Repubblica Salute 24.7.03
Riconoscere i disagi prima dei dodici anni
Convegno del ministero della Salute sul tema della prevenzione nell’età evolutiva.
Cosa osservare
DI ANNAMARIA MESSA
Crisi, problemi, ‘complessi’ più o meno esagerati, reazioni a volte eccessive, umore altalenante, difficoltà a scuola o nella routine quotidiana? A 15/16 anni sono problemi dell’età si dice in famiglia e si pazienta in attesa che l’adolescente "cresca e capisca"… Invece non sempre è così e possono consolidarsi disturbi difficili poi da risolvere ma che più facilmente potevano essere curati prima che esplodessero. «In genere si fa caso all’adolescenza (tutti sono un po’ matti, qualcuno lo è di più) o alla primissima infanzia (tutti a rischio, mamme terribili, mostri dietro la porta…) ma si dimentica che nei 12 anni di vita tra il secondo e il 14esimo succedono molti fatti e proprio in questa fascia d’età cominciano problemi psichiatrici che emergeranno dopo ma si possono prevenire e qualcuno già curare».
Si può soprattutto individuare chi sta maturando un problema, ribadisce Gabriel Levi, docente di Psichiatria dell’età evolutiva all’università La Sapienza di Roma. «Sopra i 14 è come chiudere la stalla quando i buoi sono scappati: la maggior parte dei problemi che scoppiano nell’adolescenza si possono riconoscere già prima dei 12 anni», commenta durante il convegno sulla Prevenzione in psichiatria dell’età evolutiva, organizzato insieme al ministero della Salute.
«Per prevenire non si va più solo a guardare chi ha i problemi (e lo si prende in carico senza far finta che non ne ha) ma si studiano le problematiche come noia, pigrizia, ansia, tristezza, deconcentrazione, che tutti hanno e qualcuno di più. Si affronta la situazione di salute mentale evolutiva in generale, con le caratteristiche d’identità di ognuno, per capire come un bambino che oggi si comporta in un certo modo potrà essere a rischio di avere problemi da adulto». I disturbi di personalità riguardano l’12% degli adulti in genere. «Occorre saper riconoscere quei segnali di disagio e quei comportamenti parafisiologici che in realtà possono rappresentare la prima espressione di un disturbo di personalità ancora fluttuante e non strutturato. La ricerca dimostra che diverse condizioni individuali (ritardi e disturbi cognitivi e di sviluppo, disturbi di regolazione del temperamento, disturbi dell’umore) e ambientali (abuso, trascuratezza, problemi di caregiving) possono favorire l’insorgenza di disturbi di personalità nel bambino e nell’adolescente, che tendono a mantenersi stabili nel tempo», sottolinea al convegno romano Ernesto Caffo, Neuropsichiatra Infantile, Univ. Modena e Reggio Emilia, «La mancanza di attenzione ai primi segnali di disagio, più o meno accompagnati da fattori ambientali sfavorenti, può portare a situazioni di disturbo emergente, ancora fluttuante e non strutturato, fino a un disturbo riconoscibile e trattabile le cui conseguenze possono protrarsi lungo tutto l’arco della vita».
Prevenzione primaria dunque come intervento tra il rischio e il disturbo.
Già la noia è un indicatore importante: al di là di un livello accettabile suona l’allarme. Così la pigrizia, l’ansia troppo pesante, paure diffuse… per qualunque problema c’è una percentuale di bambini che sta un po’ peggio anche per altri motivi e minaccia di scompensarsi. Bisogna individuare chi sta slittando dal problema alla patologia e aiutarlo in tempo utile nelle sedi giuste, senza paura, sapendo che un intervento fatto 3 anni prima fa soffrire di meno, dura di meno e ha risultati maggiori. «I bambini a rischio non si mettono direttamente in cura: devono ricevere un’attenzione maggiore insieme agli altri bambini», precisa Levi. La prevenzione guarda insomma i problemi in modo nuovo, mentre crescono, con un’alleanza tra famiglia, scuola, sanità, servizi sociali, conferma il sottosegretario alla Salute Antonio Guidi ribadendo la volontà del ministero di camminare sulla stessa strada.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
mercoledì 30 luglio 2003
lo psichiatra della Camera, Piero Rocchini
Il Gazzettino di Venezia Mercoledì, 30 Luglio 2003
In "Onorevoli sul lettino" lo psichiatra Piero Rocchini racconta i suoi incontri con nevrosi, vizi e patologie dei politici
Quando la schizofrenia è al potere
C’è l’ipocondriaco, l’ossessivo, il superstizioso, il narcisista e il più pericoloso: il sanguigno
di GINO DATO
Narcisisti, sanguigni, ipocondriaci, dipendenti, depressi lo siamo un po' tutti. Ma che succede quando la psicopatologia quotidiana invade i banchi del Parlamento? Che garanzie offre un politico che intraprende la carriera della cosa pubblica per riflettersi nello specchio del potere, per prosciugare la sua sete di dominio, per vincere la sua ipocondria? Questi pericoli e aberrazioni hanno già scritto pagine vergognose della nostra storia, ma oggi sono tanto più immanenti quanto più la democrazia non si nutre più di ideologie e di valori ma di sistemi fondati sul trionfo di personalità individuali.
Piero Rocchini, per molti anni consulente in psicologia clinica della Camera dei deputati, ha accolto illustri parlamentari sul suo lettino di psicoanalista: una necessità di singoli onorevoli che può tradursi in lezione di molti comuni mortali, di noi tutti che alla politica affidiamo la conquista del benessere e dovremmo perciò blindarla. Nevrosi e vizi, fuori della vita privata, diventano un danno pubblico, come lo psichiatra prova a raccontare nel suo ultimo libro "Onorevoli sul lettino" (Marco Tropea editore).
Professore, possiamo allora parafrasare il motto sessantottino "la fantasia al potere" in "la schizofrenia al potere"?
«Oggi mancano gli elementi di unità che esistevano una volta. Ogni cosa concepita attraverso la politica, un tempo, serviva a unire più che a cercare una autoaffermazione pura e semplice. Quindi in sé e per sé, la politica, in qualunque ambito fosse svolta, svolgeva un ruolo di socializzazione, da un lato, di convalida di certi valori, dall'altro, soprattutto della società in cui si era inseriti, anche quando questa veniva contestata».
