lunedì 21 luglio 2003

«in matematica i risultati arrivano in strani modi»

Repubblica 17.7.03
Intervista a Jean-Pierre Serre, vincitore del premio Abel
un matematico a cui piace il buio
i risultati arrivano in modi spesso strani
di PIERGIORGIO ODIFREDDI

Da quando è stato istituito nel 1901, il premio Nobel è l' onorificenza più ambita del mondo. Assegnato ogni anno per la letteratura, la fisica, la chimica, la medicina, l' economia e la pace, esso non contempla però la matematica. Ma non per i motivi pruriginosi che vengono spesso mormorati: il fatto, cioè, che l' inventore della dinamite avrebbe voluto evitare di aggiungere il danno alle beffe, a causa di una relazione di sua moglie con un matematico svedese, evidentemente più esplosivo di lui. La verità, come al solito più prosaica del pettegolezzo, è che Nobel era scapolo, e semplicemente non era interessato alla materia. Per rimediare alla situazione, già nel 1902 il re di Norvegia Oscar II aveva proposto un premio in onore del matematico norvegese Niels Abel, nato cent' anni prima, morto di tubercolosi a soli ventisei anni, e passato alla storia per uno dei grandi risultati dell' algebra moderna: la dimostrazione, cioè, che non esistono formule risolutive per le equazioni di quinto grado, analoghe a quelle ben note per il secondo, terzo e quarto grado. Poiché la proposta era caduta nel nulla, nel 1936 l' Unione Mondiale dei Matematici istitui la medaglia Fields, da assegnare ai congressi quadriennali ai migliori matematici under quaranta, e considerata finora l' equivalente di un premio Nobel (senza portafoglio, però). Lo scorso anno, in occasione del secondo centenario della nascita di Abel, l' Accademia delle Scienze e delle Lettere norvegese ha deciso di istituire un premio di sei milioni di corone (770.000 euro) che rivaleggiasse con il Nobel anche da un punto di vista finanziario. Il primo vincitore è stato premiato a Oslo poco tempo fa: si tratta di Jean-Pierre Serre del Collège de France, uno dei più grandi matematici del mondo, già noto per essere stato il più giovane vincitore della medaglia Fields (a soli ventott' anni, nel 1954). Come spesso succede ai geni, Serre non è una persona facile: scorbutico e caustico, non ama affatto lo smalltalk, e meno che mai le interviste. La sorpresa per la vittoria deve però avergli fatto abbassare per un attimo la guardia, visto che ha sorprendentemente acconsentito a rispondere ad alcune nostre domande. L' annuncio ufficiale del premio Abel cerca di stabilire una connessione tra il suo lavoro nella teoria dei numeri e quello di Abel stesso. Lei vede differenze tra la matematica moderna e quella classica? «Non molte. E la dimostrazione è che non si può nemmeno definire ciò che è classico, e ciò che è moderno! Naturalmente, i matematici continuano a introdurre nuove tecniche e nuove definizioni, che aiutano a risolvere alcuni problemi lasciati dai nostri predecessori. Ma non c'è stata nessuna vera discontinuità, ad esempio negli ultimi 250 anni». Sembrerebbe però che la nozione di dimostrazione sia cambiata radicalmente. «In realtà, no. Ad esempio, la dimostrazione di Euclide che ci sono infiniti numeri primi è tanto valida ora, quanto lo era ventitré secoli fa. E noi cerchiamo ancora di scrivere le dimostrazioni in quello stile». Pensavo, ad esempio, alla dimostrazione del teorema dei quattro colori, che ha richiesto 2.000 ore di verifiche al computer. O a quella collettiva del teorema di classificazione dei gruppi finiti, che prende 10.000 pagine. O a quelle ispirate alla fisica di Witten... «Nei primi due casi, dimostrazioni che sono così lunghe da essere impossibili da verificare sono più che altro dei risultati