L'Unità 10 Luglio 2005 (dalla prima pagina di oggi)
L’invasione dei clerico populisti
Il nuovo crociato? È il clerico populismo
di Paolo Flores d’Arcais
C’era una volta il clerico-fascismo. Per fortuna, adesso non c’è più. Contro la democrazia liberale, però, si annuncia ormai un nuovo crociato: il clerico-populismo videocratico e piduista, dell’aspersorio e dello squadrismo padano, che tra madonne di Medjugore e santi franchisti vuole salvare l’Occidente - ormai frollo e secolarizzato dal dubbio - imponendo per legge a tutti i cittadini i precetti e le verità di santa romana chiesa.
Tutto questo nell’indifferenza garrula dei «cittadini» retrocessi a consumatori (oltretutto sempre meno opulenti) dalla partitocrazia e dalla politica/spettacolo.
Tutto ciò nell’acquiescenza irresponsabile di gran parte del mondo «laico» (e delle sue «avanguardie» ormai dedite al bacio della pantofola), e nella lucidità emarginata di sparute minoranze democratico-coerenti (epperciò laiciste) bollate di neo-dogmatismo, nichilismo morale e dittatura del relativismo (tutto e il contrario di tutto, insomma, e tanti saluti all’abc della logica).
Il clerico-fascismo non c’è più, e nella storia nulla si ripete identico. Non ci si balocchi però con la favola che ogni tragedia si replica in farsa. Dietro (e dentro) la farsa di regime, che supera da tempo l’immaginazione comica più sfrenata, tracimano le tossine liberticide prodotte dalla santa alleanza tra peronismo mediatico e clerico-revanscismo.
Tracimano a tal punto, da sedurre anche chi si vuole liberale (il primo quotidiano del paese, ad esempio) e vede ormai ovunque timore e tremore di dirsi cristiani, anziché l’empia alleanza tra una fede dogmatica ridotta all’embrione e l’ateo-consumismo videocratico «tette e culi». Che alla «imitazione di Cristo» sostituisce l'ideale di vita «calciatore e velina».
La fede cattolica è compatibile con la democrazia? Dipende. Dipende dal tipo di fede che il cattolico vive, dal modo in cui «fonda» la sua fede, dai rapporti che pretende di stabilire tra la sua fede e la comune ragione umana. C’è la fede di Paolo, la «follia» della croce, che è «scandalo» per la ragione: è la fede delle prime generazioni di cristiani, perfettamente sintetizzata nella frase credo quia absurdum (introvabile in Tertulliano, cui è in genere attribuita, ma diffusa come sentire comune, addirittura ovvio, in quelle comunità). C’è la fede di Guglielmo di Ockham, francescano e logico, che col suo «rasoio» distrugge tutti le pretese di ogni teologia razionale. C’è la fede di Pascal, proposta allo scettico come vera e propria scommessa.
C’è, in tutti questi casi, la consapevolezza che la fede non è dimostrabile. Neppure per quanto riguarda un Dio creatore e l’anima immortale. E quanto al resto, un Dio che si fa uomo, morto sulla croce e risorto, che la fede è addirittura follia rispetto alla ragione. Absurdum.
La fede in quanto fede, insomma. Rivelazione, incontro, esperienza. La fede come dono. Che non può mai pretendere, dunque, pena il rinnegare se stessa, di essere argomentata in modo razionale, di convincere attraverso la ragione.
Una fede siffatta non entra in collisione con la democrazia perché non può pretendere di imporre i suoi contenuti (i suoi valori, le sue norme morali) a chi il dono della fede non lo ha ricevuto. Può dunque rispettare (anche se magari lo compiange) il non credente e i suoi stili di vita.
La fede cattolica diventa invece incompatibile con la democrazia non appena pretenda che un nucleo cospicuo di tale fede sia anche una verità di ragione, una norma naturale e obiettiva, iscritta nel cuore dell’uomo a somiglianza del patrimonio cromosomico, e che ogni uso «retto» della ragione possa scoprirla e debba dunque obbedirla.
Ogni qual volta avanzi tale pretesa, la fede cattolica diventa incompatibile con la democrazia. Incompatibile per natura e in potenza (per dirla tomisticamente). Che poi si scontri davvero con la democrazia, o si rassegni a un modus vivendi, dipenderà da circostanze storiche, rapporti di forza, addirittura personalità e psiche (inconscio compreso) dei singoli papi.
Se la morale della Chiesa è anche Verità di ragione, è norma naturale-razionale, essa deve diventare vincolante per ogni uomo. Chi non la riconoscesse e non la seguisse agirebbe infatti contro la ragione e contro l’umanità, sarebbe ir-razionale e dis-umano, e dunque andrebbe «persuaso» con la forza della legge. «Questa è la nostra libertà, assoggettarci alla verità», scriveva Agostino d’Ippona, che negli anni conclusivi del suo magistero pastorale inaugura una pratica fino allora impensabile tra i cristiani (e che egli stesso aveva in precedenza condannato): far intervenire il braccio secolare per dirimere a vantaggio della «Verità» le controversie di fede.
Assoggettare il potere politico alla «Verità» è stata da allora la dottrina della Chiesa. Qualsiasi potere politico. E quello democratico più che mai, perché il più refrattario a piegarsi. La Chiesa, insomma, e checché se ne dica, non ha mai riconosciuto la democrazia liberale in quanto tale.
Perché una democrazia sia «vera e sana» lo Stato deve essere «unità organica e organizzatrice di vero popolo» e il governo vedere «nella sua carica la missione di attuare l’ordine voluto da Dio (…) Se l’avvenire apparterrà alla democrazia, una parte essenziale del suo compimento dovrà toccare alla religione di Cristo e alla Chiesa».
Sono parole - davvero inequivocabili - pronunciate da Pio XII nel radiomessaggio Il sesto Natale di guerra. Inutile girarci intorno: la democrazia, per essere «vera e sana», deve «attuare l’ordine voluto da Dio». Insomma, si scrive democrazia, ma si pronuncia teocrazia. Nulla di più pretendeva il Sillabo di Pio IX, quando nella «proposizione LVII» gettava l’anatema contro ogni legge che non si conformasse «alla divina ed ecclesiastica autorità».
E Karol Wojtyla non sarà da meno di Eugenio Pacelli: di fronte al primo parlamento polacco liberamente eletto dopo oltre mezzo secolo di dittatura comunista, ribadirà la pretesa ad una Grundnorm teocratica e costantiniana: quel parlamento, se deliberasse in difformità dalla norma naturale (cioè dalla morale della Chiesa!) diventerebbe ipso facto illegittimo.
La democrazia è un’altra cosa. Agli antipodi. La democrazia è la prima forma di convivenza umana che non si fonda sull’eteronomia ma sull’autonomia. Che non tra la sua legittimità da un aldilà, ma da se stessa, cioè dagli uomini che si danno da sé (autos nomos) le leggi cui obbedire. Non più la sovranità di Dio e dei suoi vicari su questa terra (non a caso «unti del Signore»), ma la sovranità dei cittadini.
Per questo la democrazia è la forma politica più fragile, Perché priva di fondamento. Perché costretta a sostenersi da sé nel vuoto del disincanto, esattamente come il barone di Münchausen che si teneva in aria per il suo bavero (o il suo codino?). La democrazia è infatti sempre esposta al rischio che una maggioranza preferisca - alla fatica delle libertà e al dolore di essere individui - inedite sirene di servitù volontaria.
Il costituzionalismo è il meccanismo che deve neutralizzare l’onnipotenza della maggioranza. Ci sono cose che nessuna maggioranza può imporre a nessuna minoranza, fosse anche quella di un singolo dissidente. Ma cosa appartiene all’individuo in modo inalienabile e imprescrittibile? Le condizioni di possibilità dell’esercizio della sua quota di sovranità. Dunque, la «proprietà» sulla propria vita (ma non la proprietà in generale), le libertà (e le condizioni materiali) senza le quali la sua scelta non sarebbe autonoma. Il suo stile di vita, insomma, fino a che non prevarichi sulle libertà - speculari e simmetriche - di ogni altro. Papa Ratzinger, esplicitando una volta di più l’ostilità tradizionale della Chiesa verso la democrazia, pretende invece che la convivenza civile avvenga veluti si Deus daretur. Ma quale Dio? Karol Wojtyla ha scritto ad Ali Agca: «Perché mi hai sparato, se ambedue crediamo in un unico Dio?». Perché ciascuno crede nel suo «unico Dio», e se vuole imporne la morale agli altri torniamo alle guerre civili di religione (per non parlare dei cittadini che non credono a nessun Dio).
I vescovi chiedano pure ai fedeli di non usare il preservativo e la pillola, di non divorziare, di non abortire per nessuna ragione, di non porre fine con l’eutanasia a una vita ridotta a tortura. Ogni volta che pretendono di imporre queste norme per legge, a chi credente non è, aggrediscono e calpestano la democrazia. Trasformare il peccato in reato è peccato (e reato) contro la democrazia. Come se il testimone di Geova imponesse una legge che vieta le trasfusioni, e il fedele islamico il Corano come costituzione.
Pretese egualmente teocratiche. Contro le quali, non solo «laicismo è bello» ma è più che mai indispensabile. Altrimenti, la democrazia è già in coma.
La fede in quanto fede non entra in collisione con la democrazia. La fede cattolica, invece, diventa incompatibile quando si pone come verità di ragione, norma naturale e obiettiva. Solo il laicismo può contrastare queste pretese teocratiche
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 10 luglio 2005
la scuola di Marco Bellocchio
La Stampa 10 Luglio 2005
«Una troupe di cineasti, diplomati alla scuola di Marco Bellocchio...»
DOPO oltre mezzo secolo dietro il proiettore a diffondere il cinema, prima come ambulante nei cortili del Fossanese, poi nelle sale, Francesco Levrone, 84 anni, detto «Cecu Cine», passa dall’altra parte, diventando protagonista di un film. Una troupe di cineasti, diplomati alla scuola di Marco Bellocchio, conosciuto il personaggio attraverso gli articoli su «La Stampa», ha deciso di girare un cortometraggio sulla sua figura, da presentare in concorso a festival come il «Cinema giovani» di Torino e «Visioni doc» di Bologna.
La troupe, composta da Chiara Rolandi, Frediana Fornari e Paolo Romanucci, è ripartita ieri sera da Fossano, dopo quattro giorni di riprese dedicate all’anziano operatore. «Cecu cine» vive nel pensionato «Craveri» e la sua stanza è piena di pellicole, accanto al proiettore donatogli da Franco Rosso di Collegno.
Per «Cecu» sono state giornate elettrizzanti e diceva a tutti: «Adesso ci sarò io nel film». Ha interpretato il suo personaggio, un operatore innamorato del proiettore, del quale conosce ogni segreto. L’hanno filmato in camera, nella frazione Murazzo, paese natale, nel capannone della ditta «Fruttero» dove custodisce la motoretta «Ape» e il vecchio proiettore che spesso spolvera, nella cabina della multisala «Cinelandia», dove Jonathan lo ospita tra le moderne diavolerie elettroniche. Ora inizierà il montaggio e il corto sarà pronto in autunno per essere valutato dalle giurie. Ma Cecu ci terrebbe a farlo vedere ai concittadini fossanesi, a cominciare dai compagni del pensionato e gli autori gli hanno assicurato che avrà l’onore dell’anteprima.
«Una troupe di cineasti, diplomati alla scuola di Marco Bellocchio...»
DOPO oltre mezzo secolo dietro il proiettore a diffondere il cinema, prima come ambulante nei cortili del Fossanese, poi nelle sale, Francesco Levrone, 84 anni, detto «Cecu Cine», passa dall’altra parte, diventando protagonista di un film. Una troupe di cineasti, diplomati alla scuola di Marco Bellocchio, conosciuto il personaggio attraverso gli articoli su «La Stampa», ha deciso di girare un cortometraggio sulla sua figura, da presentare in concorso a festival come il «Cinema giovani» di Torino e «Visioni doc» di Bologna.
La troupe, composta da Chiara Rolandi, Frediana Fornari e Paolo Romanucci, è ripartita ieri sera da Fossano, dopo quattro giorni di riprese dedicate all’anziano operatore. «Cecu cine» vive nel pensionato «Craveri» e la sua stanza è piena di pellicole, accanto al proiettore donatogli da Franco Rosso di Collegno.
Per «Cecu» sono state giornate elettrizzanti e diceva a tutti: «Adesso ci sarò io nel film». Ha interpretato il suo personaggio, un operatore innamorato del proiettore, del quale conosce ogni segreto. L’hanno filmato in camera, nella frazione Murazzo, paese natale, nel capannone della ditta «Fruttero» dove custodisce la motoretta «Ape» e il vecchio proiettore che spesso spolvera, nella cabina della multisala «Cinelandia», dove Jonathan lo ospita tra le moderne diavolerie elettroniche. Ora inizierà il montaggio e il corto sarà pronto in autunno per essere valutato dalle giurie. Ma Cecu ci terrebbe a farlo vedere ai concittadini fossanesi, a cominciare dai compagni del pensionato e gli autori gli hanno assicurato che avrà l’onore dell’anteprima.
vaniloqui cattolici
le acrobazie del cardinale Schönborn su evoluzionismo e creazionismo
il papista Luigi Accattoli oggi sul Corriere della Sera (in prima pagina...) riprende i temi del cardinale arcivescovo di Vienna già apparsi il 7 sul NY Times.Il cardinale Schönborn
Gianluca Cangemi ha procurato l'articolo originale apparso sul potentissimo giornale liberal americano che pubblichiamo subito di seguito.
