questo film era già stato segnalato sul blog con una recensione tratta da Il Messaggero
ilmessaggero.it 14 giugno 2005
Payami: «Il mio film “contro”, per combattere le censure»
di ROBERTA BOTTARI
ROMA - Mentre noi parliamo di censura, il film in questione, Silenzio tra due pensieri di Babak Payami, non è stato vietato ai minori: è stato proprio sequestrato, dal governo iraniano. Il regista è stato arrestato e costretto a fuggire dal paese mediorientale. «Ancora oggi - afferma Babak Payami - nessuno mi ha comunicato ufficialmente le ragioni del sequestro dell’originale e, quando ho chiesto chi mi interrogava se aveva visto il mio film, ha risposto che non ce n’era bisogno...». Silenzio tra due pensieri arriva finalmente in Italia, grazie all’Istituto Luce, che lo distribuisce in una quindicina di copie da venerdì. Presentato 2 anni fa alla Mostra di Venezia, si tratta del terzo film del cineasta, dopo One more day e Il voto è segreto. Il negativo è ancora in mano alle autorità locali, quello che vediamo dunque è ciò che il regista era riuscito a mettere in salvo prima del sequestro. Ogni volta che lo vede, Payami, viene colto da violenti mal di stomaco: «Non è il mio film, è quel che resta. Ma serve a far conoscere una realtà». Il film racconta la storia di una donna che viene risparmiata da un’esecuzione, perché vergine. Secondo una credenza, le vergini, se muoiono, vanno in Paradiso. E i killer non la vogliono solo morta: la vogliono anche dannata. Si pone così un bel problema. Per risolverlo, il leader spirituale costringe il boia a sposare la ragazza affinché, consumato il matrimonio, si possa finalmente procedere con l’esecuzione. Ma l’uomo, di fronte alla vittima-moglie, precipita nel dubbio. «Il silenzio del titolo - spiega il regista - è il momento in cui un individuo, o un’intera società, si risveglia da una convinzione cieca. Questo mio film è un viaggio nell’indecisione. Non parla di religione, ma di come questa può essere utilizzata per ingannare la gente: non mi stupisce che in Iran non lo abbiano gradito. Ma queste forme di repressioni sono inutili. L’ho detto anche a chi mi ha interrogato: prendetevi questo film e io ne girerò un altro, arrestatemi e un altro regista lo farà al posto mio. Comunque vada, sarò io a vincere questa battaglia».
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
mercoledì 22 giugno 2005
presa d'atto
che giornale il Giornale...
una segnalazione di Paolo Izzo
ilGiornale.it
Il «non riconciliato» Bellocchio protagonista alla Mostra di Pesaro
Cinzia Romani
Roma. Come una signora matura e ben conservata, la 41ª edizione della Mostra internazionale del Nuovo cinema di Pesaro (25 giugno – 3 luglio) non rinnega i propri scapigliati trascorsi, ma li rammemora con forza. Così quest'anno palpiti e premi andranno, nel quadro di un Evento Speciale, all'icona per eccellenza di ogni ribellismo giovanile, a quel Marco Bellocchio da Piacenza che, stavolta, sarà giubilato come soltanto agli artisti scomparsi si conviene.
Al regista di Buongiorno, notte, infatti, gli organizzatori della Mostra conferiranno la cittadinanza onoraria di Pesaro, la sera del 2 luglio. Senza contare che del cineasta in rivolta permanente (sedabile per intervalli nel quieto borgo etrusco di Barbarano Romano, dove l'enfant terribile possiede una casa) sarà proposta una retrospettiva-lampo. Con particolare focus sul rapporto tra Bellocchio e il suo cinementore (all'epoca, si disse «plagiatore») Massimo Fagioli, nel '68 promotore della Nuova Psichiatria. Da Il diavolo in corpo (1986) a Il sogno delle farfalle (1994), pellicole costruite su ispirazione del Fagioli-pensiero, molto in voga quasi quarant'anni fa. «Sono tutt'altro che riconciliato: resto un ribelle che sceglie una lotta senza spargimento di sangue» conferma Bellocchio, già portavoce del discutibile Fagioli.