E oggi?
«Oggi non è crollato solo il muro di Berlino, è crollato quel contenitore che bastava a tenerci insieme. Molti di coloro che vivono all'interno di questa società, non hanno ben chiari i motivi dello stare insieme, o non lo ritrovano se non in un vantaggio personale. Alla politica per star meglio insieme, dal punto di vista esistenziale, si è sostituita la ricerca dei vantaggi che possiamo ottenere dalla società».
Ma quali sono i disturbi tipici di un politico?
«Forse dovremmo fare una distinzione tra disturbi che permettono una più facile affermazione di un politico o di un dirigente in genere, e disturbi collegati alla conquista di un certo ruolo all'interno della società».
Vediamo i primi.
«Sono i più pericolosi per noi. Non casualmente si parla di psicopatici perché attualmente, anche secondo lo strapotere di un certo tipo di massmedia, quello strapotere che si cerca di foraggiare in tutti i modi, per chi voglia affermarsi è fondamentale saper mentire».
Questo è il principio dell'autoaffermazione?
«Intanto è molto comune la figura del narcisista che dice: gli altri esistono per il mio piacere. Non c'è una empatia, una sensazione profonda di quello che l'altro possa provare, un senso di vicinanza. C'è invece una volontà di utilizzo ma solo per il proprio piacere individuale: tanti personaggi che chiedono di essere al centro del palcoscenico e noi, al massimo, nel ruolo di un pubblico che applaude o in qualche modo dà piacere. Nello stesso momento in cui diciamo: "non ho timore dell'eventuale dolore dell'altro, non ho dispiacere per il danno che posso infliggere all'altro", mi sono dato una carta in più rispetto a chi nutre valori morali, a chi ha remore, a chi si pone dei limiti proprio perché considera l'altro un valore fondamentale da rispettare».
Lei enumera figure tipiche di politico: l'ipocondriaco, il dipendente, il superstizioso, l'ossessivo
«Molti di noi si sono abituati a concepire il capo come qualcuno che riassume il meglio di una società. Nella nostra, estremamente individualistica, è esattamente il contrario: forse il capo riassume tanti dei difetti della gente comune. Soltanto che, avendo pelo sullo stomaco, e nessuna remora a farsi largo a gomitate, più facilmente riesce a realizzare quello che potremmo considerare purtroppo un sogno abbastanza comune: prevalere a tutti i costi».
Ma il potere - secondo il vecchio adagio - non logora chi non ce l'ha?
«Il problema nasce per il politico quando, raggiunto quel gradino, c'è da mantenerlo. Il potere allora logora, sì, chi non ce l'ha, ma logora anche chi deve mantenere il potere, soprattutto se lo si è raggiunto non per capacità intrinseche ma per il vantaggio che chi sta ancora più sopra di noi poteva avere attraverso noi.
Neanche il narcisista ci tranquillizza?
«Il problema del leader narcisista è che non vuole folle intorno a sé, e neanche persone valide, ma preferisce essere l'unico e non quello capace di organizzare una squadra. Allora servono figure di secondo piano per avere la garanzia di non ribellione. Io dico che siamo giunti agli ultimi giorni dell'impero romano, quando si preferiva sterminare la propria famiglia piuttosto che correre il rischio di concorrenze pericolose».
Qual è la tipologia di politico più pericolosa?
«Forse il sanguigno, insieme a un certo tipo di narcisista. Unirei i due aspetti. Esistono varie forme di narcisismo: di chi punta alla grande impresa per lasciare il ricordo di sé, e questo potrebbe star bene a noi gente comune, perché in fondo quel tipo di narcisista cercherà di fare il meglio. Come potrebbe star bene anche il narcisista che cerca il successo più che il potere, quindi una persona che proverà in tutti i modi a capire che sogni potremmo realizzare attraverso di lui. Esiste invece un altro tipo di narcisismo patologico, quello che descrivo nel sanguigno, che appare pericoloso perché vuole il potere per il potere, il controllo assoluto. Come dicevo prima, l'imperatore degli ultimi giorni dell'impero romano, quello che deve controllare e dominare al di là di ogni limite».
La psicologia politica può andare a scoprire - lei scrive - che cosa c'è nella scatola che vogliono venderci, per cui possiamo tornare a mettere al centro il consumatore, l'elettore. E' così realmente? E questo lo può fare anche la gente comune?
«Sì, con l'aiuto della stampa. Una cosa molto diversa nel nostro paese rispetto ad altre democrazie più mature, è che in queste le informazioni sui politici viaggiano con estrema facilità. Ho la possibilità di consultare attraverso internet le prove d'esame di Bush figlio, per esempio, e quindi sapere che capacità o incapacità aveva manifestato a suo tempo. Se tento di fare la stessa cosa in Italia, molti politici cominciano a gridare alla violazione della privacy. Allora dobbiamo imporre la regola - con l'aiuto della psicologia - che chi vuole avere un potere deve accettare di stare sotto i riflettori, quindi di essere spulciato in tutti i suoi comportamenti, perché si deve dare la possibilità - soprattutto nel momento in cui ci si muove verso un maggioritario spinto o verso il presidenzialismo - di conoscere fino in fondo il personaggio».
Che cosa non deve essere allora un politico?
«Prima accennavo a un certo tipo di narcisismo che potremmo considerare patologico o alla personalità sanguigna. Ecco, quelle sono le caratteristiche che dobbiamo considerare pericolose nel politico. Ho invertito l'ordine della sua domanda. Perché credo che dovremmo cominciare a ripensare come noi i depositari del potere: siamo noi che dobbiamo scegliere o non scegliere persone che hanno o meno alcune caratteristiche di personalità. Difficilmente un politico potrebbe modificare certe caratteristiche. Il sanguigno rimarrà sanguigno, il narcisista potrà limitare un po' certe sue peculiarità ma difficilmente, se ha sete di potere, potrà saziarla se non acquisendo potere».
Ma la gente tiene conto di questi elementi quando dà un voto nell'urna?