«un esercizio acrobatico, dal NY Times, del cardinale Schönborn su evoluzionismo e creazionismo, nel quale, fingendo (malamente) di salvare capra e cavoli, rimarca con arroganza il dogma della creazione e della intelligenza divina ordinatrice di tutto, e dice infine che chi giunge a conclusioni contrarie a questa "abdica all'intelligenza umana"...
La questione è ripresa anche in prima pagina da Liberazione di oggi dal vaticanista del giornale Fulvio Fania». Più sotto si può leggere anche quest'ultimo.
La Bibbia contro Darwin
di LUIGI ACCATTOLI
C’è una «teoria dell’evoluzione» che «può essere vera», ma c’è anche un «dogma neo-darwiniano» che «non lo è» e che la Chiesa cattolica considera «incompatibile» con la Bibbia e con la ragione: lo afferma il cardinale Christoph Schönborn, che in aprile era dato tra i papabili, con un articolo pubblicato il 7 luglio dal New York Times. Quell’uscita del cardinale - arcivescovo di Vienna e teologo di vaglia - sta provocando polemiche in America, tra chi l’applaude come una provvidenziale «chiarificazione» e chi l’accusa di mettere in «crisi di coscienza» gli scienziati cattolici. Il fuoco della disputa è sul «disegno» che si può «rintracciare» o meno nella «natura» e che costituisce una «guida» per la sua «evoluzione»: se c’è un disegno vuol dire che c’è Dio, ma se ci sono solo «variazioni casuali», allora si può fare a meno del Creatore. Il cardinale afferma che è «contrario alla ragione» affermare che l’evoluzione della vita sia «senza guida», nega che Papa Wojtyla avesse sdoganato il neo-darwinismo - come si sostiene in America - e racconta di aver esposto la sua posizione al cardinale Ratzinger, poco prima del Conclave, ricevendone un «incoraggiamento» a farla valere. La disputa su creazionismo ed evoluzionismo è sempre accesissima negli Stati Uniti.
Vi sono scienziati - anche di formazione cattolica - che affermano la «piena compatibilità» della dottrina dell’evoluzione con il cristianesimo e altri, cattolici ma soprattutto «evangelici conservatori», che la negano tenacemente.
La «compatibilità» era stata presentata con forza il maggio scorso, sul «New York Times», dal fisico Lawrence M. Krauss, della Case Western Reserve University. Gli oppositori di essa - quelli in particolare che collaborano con il Discovery Institute di Seattle - hanno creduto bene di provocare, in risposta, un intervento del cardinale di Vienna, a «chiarificazione» della posizione cattolica.
Ecco la tesi centrale dell’articolo di Schönborn: «L’evoluzione nel senso di una comune discendenza può essere vera, ma l’evoluzione nel senso neo-darwiniano - intesa cioè come un processo di variazione casuale e selezione materiale - non lo è». E ancora: «Un sistema di pensiero che neghi o tenti di confutare la palmare evidenza di un disegno biologico è ideologia, non è scienza».
Secondo il cardinale le teorie evoluzionistiche radicali - quelle cioè che non riconoscono l’esistenza di un «disegno» - «negano alla divina provvidenza ogni vero ruolo causale in riferimento allo sviluppo della vita nell’universo».
Ma Giovanni Paolo II non aveva «riabilitato» Darwin, come avevano titolato i giornali italiani in occasione di un suo discorso alla «Pontificia accademia delle Scienze», nell’ottobre del 1996? E dunque la Chiesa cattolica non ha già «accettato» l’intera dottrina dell’evoluzione, comprese le sue filiazioni radicali? «Non è vero» sentenzia il cardinale.
In quell’occasione il papa polacco aveva reinterpretato la condanna del «sistema evoluzionistico» che era stata formulata da Pio XII nel 1950, affermando che «oggi, dopo quasi mezzo secolo, le nuove conoscenze conducono a riconoscere nella teoria dell’evoluzione più che un’ipotesi», essendosi essa «progressivamente imposta» agli scienziati delle più varie discipline «a seguito di una serie di scoperte».
Tutto vero, scrive Schönborn, finché si tratta di «lasciare alla scienza la determinazione in dettaglio della storia della vita sulla Terra». In tale impresa la teoria dell’evoluzione può essere considerata «più che un’ipotesi», purché non si arrivi - radicalizzandola - a «negare il disegno».
Così delimitato, l’evoluzionismo può essere insegnato nelle scuole cattoliche - conclude il cardinale - facendo attenzione a presentarlo come «una delle tante teorie» che spiegano la storia della vita sulla Terra.
Anche questo punto, dell’insegnamento dell’evoluzionismo nelle scuole, vede un dibattito aspro in America e qualcosa di esso è riecheggiato da noi, quando sembrò che il ministro Moratti volesse escludere Darwin dai programmi scolastici.
Il «New York Times» di ieri tra i personaggi interpellati sul pronunciamento di Schönborn cita Francisco Ayala, un biologo della Irvine University (California), ex domenicano, che definisce l’intervento del cardinale «un insulto» a papa Wojtyla. Ma Schönborn non si scompone, precisa che quel discorso wojtyliano all’Accademia delle Scienze è «vago e poco importante», mentre il «vero insegnamento» di Giovanni Paolo II in materia va cercato in una serie di altri testi - che riporta puntualmente - e nel «Catechismo della Chiesa cattolica» (1992), dove si afferma che «il mondo non è il prodotto di una qualche necessità, né di un cieco destino, né del caso», ma è stato «creato dalla sapienza di Dio». Infine Schönborn cita Benedetto XVI, che nell’omelia dell’inizio del pontificato ha detto: «Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione».
New York Times July 7, 2005
Christoph Schönborn, the Roman Catholic cardinal archbishop of Vienna, was the lead editor of the official 1992 Catechism of the Catholic Church.
Finding Design in Nature
By CHRISTOPH SCHÖNBORN
Vienna. EVER since 1996, when Pope John Paul II said that evolution (a term he did not define) was "more than just a hypothesis," defenders of neo-Darwinian dogma have often invoked the supposed acceptance - or at least acquiescence - of the Roman Catholic Church when they defend their theory as somehow compatible with Christian faith.
But this is not true. The Catholic Church, while leaving to science many details about the history of life on earth, proclaims that by the light of reason the human intellect can readily and clearly discern purpose and design in the natural world, including the world of living things.
Evolution in the sense of common ancestry might be true, but evolution in the neo-Darwinian sense - an unguided, unplanned process of random variation and natural selection - is not. Any system of thought that denies or seeks to explain away the overwhelming evidence for design in biology is ideology, not science.
Consider the real teaching of our beloved John Paul. While his rather vague and unimportant 1996 letter about evolution is always and everywhere cited, we see no one discussing these comments from a 1985 general audience that represents his robust teaching on nature:
"All the observations concerning the development of life lead to a similar conclusion. The evolution of living beings, of which science seeks to determine the stages and to discern the mechanism, presents an internal finality which arouses admiration. This finality which directs beings in a direction for which they are not responsible or in charge, obliges one to suppose a Mind which is its inventor, its creator."
He went on: "To all these indications of the existence of God the Creator, some oppose the power of chance or of the proper mechanisms of matter. To speak of chance for a universe which presents such a complex organization in its elements and such marvelous finality in its life would be equivalent to giving up the search for an explanation of the world as it appears to us. In fact, this would be equivalent to admitting effects without a cause. It would be to abdicate human intelligence, which would thus refuse to think and to seek a solution for its problems."
Note that in this quotation the word "finality" is a philosophical term synonymous with final cause, purpose or design. In comments at another general audience a year later, John Paul concludes, "It is clear that the truth of faith about creation is radically opposed to the theories of materialistic philosophy. These view the cosmos as the result of an evolution of matter reducible to pure chance and necessity."
Naturally, the authoritative Catechism of the Catholic Church agrees: "Human intelligence is surely already capable of finding a response to the question of origins. The existence of God the Creator can be known with certainty through his works, by the light of human reason." It adds: "We believe that God created the world according to his wisdom. It is not the product of any necessity whatever, nor of blind fate or chance."
In an unfortunate new twist on this old controversy, neo-Darwinists recently have sought to portray our new pope, Benedict XVI, as a satisfied evolutionist. They have quoted a sentence about common ancestry from a 2004 document of the International Theological Commission, pointed out that Benedict was at the time head of the commission, and concluded that the Catholic Church has no problem with the notion of "evolution" as used by mainstream biologists - that is, synonymous with neo-Darwinism.
The commission's document, however, reaffirms the perennial teaching of the Catholic Church about the reality of design in nature. Commenting on the widespread abuse of John Paul's 1996 letter on evolution, the commission cautions that "the letter cannot be read as a blanket approbation of all theories of evolution, including those of a neo-Darwinian provenance which explicitly deny to divine providence any truly causal role in the development of life in the universe."
Furthermore, according to the commission, "An unguided evolutionary process - one that falls outside the bounds of divine providence - simply cannot exist."
Indeed, in the homily at his installation just a few weeks ago, Benedict proclaimed: "We are not some casual and meaningless product of evolution. Each of us is the result of a thought of God. Each of us is willed, each of us is loved, each of us is necessary."
Throughout history the church has defended the truths of faith given by Jesus Christ. But in the modern era, the Catholic Church is in the odd position of standing in firm defense of reason as well. In the 19th century, the First Vatican Council taught a world newly enthralled by the "death of God" that by the use of reason alone mankind could come to know the reality of the Uncaused Cause, the First Mover, the God of the philosophers.
Now at the beginning of the 21st century, faced with scientific claims like neo-Darwinism and the multiverse hypothesis in cosmology invented to avoid the overwhelming evidence for purpose and design found in modern science, the Catholic Church will again defend human reason by proclaiming that the immanent design evident in nature is real. Scientific theories that try to explain away the appearance of design as the result of "chance and necessity" are not scientific at all, but, as John Paul put it, an abdication of human intelligence.
Liberazione 10.7.05
Darwin, il cardinale ridimensiona le aperture di Wojtyla
Sul "New York Times", nell'America dove i "creazionisti" vogliono espellere l'evoluzionismo dalle scuole, l'arcivescovo di Vienna Shonborn scrive «nessuna acquiscienza alle teorie neo-darwiniane»
Fulvio Fania
Shönborn, secondo il New York Times, ha raccontato che lo stesso Ratzinger, due o tre settimane prima del Conclave, lo incoraggiò ad affrontare l'argomento. Al centro della sua "revisione" del pensiero wojtyliano è un celebre messaggio che Wojtyla rivolse agli studiosi dell'Accademia pontificia per le scienze il 22 ottobre 1996. Il Papa, dopo aver ricordato che Pio XII nella Humani generis si era limitato alla considerazione dell'evoluzionismo come semplice ipotesi per nulla certa, osservò che invece «le nuove conoscenze conducono a non considerarla più una mera ipotesi». Il ragionamento, forse più da filosofo che da teologo, lo induceva a parlare di «teorie evoluzioniste» al plurale e a distinguere tra di esse quelle che per impianto filosofico «considerano lo spirito come emergente dalla materia»: solo quelle per lui erano davvero incompatibili con la fede.
E' un punto che ovviamente sta molto a cuore al cardinale di Vienna il quale, per ridimensionare le aperture woityliane a Darwin, bolla quella lettera del '96 come «abbastanza vaga e poco importante» a confronto di altri discorsi pronunciati a partire dal 1985. Proprio in quell'anno, infatti, Giovanni Paolo II intervenne ad un simposio internazionale su "Fede cristiana e teoria dell'evoluzione" presieduto proprio da Ratzinger e polemizzò contro il «materialismo» dell'evoluzionismo biologico, avvertendo la necessità di «un giusto di limite» nella convivenza tra fede e modello evoluzionista; un confine tracciato soprattutto per mettere al riparo dalle letture evoluzionistiche la dimensione spirituale dell'uomo.
Shönborn cita però altri passi del magistero di Wojtyla in cui si rimarca la «finalità interna», una «causa finale» nella realtà che dimostrrerebbe l'esistenza di una Mente superiore e non lascerebbe spazio a chi sostiene che l'universo è frutto di un «cieco fato». Avverte anzi che Wojtyla considerava «un'abdicazione all'intelligenza umana» le teorie che vedono all'origine soltanto «caso e necessità».
Quanti sperano in una retromarcia della Chiesa cattolica anche su questo fronte mettono in rilievo una frase del nuovo Papa. Durante la solenne messa di inizio pontificato Benedetto ha detto infatti: «Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell'evoluzione». Non si illudano - aggiunge Shönborn - coloro che ritengono il nuovo Papa un «soddisfatto evoluzionista». Le posizioni che l'allora cardinale bavarese sostenne nella Commissione teologica internazionale starebbero a dimostrare che la realtà è ben diversa.