(...)
ilGiornale.it
Il «non riconciliato» Bellocchio protagonista alla Mostra di Pesaro
Cinzia Romani
Roma. Come una signora matura e ben conservata, la 41ª edizione della Mostra internazionale del Nuovo cinema di Pesaro (25 giugno – 3 luglio) non rinnega i propri scapigliati trascorsi, ma li rammemora con forza. Così quest'anno palpiti e premi andranno, nel quadro di un Evento Speciale, all'icona per eccellenza di ogni ribellismo giovanile, a quel Marco Bellocchio da Piacenza che, stavolta, sarà giubilato come soltanto agli artisti scomparsi si conviene.
Al regista di Buongiorno, notte, infatti, gli organizzatori della Mostra conferiranno la cittadinanza onoraria di Pesaro, la sera del 2 luglio. Senza contare che del cineasta in rivolta permanente (sedabile per intervalli nel quieto borgo etrusco di Barbarano Romano, dove l'enfant terribile possiede una casa) sarà proposta una retrospettiva-lampo. Con particolare focus sul rapporto tra Bellocchio e il suo cinementore (all'epoca, si disse «plagiatore») Massimo Fagioli, nel '68 promotore della Nuova Psichiatria. Da Il diavolo in corpo (1986) a Il sogno delle farfalle (1994), pellicole costruite su ispirazione del Fagioli-pensiero, molto in voga quasi quarant'anni fa. «Sono tutt'altro che riconciliato: resto un ribelle che sceglie una lotta senza spargimento di sangue» conferma Bellocchio, già portavoce del discutibile Fagioli.
(...)
Marco Bellocchio anche su Il Tempo
Il Tempo martedì 21 giugno 2005
PESARO Alla Mostra in primo piano autori e attori italiani
UN DOPPIO anniversario segnerà la 41esima Edizione della Mostra di Pesaro. Il quarantesimo compleanno del Festival e, purtroppo, il primo anno senza Lino Micciché, ideatore e direttore per le prime 24 edizioni. La Mostra del Nuovo Cinema si aprirà e si chiuderà all'insegna del cinema italiano: sabato 25 giugno le autorità di Pesaro conferiranno la cittadinanza onoraria ad Amedeo Pagani, produttore vicino allo spirito della Mostra, il 2 luglio verrà allestita una tavola rotonda con Marco Bellocchio.(V. S.)
PESARO Alla Mostra in primo piano autori e attori italiani
UN DOPPIO anniversario segnerà la 41esima Edizione della Mostra di Pesaro. Il quarantesimo compleanno del Festival e, purtroppo, il primo anno senza Lino Micciché, ideatore e direttore per le prime 24 edizioni. La Mostra del Nuovo Cinema si aprirà e si chiuderà all'insegna del cinema italiano: sabato 25 giugno le autorità di Pesaro conferiranno la cittadinanza onoraria ad Amedeo Pagani, produttore vicino allo spirito della Mostra, il 2 luglio verrà allestita una tavola rotonda con Marco Bellocchio.(V. S.)
violenze contro le donne
La Stampa 22 Giugno 2005
LA DENUNCIA DI TELEFONO ROSA
«Spesso le vittime sono mogli e fidanzate
E gli stupratori sono quasi sempre recidivi»
ROMA. Da diciotto anni, l’associazione Telefono Rosa accoglie migliaia di donne che cercano aiuto, appoggio legale o anche solo una parola di conforto. Sono 7500 telefonate all’anno. «E una cosa la possiamo dire: in Italia la violenza di carattere sessuale è in deciso aumento», sostiene Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente dell’associazione. «Sia dentro le mura di casa, sia fuori. Con una differenza: le donne sposate o fidanzate denunciano con più convinzione lo stupro. Quelle violentate all’esterno hanno più remore. Sentiamo troppo spesso di donne che vengono da noi disperate, psicologicamente distrutte, senza aver trovato il coraggio di parlarne in famiglia, e tantomeno con la polizia. A volte, arrivano dopo che sono passati anni dai fatti».