«Dobbiamo sviluppare la possibilità di ottenere più informazioni personali. Nel momento in cui contano meno i partiti e contano sempre più i programmi, che sono spesso fotocopia, e i personaggi, tanto più dobbiamo accedere alle informazioni. Guardo allora come un pericolo tutte quelle leggi sulla stampa che in qualche modo potrebbero limitare questa circolazione di notizie. Non credo che scelta del maggioritario e limitazione della capacità di informazione possano andare d'accordo per fondare e mantenere una reale democrazia»
In "Onorevoli sul lettino" lo psichiatra Piero Rocchini racconta i suoi incontri con nevrosi, vizi e patologie dei politici
Quando la schizofrenia è al potere
C’è l’ipocondriaco, l’ossessivo, il superstizioso, il narcisista e il più pericoloso: il sanguigno
di GINO DATO
Narcisisti, sanguigni, ipocondriaci, dipendenti, depressi lo siamo un po' tutti. Ma che succede quando la psicopatologia quotidiana invade i banchi del Parlamento? Che garanzie offre un politico che intraprende la carriera della cosa pubblica per riflettersi nello specchio del potere, per prosciugare la sua sete di dominio, per vincere la sua ipocondria? Questi pericoli e aberrazioni hanno già scritto pagine vergognose della nostra storia, ma oggi sono tanto più immanenti quanto più la democrazia non si nutre più di ideologie e di valori ma di sistemi fondati sul trionfo di personalità individuali.
Piero Rocchini, per molti anni consulente in psicologia clinica della Camera dei deputati, ha accolto illustri parlamentari sul suo lettino di psicoanalista: una necessità di singoli onorevoli che può tradursi in lezione di molti comuni mortali, di noi tutti che alla politica affidiamo la conquista del benessere e dovremmo perciò blindarla. Nevrosi e vizi, fuori della vita privata, diventano un danno pubblico, come lo psichiatra prova a raccontare nel suo ultimo libro "Onorevoli sul lettino" (Marco Tropea editore).
Professore, possiamo allora parafrasare il motto sessantottino "la fantasia al potere" in "la schizofrenia al potere"?
«Oggi mancano gli elementi di unità che esistevano una volta. Ogni cosa concepita attraverso la politica, un tempo, serviva a unire più che a cercare una autoaffermazione pura e semplice. Quindi in sé e per sé, la politica, in qualunque ambito fosse svolta, svolgeva un ruolo di socializzazione, da un lato, di convalida di certi valori, dall'altro, soprattutto della società in cui si era inseriti, anche quando questa veniva contestata».
E oggi?
«Oggi non è crollato solo il muro di Berlino, è crollato quel contenitore che bastava a tenerci insieme. Molti di coloro che vivono all'interno di questa società, non hanno ben chiari i motivi dello stare insieme, o non lo ritrovano se non in un vantaggio personale. Alla politica per star meglio insieme, dal punto di vista esistenziale, si è sostituita la ricerca dei vantaggi che possiamo ottenere dalla società».
Ma quali sono i disturbi tipici di un politico?
«Forse dovremmo fare una distinzione tra disturbi che permettono una più facile affermazione di un politico o di un dirigente in genere, e disturbi collegati alla conquista di un certo ruolo all'interno della società».
Vediamo i primi.
«Sono i più pericolosi per noi. Non casualmente si parla di psicopatici perché attualmente, anche secondo lo strapotere di un certo tipo di massmedia, quello strapotere che si cerca di foraggiare in tutti i modi, per chi voglia affermarsi è fondamentale saper mentire».
Questo è il principio dell'autoaffermazione?
«Intanto è molto comune la figura del narcisista che dice: gli altri esistono per il mio piacere. Non c'è una empatia, una sensazione profonda di quello che l'altro possa provare, un senso di vicinanza. C'è invece una volontà di utilizzo ma solo per il proprio piacere individuale: tanti personaggi che chiedono di essere al centro del palcoscenico e noi, al massimo, nel ruolo di un pubblico che applaude o in qualche modo dà piacere. Nello stesso momento in cui diciamo: "non ho timore dell'eventuale dolore dell'altro, non ho dispiacere per il danno che posso infliggere all'altro", mi sono dato una carta in più rispetto a chi nutre valori morali, a chi ha remore, a chi si pone dei limiti proprio perché considera l'altro un valore fondamentale da rispettare».
Lei enumera figure tipiche di politico: l'ipocondriaco, il dipendente, il superstizioso, l'ossessivo
«Molti di noi si sono abituati a concepire il capo come qualcuno che riassume il meglio di una società. Nella nostra, estremamente individualistica, è esattamente il contrario: forse il capo riassume tanti dei difetti della gente comune. Soltanto che, avendo pelo sullo stomaco, e nessuna remora a farsi largo a gomitate, più facilmente riesce a realizzare quello che potremmo considerare purtroppo un sogno abbastanza comune: prevalere a tutti i costi».
Ma il potere - secondo il vecchio adagio - non logora chi non ce l'ha?
«Il problema nasce per il politico quando, raggiunto quel gradino, c'è da mantenerlo. Il potere allora logora, sì, chi non ce l'ha, ma logora anche chi deve mantenere il potere, soprattutto se lo si è raggiunto non per capacità intrinseche ma per il vantaggio che chi sta ancora più sopra di noi poteva avere attraverso noi.
Neanche il narcisista ci tranquillizza?
«Il problema del leader narcisista è che non vuole folle intorno a sé, e neanche persone valide, ma preferisce essere l'unico e non quello capace di organizzare una squadra. Allora servono figure di secondo piano per avere la garanzia di non ribellione. Io dico che siamo giunti agli ultimi giorni dell'impero romano, quando si preferiva sterminare la propria famiglia piuttosto che correre il rischio di concorrenze pericolose».
Qual è la tipologia di politico più pericolosa?
«Forse il sanguigno, insieme a un certo tipo di narcisista. Unirei i due aspetti. Esistono varie forme di narcisismo: di chi punta alla grande impresa per lasciare il ricordo di sé, e questo potrebbe star bene a noi gente comune, perché in fondo quel tipo di narcisista cercherà di fare il meglio. Come potrebbe star bene anche il narcisista che cerca il successo più che il potere, quindi una persona che proverà in tutti i modi a capire che sogni potremmo realizzare attraverso di lui. Esiste invece un altro tipo di narcisismo patologico, quello che descrivo nel sanguigno, che appare pericoloso perché vuole il potere per il potere, il controllo assoluto. Come dicevo prima, l'imperatore degli ultimi giorni dell'impero romano, quello che deve controllare e dominare al di là di ogni limite».