L'editoriale del porporato austriaco sul New York Times appare in netta controtendenza rispetto ad un recente articolo dell'autorevole Civiltà cattolica, rivista dei gesuiti che passa al vaglio della Segreteria di Stato vaticana. Su quelle pagine, non più tardi dell'aprile scorso, padre Giuseppe De Rosa ha polemizzato proprio contro le posizioni «creazioniste», raccomandando ai cattolici di prestare attenzione all'evoluzione, sebbene anch'essa non sia priva di punti oscuri. Un conto è «l'ominizzazione» frutto dell'evoluzione, altro - secondo De Rosa - il raggiungimento della «soglia umana», quella dell'uomo pensante, in cui si esprime l'infusione divina. «L'azione di Dio - scrive il gesuita - non sopprime la contingenza, il fortuito, il caso ma nella sua provvidenza li dirige al fine». Una linea conciliante, che in termini pratici difende l'insegnamento di Darwin nella scuola, ma che nella Chiesa è stata messa a dura prova in parecchie occasioni. In un volumetto contro le New Age, pubblicato nel 2003 dal dicastero vaticano per la cultura, si sostiene che la «accettazione generale della teoria evoluzionistica di Darwin» ha fornito «la spina dorsale a molti aspetti» di queste nuove e temute teorie. Sebbene riesca difficile immaginare Darwin alle prese con fantasiose meditazioni spirituali.
donne in Kenia
Corriere della Sera 10.7.05
In origine rifugio per ragazze in difficoltà, Umoja è ora un avamposto del femminismo africano
Kenia, il villaggio dei diritti delle donne
La matriarca: «Il rispetto dobbiamo pretenderlo, non possiamo restare zitte»
R. E.
C’è un villaggio in Africa in cui sono le donne a dettar legge. E gli uomini stanno a guardare, invidiosi e impotenti, dalle capanne vicine. Si chiama Umoja, che in swahili significa «unità», ed è stato fondato dieci anni fa da una comunità di donne stuprate e quindi ripudiate dai mariti. Un piccolo agglomerato di case di fango su un fazzoletto di erbacce al Nord del Kenia. Progressivamente trasformato in un esperimento di successo, economicamente florido, centro d’accoglienza per altre decine di ragazze in difficoltà e ora avamposto del femminismo africano.
«La donna non conta nulla nella nostra comunità - racconta al Washington Post la matriarca del villaggio, Rebecca Lolosoli -. Non possiamo rispondere agli uomini, né parlare davanti a loro, non importa se abbiamo torto o ragione. Tutto questo deve cambiare».
Rebecca riceve continue minacce di morte, ma va avanti, convinta della propria battaglia. L’ha iniziata casa per casa, bambina per bambina. Ha bussato alle porte dei villaggi vicini, ha fatto campagna nella cittadina di Archer’s Post. Fino ad arrivare, poco tempo fa, alla Conferenza mondiale sulle donne di New York. «I diritti dobbiamo pretenderli - dice - il rispetto arriverà di conseguenza. Se restiamo zitte, nessuno penserà che abbiamo qualcosa da dire». Bisogna superare le leggi tribali e le paure, è la sua lezione, dimenticando anche i legami di famiglia.
L’ultima protetta del villaggio è una adolescente di 13 anni, promessa sposa di un uomo che ha tre volte la sua età, e che è il fratello di Rebecca. Per la matriarca non conta: «Tu sei una ragazzina - dice alla nuova arrivata - e lui è un vecchio. Le donne non devono più accettare queste contraddizioni».
Gli uomini, naturalmente, non sono contenti. In aperta sfida con Umoja hanno fondato un villaggio tutto maschile. «L’uomo è la testa - spiega il capo, Sebastian Lesinik, ancora al Washington Post -, la donna è il collo. Come può un uomo prendere consigli dal collo?». Le attiviste del villaggio accanto sono «il segno dei tempi moderni - è la sua conclusione -: donne che causano problemi, come Rebecca». Una critica dura, che nasconde, però, anche una certa frustrazione.
Umoja vive del centro culturale, del campeggio e della vendita di artigianato destinato ai turisti della vicina riserva naturale di Samburu. Gli uomini del villaggio rivale hanno tentato di offrire gli stessi servizi, con analogo centro turistico. Un fallimento: molti son dovuti andare a cercar lavoro altrove.
La comunità di Rebecca, invece, va a gonfie vele. E le donne di Umoja hanno progressivamente conquistato un’autonomia economica che permette loro di mandare i figli a scuola, di rifiutare le offerte di dote per le spose bambine e di respingere tutte le altre richieste umilianti che la comunità in cui vivevano prima imponeva: dalle mutilazioni genitali, all’accettazione di altre mogli, fino allo stupro come pratica frequente e quasi sempre impunita.
In origine rifugio per ragazze in difficoltà, Umoja è ora un avamposto del femminismo africano
Kenia, il villaggio dei diritti delle donne
La matriarca: «Il rispetto dobbiamo pretenderlo, non possiamo restare zitte»
R. E.
C’è un villaggio in Africa in cui sono le donne a dettar legge. E gli uomini stanno a guardare, invidiosi e impotenti, dalle capanne vicine. Si chiama Umoja, che in swahili significa «unità», ed è stato fondato dieci anni fa da una comunità di donne stuprate e quindi ripudiate dai mariti. Un piccolo agglomerato di case di fango su un fazzoletto di erbacce al Nord del Kenia. Progressivamente trasformato in un esperimento di successo, economicamente florido, centro d’accoglienza per altre decine di ragazze in difficoltà e ora avamposto del femminismo africano.
«La donna non conta nulla nella nostra comunità - racconta al Washington Post la matriarca del villaggio, Rebecca Lolosoli -. Non possiamo rispondere agli uomini, né parlare davanti a loro, non importa se abbiamo torto o ragione. Tutto questo deve cambiare».
Rebecca riceve continue minacce di morte, ma va avanti, convinta della propria battaglia. L’ha iniziata casa per casa, bambina per bambina. Ha bussato alle porte dei villaggi vicini, ha fatto campagna nella cittadina di Archer’s Post. Fino ad arrivare, poco tempo fa, alla Conferenza mondiale sulle donne di New York. «I diritti dobbiamo pretenderli - dice - il rispetto arriverà di conseguenza. Se restiamo zitte, nessuno penserà che abbiamo qualcosa da dire». Bisogna superare le leggi tribali e le paure, è la sua lezione, dimenticando anche i legami di famiglia.
L’ultima protetta del villaggio è una adolescente di 13 anni, promessa sposa di un uomo che ha tre volte la sua età, e che è il fratello di Rebecca. Per la matriarca non conta: «Tu sei una ragazzina - dice alla nuova arrivata - e lui è un vecchio. Le donne non devono più accettare queste contraddizioni».
Gli uomini, naturalmente, non sono contenti. In aperta sfida con Umoja hanno fondato un villaggio tutto maschile. «L’uomo è la testa - spiega il capo, Sebastian Lesinik, ancora al Washington Post -, la donna è il collo. Come può un uomo prendere consigli dal collo?». Le attiviste del villaggio accanto sono «il segno dei tempi moderni - è la sua conclusione -: donne che causano problemi, come Rebecca». Una critica dura, che nasconde, però, anche una certa frustrazione.
Umoja vive del centro culturale, del campeggio e della vendita di artigianato destinato ai turisti della vicina riserva naturale di Samburu. Gli uomini del villaggio rivale hanno tentato di offrire gli stessi servizi, con analogo centro turistico. Un fallimento: molti son dovuti andare a cercar lavoro altrove.
La comunità di Rebecca, invece, va a gonfie vele. E le donne di Umoja hanno progressivamente conquistato un’autonomia economica che permette loro di mandare i figli a scuola, di rifiutare le offerte di dote per le spose bambine e di respingere tutte le altre richieste umilianti che la comunità in cui vivevano prima imponeva: dalle mutilazioni genitali, all’accettazione di altre mogli, fino allo stupro come pratica frequente e quasi sempre impunita.
sinistra
un'intervista de Il Sole 24 Ore a Fausto Bertinotti
in prima pagina, con rinvio a pagina 21:
Parla Fausto Bertinotti
«Scalate, cannibalismo che divora se stesso»
Fassino sbaglia: se il capitale finanziario soverchia quello industriale è un rischio
Parla Fausto Bertinotti
«Scalate, cannibalismo che divora se stesso»
Fassino sbaglia: se il capitale finanziario soverchia quello industriale è un rischio
(cercheremo di riprenderne il testo su "segnalazioni",
ma l'accesso all'edizione on line del quotidiano di Confindustria
è di norma riservato agli abbonati)
ma l'accesso all'edizione on line del quotidiano di Confindustria
è di norma riservato agli abbonati)
sinistra
un'intervista de La Stampa a Fausto Bertinotti
La Stampa 10 Luglio 2005
IL LEADER DI RIFONDAZIONE AMMONISCE IL CENTROSINISTRA IN VISTA DEL DIBATTITO PARLAMENTARE SUL RIFINANZIAMENTO DELLA MISSIONE
intervista
«Se l’Unione si dividerà sul voto forse andrò meglio alle primarie»
Federico Geremicca
ROMA. LO dice con la pacatezza dei momenti difficili, con l’argomentare che solitamente precede una rottura: la parte riformista dell’Unione ci pensi bene prima di portare al voto un documento che ammorbidisca il “no” al rifinanziamento della missione in Iraq. Ci pensi bene perché, intanto, determinerebbe una spaccatura dell’Unione in Parlamento, e poi perché «noi di Rifondazione potremmo trarne addirittura un vantaggio tattico, e Fausto Bertinotti potrebbe perfino ricavarne un buon viatico per le prossime primarie». A parlare, naturalmente, è Fausto Bertinotti stesso: e il tono non pare ancora quello della minaccia... Ma all’obiezione che forse è venuto il momento di farsi carico anche di una proposta, oltre che di un semplice no, dice: «Io ragiono proprio come se al governo ci fosse l’Unione: la proposta è il ritiro delle truppe. E non capisco perché una proposta in Spagna è tale ed in Italia invece diventa una cosa bislacca».
Segretario, davvero vede rischi di spaccatura per l’Unione?
«La mia preoccupazione è che possano intervenire iniziative di singole parti dell’Unione che, invece di puntare a mantenere l’unità costruita tra di noi sul no alla missione in Iraq e ribadire una posizione di netta alternativa tra la pace e la guerra, pensino ad escamotage inutili e dannosi. E allora, poiché sento queste tentazioni, vorrei testimoniare la necessità di una posizione che non pregiudichi una unità che è costata fatica ed è uno dei tratti distintivi dell’Unione».
Lo dice sapendo già, in realtà, che Fassino e Rutelli stanno pensando a un documento che avanzi anche delle proposte e spieghi i motivi del loro no...
«E io non lo capisco. Cosa va in discussione alla Camera? Va in discussione il rifinanziamento della missione. Questo, non altro. Stavolta è molto semplice: il sì è sì, il no è no. E qualora l’opposizione vedesse vincere la sua tesi, noi saremmo automaticamente di fronte alla decisione del ritiro dei nostri soldati dall’Iraq. Che è quello, mi pare, che chiediamo, no?».
Lei è quindi contrario a qualunque tipo di documento?
«Abbiamo già fatto così la volta precedente e non vedo novità che giustifichino cambiamenti. Vede, a volte c’è una sofisticazione della politica che spiega, poi, la sua distanza dalla gente comune. Nel linguaggio semplice e popolare, se tu sei contro la presenza degli italiani in Iraq sei per il ritiro. La forza del patto contratto tra Zapatero e i cittadini spagnoli sta proprio in questa connessione perfino sentimentale. Voi avete votato così, ha detto in fondo Zapatero, e io vi prendo in parola e ritiro le truppe».
Però, quando lei dice che non vede cambiamenti che giustifichino...
«Questo l’ha detto Prodi subito, non io. E’ la formula usata da lui. La mia era una citazione di Prodi»
E infatti il vostro feeling è spesso criticato... In ogni caso, nell’Unione c’è chi sostiene che è il momento di formulare delle proposte, come dire, quasi da coalizione di governo. Lei non è d’accordo?
«Ma mi scusi: quella fatta in Spagna è una proposta o no? E perché in Spagna è una proposta e qui da noi sembra una cosa bislacca? Cosa c’è di più propositivo che chiedere il ritiro delle truppe? Guardi che io penso di comportarmi proprio come se fossi al governo: infatti credo che la prima cosa che dovrebbe fare un governo dell’Unione è contribuire alla rottura della spirale guerra-terrorismo. Ci sono altre cose che andrebbero fatte? Sì, certamente: per esempio, lavorare a una strategia di medio periodo per favorire il processo democratico in Iraq. Ma non si capisce perché questo discorso - che possiamo fare oggi, domani o fra un mese - dobbiamo farlo adesso e scriverlo in una mozione, quando la questione che ci viene posta è molto più semplice: ed è sì o no ai nostri soldati lì».
Forse perché - ed è la scoperta dell’acqua calda - tra voi ci sono sensibilità diverse su tutto questo, no?
«E allora rimaniamo al denominatore comune, che è un no nel voto: e poi, chi vuole, alla Camera si alza e spiega il suo no. Ma senza introdurre diversità nel voto. Come sarebbe di fronte a ordini del giorno che, francamente, mi sembrerebbero soltanto un’espressione di cattiva coscienza».
E se quegli ordini del giorno venissero comunque presentati?
«Noi ne porteremo al voto uno nostro, ovviamente. Ma si assumono la responsabilità di una rottura dell’Unione. Noi siamo tranquillissimi, perché la nostra sintonia col movimento della pace è così organica che, se guardassi a interessi di bottega, dovrei addirittura augurarmi che li presentino, quegli ordini del giorno».