Che il fenomeno delle violenze sia in crescita, lo dicono anche i numeri ufficiali. Sembrerebbe però una particolarità del Centro-Nord. Vi risulta?
«Non tanto. Anzi. Diciamo che, forse, al Sud sono ancora oggi meno disponibili a denunciare le violenze. Spesso sono le famiglie che non vogliono andare al processo. Non se la sentono di portare in piazza lo stupro. E’ un fenomeno culturale da non sottovalutare».
Si dice: merito anche della nuova legge.
«Bah, la legge andrebbe ripensata: abbiamo scoperto che il 75% dei condannati per stupro, appena uscito dal carcere lo rifà. Evidentemente durante la detenzione non si lavora per il loro recupero. Costa troppo».
E ora si parla soltanto degli stranieri. Secondo Telefono Rosa, quanto incidono nella crescita delle violenze in Italia?
«Guardi, ho qui davanti le schede relative a questo primo trimestre 2005. Su 260 casi che riguardano donne italiane, sommando stupri e molestie, gli episodi con immigrati sono circa un 10 per cento: cinque denunce di stupro e 16 di molestia. Significa che, negli altri 239 casi, i protagonisti sono uomini italiani. Su altri 40 casi con donne straniere, ci sono soltanto due stupri e una molestia a opera di immigrati; i restanti 37 casi riguardano italiani. Mi sembrano dati che parlano chiaro. Andiamoci piano a dare contro gli stranieri. Gli ultimi casi ci dicono piuttosto sullo spirito del branco, che colpisce indifferentemente adolescenti italiani e non. Lo straniero, quando è solo, al limite, può essere più molesto di un coetaneo italiano».
Le vostre ricerche dicono che, nel 27% dei casi, la violenza è senza motivo.
«Sì, è l’aspetto che più mi colpisce. I giovani cercano l’affermazione del proprio io nella prepotenza fisica e verbale. Ma qui il discorso è lungo...».
LA DENUNCIA DI TELEFONO ROSA
«Spesso le vittime sono mogli e fidanzate
E gli stupratori sono quasi sempre recidivi»
ROMA. Da diciotto anni, l’associazione Telefono Rosa accoglie migliaia di donne che cercano aiuto, appoggio legale o anche solo una parola di conforto. Sono 7500 telefonate all’anno. «E una cosa la possiamo dire: in Italia la violenza di carattere sessuale è in deciso aumento», sostiene Maria Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente dell’associazione. «Sia dentro le mura di casa, sia fuori. Con una differenza: le donne sposate o fidanzate denunciano con più convinzione lo stupro. Quelle violentate all’esterno hanno più remore. Sentiamo troppo spesso di donne che vengono da noi disperate, psicologicamente distrutte, senza aver trovato il coraggio di parlarne in famiglia, e tantomeno con la polizia. A volte, arrivano dopo che sono passati anni dai fatti».
Che il fenomeno delle violenze sia in crescita, lo dicono anche i numeri ufficiali. Sembrerebbe però una particolarità del Centro-Nord. Vi risulta?
«Non tanto. Anzi. Diciamo che, forse, al Sud sono ancora oggi meno disponibili a denunciare le violenze. Spesso sono le famiglie che non vogliono andare al processo. Non se la sentono di portare in piazza lo stupro. E’ un fenomeno culturale da non sottovalutare».
Si dice: merito anche della nuova legge.
«Bah, la legge andrebbe ripensata: abbiamo scoperto che il 75% dei condannati per stupro, appena uscito dal carcere lo rifà. Evidentemente durante la detenzione non si lavora per il loro recupero. Costa troppo».