sperimentali. Quanto a Witten, non chiamerei i suoi argomenti delle dimostrazioni: sono più vicini a congetture o (al massimo) ad abbozzi di future dimostrazioni». Vari anni fa lei aveva accennato a un suo crescente interesse per la storia della matematica. Si è sviluppato, in seguito? E ha prodotto qualcosa nello stile, ad esempio, della Teoria dei numeri di André Weil (Einaudi, 1993)? «L' interesse c' è. Le pubblicazioni, no». A proposito della storia, quale matematico l' ha più influenzata attraverso il suo insegnamento, o è stato il suo modello attraverso i suoi lavori? «La risposta è facile: proprio André Weil. Non che tenga la sua foto sul muro, ma ho letto e riletto i suoi libri e i suoi lavori. E ho anche scritto il suo necrologio». Più impersonalmente, quali sono i risultati dello scorso secolo che l' hanno impressionata di più? «Qui invece ci sarebbe troppo da dire: è meglio che eviti la domanda». Una parte del suo lavoro, in geometria algebrica, è legato a quello della famosa scuola italiana di un secolo fa. Ci può dire in che modo? «A dire il vero, quando ho lavorato in questo campo (circa cinquant' anni fa) non sapevo molto della scuola italiana, se non una cosa: che non si poteva far affidamento su di essa...». In quel suo lavoro geometrico, lei si è affidato di più all' intuizione visiva o alla derivazione logica? «Non saprei: credo che queste parole, soprattutto "intuizione", siano difficili da definire. In matematica i risultati arrivano in strani modi». Una volta lei ha addirittura detto che spesso lavora mezzo addormentato. Che significa? Che nella matematica c' è un ruolo per il pensiero semiconscio? «Intendevo solo dire che spesso lavoro a letto, al buio, proprio prima di entrare nel dormiveglia. Trovo che aiuti la concentrazione e permetta una maggiore libertà di pensiero». Ora che il velo di segretezza del Bourbaki è caduto, lei ci può confermare di averne fatto parte? «Si, dal 1949 ai primi anni '70. E sono stato molto influenzato da Bourbaki, sia dal soggetto collettivo che dagli individui che ne hanno fatto parte. Anche se, dopo averci lavorato per venticinque anni, non sono più interessato ai progetti enciclopedici». Lei non si è limitato a far ricerca, ma ha anche scritto molti libri. Che opinione ha della divulgazione matematica? «A dire il vero non ho mai scritto un libro di vera divulgazione: è troppo difficile! I miei libri sono abbastanza tecnici. Il più accessibile è probabilmente Rappresentazioni lineari dei gruppi finiti, che è stato in parte scritto per mia moglie e i suoi studenti di chimica quantistica». La chimica le interessa? «Mi interessava da bambino. I miei genitori erano farmacisti, e io ho giocato molto con provette e composti chimici. Ho anche letto i libri di chimica di mio padre, ma quando l' ho studiata seriamente mi sono accorto che c' erano troppe formule, tutte più o meno uguali. Tanto valeva fare direttamente matematica». E alla filosofia della matematica è interessato? «No. Non ci ho mai trovato niente di interessante». Ma avrà ben una sua idea sulla natura degli oggetti matematici! Ad esempio, concorda con Connes che essi sono reali tanto quanto, per non dire di più, degli oggetti fisici? «Oh, si! Concordo pienamente con lui. E quando Connes ha scritto Pensiero e materia con il neurofisiologo Changeaux (Boringhieri, 1991), è stato strano, e anche un po' deprimente, vedere che quest' ultimo si rifiutava di capire». Per finire con uno sguardo al futuro, da dove arriverà l' ispirazione per la matematica? Dalla fisica, dalla biologia, dall' informatica? «Non sono competente per rispondere. E, in realtà, neppure troppo interessato ai programmi sul futuro».