Infatti si dice che lei li auspichi, è così?
«No, perché sono molto contrario a far pesare interessi di parte, rispetto a quelli dell’Unione, in passaggi politicamente significativi. Dividersi sarebbe irresponsabile. A meno che il tutto non serva a mostrare una qualche propensione neoblairiana, che considererei scelta politicamente infelice. Scelta, insisto, dalla quale Rifondazione potrebbe trarre un vantaggio tattico: perché presenteremmo un ordine del giorno limpidamente pacifista e Fausto Bertinotti potrebbe perfino ricavarne un buon viatico per le prossime primarie. Ma, per quel che posso, concorrerò a che questa rendita di posizione non mi sia attribuita...».
Prodi sembra pensarla come lei: non ne è rassicurato?
«Effettivamente mi pare che sul terreno della pace Prodi sia interprete dell’unica risultante unitaria possibile. Del resto, si sta annunciando la Perugia-Assisi... Mi chiedo: non sarebbe bene andarci avendo raccolto la domanda di dialogo che viene dalla Tavola della pace e dai movimenti della Perugia-Assisi?».
Non è che un ordine del giorno comprometta chissà che...
«Se rende incerta la lettura sul ritiro, non favorisce il dialogo. Guardi, il no al rifinanziamento tecnicamente equivale al ritiro immediato. E quindi mi auguro che quando si voterà non ci sia un voto tecnicamente irresponsabile».
Lei si dice a disagio, ma dovrebbero esserlo assai di più i fautori di un voto diverso dal «no», non le pare?
«E’ così. Per questo sono così compostamente unitario: perché in questo caso la mia istanza equivale all’istanza unitaria. Se poi qualcuno è a disagio oppure c’è stato... capita. A volte è capitato anche a me...».
L'Unità 10 Luglio 2005
Em. Is.
Quale atteggiamento avere rispetto al decreto legge sul rifinanziamento della missione in Iraq? E sulla richiesta di ritiro immediato del contingente italiano? In vista del dibattito parlamentare della prossima settimana, l'Unione è pronta a confermare il suo no al rifinanziamento della missione a Nassirya. All’interno del centrosinistra, invece, si ripropongono, seppure attenuate rispetto ai mesi scorsi, le distinzioni tra chi chiede l’immediato disimpegno e chi si mostra favorevole all’ipotesi di uno sganciamento graduale e in tempi più lunghi dell’Italia dal teatro iracheno, pur sottolineando la necessità di date certe per il rientro. E, su queste basi, c’è chi non chiude le porte ad un confronto con il governo.
«Se ci presentassero un calendario per il ritiro, noi potremmo astenerci sul decreto per il rifinanziamento». È l’idea espressa dal vicepresidente del Senato, Lamberto Dini, che però non crede che il governo si presenterà in aula con un programma del genere. Sulla stessa linea, Umberto Ranieri, vicepresidente della commissione Esteri di Montecitorio: «sarebbe importante se ci fosse un impegno formale dell’esecutivo sul ritiro. Su queste basi - continua l’esponente Ds - si determinerebbero le condizioni per un positivo confronto parlamentare». Anche il segretario dello Sdi, Enrico Boselli annuncia che «in tal caso, ci potrebbe essere da parte nostra un atteggiamento di sostegno in qualche forma». Si spinge oltre Clemente Mastella, che esorta il governo ad avviare contatti reali con l’opposizione per verificare la possibilità di trovare un’ampia convergenza: «Ai colleghi dell’Unione - ammonisce il leader dell’Udeur - ricordo che un’opposizione di governo non può limitarsi a dire solo ‘no’ e a chiedere un ritiro puro e semplice».
Ma l’ipotesi di un piano cadenzato è definita «materialmente impossibile» dal sottosegretario alla Difesa, Francesco Bosi, perchè «non tiene conto delle oggettive necessità di assistenza e protezione del popolo iracheno».
Nessun dubbio invece sulla strategia da adottare nell’ala sinistra della coalizione. Secondo Bertinotti «sarebbe paradossale se l’Unione si dividesse in un momento in cui i fatti danno ragione a chi si è opposto alla guerra e ha chiesto il ritiro delle truppe». Idea condivisa dai verdi Cento e Pecoraro Scanio, che criticano ogni eventuale apertura ad intese bipartisan: «Oggi serve un doppio no: alla missione in Iraq e all’inerzia del governo. Ogni accordo sarebbe solo una trappola. I nostri elettori non capirebbero». E Pietro Folena, impegnato ieri nella presentazione di «Uniti a sinistra», ribadisce che non c’è la necessità di indicare «confusi periodi di transizione. La linea di condotta più giusta da adottare è di pronunciarsi in modo netto per il ritiro, come ha fatto il premier spagnolo Zapatero».
L'Unità 10 Luglio 2005
Per le primarie regole «antibroglio»
Domani l’Unione vara il regolamento. Ogni elettore dovrà fare una dichiarazione giurata
I candidati dovranno aderire ad un preambolo comune. Parisi: un bagno di democrazia
di Ninni Andriolo
«DICHIARO SUL MIO ONORE di votare per il centrosinistra...». Prima di segnare sulla scheda il nome del candidato premier che preferisce, l’elettore dell’Unione firmerà una sorta di modulo salva-brogli. Un giuramento che, insieme al documento di riconoscimento e alla tessera elettorale da mostrare al seggio, dovrà costituire la prova provata che le primarie non si fanno per scherzo con «il primo che passa per strada e depone un foglio di carta nell’urna». Per garantire serietà hanno studiato anche l’antidoto contro gli ultras ansiosi di segnare lo stesso nome due o più volte. Gli elettori voteranno su base territoriale tenendo conto del domicilio e i seggi verranno accorpati per zone in modo da rendere possibile il controllo delle liste. Previsti anche comitati nazionali e provinciali dei garanti. Basterà? «Sì - giurano - nessuno è così folle da sottoscrivere il falso e da falsificare apertamente il proprio voto ripetendolo».
Si voterà anche nelle circoscrizioni, nei plessi scolastici, nelle sedi comunali, chiedendo espressamente l’autorizzazione ai Comuni e alle autorità pubbliche. Ma si voterà anche nei «luoghi di aggregazione», bar, ritrovi, case del popolo, strutture delle associazioni e dei partiti, Quest’ultima possibilità trova, ancora, qualche resistenza. Per i Ds «se si vuole aumentare la partecipazione bisogna portare i seggi dove la gente si riunisce, anche nelle sezioni quindi».
Al di là di alcuni dettagli, però, le regole sono pronte. Prodi e i leader dell’Unione le vareranno domani. «Giovedì il gruppo di lavoro si è concluso con un’impostazione comune - commenta il diessino Vannino Chiti - è stata una bella riunione, c’era un clima unitario e positivo». Si dovrebbe votare l’8 e 9 ottobre. Il condizionale è d’obbligo perché, alla fine, si potrebbe decidere un «leggero slittamento». Una settimana di tempo in più per mettere a punto una macchina organizzativa che non potrà girare a pieno regime nel mese di agosto. L’obiettivo è ambizioso: portare ai seggi non meno di 700.000 elettori del centrosinistra e c’è chi spera che si vada oltre il milione. «In Puglia ci aspettavamo 40000 persone e ne abbiamo avute il doppio...», ricordano dallo staff di Arturo Parisi, l’esponente della Margherita che presiede il comitato per le regole e scommette da tempo sulle primarie «di massa» per consacrare Prodi e la sua leadership. Il presidente dell’Assemblea federale Dl parla di «bagno di democrazia», di «evento senza precedenti in Italia», di «scelta chiara in direzione di un compiuto bipolarismo», di «decisione dalla quale in futuro non si potrà tornare indietro». Se l’Unione dovesse raggiungere il traguardo di un leader scelto da centinaia di migliaia di cittadini potrebbe contare su una pole position utilissima in vista della corsa per la conquista di Palazzo Chigi. Venticinque/trenta mila persone - presidenti, scrutatori, rappresentanti dei candidati - mobilitate in più di 5000 seggi rappresentano una formidabile forza d’urto in vista dello scontro 2006 con la Cdl. La gara, intanto, riguarderà il centrosinistra: Prodi, Mastella, Di Pietro, Bertinotti e Pecoraro Scanio, stando alle volontà espresse in queste settimane. Ciascuno di loro, o altri al posto loro, avranno tempo fino all’8 settembre per scendere in campo, supportati da 10.000 firme raccolte in 10 regioni diverse. Potranno organizzare la campagna elettorale come meglio vogliono, confrontandosi tra loro in pubblici dibattiti. Un meccanismo inedito. E lo spettacolo si preannuncia divertente a leggere le dichiarazioni del candidato premier Antonio Di Pietro che spiega la differenza tra lui, che vuole «il libero mercato», e Bertinotti che vuole «uno Stato comunista». Per evitare che il confronto si trasformi nella rincorsa alle differenze campate per aria, ogni «contendente» dovrà aderire a un preambolo comune ispirato ai valori dell’Unione da varare entro il 25 luglio. Ogni candidato dovrà poi definire le «priorità programmatiche» che lo caratterizzano. Prodi si atterrà al “Manifesto di Creta”. Se dovesse vincere avrà 60 giorni di tempo per scrivere il programma dell’Unione da presentare alla Conferenza del 16-18 Dicembre. Dovrà mostrare attenzione per le proposte dei perdenti che, da parte loro, si impegnano a sostenerlo come premier in pectore di tutto il centrosinistra.
L'Unità 10 Luglio 2005
FIRENZE
Da mercoledì la Fortezza si anima
di musica, cibo e tanta politica
Gi. Bo.
LA STORICA Festa de l’Unità di Firenze quest’anno sarà regionale e verrà dedicata alla Resistenza e alla Costituzione. I battenti della Fortezza da Basso apriranno mercoledì prossimo, 13 luglio, con un dibattito cui parteciperanno il segretario regionale dei Ds, Marco Filippeschi, e il direttore dell’Unità, Antonio Padellaro. Il programma politico della festa, che inizierà appunto mercoledì e si concluderà il 7 agosto, è molto ricco. Per far conoscere l’opportunità delle primarie ai sostenitori del partito è previsto un faccia a faccia fra Massimo D’ Alema e Fausto Bertinotti, il leader di Rifondazione Comunista, fra i candidati alle primarie di ottobre. Saranno presenti anche il segretario Piero Fassino e l’ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. La Festa vuole essere innanzitutto un momento di condivisione con il partito e, proprio per questo, si annuncia come il laboratorio della campagna elettorale dell’Unione. L’appuntamento fiorentino è diventato quindi uno strumento di partecipazione pubblica molto importante. La Fortezza si prepara ad accogliere centinaia di volontari e decine di migliaia di visitatori, oltre ai numerosi appuntamenti politici, culturali e musicali. Sarà proprio la musica a concludere la festa regionale de l’Unità con la voce di Fiorella Mannoia. Il costo del biglietto è di 8 euro e come in passato una parte degli utili del concerto sarà devoluta in beneficenza. Quest’anno i contributi saranno finalizzati a sostenere la campagna dei Ds nazionali e del forum Solint per l’Africa.
IL LEADER DI RIFONDAZIONE AMMONISCE IL CENTROSINISTRA IN VISTA DEL DIBATTITO PARLAMENTARE SUL RIFINANZIAMENTO DELLA MISSIONE
intervista
«Se l’Unione si dividerà sul voto forse andrò meglio alle primarie»
Federico Geremicca
ROMA. LO dice con la pacatezza dei momenti difficili, con l’argomentare che solitamente precede una rottura: la parte riformista dell’Unione ci pensi bene prima di portare al voto un documento che ammorbidisca il “no” al rifinanziamento della missione in Iraq. Ci pensi bene perché, intanto, determinerebbe una spaccatura dell’Unione in Parlamento, e poi perché «noi di Rifondazione potremmo trarne addirittura un vantaggio tattico, e Fausto Bertinotti potrebbe perfino ricavarne un buon viatico per le prossime primarie». A parlare, naturalmente, è Fausto Bertinotti stesso: e il tono non pare ancora quello della minaccia... Ma all’obiezione che forse è venuto il momento di farsi carico anche di una proposta, oltre che di un semplice no, dice: «Io ragiono proprio come se al governo ci fosse l’Unione: la proposta è il ritiro delle truppe. E non capisco perché una proposta in Spagna è tale ed in Italia invece diventa una cosa bislacca».
Segretario, davvero vede rischi di spaccatura per l’Unione?
«La mia preoccupazione è che possano intervenire iniziative di singole parti dell’Unione che, invece di puntare a mantenere l’unità costruita tra di noi sul no alla missione in Iraq e ribadire una posizione di netta alternativa tra la pace e la guerra, pensino ad escamotage inutili e dannosi. E allora, poiché sento queste tentazioni, vorrei testimoniare la necessità di una posizione che non pregiudichi una unità che è costata fatica ed è uno dei tratti distintivi dell’Unione».
Lo dice sapendo già, in realtà, che Fassino e Rutelli stanno pensando a un documento che avanzi anche delle proposte e spieghi i motivi del loro no...
«E io non lo capisco. Cosa va in discussione alla Camera? Va in discussione il rifinanziamento della missione. Questo, non altro. Stavolta è molto semplice: il sì è sì, il no è no. E qualora l’opposizione vedesse vincere la sua tesi, noi saremmo automaticamente di fronte alla decisione del ritiro dei nostri soldati dall’Iraq. Che è quello, mi pare, che chiediamo, no?».