E ora si parla soltanto degli stranieri. Secondo Telefono Rosa, quanto incidono nella crescita delle violenze in Italia?
«Guardi, ho qui davanti le schede relative a questo primo trimestre 2005. Su 260 casi che riguardano donne italiane, sommando stupri e molestie, gli episodi con immigrati sono circa un 10 per cento: cinque denunce di stupro e 16 di molestia. Significa che, negli altri 239 casi, i protagonisti sono uomini italiani. Su altri 40 casi con donne straniere, ci sono soltanto due stupri e una molestia a opera di immigrati; i restanti 37 casi riguardano italiani. Mi sembrano dati che parlano chiaro. Andiamoci piano a dare contro gli stranieri. Gli ultimi casi ci dicono piuttosto sullo spirito del branco, che colpisce indifferentemente adolescenti italiani e non. Lo straniero, quando è solo, al limite, può essere più molesto di un coetaneo italiano».
Le vostre ricerche dicono che, nel 27% dei casi, la violenza è senza motivo.
«Sì, è l’aspetto che più mi colpisce. I giovani cercano l’affermazione del proprio io nella prepotenza fisica e verbale. Ma qui il discorso è lungo...».
sinistra
l'intervista di Barenghi a Bertinotti su La Stampa di oggi
La Stampa 22 Giugno 2005
Intervista a Bertinotti
Riccardo Barenghi
ROMA. SE gli chiedi quanti voti pensa di prendere alle primarie, non risponde. Anzi, risponde così: «Questo non si dice». Fausto Bertinotti è il leader politico che nel centrosinistra molti guardano con timore (o terrore), timore che rifaccia a Prodi lo stesso scherzetto del ‘98. Ma il Bertinotti di oggi non assomiglia affatto a quello di sette anni fa, è un’altra persona. Dopo la ritrovata unità della coalizione, il segretario di Rifondazione sprizza addirittura ottimismo.
Prodi resta il leader, si fanno le primarie, poi il programma, poi forse il governo. Ma dopo aver rischiato di precipitare nell’abisso, questa soddisfazione così ostentata da tutti non le sembra un po’ esagerata, artificiale?
«Proprio perché usciamo da un periodo in cui tutto congiurava per il peggio, in cui sembrava che si fosse perduto il lume della ragione, tanto più si tira il fiato. Oltretutto mi pare che ne siamo usciti nel modo giusto, ossia con l’intenzione di costruire l’Unione, una coalizione con una forza propria. E le primarie sono una tappa fondamentale di questo percorso».
Però accanto alle primarie avete anche deciso di costituire un direttorio composto dai nove segretari dei partiti, una sorta di messa sotto tutela di Prodi?
«Neanche per sogno. Io penso a una vera e propria fase costituente della nostra Unione, che deve reggersi su due gambe: la legittimazione popolare da un lato e la forza dei partiti dall’altro».
La prima tappa della legittimazione popolare saranno appunto le primarie di ottobre. Un gioco un po’ truccato, tutti sanno che il leader sarà Prodi ancora prima di votare.
«Ma in ogni competizione l’esito non è mai scontato. E poi non c’è solo il problema di chi vince, ma anche di come si vince. Di cosa insomma si mette in campo, quali idee-forza, quale impostazione politica generale. Che si può affermare anche senza vincere».
In altre parole, lei pensa di perdere ma di ottenere un risultato tale da condizionare la politica del vostro governo?
«Io mi candido per dare una presenza, un’impostazione di sinistra alla coalizione. Non un programma contro un altro, quello lo faremo tutti insieme (e non a caso l’assemblea per vararlo è stata fissata due mesi dopo le primarie). Ma appunto l’ispirazione che dovrà guidare la politica del nostro eventuale governo».