La psicologia politica può andare a scoprire - lei scrive - che cosa c'è nella scatola che vogliono venderci, per cui possiamo tornare a mettere al centro il consumatore, l'elettore. E' così realmente? E questo lo può fare anche la gente comune?
«Sì, con l'aiuto della stampa. Una cosa molto diversa nel nostro paese rispetto ad altre democrazie più mature, è che in queste le informazioni sui politici viaggiano con estrema facilità. Ho la possibilità di consultare attraverso internet le prove d'esame di Bush figlio, per esempio, e quindi sapere che capacità o incapacità aveva manifestato a suo tempo. Se tento di fare la stessa cosa in Italia, molti politici cominciano a gridare alla violazione della privacy. Allora dobbiamo imporre la regola - con l'aiuto della psicologia - che chi vuole avere un potere deve accettare di stare sotto i riflettori, quindi di essere spulciato in tutti i suoi comportamenti, perché si deve dare la possibilità - soprattutto nel momento in cui ci si muove verso un maggioritario spinto o verso il presidenzialismo - di conoscere fino in fondo il personaggio».
Che cosa non deve essere allora un politico?
«Prima accennavo a un certo tipo di narcisismo che potremmo considerare patologico o alla personalità sanguigna. Ecco, quelle sono le caratteristiche che dobbiamo considerare pericolose nel politico. Ho invertito l'ordine della sua domanda. Perché credo che dovremmo cominciare a ripensare come noi i depositari del potere: siamo noi che dobbiamo scegliere o non scegliere persone che hanno o meno alcune caratteristiche di personalità. Difficilmente un politico potrebbe modificare certe caratteristiche. Il sanguigno rimarrà sanguigno, il narcisista potrà limitare un po' certe sue peculiarità ma difficilmente, se ha sete di potere, potrà saziarla se non acquisendo potere».
Ma la gente tiene conto di questi elementi quando dà un voto nell'urna?
«Dobbiamo sviluppare la possibilità di ottenere più informazioni personali. Nel momento in cui contano meno i partiti e contano sempre più i programmi, che sono spesso fotocopia, e i personaggi, tanto più dobbiamo accedere alle informazioni. Guardo allora come un pericolo tutte quelle leggi sulla stampa che in qualche modo potrebbero limitare questa circolazione di notizie. Non credo che scelta del maggioritario e limitazione della capacità di informazione possano andare d'accordo per fondare e mantenere una reale democrazia»
psicoterapia... eclettica
Il Gazzettino di Venezia Mercoledì, 30 Luglio 2003
LA PAROLA ALL’ESPERTO
La psicoterapia è un valido aiuto per i pazienti che sono caduti in uno stato di profonda crisi esistenziale
Il dialogo, medicina della mente
La psicoterapia è oramai parte integrale del trattamento dei pazienti. Essa può essere strumento di prima o seconda scelta, ma sulla sua efficacia, nei diversi livelli di intervento psichiatrico, non vi è alcun dubbio. Negli ultimi anni, infatti, vi è stata una considerevole convergenza da parte di scuole nate con criteri assai diversi e contrastanti (ad esempio la psicoanalisi ed il cognitivismo) per arrivare ad un eclettismo. Eclettismo significa sapiente mistura di diverse tecniche, non uso spregiudicato e confuso di molti orientamenti. La prima scelta di psicoterapia è legata all'attitudine empatica e d'ascolto del medico, ma la pratica psicoterapica in senso stretto nasce solo quando si cerca di dare dei fondamenti teorici a questo tipo di trattamento. Karl Jaspers, il filosofo esistenzialista, scrisse, nel 1955, un librettino che puntualizzò i termini della questione e stabilì il termine di "psicoterapia", dal titolo " Essere e critica della psicoterapia", che, ricordo, fu uno dei primi libri che comperai quarant'anni fa, quando decisi di fare questo mestiere. La psicoterapia è strettamente legata alle condizioni della società, intese come modelli culturali, per cui la sua pratica cambia, nello spazio e nel tempo, in maniera continua. La psicoterapia attuale, ad esempio, non è più la stessa di quella che vedevo effettuare quando lessi Jaspers nel 1964. Ci si è resi sempre più conto, infatti, che la psicoterapia, oltre ad influenzare i sintomi della malattia psichiatrica, aveva un effetto terapeutico anche sulle strutture di personalità (per cui rimando al mio articolo "Il temperamento non cambia" del 10 febbraio 2003). Si tende ad interpretare l'effetto psicoterapico come attivo sia sulle situazioni emotive che portano a patologia che su regressioni personologiche, con una concezione mista dell'effetto, terapeutico e psicopedagogico. La psicoterapia serve quindi ad affrontare i problemi in maniera diversa, da angolazioni inusitate, per facilitarne la risoluzione, ma anche a smussare alcune parti della personalità, rafforzandone delle altre. I vari tipi di psicoterapia usano sempre i medesimi strumenti (l'ascolto, la parola, lo strutturarsi di un rapporto emotivo, le condizioni strutturali) anche se, di volta in volta, ne variano l'intensità ed il grado di utilizzo. Le psicoterapie possono mirare vuoi ad un aumento della consapevolezza del proprio funzionamento ("insight") che ad un cambiamento di comportamento: avremo così le psicoterapie esperienziali (di cui la psicoanalisi è la principale rappresentante) e le psicoterapie di cambiamento (di cui la principale è quella legata al cognitivismo).Ciò che importa è l'addestramento specifico dello psicoterapeuta che è particolarmente critico nelle psicoterapie di "insulti", perché il terapeuta deve aver superato le sue situazioni inconsce di conflitto e di fissazione a stadi non evoluti. Oltre a questo un criterio che si è rivelato molto importante è l'empatia, la relazione emotiva non esplicabile e non deducibile, che è determinante nell'assicurare la buona riuscita del trattamento.E' errato pensare che le nevrosi rispondano bene al trattamento psicoterapico e le psicosi ed i disturbi di personalità rispondano assai meno bene. In realtà tutti i disturbi nevrotici afferenti alle vecchia denominazione dell'isteria ed ai disturbi ossessivo-compulsivi si dimostrano eccezionalmente resistenti al solo trattamento psicoterapico, così come particolarmente complicati sono i disturbi di personalità. Per converso i disturbi schizofrenici, oltre al necessario trattamento con neurolettici di seconda generazione, hanno un enorme vantaggio da una psicoterapia orientata all'insight, terapia, peraltro, riservata a pochi terapeuti per le sue difficoltà.
