La Stampa 15 Aprile 2004
MATTI
più che mai
di Michele Ainis
ALLA fine del Medioevo uno strano battello veleggiava lungo i fiumi della Renania e i canali fiamminghi: il Narrenschiff, la nave dei folli descritta da Foucault nella sua Storia della follia nell'età classica. Quel battello rappresenta l'emblema d'una condizione umana poi sperimentata dai malati di mente per i secoli a venire: cacciati dalle città, isolati e reclusi in uno spazio dove l'occhio dei sani non arriva. Uno spazio dove è lecita ogni forma di violenza, giacché il pazzo è per definizione un criminale, un pericolo per la comunità civile. E va perciò segregato in manicomio, incatenato su una branda, picchiato, vilipeso, giacché per lui non valgono i diritti che il sano può accampare.
Un retaggio dei secoli più bui? Un'antica colpa ormai cancellata dalla civiltà giuridica moderna? Non proprio, e non del tutto. E in questo senso l'esperienza italiana suona quantomai eloquente. Nel maggio 1978, sull'onda del movimento per la riforma psichiatrica guidato da Franco Basaglia, il Parlamento varò la «180». Una legge rivoluzionaria, che chiuse ufficialmente i manicomi (ve n'erano 144, e all'epoca ospitavano 150.000 persone), restituendo ai malati di mente la propria dignità perduta. Ma una legge poi tradita nella prassi, svuotata come una mummia egizia. E infatti subito dopo la sua entrata in vigore le regioni cominciarono a ritardarne l'attuazione, a frapporvi ostacoli; sorsero innumerevoli conflitti tra la polizia municipale e i presìdi ospedalieri circa la competenza a disporre il trattamento sanitario obbligatorio; ma soprattutto non venne mai predisposta dallo Stato l'assistenza psichiatrica prescritta dalla legge, sicché i malati di mente vennero infine scaricati sul groppone delle loro famiglie. Con la conseguenza che alla data del 2001 - secondo la fotografia scattata dal ministero della salute - mancavano quasi 8.000 operatori rispetto al fabbisogno, rendendo di fatto impraticabili le cure a domicilio sulle quali s'impernia la legge voluta da Basaglia. E con l'ulteriore conseguenza che a finire sotto accusa è stata in ultimo la legge, anziché la sua distorta applicazione: oltre 50 iniziative di modifica presentate negli ultimi vent'anni, con l'intenzione nemmeno troppo dissimulata di riaprire i manicomi.
Ma del resto la voglia di camicie forzate e manicomi cresce in tutto il mondo. Nel Regno Unito dapprima i governi conservatori, in un clima di guerra al servizio pubblico, hanno smantellato gli ospedali psichiatrici tagliandone drasticamente le risorse; in seguito il governo Blair ha puntato l'indice sul Mental Health Act del 1983, per riformarlo in modo da rinchiudere chiunque soffra d'un disturbo della personalità anche se non abbia mai commesso crimini. In Ucraina nel 1990 è stata istituita una speciale commissione nell'ambito dell'Ukrainan Psychiatric Association, col mandato d'assistere i degenti delle strutture psichiatriche che lamentino abusi e violazioni di diritti: fino al 1993 i casi denunziati erano alcune dozzine l'anno, sono diventati 400 nel 1996, e da allora continuano a salire. In Bulgaria i malati di mente vengono ricoverati in istituti di Stato e soggetti a condizioni crudeli e degradanti; e così per esempio nell'istituto femminile di Sanadinovo (chiuso solo nel 2002) le pazienti troppo esuberanti venivano segregate in una gabbia formata da due muri di mattoni e da sbarre e fil di ferro negli altri due lati, come ha potuto constatare un delegato di Amnesty International, che ne ha vista una di 3 metri per 1,5 con dentro 6 donne in precarie condizioni fisiche. In Slovenia il campo delle malattie mentali non ha ricevuto una precisa regolamentazione normativa, col risultato che i ricoverati sono privi di diritti. Né più né meno di quanto accade in India, o nei paesi dell'America centrale, dove secondo il World Health Report 2001 dell'Organizzazione mondiale della sanità i degenti degli ospedali psichiatrici vivono segregati in spazi angusti, all'interno d'edifici fatiscenti, trascorrendo il tempo in pigiama o addirittura nudi su stuoie spesso coperte di feci, e vengono regolarmente malmenati dai custodi. In Russia un terzo dei detenuti (305.000 su un totale di 962.000 reclusi) soffre di malattie mentali, sicché le carceri da correttive sono diventate curative, come ha dichiarato nel maggio 2002 Yuri Kalinin, viceministro alla giustizia. Senza dire dei manicomi giudiziari: alla data del 31 maggio 2001 quelli italiani accoglievano (si fa per dire) 1.265 persone, la metà delle quali prosciolte dal reato di cui erano accusate. In un manicomio criminale si sa quando si entra, ma non quando (e se) sarà possibile respirare di nuovo l'aria aperta; lì dentro può capitare di morire senza che nessuno se ne accorga, com'è accaduto a Giovanni Bonomo, il cui decesso (nel febbraio 2002) è stato scoperto solo due giorni dopo dalla moglie, e per un puro caso.