Per arrivarci però non avete bisogno solo delle primarie per legittimare il leader e misurare i rapporti di forza interni, ma anche di firmare un accordo addirittura dal notaio, un patto di sangue che deve tenervi insieme. Lei ha anche detto che è disponibile a concedere al leader dell’Unione il potere di vita e di morte sul suo governo. Un’Unione che ha bisogno di tali e tante formalità per stare insieme non dà la sensazione di un’unità reale.
«Possiamo anche dire che si tratta di superfetazioni, i patti, i notai, tutte cose ridondanti e anche un po’ ridicole. Ma la cosa importante è il messaggio che vogliamo dare al popolo della sinistra, cioè che proveremo in tutti i modi a governare insieme per cinque anni. E che se non dovessimo riuscirci, diciamo da subito no a pasticci o inciuci e sì alle elezioni. Ovviamente il potere di scioglimento del Parlamento resta nelle mani del Capo dello Stato, ma il nostro è un impegno politico al quale io attribuisco un grande valore».
Mastella propone addirittura che nessuno voti mai contro il governo, al massimo ci si può astenere.
«Questa è una sua opinione. A me non interessano le gabbie procedurali, non hanno significato. Conta la politica. E la politica significa essere capaci di governare insieme».
Ma se Rifondazione si trovasse in dissenso su un provvedimento del governo di cui fa parte, voterebbe contro?
«Non voglio fasciarmi la testa prima di rompermela. Se si arrivasse a un caso del genere, saremmo alla rottura e al fallimento. Io però scommetto sull’impegno (mio e degli altri) di arrivare fino in fondo con un programma condiviso. Penso che non sia più tempo di traccheggiare o di galleggiare. O si vince alla grande, nel senso che si vincono le elezioni ma poi si vince soprattutto la sfida di un governo diverso. Oppure si perde, altrettanto alla grande».
Primarie, legittimazione popolare, superpoteri del leader: l’impressione però è che il populismo berlusconiano si sia infiltrato anche nel vostro campo.
«Forse. Ma il pericolo maggiore che io vedo oggi non è questo bensì il suo opposto. Ossia il distacco dei dirigenti dal popolo, un riflesso elitario, la costruzione di un recinto aristocratico – anche un po’ saccente – in cui il ceto politico si rinchiude. Ben venga allora il popolo. Perché se l’Unione non si dà come suo compito fondamentale quello di costruire il Popolo delle riforme, magari decidendo anche quale debba essere il suo blocco sociale di riferimento, allora perderemmo anche vincendo».
L'Unità 22 Giugno 2005
Nelle primarie dell’Unità Prodi è al 72%
Bertinotti secondo con quasi il 20%
Di Pietro è terzo con il 3,1% dei consensi e Pecoraro Scanio è al 2,8%. Tantissime e-mail
di Mara Anastasia / Roma
L’URNA ON-LINE dell’Unità ha raccolto ieri in poche ore più di 2.000 voti. Un risultato che ha dato a Romano Prodi un gradimento amplissimo, il 71.9%. Con un largo distacco Fausto Bertinotti, leader di Rifondazione, che non raggiunge il 20 per cento. Segue Antonio Di Pietro con il 3. 1%, Alfonso Pecoraro Scanio, dei Verdi, con il 2.8 per cento; gli incerti sono 2.4%. Quando abbiamo aperto in rete l’urna, Mastella ancora non aveva annunciato la sua possibile discesa nel campo delle primarie: presto inseriremo anche il suo nome.
Il Foglio 22.6.05
Fassino: “Non vincerà Bertinotti, ne sono sicuro”
Così ieri Piero Fassino parlando delle primarie dell’8 e 9 ottobre: “Vincerà Prodi” e non c’è problema se ci sono altri candidati perché “se si crede nella democrazia non si ha paura dei suoi strumenti”. Le primarie, continua, saranno “aperte”: “Abbiamo interesse a un’investitura di Prodi che sia la più ampia possibile”. Intanto la segreteria della Quercia ieri s’è detta “soddisfatta” dell’accordo nel centrosinistra, ma ha specificato che “l’Ulivo resta in campo”. Quella nell’Unione “non è soltanto una pace”, ma “un accordo per il futuro”. E’ il parere di Prodi: “C’è un programma che ci lega a comportamenti che sono del tutto nuovi”.