prof. dott. Antonio A. Rizzoli
aa.rizzoli@ve.nettuno.it
LA PAROLA ALL’ESPERTO
La psicoterapia è un valido aiuto per i pazienti che sono caduti in uno stato di profonda crisi esistenziale
Il dialogo, medicina della mente
La psicoterapia è oramai parte integrale del trattamento dei pazienti. Essa può essere strumento di prima o seconda scelta, ma sulla sua efficacia, nei diversi livelli di intervento psichiatrico, non vi è alcun dubbio. Negli ultimi anni, infatti, vi è stata una considerevole convergenza da parte di scuole nate con criteri assai diversi e contrastanti (ad esempio la psicoanalisi ed il cognitivismo) per arrivare ad un eclettismo. Eclettismo significa sapiente mistura di diverse tecniche, non uso spregiudicato e confuso di molti orientamenti. La prima scelta di psicoterapia è legata all'attitudine empatica e d'ascolto del medico, ma la pratica psicoterapica in senso stretto nasce solo quando si cerca di dare dei fondamenti teorici a questo tipo di trattamento. Karl Jaspers, il filosofo esistenzialista, scrisse, nel 1955, un librettino che puntualizzò i termini della questione e stabilì il termine di "psicoterapia", dal titolo " Essere e critica della psicoterapia", che, ricordo, fu uno dei primi libri che comperai quarant'anni fa, quando decisi di fare questo mestiere. La psicoterapia è strettamente legata alle condizioni della società, intese come modelli culturali, per cui la sua pratica cambia, nello spazio e nel tempo, in maniera continua. La psicoterapia attuale, ad esempio, non è più la stessa di quella che vedevo effettuare quando lessi Jaspers nel 1964. Ci si è resi sempre più conto, infatti, che la psicoterapia, oltre ad influenzare i sintomi della malattia psichiatrica, aveva un effetto terapeutico anche sulle strutture di personalità (per cui rimando al mio articolo "Il temperamento non cambia" del 10 febbraio 2003). Si tende ad interpretare l'effetto psicoterapico come attivo sia sulle situazioni emotive che portano a patologia che su regressioni personologiche, con una concezione mista dell'effetto, terapeutico e psicopedagogico. La psicoterapia serve quindi ad affrontare i problemi in maniera diversa, da angolazioni inusitate, per facilitarne la risoluzione, ma anche a smussare alcune parti della personalità, rafforzandone delle altre. I vari tipi di psicoterapia usano sempre i medesimi strumenti (l'ascolto, la parola, lo strutturarsi di un rapporto emotivo, le condizioni strutturali) anche se, di volta in volta, ne variano l'intensità ed il grado di utilizzo. Le psicoterapie possono mirare vuoi ad un aumento della consapevolezza del proprio funzionamento ("insight") che ad un cambiamento di comportamento: avremo così le psicoterapie esperienziali (di cui la psicoanalisi è la principale rappresentante) e le psicoterapie di cambiamento (di cui la principale è quella legata al cognitivismo).Ciò che importa è l'addestramento specifico dello psicoterapeuta che è particolarmente critico nelle psicoterapie di "insulti", perché il terapeuta deve aver superato le sue situazioni inconsce di conflitto e di fissazione a stadi non evoluti. Oltre a questo un criterio che si è rivelato molto importante è l'empatia, la relazione emotiva non esplicabile e non deducibile, che è determinante nell'assicurare la buona riuscita del trattamento.E' errato pensare che le nevrosi rispondano bene al trattamento psicoterapico e le psicosi ed i disturbi di personalità rispondano assai meno bene. In realtà tutti i disturbi nevrotici afferenti alle vecchia denominazione dell'isteria ed ai disturbi ossessivo-compulsivi si dimostrano eccezionalmente resistenti al solo trattamento psicoterapico, così come particolarmente complicati sono i disturbi di personalità. Per converso i disturbi schizofrenici, oltre al necessario trattamento con neurolettici di seconda generazione, hanno un enorme vantaggio da una psicoterapia orientata all'insight, terapia, peraltro, riservata a pochi terapeuti per le sue difficoltà.
prof. dott. Antonio A. Rizzoli
aa.rizzoli@ve.nettuno.it
clonazione umana
ilNuovo.it 12.5.03
Clonato il primo embrione umano
Lo annuncia l'andrologo Zavos, che precisa: "l'esperimento ha fini riproduttivi". Sviluppato fino allo stadio di 8-10 cellule, servirà per nuove analisi molecolari.
ROMA – Il primo embrione umano è stato clonato. A fini riproduttivi. Ad annunciarlo è l'andrologo Panayotis Zavos, dell'università statunitense del Kentucky. Che, di fatto, dichiara di aver fatto sviluppare l’embrione fino allo stadio di 8-10 cellule e di averlo congelato al fine di compiere su di esso ulteriori analisi molecolari.
L’esperimento, precisa Zavos, "è stato condotto fuori dagli Stati Uniti. Nel 2001 Zavos aveva annunciato, insieme all'italiano Severino Antinori, di voler avviare un programma di clonazione umana a fini riproduttivi. In seguito le strade dell'andrologo di origine cipriota e del ginecologo romano si erano separate.
"Recentemente il nostro gruppo di esperti scientifici e medici ha creato il primo embrione umano clonato a scopi riproduttivi", scrive Zavos in un articolo pubblicato sulla rivista internazionale Reproductive BioMedicine Online e intitolato "Clonazione umana riproduttiva: il tempo è vicino".
Zavos rileva che lui e il suo gruppo non hanno mai dichiarato di voler clonare un embrione umano a scopo riproduttivo "ignorando la preoccupazione del pubblico o le critiche degli scienziati". Né, tantomeno, "i risultati contraddittori che negli anni passati hanno ottenuto i ricercatori impegnati nel campo della clonazione animale".