Lei è quindi contrario a qualunque tipo di documento?
«Abbiamo già fatto così la volta precedente e non vedo novità che giustifichino cambiamenti. Vede, a volte c’è una sofisticazione della politica che spiega, poi, la sua distanza dalla gente comune. Nel linguaggio semplice e popolare, se tu sei contro la presenza degli italiani in Iraq sei per il ritiro. La forza del patto contratto tra Zapatero e i cittadini spagnoli sta proprio in questa connessione perfino sentimentale. Voi avete votato così, ha detto in fondo Zapatero, e io vi prendo in parola e ritiro le truppe».
Però, quando lei dice che non vede cambiamenti che giustifichino...
«Questo l’ha detto Prodi subito, non io. E’ la formula usata da lui. La mia era una citazione di Prodi»
E infatti il vostro feeling è spesso criticato... In ogni caso, nell’Unione c’è chi sostiene che è il momento di formulare delle proposte, come dire, quasi da coalizione di governo. Lei non è d’accordo?
«Ma mi scusi: quella fatta in Spagna è una proposta o no? E perché in Spagna è una proposta e qui da noi sembra una cosa bislacca? Cosa c’è di più propositivo che chiedere il ritiro delle truppe? Guardi che io penso di comportarmi proprio come se fossi al governo: infatti credo che la prima cosa che dovrebbe fare un governo dell’Unione è contribuire alla rottura della spirale guerra-terrorismo. Ci sono altre cose che andrebbero fatte? Sì, certamente: per esempio, lavorare a una strategia di medio periodo per favorire il processo democratico in Iraq. Ma non si capisce perché questo discorso - che possiamo fare oggi, domani o fra un mese - dobbiamo farlo adesso e scriverlo in una mozione, quando la questione che ci viene posta è molto più semplice: ed è sì o no ai nostri soldati lì».
Forse perché - ed è la scoperta dell’acqua calda - tra voi ci sono sensibilità diverse su tutto questo, no?
«E allora rimaniamo al denominatore comune, che è un no nel voto: e poi, chi vuole, alla Camera si alza e spiega il suo no. Ma senza introdurre diversità nel voto. Come sarebbe di fronte a ordini del giorno che, francamente, mi sembrerebbero soltanto un’espressione di cattiva coscienza».
E se quegli ordini del giorno venissero comunque presentati?
«Noi ne porteremo al voto uno nostro, ovviamente. Ma si assumono la responsabilità di una rottura dell’Unione. Noi siamo tranquillissimi, perché la nostra sintonia col movimento della pace è così organica che, se guardassi a interessi di bottega, dovrei addirittura augurarmi che li presentino, quegli ordini del giorno».
Infatti si dice che lei li auspichi, è così?
«No, perché sono molto contrario a far pesare interessi di parte, rispetto a quelli dell’Unione, in passaggi politicamente significativi. Dividersi sarebbe irresponsabile. A meno che il tutto non serva a mostrare una qualche propensione neoblairiana, che considererei scelta politicamente infelice. Scelta, insisto, dalla quale Rifondazione potrebbe trarre un vantaggio tattico: perché presenteremmo un ordine del giorno limpidamente pacifista e Fausto Bertinotti potrebbe perfino ricavarne un buon viatico per le prossime primarie. Ma, per quel che posso, concorrerò a che questa rendita di posizione non mi sia attribuita...».
Prodi sembra pensarla come lei: non ne è rassicurato?
«Effettivamente mi pare che sul terreno della pace Prodi sia interprete dell’unica risultante unitaria possibile. Del resto, si sta annunciando la Perugia-Assisi... Mi chiedo: non sarebbe bene andarci avendo raccolto la domanda di dialogo che viene dalla Tavola della pace e dai movimenti della Perugia-Assisi?».
Non è che un ordine del giorno comprometta chissà che...
«Se rende incerta la lettura sul ritiro, non favorisce il dialogo. Guardi, il no al rifinanziamento tecnicamente equivale al ritiro immediato. E quindi mi auguro che quando si voterà non ci sia un voto tecnicamente irresponsabile».
Lei si dice a disagio, ma dovrebbero esserlo assai di più i fautori di un voto diverso dal «no», non le pare?
«E’ così. Per questo sono così compostamente unitario: perché in questo caso la mia istanza equivale all’istanza unitaria. Se poi qualcuno è a disagio oppure c’è stato... capita. A volte è capitato anche a me...».
L'Unità 10 Luglio 2005
Em. Is.
Quale atteggiamento avere rispetto al decreto legge sul rifinanziamento della missione in Iraq? E sulla richiesta di ritiro immediato del contingente italiano? In vista del dibattito parlamentare della prossima settimana, l'Unione è pronta a confermare il suo no al rifinanziamento della missione a Nassirya. All’interno del centrosinistra, invece, si ripropongono, seppure attenuate rispetto ai mesi scorsi, le distinzioni tra chi chiede l’immediato disimpegno e chi si mostra favorevole all’ipotesi di uno sganciamento graduale e in tempi più lunghi dell’Italia dal teatro iracheno, pur sottolineando la necessità di date certe per il rientro. E, su queste basi, c’è chi non chiude le porte ad un confronto con il governo.
«Se ci presentassero un calendario per il ritiro, noi potremmo astenerci sul decreto per il rifinanziamento». È l’idea espressa dal vicepresidente del Senato, Lamberto Dini, che però non crede che il governo si presenterà in aula con un programma del genere. Sulla stessa linea, Umberto Ranieri, vicepresidente della commissione Esteri di Montecitorio: «sarebbe importante se ci fosse un impegno formale dell’esecutivo sul ritiro. Su queste basi - continua l’esponente Ds - si determinerebbero le condizioni per un positivo confronto parlamentare». Anche il segretario dello Sdi, Enrico Boselli annuncia che «in tal caso, ci potrebbe essere da parte nostra un atteggiamento di sostegno in qualche forma». Si spinge oltre Clemente Mastella, che esorta il governo ad avviare contatti reali con l’opposizione per verificare la possibilità di trovare un’ampia convergenza: «Ai colleghi dell’Unione - ammonisce il leader dell’Udeur - ricordo che un’opposizione di governo non può limitarsi a dire solo ‘no’ e a chiedere un ritiro puro e semplice».
Ma l’ipotesi di un piano cadenzato è definita «materialmente impossibile» dal sottosegretario alla Difesa, Francesco Bosi, perchè «non tiene conto delle oggettive necessità di assistenza e protezione del popolo iracheno».
Nessun dubbio invece sulla strategia da adottare nell’ala sinistra della coalizione. Secondo Bertinotti «sarebbe paradossale se l’Unione si dividesse in un momento in cui i fatti danno ragione a chi si è opposto alla guerra e ha chiesto il ritiro delle truppe». Idea condivisa dai verdi Cento e Pecoraro Scanio, che criticano ogni eventuale apertura ad intese bipartisan: «Oggi serve un doppio no: alla missione in Iraq e all’inerzia del governo. Ogni accordo sarebbe solo una trappola. I nostri elettori non capirebbero». E Pietro Folena, impegnato ieri nella presentazione di «Uniti a sinistra», ribadisce che non c’è la necessità di indicare «confusi periodi di transizione. La linea di condotta più giusta da adottare è di pronunciarsi in modo netto per il ritiro, come ha fatto il premier spagnolo Zapatero».
L'Unità 10 Luglio 2005
Per le primarie regole «antibroglio»
Domani l’Unione vara il regolamento. Ogni elettore dovrà fare una dichiarazione giurata
I candidati dovranno aderire ad un preambolo comune. Parisi: un bagno di democrazia
di Ninni Andriolo
«DICHIARO SUL MIO ONORE di votare per il centrosinistra...». Prima di segnare sulla scheda il nome del candidato premier che preferisce, l’elettore dell’Unione firmerà una sorta di modulo salva-brogli. Un giuramento che, insieme al documento di riconoscimento e alla tessera elettorale da mostrare al seggio, dovrà costituire la prova provata che le primarie non si fanno per scherzo con «il primo che passa per strada e depone un foglio di carta nell’urna». Per garantire serietà hanno studiato anche l’antidoto contro gli ultras ansiosi di segnare lo stesso nome due o più volte. Gli elettori voteranno su base territoriale tenendo conto del domicilio e i seggi verranno accorpati per zone in modo da rendere possibile il controllo delle liste. Previsti anche comitati nazionali e provinciali dei garanti. Basterà? «Sì - giurano - nessuno è così folle da sottoscrivere il falso e da falsificare apertamente il proprio voto ripetendolo».
Si voterà anche nelle circoscrizioni, nei plessi scolastici, nelle sedi comunali, chiedendo espressamente l’autorizzazione ai Comuni e alle autorità pubbliche. Ma si voterà anche nei «luoghi di aggregazione», bar, ritrovi, case del popolo, strutture delle associazioni e dei partiti, Quest’ultima possibilità trova, ancora, qualche resistenza. Per i Ds «se si vuole aumentare la partecipazione bisogna portare i seggi dove la gente si riunisce, anche nelle sezioni quindi».
Al di là di alcuni dettagli, però, le regole sono pronte. Prodi e i leader dell’Unione le vareranno domani. «Giovedì il gruppo di lavoro si è concluso con un’impostazione comune - commenta il diessino Vannino Chiti - è stata una bella riunione, c’era un clima unitario e positivo». Si dovrebbe votare l’8 e 9 ottobre. Il condizionale è d’obbligo perché, alla fine, si potrebbe decidere un «leggero slittamento». Una settimana di tempo in più per mettere a punto una macchina organizzativa che non potrà girare a pieno regime nel mese di agosto. L’obiettivo è ambizioso: portare ai seggi non meno di 700.000 elettori del centrosinistra e c’è chi spera che si vada oltre il milione. «In Puglia ci aspettavamo 40000 persone e ne abbiamo avute il doppio...», ricordano dallo staff di Arturo Parisi, l’esponente della Margherita che presiede il comitato per le regole e scommette da tempo sulle primarie «di massa» per consacrare Prodi e la sua leadership. Il presidente dell’Assemblea federale Dl parla di «bagno di democrazia», di «evento senza precedenti in Italia», di «scelta chiara in direzione di un compiuto bipolarismo», di «decisione dalla quale in futuro non si potrà tornare indietro». Se l’Unione dovesse raggiungere il traguardo di un leader scelto da centinaia di migliaia di cittadini potrebbe contare su una pole position utilissima in vista della corsa per la conquista di Palazzo Chigi. Venticinque/trenta mila persone - presidenti, scrutatori, rappresentanti dei candidati - mobilitate in più di 5000 seggi rappresentano una formidabile forza d’urto in vista dello scontro 2006 con la Cdl. La gara, intanto, riguarderà il centrosinistra: Prodi, Mastella, Di Pietro, Bertinotti e Pecoraro Scanio, stando alle volontà espresse in queste settimane. Ciascuno di loro, o altri al posto loro, avranno tempo fino all’8 settembre per scendere in campo, supportati da 10.000 firme raccolte in 10 regioni diverse. Potranno organizzare la campagna elettorale come meglio vogliono, confrontandosi tra loro in pubblici dibattiti. Un meccanismo inedito. E lo spettacolo si preannuncia divertente a leggere le dichiarazioni del candidato premier Antonio Di Pietro che spiega la differenza tra lui, che vuole «il libero mercato», e Bertinotti che vuole «uno Stato comunista». Per evitare che il confronto si trasformi nella rincorsa alle differenze campate per aria, ogni «contendente» dovrà aderire a un preambolo comune ispirato ai valori dell’Unione da varare entro il 25 luglio. Ogni candidato dovrà poi definire le «priorità programmatiche» che lo caratterizzano. Prodi si atterrà al “Manifesto di Creta”. Se dovesse vincere avrà 60 giorni di tempo per scrivere il programma dell’Unione da presentare alla Conferenza del 16-18 Dicembre. Dovrà mostrare attenzione per le proposte dei perdenti che, da parte loro, si impegnano a sostenerlo come premier in pectore di tutto il centrosinistra.
L'Unità 10 Luglio 2005
FIRENZE
Da mercoledì la Fortezza si anima
di musica, cibo e tanta politica
Gi. Bo.
LA STORICA Festa de l’Unità di Firenze quest’anno sarà regionale e verrà dedicata alla Resistenza e alla Costituzione. I battenti della Fortezza da Basso apriranno mercoledì prossimo, 13 luglio, con un dibattito cui parteciperanno il segretario regionale dei Ds, Marco Filippeschi, e il direttore dell’Unità, Antonio Padellaro. Il programma politico della festa, che inizierà appunto mercoledì e si concluderà il 7 agosto, è molto ricco. Per far conoscere l’opportunità delle primarie ai sostenitori del partito è previsto un faccia a faccia fra Massimo D’ Alema e Fausto Bertinotti, il leader di Rifondazione Comunista, fra i candidati alle primarie di ottobre. Saranno presenti anche il segretario Piero Fassino e l’ex presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. La Festa vuole essere innanzitutto un momento di condivisione con il partito e, proprio per questo, si annuncia come il laboratorio della campagna elettorale dell’Unione. L’appuntamento fiorentino è diventato quindi uno strumento di partecipazione pubblica molto importante. La Fortezza si prepara ad accogliere centinaia di volontari e decine di migliaia di visitatori, oltre ai numerosi appuntamenti politici, culturali e musicali. Sarà proprio la musica a concludere la festa regionale de l’Unità con la voce di Fiorella Mannoia. Il costo del biglietto è di 8 euro e come in passato una parte degli utili del concerto sarà devoluta in beneficenza. Quest’anno i contributi saranno finalizzati a sostenere la campagna dei Ds nazionali e del forum Solint per l’Africa.
equilibrismi
psichiatria e imputabilità
Corriere della Sera, Salute 10.7.05
Un campo intermedio tra nevrosi e psicosi
di Vittorino Andreoli*
I disturbi della personalità nell’ambito clinico sono una diagnosi frequentissima. E molto frequentemente compaiono nelle aule giudiziarie: per il 90 per cento delle persone che sono sottoposte a giudizio per un reato penale grave si formula questa diagnosi. Bisogna, a questo proposito, fare un richiamo storico: la psichiatria è nata con due comparti che sembravano, inizialmente, non comunicanti: quello delle nevrosi e quello delle psicosi. Il nevrotico aveva un «io» ben definito, carente, fragile, su cui però si poteva lavorare. Nello psicotico, invece, l’"io" era in qualche modo frammentato, alterato.