Intervista a Bertinotti
Riccardo Barenghi
ROMA. SE gli chiedi quanti voti pensa di prendere alle primarie, non risponde. Anzi, risponde così: «Questo non si dice». Fausto Bertinotti è il leader politico che nel centrosinistra molti guardano con timore (o terrore), timore che rifaccia a Prodi lo stesso scherzetto del ‘98. Ma il Bertinotti di oggi non assomiglia affatto a quello di sette anni fa, è un’altra persona. Dopo la ritrovata unità della coalizione, il segretario di Rifondazione sprizza addirittura ottimismo.
Prodi resta il leader, si fanno le primarie, poi il programma, poi forse il governo. Ma dopo aver rischiato di precipitare nell’abisso, questa soddisfazione così ostentata da tutti non le sembra un po’ esagerata, artificiale?
«Proprio perché usciamo da un periodo in cui tutto congiurava per il peggio, in cui sembrava che si fosse perduto il lume della ragione, tanto più si tira il fiato. Oltretutto mi pare che ne siamo usciti nel modo giusto, ossia con l’intenzione di costruire l’Unione, una coalizione con una forza propria. E le primarie sono una tappa fondamentale di questo percorso».
Però accanto alle primarie avete anche deciso di costituire un direttorio composto dai nove segretari dei partiti, una sorta di messa sotto tutela di Prodi?
«Neanche per sogno. Io penso a una vera e propria fase costituente della nostra Unione, che deve reggersi su due gambe: la legittimazione popolare da un lato e la forza dei partiti dall’altro».
La prima tappa della legittimazione popolare saranno appunto le primarie di ottobre. Un gioco un po’ truccato, tutti sanno che il leader sarà Prodi ancora prima di votare.
«Ma in ogni competizione l’esito non è mai scontato. E poi non c’è solo il problema di chi vince, ma anche di come si vince. Di cosa insomma si mette in campo, quali idee-forza, quale impostazione politica generale. Che si può affermare anche senza vincere».
In altre parole, lei pensa di perdere ma di ottenere un risultato tale da condizionare la politica del vostro governo?
«Io mi candido per dare una presenza, un’impostazione di sinistra alla coalizione. Non un programma contro un altro, quello lo faremo tutti insieme (e non a caso l’assemblea per vararlo è stata fissata due mesi dopo le primarie). Ma appunto l’ispirazione che dovrà guidare la politica del nostro eventuale governo».
Per arrivarci però non avete bisogno solo delle primarie per legittimare il leader e misurare i rapporti di forza interni, ma anche di firmare un accordo addirittura dal notaio, un patto di sangue che deve tenervi insieme. Lei ha anche detto che è disponibile a concedere al leader dell’Unione il potere di vita e di morte sul suo governo. Un’Unione che ha bisogno di tali e tante formalità per stare insieme non dà la sensazione di un’unità reale.
«Possiamo anche dire che si tratta di superfetazioni, i patti, i notai, tutte cose ridondanti e anche un po’ ridicole. Ma la cosa importante è il messaggio che vogliamo dare al popolo della sinistra, cioè che proveremo in tutti i modi a governare insieme per cinque anni. E che se non dovessimo riuscirci, diciamo da subito no a pasticci o inciuci e sì alle elezioni. Ovviamente il potere di scioglimento del Parlamento resta nelle mani del Capo dello Stato, ma il nostro è un impegno politico al quale io attribuisco un grande valore».
Mastella propone addirittura che nessuno voti mai contro il governo, al massimo ci si può astenere.