civiltà precristiane

Giornale di Brescia 21.7.03
La colossale statua di avorio e oro raffigurava il padre degli dei
Il bosco di Olimpia dove Zeus sorrideva ai Greci
Mascia Nassivera

Per Omero Zeus era il signore degli dei, la divinità del cielo, della pioggia e dei fulmini. E pensare che, appena nato, se l’era vista brutta, rischiando di essere divorato dal padre Crono che - signore del Cielo - temeva di essere detronizzato da uno dei suoi figli. Ma Zeus si salvò e qualche anno più tardi tramutò in realtà i timori di Crono impadronendosi del potere. Da allora egli diventò il supremo dispensatore di beni e mali, come Nausicaa ricorda nell’Odissea al naufrago Ulisse: «Pure egli solo agli uomini comparte / Zeus Olimpio la gioia, ai tristi e ai buoni, / e a ciascuno come più gli aggrada; / a te dà questi mali ed è pur forza / che tu li soffra». E Zeus stesso nell’Iliade rammenta a Tetide la propria potenza: «Non è mai revocabile o fallace, / mai non rimane senza adempimento / quello ch’io col mio capo abbia sancito». Per questo i Greci decisero, dopo la loro vittoria sui Persiani a Platea, di erigere un mastodontico tempio in onore di Zeus nell’Altis, il bosco sacro di Olimpia dove già sorgevano diversi templi e dove i popoli ellenici potevano incontrarsi in pace, dimenticando le ostilità che spesso li opponevano gli uni contro gli altri. Qui fin dal 776 a.C. si svolgeva una delle più importanti manifestazioni in onore del padre degli dei, chiamata appunto Olimpiadi; la leggenda vuole che fosse stato proprio Zeus a istituire quelle competizioni agonistiche per festeggiare la sua vittoria su Crono, avvenuta a Olimpia. Accanto allo stadio dei giochi, sempre all’interno del recinto del santuario, nel 479 a.C. fu dunque iniziata la costruzione dell’enorme tempio. Subito la questione della statua della divinità da collocare nella cella, cuore sacro dell’edificio, divise gli animi; e solo dopo anni di discussioni tutti si trovarono d’accordo sul nome di Fidia. Questi, intorno alla metà del V secolo, era l’artista greco più famoso, soprattutto grazie ai capolavori creati per il Partenone di Atene; quando arrivò a Olimpia e capì che si voleva un’opera veramente speciale, non ebbe dubbi: quello che serviva era un colosso in oro e avorio («crisoelefantina», dalle parole greche che indicano i due materiali), capace di fare strabiliare contemporanei e posteri. Naturalmente ci riuscì; e in otto anni di lavoro - situati probabilmente tra il 438 e il 430 a.C. - realizzò l’immagine di Zeus più famosa del mondo antico. Ci racconta Pausania che, finita la sua opera, lo scultore chiese a Zeus che cosa ne pensasse; e il dio gli manifestò la sua approvazione con un fulmine. Chi si avvicinava alla cella del tempio si trovava di fronte a un simulacro che, con i suoi tredici metri abbondanti di altezza, sfiorava il soffitto. Siccome Zeus era assiso in trono, l’idea che alzandosi in piedi avrebbe potuto sfondare il tetto esaltava la fantasia dei visitatori, ai quali il padre dell’Olimpo sembrava così ancor più potente. Lo scultore non gli aveva dato un’espressione severa o minacciosa: anzi, colpiva il suo volto sereno, capace di tranquillizzare i pellegrini. Sempre secondo Pausania, la chioma, l’abito e i sandali erano coperti da una profusione di oro: fu calcolato che in tutto erano stati impiegati mille chili del prezioso metallo. Poiché un simile sfoggio di ricchezza attirava l’attenzione dei ladri, sembra che le parti in oro fossero smontabili, in modo da poter essere pesate