Con il passare degli anni si è sentito il bisogno di trovare uno spazio che mettesse in comunicazione questi due campi, nevrosi e psicosi, poiché sempre più nella pratica clinica si osservavano situazioni patologiche che mutavano: pazienti considerati nevrotici che, nel tempo, sviluppavano una patologia di tipo psicotico; condizioni che non solo si aggravavano, ma assumevano caratteristiche cliniche particolari.
Si formulò, allora, la definizione di "disturbi di personalità": qualche cosa che si pone "in mezzo", per il bisogno della psichiatrica di coprire forme che non sono nevrosi, ma nemmeno psicosi. Per molti, delle anticipazioni possibili delle psicosi.
Dieci sono i disturbi della personalità classificati. Un esempio, il "disturbo schizotipico di personalità". Schizotipico: la parola richiama subito schizofrenia, cioè un "io" che in qualche modo è diviso, è scisso. Ma si tratta di un disturbo che non ha ancora una forma definitiva, non ha ancora le caratteristiche acute della schizofrenia. In qualche modo, si tratta di prodromi che potrebbero anche avere un esito nella schizofrenia. Un altro esempio, il "disturbo ossessivo compulsivo di personalità", in una zona intermedia rispetto alla patologia ossessiva compulsiva.
Il "campo intermedio" dei disturbi della personalità è ancora una sfida difficile per la psichiatria: è qualcosa di sicuramente necessario, ma nello stesso tempo l’attuale classificazione ha bisogno di essere perfezionata. I quadri clinici delle psicosi erano precisi, quadri gravi, di cui conoscevamo - per la schizofrenia, come per la depressione - lo sviluppo, l’inizio, l’esito; quadri eclatanti in età adulta.
Invece, il "disturbo anti-sociale", per esempio, o il "disturbo narcisistico di personalità", per ricordarne altri dalla classificazione prima citata, sono in fondo definizioni "deboli" e sono molto frequenti negli adolescenti e nei giovani. Ed è anche per questo, cioè per l’età di comparsa, che si dice potrebbero essere anticipazioni di psicosi che clinicamente si esprimono in modo compiuto in età adulta.
Ora, tenendo presente questa premessa, veniamo alla questione dei disturbi di personalità nella giurisprudenza e quindi in relazione a comportamenti anti-sociali (notando, che, come dicevo, c’è un disturbo anti-sociale di personalità).
C’è una constatazione evidente e, se vogliamo, drammatica. Come si è detto, quando uno psichiatra entra in Tribunale, il giudice si trova frequentemente di fronte alla diagnosi di disturbo di personalità. Ma qual è il peso che il disturbo di personalità ha nella capacità di intendere e di volere e, di conseguenza, nella responsabilità nell’aver commesso un delitto?
Il Codice penale fa riferimento alla categorie psichiatriche gravi e quindi alle psicosi per escludere la capacità di intendere e di volere, e la punibilità, parzialmente o totalmente.
Così, fino ad ora i giudici hanno ritenuto che i disturbi di personalità, da soli, non sono in grado di configurare nè un limite parziale, nè mancanza totale della capacità di intendere e di volere. Quindi, chi riceveva una diagnosi di disturbo di personalità non godeva di quelle che, appunto, sono le previsioni di limitazione nella responsabilità. La recente sentenza della Cassazione è, perciò, importantissima: ora, persone affette da disturbi della personalità hanno diritto ad essere considerate limitate nella capacità di intendere e di volere, o addirittura totalmente mancanti. Purché - si precisa nella sentenza - il disturbo sia di intensità e gravità rilevanti.
In pratica, d’ora in poi i disturbi di personalità, sia pure gravi, dovranno assumere per i Tribunali un peso analogo a quello delle psicosi.
Personalmente ho sempre ritenuto che i disturbi di personalità possono essere molto gravi e che si dovesse in qualche modo tenerne conto in ambito giudiziario.
In effetti, la valutazione del comportamento omicida e della capacità di intendere e volere va fatta sempre in relazione al momento del fatto. Se, ad esempio, in un soggetto che ha compiuto un omicidio è presente un disturbo di personalità, è probabile che tale alterazione strutturale della persona (sia pure non grave come una schizofrenia, o come una forma paranaoidea) abbia inciso nel momento in cui il delitto è stato commesso.
Qualche caso giudiziario che potrebbe rientrare in questo quadro patologico?
Mi viene in mente, la vicenda di Luigi Chiatti, il giovane di Foligno con tendenze pedofile, che uccise due bambini.
Forse anche il recente caso del detective privato di Bergamo che, a Verona, violentava le prostitute e le uccideva.
L’ipotesi può essere quella di una doppia personalità: da una parte una vita che ha una certa coerenza, dall’altra una personalità completamente diversa quando, la sera, prende la macchina e va in cerca di prostitute.
Non siamo davanti ad uno schizofrenico, che non sa vivere nel mondo, ma a "due" persone che fanno cose diverse in ambienti completamente diversi.
E a "doppia personalità", forse, potrebbero ricondursi anche casi recenti di mamme che hanno ucciso i loro figlioletti.
Una cosa è certa: questa sentenza della Cassazione rende ancora più necessario che la psichiatria approfondisca l’argomento "disturbi della personalità", che lo chiarisca, anche con una classificazione più coerente.
Pensiamo alla schizofrenia: oggi si afferma che non insorga mai prima dei diciotto-vent’anni di età.
Siamo sicuri che non si possano trovare segnali di schizofrenia già nell’adolescenza?
In quelli che oggi chiamiamo disturbi di personalità di tipo schizoide?
In Tribunale, la poca chiarezza, i punti deboli, delle classificazioni psichiatriche si possono prestare facilmente ad abusi.
Corriere della Sera, Salute 10.7.05
CRIMINOLOGIA
Delitti
di Alfonso Marra*
Per il nostro Codice Penale (articolo 88) non sono imputabili penalmente coloro che, al momento in cui hanno commesso il reato, erano, a causa di infermità, in stato di mente tale da escludere o diminuire la capacità di intendere e di volere. La giurisprudenza ha sempre ritenuto che ciò si potesse riferire solo alle malattie mentali gravi (in termini medici, le psicosi). Ora, però, le cose sono cambiate. Una recente sentenza della Cassazione (Sezione 1 Penale, Sent. del 3 maggio 2005, numero 16574) ha affermato che anche i "disturbi della personalità", se gravi e consistenti, possono costituire vizio totale o parziale di mente ed escludere l'imputabilità.
Questa la vicenda su cui si sono pronunciati i Giudici: una madre era accusata di aver ucciso il proprio figlio gettandolo dal balcone, come gesto dimostrativo contro il nucleo famigliare dal quale si sentiva fortemente oppressa.
I Giudici di primo e di secondo grado, la riconoscevano colpevole di omicidio volontario, condannandola a 12 anni di reclusione, in quanto la ritenevano sana di mente (sul presupposto che le nevrosi sono irrilevanti ai fini del vizio totale o parziale di mente e quindi dell'imputabilità).
Il parere innovativo
Diversa la convinzione della Cassazione: ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, - ha detto la Corte - anche i disturbi della personalità possono rientrare nel concetto di «infermità». Con due condizioni. La prima: che siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere, escludendola o scemandola grandemente. La seconda: che sussista un nesso causale con la specifica condotta criminosa, per cui il reato sia ritenuto "causalmente" determinato dal disturbo mentale.
Nessun rilievo, invece, - ha precisato la Corte - hanno le altre anomalie caratteriali, o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché gli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano eccezionalmente in un quadro più ampio di infermità.
In altri termini, deve trattarsi di un disturbo idoneo a determinare - e che abbia determinato nel caso concreto - una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile (totalmente o in grave misura) che incolpevolmente rende la persona incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti e conseguentemente di indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto e di autodeterminarsi autonomamente liberamente.
A tale accertamento il Giudice deve procedere avvalendosi degli strumenti a disposizione, dell’indispensabile apporto e contributo tecnico, e di ogni altro elemento di valutazione e di giudizio desumibile dall’acquisizione processuale.
Uno strumento indispensabile a riguardo è la consulenza medico-legale (disposta dal Pubblico Ministero) o la perizia medico-legale (disposta dal Giudice) per accertare la sussistenza e la consistenza dei disturbi della personalità e il collegamento degli stessi all’episodio criminoso, al fine di verificare se esso sia una manifestazione dei disturbi della personalità, oppure un fatto criminale vero e proprio.
Imputabilità
Questa rivisitazione del concetto di imputabilità costituisce un atto di grande civiltà giuridica ed avvicina l’Italia agli altri Paesi d’Europa. Infatti, i Codici penali francese, tedesco e spagnolo hanno da tempo introdotto un concetto di imputabilità cosiddetto "aperto", che tiene conto non solo delle infermità psichiatriche vere e proprie, ma anche dei disturbi psichici e neuropsichici.
Quali sono, alla luce di questa sentenza, le conseguenze a carico di quella persona affetta da disturbi della personalità riconosciuta autore di un grave delitto?
Le conseguenze sono notevolissime.
Qualora venga ritenuto che il disturbo della personalità ebbe ad escludere la capacità di intendere e di volere determinando il vizio totale di mente, la persona deve essere prosciolta e, solo se socialmente pericolosa, sottoposta alla misura di sicurezza dell’ospedale psichiatrico giudiziario (articolo 222 C.P.) per un tempo minimo di dieci anni se la pena stabilità per il delitto è l’ergastolo, oppure di cinque anni quando la pena stabilita nel minimo sia non inferiore a 10 anni. Se invece il disturbo della personalità ebbe solo a diminuire la capacità di intendere e di volere, determinando il vizio parziale di mente, la persona ha diritto a una diminuzione della pena e, solo se ritenuta socialmente pericolosa, può essere sottoposta alla misura di sicurezza della casa di cura e custodia (secondo l’articolo 219 C.P.) per un tempo minimo di un anno.
Un campo intermedio tra nevrosi e psicosi
di Vittorino Andreoli*
I disturbi della personalità nell’ambito clinico sono una diagnosi frequentissima. E molto frequentemente compaiono nelle aule giudiziarie: per il 90 per cento delle persone che sono sottoposte a giudizio per un reato penale grave si formula questa diagnosi. Bisogna, a questo proposito, fare un richiamo storico: la psichiatria è nata con due comparti che sembravano, inizialmente, non comunicanti: quello delle nevrosi e quello delle psicosi. Il nevrotico aveva un «io» ben definito, carente, fragile, su cui però si poteva lavorare. Nello psicotico, invece, l’"io" era in qualche modo frammentato, alterato.
Con il passare degli anni si è sentito il bisogno di trovare uno spazio che mettesse in comunicazione questi due campi, nevrosi e psicosi, poiché sempre più nella pratica clinica si osservavano situazioni patologiche che mutavano: pazienti considerati nevrotici che, nel tempo, sviluppavano una patologia di tipo psicotico; condizioni che non solo si aggravavano, ma assumevano caratteristiche cliniche particolari.
Si formulò, allora, la definizione di "disturbi di personalità": qualche cosa che si pone "in mezzo", per il bisogno della psichiatrica di coprire forme che non sono nevrosi, ma nemmeno psicosi. Per molti, delle anticipazioni possibili delle psicosi.
Dieci sono i disturbi della personalità classificati. Un esempio, il "disturbo schizotipico di personalità". Schizotipico: la parola richiama subito schizofrenia, cioè un "io" che in qualche modo è diviso, è scisso. Ma si tratta di un disturbo che non ha ancora una forma definitiva, non ha ancora le caratteristiche acute della schizofrenia. In qualche modo, si tratta di prodromi che potrebbero anche avere un esito nella schizofrenia. Un altro esempio, il "disturbo ossessivo compulsivo di personalità", in una zona intermedia rispetto alla patologia ossessiva compulsiva.
Il "campo intermedio" dei disturbi della personalità è ancora una sfida difficile per la psichiatria: è qualcosa di sicuramente necessario, ma nello stesso tempo l’attuale classificazione ha bisogno di essere perfezionata. I quadri clinici delle psicosi erano precisi, quadri gravi, di cui conoscevamo - per la schizofrenia, come per la depressione - lo sviluppo, l’inizio, l’esito; quadri eclatanti in età adulta.