Noi, aggiunge, "volevamo semplicemente imparare dalle difficoltà" finora incontrate da coloro che hanno fatto esperimenti di clonazione. Così, prosegue Zavos, i primi esperimenti affrontati dal suo gruppo hanno riguardato i bovini. Quindi si è passati agli esperimenti con cellule umane: un particolare tipo di cellule del sangue, i granulociti, sono stati trasferiti all'interno di ovociti umani privati del nucleo.
L'embrione così ottenuto, scrive Zavos, "è stato il risultato finale dell'utilizzo di nove ovociti enucleati con tecniche di microchirurgia e fusi, per mezzo di una stimolazione elettrica, con granulociti prelevati da una paziente che desiderava avere un bambino con la tecnica del trasferimento nucleare di cellule somatiche (Scnt)".
L'embrione così ottenuto ha raggiunto lo stadio di 8-10 cellule, "che mostra un ritmo di sviluppo equivalente a quello di un normale embrione ottenuto con la fecondazione in vitro. Il suo sviluppo è stato osservato e registrato, e l'embrione è stato criopreservato per future analisi molecolari e altre osservazioni"
Clonato il primo embrione umano
Lo annuncia l'andrologo Zavos, che precisa: "l'esperimento ha fini riproduttivi". Sviluppato fino allo stadio di 8-10 cellule, servirà per nuove analisi molecolari.
ROMA – Il primo embrione umano è stato clonato. A fini riproduttivi. Ad annunciarlo è l'andrologo Panayotis Zavos, dell'università statunitense del Kentucky. Che, di fatto, dichiara di aver fatto sviluppare l’embrione fino allo stadio di 8-10 cellule e di averlo congelato al fine di compiere su di esso ulteriori analisi molecolari.
L’esperimento, precisa Zavos, "è stato condotto fuori dagli Stati Uniti. Nel 2001 Zavos aveva annunciato, insieme all'italiano Severino Antinori, di voler avviare un programma di clonazione umana a fini riproduttivi. In seguito le strade dell'andrologo di origine cipriota e del ginecologo romano si erano separate.
"Recentemente il nostro gruppo di esperti scientifici e medici ha creato il primo embrione umano clonato a scopi riproduttivi", scrive Zavos in un articolo pubblicato sulla rivista internazionale Reproductive BioMedicine Online e intitolato "Clonazione umana riproduttiva: il tempo è vicino".
Zavos rileva che lui e il suo gruppo non hanno mai dichiarato di voler clonare un embrione umano a scopo riproduttivo "ignorando la preoccupazione del pubblico o le critiche degli scienziati". Né, tantomeno, "i risultati contraddittori che negli anni passati hanno ottenuto i ricercatori impegnati nel campo della clonazione animale".
Noi, aggiunge, "volevamo semplicemente imparare dalle difficoltà" finora incontrate da coloro che hanno fatto esperimenti di clonazione. Così, prosegue Zavos, i primi esperimenti affrontati dal suo gruppo hanno riguardato i bovini. Quindi si è passati agli esperimenti con cellule umane: un particolare tipo di cellule del sangue, i granulociti, sono stati trasferiti all'interno di ovociti umani privati del nucleo.
L'embrione così ottenuto, scrive Zavos, "è stato il risultato finale dell'utilizzo di nove ovociti enucleati con tecniche di microchirurgia e fusi, per mezzo di una stimolazione elettrica, con granulociti prelevati da una paziente che desiderava avere un bambino con la tecnica del trasferimento nucleare di cellule somatiche (Scnt)".
L'embrione così ottenuto ha raggiunto lo stadio di 8-10 cellule, "che mostra un ritmo di sviluppo equivalente a quello di un normale embrione ottenuto con la fecondazione in vitro. Il suo sviluppo è stato osservato e registrato, e l'embrione è stato criopreservato per future analisi molecolari e altre osservazioni"
Maria Zambrano
Il Giornale di Brescia 30.7.03
Una pensatrice «sanguigna» come la sua Spagna
TUTTA LA FORZA DELLA TERRA IBERICA NELLE IDEE DI MARIA ZAMBRANO
Le donne e la filosofia: Maria Zambrano
di Maria Mataluno
Maria Zambrano aveva già deciso di abbandonare la filosofia quando, una mattina di maggio, un raggio di sole penetrò attraverso una tendina nell’aula dell’Università di Madrid dove seguiva una lezione di Xavier Zubiri. Mentre il filosofo era intento a spiegare le Categorie di Aristotele, Maria, colpita in volto da quel fascio di luce, si sentì invasa da una sorta di rivelazione, o meglio, da una «penombra toccata d’allegria». Capì allora che non aveva nessuna ragione per abbandonare la filosofia, ma che anzi proprio in quella penombra - del cuore, più che della mente - avrebbe trovato un nuovo punto di partenza per la sua riflessione. L’estate seguente s’immerse nella lettura dell’Etica di Spinoza e della terza Enneade di Plotino. Profondamente radicata nella temperie intellettuale della Spagna del suo tempo e orgogliosa delle sue radici europee, sensibile interprete del pensiero di Unamuno e della poesia di Machado, Maria Zambrano trascorse la sua giovinezza tra Malaga e Madrid, dove si laureò in filosofia sotto l’ala protettrice di Ortega y Gasset e di Zubiri e lavorò come assistente all’università dal 1931 al ’36, riuscendo ad aprirsi faticosamente una strada in un ambiente fortemente maschilista e in un’epoca in cui una filosofa «era quasi una "donna barbuta", un’eresia, una curiosità da circo». La sua vita fu costellata da una serie di crisi, che descrive nell’autobiografia Delirio e destino: la prima fu quella «malattia creativa» che tra il 1928 e il 1929 la