambiato la condizione femminile nel Novecento da essere considerata una vera e propria rivoluzione. Che cosa manca allora? Certamente manca una politica dell'amore tra gli uomini, a cui però da donna non mi sento di dare un contributo. Ma manca anche una politica dell'amore nei e dei rapporti tra i sessi. Adriana Sbrogiò e l'associazione «Identità e differenza» di Spinea promuovono ogni anno un seminario di scambio tra donne e uomini sulla politica, che però resta un caso raro. Io per prima, lo ammetto, pur ammirando le donne che riescono a stabilire relazioni politiche con uomini, mi sono tenuta fuori da questa pratica, perché la percepivo (magari sbagliando) come mossa da amore materno per gli uomini, che io non sento. Ora mi rendo conto che può esserci altro. Nell'ultimo numero della rivista Via Dogana (settembre 2004), Lia Cigarini, a proposito dell'introduzione dell'amore nel lessico della politica, scrive: «Credo che sia il modo di toccare (o rianimare, direbbe qualcuna) il desiderio maschile di uscire dalla corazza che lo imprigiona e dalle sue pulsioni distruttive nei confronti delle donne. Se la differenza sessuale è il cuore della libido e del desiderio, come penso, ci potrebbe essere un interesse maschile affinché sia viva».
Ritornando alla fragilità che diventa distruzione, bisogna dire che la fragilità di cui si parla è in realtà fragilità maschile. Non va dato per scontato, né va negato dicendo che ci sono donne autrici di violenze efferate: è vero, ma è innegabile che la fragilità delle donne si esprime più spesso nel ripetere la soggezione alla violenza. Credo che un passaggio che può aprire alla potenza espropriante dell'amore in politica, sia il dare senso alle fragilità maschili e alle fragilità femminili, che vuol dire sì prendere atto che c'è differenza, ma anche lasciarle parlare davvero, le differenze.
Un esempio. Mi è capitato anni fa di ascoltare un uomo dire la sua dipendenza, e la dipendenza degli uomini, dalle donne: «Da una donna nasciamo; una donna, per lo più, desideriamo costantemente; una donna deciderà del nostro essere padri» (Alberto Leiss, Via Dogana n. 21/22, 1995). Questa consapevolezza di un uomo ha permesso a me, donna, di sentire un di più maschile, dato dalla grandezza del bisogno. E questo ha modificato il mio sentimento di fastidio verso la fragilità maschile, una fragilità che di solito mi si manifestava solo come suscettibilità infantile. Mi ha dato fiducia: riconoscere di dipendere dall'altra è già un vivere la fragilità in termini di relazione e non di annientamento. E porta a una relazione non come uguali ma come differenti. Anche in politica, come si può vedere oggi in diversi interventi maschili pubblicati nei siti internet DeA (www.donnealtri.it) e Libreria delle donne di Milano (www.libreriadelledonne.it).
Quanto alla fragilità femminile, si può dire sia già orientata alla relazione con l'altro/altra a causa del corpo femminile stesso: un corpo che ha «la capacità di essere due», dice la storica María Milagros Rivera Garretas. Non solo nella maternità: una figura estrema del primato femminile della relazione è secondo Rivera Garretas proprio la donna maltrattata, che rischia la vita pur di non rompere il legame. È forse discutibile, ma a me ha fatto capire qualcosa di importante della mia fragilità, una fragilità molto comune tra le donne anche quando non si arriva a quella situazione estrema. Non si tratta di approvare tale comportamento femminile, ma di dargli un senso, inquietante ma non scontato come quello della «mancanza di autostima», con cui spesso si offende la dignità della vittima delle violenze domestiche.
Nel primato della relazione si può vedere dunque una fragilità femminile, intesa come esposizione alle conseguenze della relazione stessa. Anche Cigarini nomina la fragilità, ma a proposito della sua pratica politica. Sente la necessità di un'esposizione di sé «in momenti e luoghi lontani dall'epicentro della mia attività. Certo, con il rischio di esporre agli occhi di tutti la fragilità della mia pratica di relazione. Ma qui si tratta di rendere viva la differenza femminile, non di custodirla con arte».
Che cosa è che rende fragile la pratica di relazione? Il fatto che non si sostiene con i soldi, le leggi, l'organizzazione, i posti di potere? Sì, la fragilità dipende dal fatto che è appunto una politica che esiste solo nella relazione. In altre parole: se sono state le relazioni tra donne ciò che ha portato a quell'enorme cambiamento della condizione sociale femminile che abbiamo nominato come fine del patriarcato, è la mancanza di relazioni nuove tra uomini e donne ciò che impedisce un altro cambio di civiltà, come potrebbe essere la fine della guerra e dell'idea che la guerra sia necessaria. Non possiamo fare tutto noi donne.
Ma a volte si presentano occasioni sintomatiche di un cambiamento già in atto. La scorsa estate (25 luglio) la pagina milanese del manifesto ha ospitato una lettera di Anna Leoni, professoressa del liceo Agnesi di Milano, che spiegava perché lei e le sue colleghe e colleghi avessero accettato la proposta di fare una classe omogenea di ragazze e ragazzi provenienti da una scuola islamica: «Abbiamo votato sì perché abbiamo interpretato questa disponibilità della comunità di via Quaranta come un grosso passo avanti, probabilmente molto sofferto, che meritava un nostro passo indietro». Alla fine la classe non si è fatta, hanno vinto le reazioni contrarie - xenofobe da una parte, laiciste dall'altra - scatenate dai giornali. Fragilità della pratica di relazione. Ma resta quell'indicazione del passo indietro. È così che inizia la mediazione: un passo indietro rispetto alle proprie idee, tradizioni, esperienze, per fare posto all'altro. Può essere così che inizia una politica dell'amore?

*Libreria delle donne di Milano