Invece, il "disturbo anti-sociale", per esempio, o il "disturbo narcisistico di personalità", per ricordarne altri dalla classificazione prima citata, sono in fondo definizioni "deboli" e sono molto frequenti negli adolescenti e nei giovani. Ed è anche per questo, cioè per l’età di comparsa, che si dice potrebbero essere anticipazioni di psicosi che clinicamente si esprimono in modo compiuto in età adulta.
Ora, tenendo presente questa premessa, veniamo alla questione dei disturbi di personalità nella giurisprudenza e quindi in relazione a comportamenti anti-sociali (notando, che, come dicevo, c’è un disturbo anti-sociale di personalità).
C’è una constatazione evidente e, se vogliamo, drammatica. Come si è detto, quando uno psichiatra entra in Tribunale, il giudice si trova frequentemente di fronte alla diagnosi di disturbo di personalità. Ma qual è il peso che il disturbo di personalità ha nella capacità di intendere e di volere e, di conseguenza, nella responsabilità nell’aver commesso un delitto?
Il Codice penale fa riferimento alla categorie psichiatriche gravi e quindi alle psicosi per escludere la capacità di intendere e di volere, e la punibilità, parzialmente o totalmente.
Così, fino ad ora i giudici hanno ritenuto che i disturbi di personalità, da soli, non sono in grado di configurare nè un limite parziale, nè mancanza totale della capacità di intendere e di volere. Quindi, chi riceveva una diagnosi di disturbo di personalità non godeva di quelle che, appunto, sono le previsioni di limitazione nella responsabilità. La recente sentenza della Cassazione è, perciò, importantissima: ora, persone affette da disturbi della personalità hanno diritto ad essere considerate limitate nella capacità di intendere e di volere, o addirittura totalmente mancanti. Purché - si precisa nella sentenza - il disturbo sia di intensità e gravità rilevanti.
In pratica, d’ora in poi i disturbi di personalità, sia pure gravi, dovranno assumere per i Tribunali un peso analogo a quello delle psicosi.
Personalmente ho sempre ritenuto che i disturbi di personalità possono essere molto gravi e che si dovesse in qualche modo tenerne conto in ambito giudiziario.
In effetti, la valutazione del comportamento omicida e della capacità di intendere e volere va fatta sempre in relazione al momento del fatto. Se, ad esempio, in un soggetto che ha compiuto un omicidio è presente un disturbo di personalità, è probabile che tale alterazione strutturale della persona (sia pure non grave come una schizofrenia, o come una forma paranaoidea) abbia inciso nel momento in cui il delitto è stato commesso.
Qualche caso giudiziario che potrebbe rientrare in questo quadro patologico?
Mi viene in mente, la vicenda di Luigi Chiatti, il giovane di Foligno con tendenze pedofile, che uccise due bambini.
Forse anche il recente caso del detective privato di Bergamo che, a Verona, violentava le prostitute e le uccideva.
L’ipotesi può essere quella di una doppia personalità: da una parte una vita che ha una certa coerenza, dall’altra una personalità completamente diversa quando, la sera, prende la macchina e va in cerca di prostitute.
Non siamo davanti ad uno schizofrenico, che non sa vivere nel mondo, ma a "due" persone che fanno cose diverse in ambienti completamente diversi.
E a "doppia personalità", forse, potrebbero ricondursi anche casi recenti di mamme che hanno ucciso i loro figlioletti.
Una cosa è certa: questa sentenza della Cassazione rende ancora più necessario che la psichiatria approfondisca l’argomento "disturbi della personalità", che lo chiarisca, anche con una classificazione più coerente.
Pensiamo alla schizofrenia: oggi si afferma che non insorga mai prima dei diciotto-vent’anni di età.
Siamo sicuri che non si possano trovare segnali di schizofrenia già nell’adolescenza?
In quelli che oggi chiamiamo disturbi di personalità di tipo schizoide?
In Tribunale, la poca chiarezza, i punti deboli, delle classificazioni psichiatriche si possono prestare facilmente ad abusi.
* psichiatra
Corriere della Sera, Salute 10.7.05
CRIMINOLOGIA
Delitti
di Alfonso Marra*
Per il nostro Codice Penale (articolo 88) non sono imputabili penalmente coloro che, al momento in cui hanno commesso il reato, erano, a causa di infermità, in stato di mente tale da escludere o diminuire la capacità di intendere e di volere. La giurisprudenza ha sempre ritenuto che ciò si potesse riferire solo alle malattie mentali gravi (in termini medici, le psicosi). Ora, però, le cose sono cambiate. Una recente sentenza della Cassazione (Sezione 1 Penale, Sent. del 3 maggio 2005, numero 16574) ha affermato che anche i "disturbi della personalità", se gravi e consistenti, possono costituire vizio totale o parziale di mente ed escludere l'imputabilità.
Questa la vicenda su cui si sono pronunciati i Giudici: una madre era accusata di aver ucciso il proprio figlio gettandolo dal balcone, come gesto dimostrativo contro il nucleo famigliare dal quale si sentiva fortemente oppressa.
I Giudici di primo e di secondo grado, la riconoscevano colpevole di omicidio volontario, condannandola a 12 anni di reclusione, in quanto la ritenevano sana di mente (sul presupposto che le nevrosi sono irrilevanti ai fini del vizio totale o parziale di mente e quindi dell'imputabilità).
Il parere innovativo
Diversa la convinzione della Cassazione: ai fini del riconoscimento del vizio totale o parziale di mente, - ha detto la Corte - anche i disturbi della personalità possono rientrare nel concetto di «infermità». Con due condizioni. La prima: che siano di consistenza, intensità e gravità tali da incidere concretamente sulla capacità di intendere e di volere, escludendola o scemandola grandemente. La seconda: che sussista un nesso causale con la specifica condotta criminosa, per cui il reato sia ritenuto "causalmente" determinato dal disturbo mentale.
Nessun rilievo, invece, - ha precisato la Corte - hanno le altre anomalie caratteriali, o alterazioni e disarmonie della personalità che non presentino i caratteri sopra indicati, nonché gli stati emotivi e passionali, salvo che questi ultimi non si inseriscano eccezionalmente in un quadro più ampio di infermità.
In altri termini, deve trattarsi di un disturbo idoneo a determinare - e che abbia determinato nel caso concreto - una situazione di assetto psichico incontrollabile ed ingestibile (totalmente o in grave misura) che incolpevolmente rende la persona incapace di esercitare il dovuto controllo dei propri atti e conseguentemente di indirizzarli, di percepire il disvalore sociale del fatto e di autodeterminarsi autonomamente liberamente.
A tale accertamento il Giudice deve procedere avvalendosi degli strumenti a disposizione, dell’indispensabile apporto e contributo tecnico, e di ogni altro elemento di valutazione e di giudizio desumibile dall’acquisizione processuale.
Uno strumento indispensabile a riguardo è la consulenza medico-legale (disposta dal Pubblico Ministero) o la perizia medico-legale (disposta dal Giudice) per accertare la sussistenza e la consistenza dei disturbi della personalità e il collegamento degli stessi all’episodio criminoso, al fine di verificare se esso sia una manifestazione dei disturbi della personalità, oppure un fatto criminale vero e proprio.
Imputabilità
Questa rivisitazione del concetto di imputabilità costituisce un atto di grande civiltà giuridica ed avvicina l’Italia agli altri Paesi d’Europa. Infatti, i Codici penali francese, tedesco e spagnolo hanno da tempo introdotto un concetto di imputabilità cosiddetto "aperto", che tiene conto non solo delle infermità psichiatriche vere e proprie, ma anche dei disturbi psichici e neuropsichici.
Quali sono, alla luce di questa sentenza, le conseguenze a carico di quella persona affetta da disturbi della personalità riconosciuta autore di un grave delitto?
Le conseguenze sono notevolissime.
Qualora venga ritenuto che il disturbo della personalità ebbe ad escludere la capacità di intendere e di volere determinando il vizio totale di mente, la persona deve essere prosciolta e, solo se socialmente pericolosa, sottoposta alla misura di sicurezza dell’ospedale psichiatrico giudiziario (articolo 222 C.P.) per un tempo minimo di dieci anni se la pena stabilità per il delitto è l’ergastolo, oppure di cinque anni quando la pena stabilita nel minimo sia non inferiore a 10 anni. Se invece il disturbo della personalità ebbe solo a diminuire la capacità di intendere e di volere, determinando il vizio parziale di mente, la persona ha diritto a una diminuzione della pena e, solo se ritenuta socialmente pericolosa, può essere sottoposta alla misura di sicurezza della casa di cura e custodia (secondo l’articolo 219 C.P.) per un tempo minimo di un anno.
* magistrato
la mostra di Michelangelo a Firenze
Corriere della Sera 10.7.05
CINQUECENTO Firenze: dipinti, sculture, medaglie e manoscritti alla Fondazione Casa Buonarroti
Michelangelo e la marchesa
Sebastiano Grasso
Di che cosa parlano Vittoria Colonna (1492-1547) e Michelangelo Buonarroti (1475-1564) quando, a Roma, si vedono nella penombra della chiesa di San Silvestro al Quirinale o nel giardino limitrofo? Di arte e di Sacre scritture. Almeno a sentire il pittore portoghese Francisco de Hollanda che nei Dialoghi ricostruisce quegli incontri.
Sono anche convegni d'amore? Sì, ma di un amore particolare: letterario e d'intelletto, per altri versi essendo il cuore di Michelangelo occupato da Tommaso de' Cavalieri e da Gherardo Perini.
Eppure, come scrive Ascanio Condivi in Vita di Buonarroti («biografia autorizzata», si direbbe oggi, dallo stesso Michelangelo), pubblicata nel 1553, l'artista «amò grandemente la marchesina di Pescara essendo da lei amato svisceratamente». Ragion per cui, la poetessa lascia spesso Viterbo per andare a Roma e incontrare il maestro. Affetto ricambiato, per cui alla morte della donna, Michelangelo per molto tempo se ne sta «sbigottito e come insensato».
Risale proprio a sette-nove anni dopo la scomparsa della Colonna, il madrigale che il Buonarroti le dedica, adesso esposto a Firenze - assieme a 63 fra dipinti, disegni, medaglie, bronzi, tavole, mosaici e altri manoscritti - nella mostra, a cura di Pina Ragionieri, che ricostruisce la figura di questa protagonista del ’500.
Figlia del gran Connestabile di Napoli e nipote del duca di Urbino, a 17 anni Vittoria sposa, ad Ischia, Ferdinando d'Avalos, marchese di Pescara (il papa Giulio II le regala «una bella crozetta de diamanti»), ma trascorre poco tempo col marito, impegnato in guerre. Rimasta vedova a 33 anni, nel 1525, passa di monastero in monastero, di corte in corte, di convento in convento.
Personalità di grande temperamento, la donna frequenta letterati ed artisti, papi e regnanti, padri della Chiesa e predicatori in odore di eresia (riesce persino a far revocare da Clemente VII la bolla con cui il papa bandisce i Cappuccini).
La marchesa vive in un periodo ricchissimo di avvenimenti (Sacco di Roma, Concilio di Trento, ecc.).
Nel 1534 - secondo la ricostruzione fatta attraverso i documenti venuti alla luce dall'800 in poi -, incontra Michelangelo, che s'è appena trasferito definitivamente a Roma da Firenze. E' il periodo della committenza del Giudizio universale per la Sistina, che segna il suo ritorno alla pittura.
La donna ha 42 anni; l'artista, 59. Incontri, scambio di versi, di lettere. Qualcosa monta, di giorno in giorno. Di lei, Michelangelo conserva le lettere «d'onesto e dolcissimo amore ripiene» inviandole, in cambio, sonetti «pieni d'ingegno e dolce desiderio».
Col passare del tempo, il rapporto si rafforza. Vittoria gli procura persino una lente da vista. E per lei, Michelangelo realizza dei disegni e glieli dona.
Probabilmente, come si legge nel saggio di Monica Bianco e Vittoria Romani, in catalogo (Mandragora), Vittoria rappresenta «l'androgino originario del mito platonico» che Michelangelo utilizza come «primo passo verso la redenzione».
CINQUECENTO Firenze: dipinti, sculture, medaglie e manoscritti alla Fondazione Casa Buonarroti
Michelangelo e la marchesa
Sebastiano Grasso
fino al 12 Settembre
Casa Buonarroti - Firenze
Casa Buonarroti - Firenze
VITTORIA COLONNA E MICHELANGELO
mostra dedicata a Vittoria Colonna
visitabile dalle ore 9:30 alle ore 16
INFO tel 055 241752
visitabile dalle ore 9:30 alle ore 16
INFO tel 055 241752
Di che cosa parlano Vittoria Colonna (1492-1547) e Michelangelo Buonarroti (1475-1564) quando, a Roma, si vedono nella penombra della chiesa di San Silvestro al Quirinale o nel giardino limitrofo? Di arte e di Sacre scritture. Almeno a sentire il pittore portoghese Francisco de Hollanda che nei Dialoghi ricostruisce quegli incontri.
Sono anche convegni d'amore? Sì, ma di un amore particolare: letterario e d'intelletto, per altri versi essendo il cuore di Michelangelo occupato da Tommaso de' Cavalieri e da Gherardo Perini.