spinse a isolarsi e a interrompere gli studi. La seconda, la più densa di conseguenze per la sua vita e il suo pensiero, fu rappresentata dall’esilio: dopo aver partecipato alla guerra civile, nel ’39 Maria dovette fuggire dalla Spagna caduta nelle mani dei franchisti. Cominciò allora una peregrinazione che in quarantacinque anni la portò dal Cile al Messico, da Parigi a Roma - nelle due capitali europee strinse rapporti di amicizia con intellettuali come Cioran, Sartre, Camus, Moravia e Cristina Campo -, da Cuba a Puerto Rico, dal Giura francese alla Svizzera; finché, negli anni Ottanta, non ritornò a Madrid, dove rimase per il resto della sua vita scrivendo e insegnando. L’esilio fu da lei vissuto come un’esperienza limite: in quell’essere «gettati nel mondo», abbandonati a un «deserto senza frontiere» per una scelta non propria, credette di riconoscere l’essenza stessa della condizione umana. «Non concepisco la mia vita senza l’esilio che ho vissuto - scriverà nel 1989 -. L’esilio è stato la mia patria, come la dimensione di una patria sconosciuta ma che, una volta conosciuta, diventa irrinunciabile. (…) Credo che l’esilio sia una dimensione essenziale della natura umana, ma dicendo questo mi mordo le labbra, perché vorrei che non ci fossero esseri esiliati, ma che tutti fossero esseri umani e al tempo stesso cosmici, che non si conoscesse l’esilio». Altrettanto dolorosa ma anche altrettanto feconda fu per Maria la terza crisi: il «parricidio» nei confronti del suo maestro, Ortega y Gasset. Nemica di ogni sistema filosofico, che considerava «un castello di ragioni, muraglia chiusa del pensiero di fronte al vuoto», Maria Zambrano dedicò tutti i suoi sforzi intellettuali alla costruzione di un pensiero vivente, capace di confrontarsi con la realtà umana in tutta la sua interezza, di esplorare non solo il mondo della razionalità e del pensiero, ma anche quello del cuore, del «logos che scorre nelle viscere». «Il pensiero, a quanto sembra, tende a farsi sangue. O forse è che il sangue deve rispondere al pensiero, come se l’atto più puro, libero, disinteressato compiuto dall’uomo dovesse essere pagato, o quanto meno legittimato, da quella "materia" preziosa tra tutte, essenza della vita, vita stessa che scorre nascosta». Ortega y Gasset l’accusò di «mancanza di obiettività». Ma alla trasparente razionalità del cogito cartesiano Maria continuò a opporre con determinazione il cuore, con la sua oscurità e il suo mistero; davanti al sole della ragione metteva l’aurora, promessa di luce che emerge dalle tenebre della notte e di esse reca ancora in sé le tracce. «La prima cosa che avvertiamo nella vita del cuore - scrisse - è la sua condizione di oscura cavità, di recinto ermetico; è Viscere, interiora. Il cuore è il simbolo e la massima rappresentazione di tutte le viscere della vita, il viscere in cui tutte trovano la loro unità definitiva e la loro nobiltà. (…) Il cuore è il viscere più nobile perché porta in sé l’immagine di uno spazio, di un dentro oscuro, segreto e misterioso che, in alcune occasioni, si apre». Per conoscere una simile realtà occorre elaborare una nuova forma di sapere, un sapere dell’anima, che non è tanto una disciplina intellettuale - le domande a cui esso tenta di rispondere non sono «che cosa è il mondo?» o «che cosa sono le cose», ma «chi sono io?», «da dove vengo?», «qual è il mio destino?», - quanto un’attitudine a unificare l’uno col molteplice, l’essere con la vita, l’uguaglianza con la differenza. A questo scopo possono essere utili, secondo Maria Zambrano, la Confessione e la scrittura, alle quali dedicò le sue pagine più originali. Come la Confessione rappresenta la possibilità di ricostruire la propria identità raccontandosi a un interlocutore privilegiato, così la scrittura è un mezzo grazie al quale l’uomo rende comunicabile il proprio sapere più intimo, qualcosa che non sa chiarire fino in fondo, ma che deve comunicare ad altri, lasciando che siano essi ad attribuirle un senso. Non si tratta solo di una necessità, ma anche di un dovere, di un obbligo di fedeltà verso ciò che è nascosto e che chiede di venire alla luce. «Scrivere - si legge in un testo del 1961 - è difendere la solitudine in cui ci si trova, è un’azione che scaturisce unicamente dall’isolamento effettivo, non comunicabile, nel quale proprio per la lontananza da tutte le cose concrete, si rende possibile una scoperta dei rapporti tra di esse». Lo stesso principio che è alla base della letteratura è, secondo Maria Zambrano, anche il motore della vita politica. Come la scrittura nasce dal desiderio dell’anima di essere «tratta fuori dal silenzio», così lo spazio della democrazia ha origine dal «desiderio di forma» di chi si sente umiliato o emarginato, come le donne. La democrazia non promette alcuna utopia, ma solo la possibilità di prendere parte al gioco comune, così come il singolo orchestrale partecipa all’esecuzione di una sinfonia. Per questo «l’ordine di una società democratica è più ricerca di un ordine musicale che architettonico». La vera rivoluzione, dunque, sarebbe far sì che la storia, catena di violenze che generalmente prende inizio da un atto di fondazione, un giorno nascesse invece dalla musica, ossia da un ordine che armonizza la complessità e la diversità nella sapiente architettura del contrappunto.