di quando in quando per verificare se lo spessore aureo rimanesse sempre uguale. Il capo del colosso era cinto da una corona di ulivo dipinta di verde, molto simile a quella conferita ai vincitori delle Olimpiadi; gli occhi erano due luminosissime pietre colorate, mentre le parti nude del corpo - volto, busto, braccia e piedi - erano ricoperte da lastre d’avorio. Ma sotto i preziosi rivestimenti, quali erano i materiali che componevano la struttura portante dell’opera? Tutte le fonti concordano nel ricordare creta, legno, ferro e gesso. Con la mano destra Zeus reggeva la figura della figlia Nike (la Vittoria) con le ali spiegate, un «gingillo» alto due metri; con la sinistra impugnava lo scettro sormontato da un’aquila, animale a lui sacro. I piedi poggiavano su uno sgabello riccamente cesellato e sostenuto da un leone; e i calzari, bene in evidenza, lasciavano a bocca aperta perché ornati di bassorilievi con scene di guerra: è proprio vero che Fidia sfruttava ogni minima superficie per ricordare ai mortali l’immortalità della sua arte. Tutto il trono era ornato di statue e bassorilievi con storie mitologiche, ma forse la vera sorpresa era nascosta nel basamento di marmo della scultura. Si mormorava, infatti, che in un angolo comparisse il viso dello scultore: l’unico particolare giunto fino a noi è che si era ritratto calvo. Il complimento più bello mai fatto a questa statua fu forse quello del filosofo Plotino: «Fidia, creando la statua di Zeus, diede al dio la stessa forma che egli avrebbe scelto se avesse deciso di comparire in figura umana». Attirati dalla fama dell’opera d’arte, ma forse anche dagli splendidi panorami offerti dalla valle dell’Alfeo e dal desiderio di assistere alle Olimpiadi, passarono per il Santuario di Olimpia i più illustri personaggi dell’antica Grecia: da Pindaro ad Aristotele, da Tucidide a Demostene. Molti sovrani stranieri rimasero sbalorditi di fronte alla bellezza della scultura, tanto che lasciarono in dono mantelli, drappi e tele preziose, nei quali la statua fu avvolta. Più tardi anche gli imperatori romani si innamorarono alla follia dello Zeus di Fidia. Se Caligola tentò di trasportarlo a Roma, Nerone optò per la più facile soluzione di costruirsi una villa vicino al Santuario, in modo da poter ammirare quel gigantesco Giove tutte le volte che voleva. Il più pratico fu Adriano, che se ne fece fare una copia ridotta in oro per la sua villa di Tivoli. È naturale che un simulacro pagano così ricco di attrattiva fosse oltremodo inviso ai cristiani e agli imperatori che, abbracciata la nuova religione, combatterono il paganesimo. Nel 426 l’imperatore Teodosio II chiuse il santuario di Olimpia e ne ordinò la distruzione. Sulla sorte della statua di Fidia verità storica e mito ancora oggi si confondono. Secondo alcuni, fu distrutta insieme al tempio; altri invece sostengono che, trasportata a Costantinopoli nel palazzo di una famiglia patrizia, bruciò in un incendio nel 476 o 462 (ma forse le fiamme divamparono durante il trasporto stesso). Comunque siano andate le cose, fu una grave perdita per l’umanità. Oggi del santuario di Olimpia rimangono pochi resti, ma l’atmosfera che si respira fra quei mozziconi di colonne e mucchi di capitelli è la stessa di duemilacinquecento anni fa. Non per nulla il barone Pierre de Coubertin, fondatore delle moderne Olimpiadi, chiese che il suo cuore fosse seppellito davanti al bosco sacro di Olimpia affinché potesse continuare a palpitare di fronte a quel panorama baciato dal mito.