L'orrore, insomma, è planetario, come chiunque può vedere collegandosi al sito www.witness.org, che documenta gli abusi perpetrati in 50 paesi diversi. Eppure non è che al popolo dei folli manchi la protezione del diritto, almeno sulla carta. Nel 1991 l'Assemblea generale dell'Onu ha adottato una risoluzione per la «Protezione delle persone che soffrono di malattie mentali e il miglioramento delle cure per la salute mentale»: vi si trovano elencati 25 principi, fra i quali il rispetto della privacy, il divieto di discriminazioni, l'istituzione di garanti contro il pericolo di soprusi nelle strutture di ricovero, il diritto all'assistenza sanitaria, alla riabilitazione, a un vitto decente, allo svago, alla comunicazione, e vari altri ancora. Dichiarazioni puntualmente ribadite nelle varie carte dei diritti del malato, ma altrettanto puntualmente smentite nella prassi.
C'è un fallimento normativo, infatti, nel destino di chiunque soffra di disordini mentali; lo stesso fallimento contro cui si è infranto il sogno di Basaglia. Nell'ottobre del 2002, un quarto di secolo dopo il varo della legge che ancora reca la sua firma, il sottosegretario Guidi ne ha restituito un quadro sconsolante: i manicomi dovrebbero essere chiusi, ma in realtà hanno soltanto cambiato nome. Per il 49% sono collocati fuori, lontano dai centri abitati, come il Narrenschiff di Foucault. E in queste strutture inaccessibili e remote di notte non ci sono medici: succede nel 92% dei casi. È successo anche a San Gregorio Magno, dove in una notte del 2001 morirono bruciate 19 persone, tutte anziane e malate di mente. Succede quando la morte è volontaria, dato che in manicomio ci s'ammazza 50 volte più che fuori, senza che vi sia qualcuno ad impedirlo. O altrimenti succede perché nei manicomi (negli «ospedali psichiatrici») italiani si continuano ad usare cinghie, camicie di forza, strumenti di coercizione che almeno formalmente sarebbero proibiti, ma che vengono tuttavia impiegati perlomeno nel 4% di queste strutture.
A conti fatti l'unico diritto all'eguaglianza che i pazzi possono concretamente esercitare è quello che li oppone al boia: accade in America, la patria delle libertà, dove infatti nell'ultimo quarto di secolo sono stati giustiziati almeno 36 ritardati mentali, secondo la denuncia di Amnesty International. Magra consolazione, tuttavia. Anche perché i folli, i «disturbati», sono assai più di quanto ci s'aspetta. 10 milioni in Italia, oltre 450 milioni di persone adulte in tutto il mondo, soffrono di disagi psichici, secondo i dati dell'Oms. Gli schizofrenici sono 24 milioni, gli epilettici il doppio (50 milioni). Significa che i disturbi mentali coprono il 12% del carico globale di malattia, una quota superiore a quella del cancro, della malaria e della tubercolosi messi insieme. Significa altresì che una persona su 4 subisce un qualche disturbo mentale nel corso della propria esistenza. E infatti la depressione oggi rappresenta il principale fattore di disabilità; in Italia colpisce l'8% d'uomini e donne; entro il 2020 è destinata a diventare la seconda malattia più debilitante. Sempre in Italia, si stima una popolazione di 8.066.000 persone con disturbi affettivi; 349.000 soffrono di psicosi non affettive; 1.244.000 hanno disturbi da somatizzazione; in 7.943.000 soffrono di crisi d'ansia; 767.000 lamentano disturbi del sonno; 377.000 hanno disturbi alimentari; 49.000 si portano addosso malattie psicosessuali; 229.000 soffrono di disturbi dell'infanzia e dell'adolescenza; almeno in 500.000 sono stati colpiti da una patologia psichica grave.
Ecco perché il pregiudizio - lo «stigma» - che circonda i folli, gli instabili, i depressi, suona doppiamente ingiusto. È una maledizione sociale che trasforma le vittime in carnefici, gli aggrediti in aggressori, quando il più delle volte ad essere violenti siamo noi, i sani, i ricchi, i benpensanti. Accetteremmo la stessa situazione se lo stigma colpisse chi soffre di cancro o d'infarto? Eppure negli Stati Uniti, secondo un rapporto reso nel 2001 dalla National Depressive and Maniac-Depressive Association, il 69% dei malati di mente è vittima di diagnosi errate, che spesso si ripetono per due, tre, anche per cinque volte. Eppure la metà delle persone affette da malattie mentali, intervistate nel corso di un'indagine britannica, ha denunziato un trattamento inadeguato da parte dei servizi sanitari, e una percentuale altrettanto notevole ha ammesso d'aver subito molestie fisiche e verbali. Eppure lo stigma genera discriminazione nell'ambiente di lavoro, rende difficile trovare un'abitazione, accedere alle cure o più semplicemente allacciare rapporti sociali. Da vari studi condotti nel dopoguerra in Usa emerge che solo il 13% dei datori di lavoro ha dichiarato d'aver assunto una persona che soffra di disturbi psichiatrici, mentre un quarto ha ammesso a chiare lettere che non lo avrebbe fatto mai. Una percentuale che in Grecia tocca il 40%, e che altrove sale ancora. Così come sale la nostra intolleranza, figlia legittima (ahimè) dell'ignoranza.
micheleainis@tin.it