Una pensatrice «sanguigna» come la sua Spagna
TUTTA LA FORZA DELLA TERRA IBERICA NELLE IDEE DI MARIA ZAMBRANO
Le donne e la filosofia: Maria Zambrano
di Maria Mataluno
Maria Zambrano aveva già deciso di abbandonare la filosofia quando, una mattina di maggio, un raggio di sole penetrò attraverso una tendina nell’aula dell’Università di Madrid dove seguiva una lezione di Xavier Zubiri. Mentre il filosofo era intento a spiegare le Categorie di Aristotele, Maria, colpita in volto da quel fascio di luce, si sentì invasa da una sorta di rivelazione, o meglio, da una «penombra toccata d’allegria». Capì allora che non aveva nessuna ragione per abbandonare la filosofia, ma che anzi proprio in quella penombra - del cuore, più che della mente - avrebbe trovato un nuovo punto di partenza per la sua riflessione. L’estate seguente s’immerse nella lettura dell’Etica di Spinoza e della terza Enneade di Plotino. Profondamente radicata nella temperie intellettuale della Spagna del suo tempo e orgogliosa delle sue radici europee, sensibile interprete del pensiero di Unamuno e della poesia di Machado, Maria Zambrano trascorse la sua giovinezza tra Malaga e Madrid, dove si laureò in filosofia sotto l’ala protettrice di Ortega y Gasset e di Zubiri e lavorò come assistente all’università dal 1931 al ’36, riuscendo ad aprirsi faticosamente una strada in un ambiente fortemente maschilista e in un’epoca in cui una filosofa «era quasi una "donna barbuta", un’eresia, una curiosità da circo». La sua vita fu costellata da una serie di crisi, che descrive nell’autobiografia Delirio e destino: la prima fu quella «malattia creativa» che tra il 1928 e il 1929 la spinse a isolarsi e a interrompere gli studi. La seconda, la più densa di conseguenze per la sua vita e il suo pensiero, fu rappresentata dall’esilio: dopo aver partecipato alla guerra civile, nel ’39 Maria dovette fuggire dalla Spagna caduta nelle mani dei franchisti. Cominciò allora una peregrinazione che in quarantacinque anni la portò dal Cile al Messico, da Parigi a Roma - nelle due capitali europee strinse rapporti di amicizia con intellettuali come Cioran, Sartre, Camus, Moravia e Cristina Campo -, da Cuba a Puerto Rico, dal Giura francese alla Svizzera; finché, negli anni Ottanta, non ritornò a Madrid, dove rimase per il resto della sua vita scrivendo e insegnando. L’esilio fu da lei vissuto come un’esperienza limite: in quell’essere «gettati nel mondo», abbandonati a un «deserto senza frontiere» per una scelta non propria, credette di riconoscere l’essenza stessa della condizione umana. «Non concepisco la mia vita senza l’esilio che ho vissuto - scriverà nel 1989 -. L’esilio è stato la mia patria, come la dimensione di una patria sconosciuta ma che, una volta conosciuta, diventa irrinunciabile. (…) Credo che l’esilio sia una dimensione essenziale della natura umana, ma dicendo questo mi mordo le labbra, perché vorrei che non ci fossero esseri esiliati, ma che tutti fossero esseri umani e al tempo stesso cosmici, che non si conoscesse l’esilio». Altrettanto dolorosa ma anche altrettanto feconda fu per Maria la terza crisi: il «parricidio» nei confronti del suo maestro, Ortega y Gasset. Nemica di ogni sistema filosofico, che considerava «un castello di ragioni, muraglia chiusa del pensiero di fronte al vuoto», Maria Zambrano dedicò tutti i suoi sforzi intellettuali alla costruzione di un pensiero vivente, capace di confrontarsi con la realtà umana in tutta la sua interezza, di esplorare non solo il mondo della razionalità e del pensiero, ma anche quello del cuore, del «logos che scorre nelle viscere». «Il pensiero, a quanto sembra, tende a farsi sangue. O forse è che il sangue deve rispondere al pensiero, come se l’atto più puro, libero, disinteressato compiuto dall’uomo dovesse essere pagato, o quanto meno legittimato, da quella "materia" preziosa tra tutte, essenza della vita, vita stessa che scorre nascosta». Ortega y Gasset l’accusò di «mancanza di obiettività». Ma alla trasparente razionalità del cogito cartesiano Maria continuò a opporre con determinazione il cuore, con la sua oscurità e il suo mistero; davanti al sole della ragione metteva l’aurora, promessa di luce che emerge dalle tenebre della notte e di esse reca ancora in sé le tracce. «La prima cosa che avvertiamo nella vita del cuore - scrisse - è la sua condizione di oscura cavità, di recinto ermetico; è Viscere, interiora. Il cuore è il simbolo e la massima rappresentazione di tutte le viscere della vita, il viscere in cui tutte trovano la loro unità definitiva e la loro nobiltà. (…) Il cuore è il viscere più nobile perché porta in sé l’immagine di uno spazio, di un dentro oscuro, segreto e misterioso che, in alcune occasioni, si apre». Per conoscere una simile realtà occorre elaborare una nuova forma di sapere, un sapere dell’anima, che non è tanto una disciplina intellettuale - le domande a cui esso tenta di rispondere non sono «che cosa è il mondo?» o «che cosa sono le cose», ma «chi sono io?», «da dove vengo?», «qual è il mio destino?», - quanto un’attitudine a unificare l’uno col molteplice, l’essere con la vita, l’uguaglianza con la differenza. A questo scopo possono essere utili, secondo Maria Zambrano, la Confessione e la scrittura, alle quali dedicò le sue pagine più originali. Come la Confessione rappresenta la possibilità di ricostruire la propria identità raccontandosi a un interlocutore privilegiato, così la scrittura è un mezzo grazie al quale l’uomo rende comunicabile il proprio sapere più intimo, qualcosa che non sa chiarire fino in fondo, ma che deve comunicare ad altri, lasciando che siano essi ad attribuirle un senso. Non si tratta solo di una necessità, ma anche di un dovere, di un obbligo di fedeltà verso ciò che è nascosto e che chiede di venire alla luce. «Scrivere - si legge in un testo del 1961 - è difendere la solitudine in cui ci si trova, è un’azione che scaturisce unicamente dall’isolamento effettivo, non comunicabile, nel quale proprio per la lontananza da tutte le cose concrete, si rende possibile una scoperta dei rapporti tra di esse». Lo stesso principio che è alla base della letteratura è, secondo Maria Zambrano, anche il motore della vita politica. Come la scrittura nasce dal desiderio dell’anima di essere «tratta fuori dal silenzio», così lo spazio della democrazia ha origine dal «desiderio di forma» di chi si sente umiliato o emarginato, come le donne. La democrazia non promette alcuna utopia, ma solo la possibilità di prendere parte al gioco comune, così come il singolo orchestrale partecipa all’esecuzione di una sinfonia. Per questo «l’ordine di una società democratica è più ricerca di un ordine musicale che architettonico». La vera rivoluzione, dunque, sarebbe far sì che la storia, catena di violenze che generalmente prende inizio da un atto di fondazione, un giorno nascesse invece dalla musica, ossia da un ordine che armonizza la complessità e la diversità nella sapiente architettura del contrappunto.
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