Giorello: il «folle volo» da Dante a Feyerabend; attraverso Bruno

Corriere della Sera 21.7.03
ELZEVIRO
Scoperte scientifiche
Il folle volo da Ulisse a Bruno
di GIULIO GIORELLO

«Quando venimmo a quella foce stretta/ Ov’ Ercole segnò li suoi riguardi,/ Acciò che l'uom più oltre non si metta» (Inferno XXVI, vv. 107-109), cioè allo stretto di Gibilterra, Ulisse e i suoi compagni - nella versione poetica di Dante - sono ormai «vecchi e tardi», disposti a correre il rischio del «folle volo» per fare esperienza di un «mondo senza gente». La loro rotta sembra una disperata rincorsa al Sole che tramonta. Eppure, questa sorta di medievale tour di marinai della terza età avviene nel segno della trasgressione. Non solo della tradizionale prudenza dei navigatori, che ben si guardavano dal gettarsi oltre le Colonne d'Ercole, ma anche della sapienza divina che ha situato l'alto monte del Purgatorio nel mezzo dell’Oceano. Il volo non può che essere folle, perché votato al disastro: altro che «virtute e conoscenza», che nell'esortazione di Ulisse ciascun vero uomo dovrebbe cercare di perseguire. Ma quelle parole sono pronunciate da una figura che per Dante è quasi la personificazione dell'inganno. Come dire che conoscenza e virtù possono essere anche votate al male. Cristoforo Colombo era convinto che non fosse affatto folle quel tipo di crociera, che avrebbe permesso «passando per Occidente» di raggiungere a Oriente terre ricche come le Indie. Ma anche lui sembra esser stato ossessionato dalla montagna del Purgatorio: la Terra non andava considerata esattamente rotonda perché «essa aveva piuttosto la forma di un seno di donna con la protuberanza del capezzolo» (che coincideva, appunto, con l'alto monte di Dante). Colombo si sbagliava: non doveva trovare sulla sua rotta le Indie, ma scoprire comunque qualcosa di molto interessante. Non l'altro mondo delle anime che scontano la loro pena, ma un nuovo mondo e pieno di gente, nonché di strane piante e animali, per non dire di oro e altri preziosi metalli. Cariche di queste meraviglie dovevano tornare in Europa le Caravelle. E cominciava una ben diversa Odissea, quella dei popoli indigeni vessati e rapiti dai conquistatori «cristiani».
Il Cinquecento, che vede compiersi il Grande Periplo con il ritorno dei superstiti della flotta agli ordini di Magellano (ma non lui che perisce) e al tempo stesso gli astronomi discutere di «novità celesti», plasmerà una potente metafora: i «filosofi della natura» sono come gli esploratori geografici - entrambi gustano il frutto proibito della scoperta e ne rendono partecipi gli altri. Nel secolo successivo, in piena rivoluzione scientifica, Galileo Galilei sarà presentato dagli Accademici dei Lincei come «il Fiorentino scopritore non di nuove terre ma di non ancor vedute parti del cielo». Ancor ai tempi nostri, come ha sottolineato Paul Feyerabend, ogni vero ricercatore non può che sentirsi imbarcato in un viaggio verso la sua «America della conoscenza».
Questa potente retorica rovescia quella di Dante: i nuovi adepti di «virtute e conoscenza» sono soprattutto uomini giovani, ma forse non così disinteressati. Già nel dialogo La cena de le Ceneri (1534) Giordano Bruno capovolgeva quest'immagine e spezzava l'analogia. I navigatori dei nostri oceani, da quelli dell'antica mitologia a uomini come Colombo, hanno insegnato agli indigeni delle terre che hanno «scoperto» soprattutto «l'arte di assassinarsi e tiranneggiarsi l'un l'altro» (e dunque folle è stato davvero il loro volo, giacché ha esportato i modi europei della violenza). Al contrario, il filosofo della natura, armato della propria ragione, «ha varcato l'aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo» e in questo modo «ha donato gli occhi alle talpe» cioè ha liberato dall'ignoranza almeno quella parte di umanità capace di seguire virtù e conoscenza.
Aveva ragione Bruno in questa sua «stroncatura»? Lo stesso Colombo nella sua Relazione della navigazione lungo tutta la costa meridionale di Cuba (1495) riporta di essere stato salutato da un cacicco «nell'isola di Santiago, che gli indigeni chiamano Jamayca», con queste parole: «Dappertutto la gente ti teme, e tu hai distrutto i cannibali, che sono assai numerosi e feroci, facendo a pezzi le loro canoe e case, prendendo le donne e i figli, uccidendo quanti non poterono mettersi in salvo». Oggi, in un’epoca in cui qualunque leggenda non è immune da revisione, William Least Heat-Moon scrive che Colombo ha dato il via «a pratiche che avrebbero condotto allo sterminio di interi popoli e culture» (Colombo nelle Americhe, Einaudi). Al contrario, l'universo «senza muraglie» e popolato da innumerevoli sistemi solari che Bruno ci ha regalato nei suoi Dialoghi italiani resta innocente di tutti gli orrori che gli uomini commettono su questa terra, piccolo pianeta «sperduto» attorno al suo Sole. Tra i pochi nell'epoca sua a denunciare l'imperialismo degli esploratori-conquistatori, Bruno rimpiangeva un'età in cui «agili navi» di pirati come Ulisse ancora non portavano desolazione da una terra all'altra. L'ultimo «mago», finito sul rogo in Campo dei Fiori il 17 febbraio 1600, nel suo vivere e morire nella contraddizione può essere eletto a simbolo di quell'Europa che ha scelto di donare al resto del mondo non la devastazione ma la conoscenza.

filosofi...