Eppure, come scrive Ascanio Condivi in Vita di Buonarroti («biografia autorizzata», si direbbe oggi, dallo stesso Michelangelo), pubblicata nel 1553, l'artista «amò grandemente la marchesina di Pescara essendo da lei amato svisceratamente». Ragion per cui, la poetessa lascia spesso Viterbo per andare a Roma e incontrare il maestro. Affetto ricambiato, per cui alla morte della donna, Michelangelo per molto tempo se ne sta «sbigottito e come insensato».
Risale proprio a sette-nove anni dopo la scomparsa della Colonna, il madrigale che il Buonarroti le dedica, adesso esposto a Firenze - assieme a 63 fra dipinti, disegni, medaglie, bronzi, tavole, mosaici e altri manoscritti - nella mostra, a cura di Pina Ragionieri, che ricostruisce la figura di questa protagonista del ’500.
Figlia del gran Connestabile di Napoli e nipote del duca di Urbino, a 17 anni Vittoria sposa, ad Ischia, Ferdinando d'Avalos, marchese di Pescara (il papa Giulio II le regala «una bella crozetta de diamanti»), ma trascorre poco tempo col marito, impegnato in guerre. Rimasta vedova a 33 anni, nel 1525, passa di monastero in monastero, di corte in corte, di convento in convento.
Personalità di grande temperamento, la donna frequenta letterati ed artisti, papi e regnanti, padri della Chiesa e predicatori in odore di eresia (riesce persino a far revocare da Clemente VII la bolla con cui il papa bandisce i Cappuccini).
La marchesa vive in un periodo ricchissimo di avvenimenti (Sacco di Roma, Concilio di Trento, ecc.).
Nel 1534 - secondo la ricostruzione fatta attraverso i documenti venuti alla luce dall'800 in poi -, incontra Michelangelo, che s'è appena trasferito definitivamente a Roma da Firenze. E' il periodo della committenza del Giudizio universale per la Sistina, che segna il suo ritorno alla pittura.
La donna ha 42 anni; l'artista, 59. Incontri, scambio di versi, di lettere. Qualcosa monta, di giorno in giorno. Di lei, Michelangelo conserva le lettere «d'onesto e dolcissimo amore ripiene» inviandole, in cambio, sonetti «pieni d'ingegno e dolce desiderio».
Col passare del tempo, il rapporto si rafforza. Vittoria gli procura persino una lente da vista. E per lei, Michelangelo realizza dei disegni e glieli dona.
Probabilmente, come si legge nel saggio di Monica Bianco e Vittoria Romani, in catalogo (Mandragora), Vittoria rappresenta «l'androgino originario del mito platonico» che Michelangelo utilizza come «primo passo verso la redenzione».
vedere
Corriere della Sera 10.7.05
CONSUNTIVI
Strasburgo: Arte ottica e cinetica al Museo d’arte moderna e contemporanea
Quando l’occhio vede e stravede
Andrea Genovese
Intenta a strutturare un villaggio globale e un cervello planetario, la nostra tecnologia corre a un ritmo tale da sembrare, ai pessimisti, una Narrenschiff (la nave dei folli medioevale). Sta di fatto che la modernità si afferma sempre più come una tabula rasa permanente degli eventi del giorno prima. Anche l'arte ottica e cinetica appartiene già a un passato lontano, tanto che se ne tenta un bilancio, significativamente storicizzato (1950-1975): Victor Vasarely, Jesus Rafaël Soto, Nicolas Schöffer, Yaacov Agam. Oltre 150 le opere in mostra, fra dipinti, oggetti che a dipinti assomigliano e installazioni di varia natura, ivi compresi percorsi labirintici (strabici e daltonici astenersi). Non si dimenticano, per usare un linguaggio leopardiano, i prolegòmeni (Duchamp, Làzlo Moholy-Nagy, Tinguely, Calder ...); e si dà qualche esempio della batracomiomachia contemporanea (Hugues Reip, Ann Janssens, John Tremblay, Ugo Rondinone...).
Quattro le sezioni. La prima, L'occhio-motore, fa leva sulla dinamica cinetica dello sguardo: emergono oltre alle composizioni di Vasarely (Beta, Gamma), quelle di Bridget Riley (Circolo d'accelerazione), di Soto (Dinamica del colore), d'Yvaral e dei nostri Alberto Biasi, Toni Costa, Grazia Varisco. La seconda, L'occhio-corpo, riprende la nozione dell'implicazione fisica dello spettatore nel dispositivo creativo, attraverso manipolazioni tattili e visive, con opere di Agam (Costellazione), Carlos Cruz-Diez, Pol Bury (Cinétisation, del 1969, impressionante serie di foto di grattacieli newyorkesi deformati e semicrollanti tanto da far pensare all'attentato alle torri gemelle), Marina Apollonio (Dinamica circolare), Raymond Hains, Gianni Colombo, Getulio Alviani. La terza, L'occhio-computer, registra l'irruzione della cibernetica, dei pixel e della digitalizzazione: bellissime opere di Vasarely, François Morellet, Nicolas Schöffer, Vera Molnar. La quarta, L'occhio-sonoro, sottolinea il dialogo con le forme musicali: brillano Karl Gerstner, Hermann Goepfert, Gregorio Vardanega.
CONSUNTIVI
Strasburgo: Arte ottica e cinetica al Museo d’arte moderna e contemporanea
Quando l’occhio vede e stravede
Andrea Genovese
Intenta a strutturare un villaggio globale e un cervello planetario, la nostra tecnologia corre a un ritmo tale da sembrare, ai pessimisti, una Narrenschiff (la nave dei folli medioevale). Sta di fatto che la modernità si afferma sempre più come una tabula rasa permanente degli eventi del giorno prima. Anche l'arte ottica e cinetica appartiene già a un passato lontano, tanto che se ne tenta un bilancio, significativamente storicizzato (1950-1975): Victor Vasarely, Jesus Rafaël Soto, Nicolas Schöffer, Yaacov Agam. Oltre 150 le opere in mostra, fra dipinti, oggetti che a dipinti assomigliano e installazioni di varia natura, ivi compresi percorsi labirintici (strabici e daltonici astenersi). Non si dimenticano, per usare un linguaggio leopardiano, i prolegòmeni (Duchamp, Làzlo Moholy-Nagy, Tinguely, Calder ...); e si dà qualche esempio della batracomiomachia contemporanea (Hugues Reip, Ann Janssens, John Tremblay, Ugo Rondinone...).
Quattro le sezioni. La prima, L'occhio-motore, fa leva sulla dinamica cinetica dello sguardo: emergono oltre alle composizioni di Vasarely (Beta, Gamma), quelle di Bridget Riley (Circolo d'accelerazione), di Soto (Dinamica del colore), d'Yvaral e dei nostri Alberto Biasi, Toni Costa, Grazia Varisco. La seconda, L'occhio-corpo, riprende la nozione dell'implicazione fisica dello spettatore nel dispositivo creativo, attraverso manipolazioni tattili e visive, con opere di Agam (Costellazione), Carlos Cruz-Diez, Pol Bury (Cinétisation, del 1969, impressionante serie di foto di grattacieli newyorkesi deformati e semicrollanti tanto da far pensare all'attentato alle torri gemelle), Marina Apollonio (Dinamica circolare), Raymond Hains, Gianni Colombo, Getulio Alviani. La terza, L'occhio-computer, registra l'irruzione della cibernetica, dei pixel e della digitalizzazione: bellissime opere di Vasarely, François Morellet, Nicolas Schöffer, Vera Molnar. La quarta, L'occhio-sonoro, sottolinea il dialogo con le forme musicali: brillano Karl Gerstner, Hermann Goepfert, Gregorio Vardanega.
ARTE OTTICA E CINETICA (1950-1975)
Strasburgo, Musée d'art moderne et contemporain,
sino al 25 settembre. Tel. 0033/388525015
Strasburgo, Musée d'art moderne et contemporain,
sino al 25 settembre. Tel. 0033/388525015
un saggio
Corriere della Sera 10.7.05
SAGGI
CARNEFICI DI STATO
Tortura nel nome della legge
Vittorio Grevi
In un momento in cui da molte parti del mondo, a cominciare dalle carceri irachene (ma non solo) giungono notizie, spesso documentate, sull’uso della violenza, o comunque di trattamenti «inumani o degradanti» ai danni di persone detenute, può essere quantomai opportuno fermarsi a riflettere sulla odierna sopravvivenza di varie forme di «tortura di Stato». Ai molti interrogativi che ne scaturiscono intende rispondere il volume curato da Alessandra Gianelli e Maria Pia Paternò, le quali, insieme a un compatto gruppo di studiosi di diverse discipline (soprattutto storici e giuristi) si sforzano di fare il punto sulla realtà della tortura praticata in nome e per conto dello Stato. Una pratica nefasta che viene storicamente da lontano, che è formalmente vietata dovunque, ma che, tuttavia, continua a essere diffusa non soltanto nei regimi dittatoriali, dando luogo a situazioni in cui si concretizzano vere e proprie «ferite della democrazia».
Lungo questo itinerario si sviluppano i numerosi temi affrontati nel volume: dalle radici storiche della tortura alle sue più recenti manifestazioni anche nel mondo occidentale, dalle spinte ricorrenti verso l’uso della tortura come strumento di lotta contro il terrorismo ai rapporti tra «ragioni di Stato» e dignità dell’uomo, fino ad alcune lucide analisi dedicate al processo penale e al sistema penitenziario. Sullo sfondo, come dice Franco Cordero nelle sue pagine introduttive, vi è sempre la tentazione di considerare l’inquisito come un «animale da confessione».
SAGGI
CARNEFICI DI STATO
Tortura nel nome della legge
Vittorio Grevi
In un momento in cui da molte parti del mondo, a cominciare dalle carceri irachene (ma non solo) giungono notizie, spesso documentate, sull’uso della violenza, o comunque di trattamenti «inumani o degradanti» ai danni di persone detenute, può essere quantomai opportuno fermarsi a riflettere sulla odierna sopravvivenza di varie forme di «tortura di Stato». Ai molti interrogativi che ne scaturiscono intende rispondere il volume curato da Alessandra Gianelli e Maria Pia Paternò, le quali, insieme a un compatto gruppo di studiosi di diverse discipline (soprattutto storici e giuristi) si sforzano di fare il punto sulla realtà della tortura praticata in nome e per conto dello Stato. Una pratica nefasta che viene storicamente da lontano, che è formalmente vietata dovunque, ma che, tuttavia, continua a essere diffusa non soltanto nei regimi dittatoriali, dando luogo a situazioni in cui si concretizzano vere e proprie «ferite della democrazia».
Lungo questo itinerario si sviluppano i numerosi temi affrontati nel volume: dalle radici storiche della tortura alle sue più recenti manifestazioni anche nel mondo occidentale, dalle spinte ricorrenti verso l’uso della tortura come strumento di lotta contro il terrorismo ai rapporti tra «ragioni di Stato» e dignità dell’uomo, fino ad alcune lucide analisi dedicate al processo penale e al sistema penitenziario. Sullo sfondo, come dice Franco Cordero nelle sue pagine introduttive, vi è sempre la tentazione di considerare l’inquisito come un «animale da confessione».
un nuovo libro del prof. Boncinelli
Corriere della Sera 10.7.05
LIBRI
Domande per capire chi siamo
C. Co.
«La chiave di tutte le scienze - scriveva Balzac - è indiscutibilmente il punto di domanda. Dobbiamo la maggior parte delle grandi scoperte al "come?", mentre la saggezza della vita consiste forse nel chiedersi, a qualunque proposito, "perché?"». Se siete d’accordo con questa citazione, il libro di Boncinelli-Offeddu è ciò che fa per voi: troverete domande su ciò che siamo e ciò che diventeremo, e troverete soprattutto risposte, comode e anche no, allegre e angoscianti, divertite e a volte pensose. Nel gioco delle parti dei due protagonisti-scrittori - il bravo giornalista curioso e professionalmente importuno, l’estroverso e capacissimo scienziato che ha le corde giuste per spiegare al popolo - sta la curiosità di un volume che si legge come un intrigante romanzo ma è, sostanzialmente, un manuale sulla vita, sulla morte e sui "prodigi" che accadono ogni giorni dentro e fuori di noi. Con un’avvertenza: gli studi sul cervello umano presto sveleranno conoscenze ora inimmaginabili. Siamo solo agli inizi.
LIBRI
Domande per capire chi siamo
C. Co.
«La chiave di tutte le scienze - scriveva Balzac - è indiscutibilmente il punto di domanda. Dobbiamo la maggior parte delle grandi scoperte al "come?", mentre la saggezza della vita consiste forse nel chiedersi, a qualunque proposito, "perché?"». Se siete d’accordo con questa citazione, il libro di Boncinelli-Offeddu è ciò che fa per voi: troverete domande su ciò che siamo e ciò che diventeremo, e troverete soprattutto risposte, comode e anche no, allegre e angoscianti, divertite e a volte pensose. Nel gioco delle parti dei due protagonisti-scrittori - il bravo giornalista curioso e professionalmente importuno, l’estroverso e capacissimo scienziato che ha le corde giuste per spiegare al popolo - sta la curiosità di un volume che si legge come un intrigante romanzo ma è, sostanzialmente, un manuale sulla vita, sulla morte e sui "prodigi" che accadono ogni giorni dentro e fuori di noi. Con un’avvertenza: gli studi sul cervello umano presto sveleranno conoscenze ora inimmaginabili. Siamo solo agli inizi.
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