Il Mattino di Napoli 21.7.03
L’altro pensiero
di Corrado Ocone

Si può giocare con le date e con la filosofia? Certamente. Anche quando le date sono funeste e i filosofi hanno un fondo di tragicità. L’11 settembre è la data in cui (giusto cento anni fa) nacque Theodor Wiesegrund Adorno, con Max Horkheimer autore di una delle opere più importanti del secolo scorso (La dialettica dell’illuminismo, del 1942) e fondatore dell’Istituto di Scienze Sociali di Francoforte. Ma è anche la data in cui la città renana, da un po’ di anni, consegna a un autore particolarmente rappresentativo della cultura contemporanea il Premio intitolato al fondatore della celebre Scuola e della Teoria critica. Due anni fa il prescelto fu Jacques Derrida, ma il filosofo del «decostruzionismo», impegnato in una serie di conferenze in Giappone, dovette chiedere agli organizzatori di posticipare al 22 settembre la data della consegna e della sua lectura. Cosa successe poi quell’11 settembre è cosa risaputa.
E, talmente incredibile e imprevedibile, che Derrida si vide costretto a riporre mano al suo discorso e a farvi cenno. Non fu difficile in verità, perché la prolusione solo apparentemente aveva per oggetto un elemento minimo e privatissimo quale può essere un sogno. In realtà essa era una discussione a briglia sciolta e profondissima sul mondo contemporaneo, sulla tendenziale scomparsa in esso della differenza fra sogno e veglia, fra spettacolo e realtà (e quale fiction ha mai superato in forza immaginativa e impatto reale l’attacco alle Twin Towers?).
Dicevamo del sogno. A farlo fu Walter Benjamin, che lo confidò a Gretel Adorno, la moglie del filosofo, in una lettera che le indirizzò il 12 ottobre 1939 dalla Nièvre, ove si trovava internato. Sapete cosa accomuna Derrida e Benjamin, oltre al fatto di essere filosofi e ebrei? Non ci crederete, ma ancora una data: sono nati entrambi il 15 luglio. Ma, di grazia, cosa sognò Benjamin in una notte di quell’anno orribile per la civiltà europea? Uno scialle ricamato e se stesso che diceva in francese: «Si tratta di trasformare uno scialle in una poesia». Scialle era reso con «fichu», che significa anche «cattivo», «perduto», «condannato», o più trivialmente «fottuto». Ove il «fottuto» era sicuramente egli stesso, che si avviava verso la morte, ma anche, secondo Derrida, il nostro mondo occidentale.
Bisogna seguire però per bene le evoluzioni teoriche del filosofo francese nel bel discorso appena pubblicato in italiano in un agile volumetto (Il sogno di Benjamin, pagine 55, euro 5). Si capirà come si possa parlare filosoficamente di tanti temi del presente: del disagio dell’espatriato, dell’esilio, della difficoltà di esprimersi in una lingua che non è la propria natia, delle «egemonie linguistiche» e di quelle culturali, dell’«avvenire politico dell’Europa e della mondializzazione». E si soppeserà la forza della proposta di un «nuovo illuminismo» e di una nuova teoria critica che ci permetta un «pensiero altro» e «pensare l’altro». Non si potrà tuttavia non scorgere nel fondo un persistente odio verso l’America, che pure ha fatto di Derrida un filosofo acclamato e di successo.
«La mia compassione assoluta per le vittime dell’11 settembre - afferma - non mi impedirà di dirlo: non credo all’innocenza politica di nessuno in questo crimine».
Fra gli attacchi filosofici alla contemporaneità occidentale uno dei più acuti è senza dubbio quello sferrato da Slavoij Zizek, che comincia solo ora a essere tradotto in italiano pur essendo ormai un guru filosofico in tutto il mondo. Lo studioso sloveno si è recentemente impegnato in una decostruzione del concetto chiave delll’Occidente: quello di tolleranza (Difesa dell’intolleranza, Città aperta, pagine 92, euro 8). Non si tratta affatto, a suo modo di vedere, di un concetto asettico e neutrale. Nella volontà di escludere infatti il conflitto dalla sfera politica, il liberale tollerante assume il proprio punto di vista come universale senza sapersi mettere nei panni di chi è escluso e vive ai margini: il migrante, il non occidentale o semplicemente il lavoratore flessibile e precario.
A costoro egli dice: io vi tollero, ma solo nella misura in cui non mi mettete in discussione. È un discorso «totalitario» in quanto non riconosce le differenze. I terroristi ideologici, in quest’ottica, rispondono, secondo Zizek, con un’inaccettabile violenza a una violenza egualmente inaccettabile. Ma, bisogna chiedersi, dovrà pur esserci una differenza fra la presunta violenza culturale e quella reale che miete vittime spesso innocenti, fra il fondamentalismo e la tolleranza? Non sarebbe opportuno spostare il discorso dalla teoria alla pratica?
Mark Jurgensmeyer, sociologo della California, studia il modo di pensare dei fondamenalisti religiosi (islamici, ebrei, cristiani, induisti, buddisti) con un’indagine sul campo che spesso li fa parlare in prima persona. Alla fine del lungo reportage (Terroristi in nome di Dio, Laterza, pagine 340, euro 18), tutto ci sentiremmo di dire tranne che i capi terroristi vivano ai margini o non siano perfettamente integrati nei gangli vitali del mondo globale.