«Questa è una sua opinione. A me non interessano le gabbie procedurali, non hanno significato. Conta la politica. E la politica significa essere capaci di governare insieme».
Ma se Rifondazione si trovasse in dissenso su un provvedimento del governo di cui fa parte, voterebbe contro?
«Non voglio fasciarmi la testa prima di rompermela. Se si arrivasse a un caso del genere, saremmo alla rottura e al fallimento. Io però scommetto sull’impegno (mio e degli altri) di arrivare fino in fondo con un programma condiviso. Penso che non sia più tempo di traccheggiare o di galleggiare. O si vince alla grande, nel senso che si vincono le elezioni ma poi si vince soprattutto la sfida di un governo diverso. Oppure si perde, altrettanto alla grande».
Primarie, legittimazione popolare, superpoteri del leader: l’impressione però è che il populismo berlusconiano si sia infiltrato anche nel vostro campo.
«Forse. Ma il pericolo maggiore che io vedo oggi non è questo bensì il suo opposto. Ossia il distacco dei dirigenti dal popolo, un riflesso elitario, la costruzione di un recinto aristocratico – anche un po’ saccente – in cui il ceto politico si rinchiude. Ben venga allora il popolo. Perché se l’Unione non si dà come suo compito fondamentale quello di costruire il Popolo delle riforme, magari decidendo anche quale debba essere il suo blocco sociale di riferimento, allora perderemmo anche vincendo».
L'Unità 22 Giugno 2005
Nelle primarie dell’Unità Prodi è al 72%
Bertinotti secondo con quasi il 20%
Di Pietro è terzo con il 3,1% dei consensi e Pecoraro Scanio è al 2,8%. Tantissime e-mail
di Mara Anastasia / Roma
L’URNA ON-LINE dell’Unità ha raccolto ieri in poche ore più di 2.000 voti. Un risultato che ha dato a Romano Prodi un gradimento amplissimo, il 71.9%. Con un largo distacco Fausto Bertinotti, leader di Rifondazione, che non raggiunge il 20 per cento. Segue Antonio Di Pietro con il 3. 1%, Alfonso Pecoraro Scanio, dei Verdi, con il 2.8 per cento; gli incerti sono 2.4%. Quando abbiamo aperto in rete l’urna, Mastella ancora non aveva annunciato la sua possibile discesa nel campo delle primarie: presto inseriremo anche il suo nome.
Il Foglio 22.6.05
Fassino: “Non vincerà Bertinotti, ne sono sicuro”
Così ieri Piero Fassino parlando delle primarie dell’8 e 9 ottobre: “Vincerà Prodi” e non c’è problema se ci sono altri candidati perché “se si crede nella democrazia non si ha paura dei suoi strumenti”. Le primarie, continua, saranno “aperte”: “Abbiamo interesse a un’investitura di Prodi che sia la più ampia possibile”. Intanto la segreteria della Quercia ieri s’è detta “soddisfatta” dell’accordo nel centrosinistra, ma ha specificato che “l’Ulivo resta in campo”. Quella nell’Unione “non è soltanto una pace”, ma “un accordo per il futuro”. E’ il parere di Prodi: “C’è un programma che ci lega a comportamenti che sono del tutto nuovi”.
Rita Levi Montalcini
ANSA Mercoledì 22 Giugno 2005, 15:49
MEDICINA: LEVI MONTALCINI, LA RICERCA DEVE ESSERE LIBERA
(ANSA) - TORINO, 22 GIU - ''Non si può mettere il lucchetto alla ricerca scientifica, anche se è necessario regolare l'uso che se ne fa per evitare di danneggiare la società e il pianeta''. Lo ha detto il premio Nobel Rita Levi Montalcini, aprendo la giornata dedicata alla medicina e al suo rapporto con la cittadinanza, ''Medici: ieri, oggi, domani'', organizzato dall'Ordine della provincia di Torino. E' stata anche l' occasione per presentare il ''prestito d'onore'' per giovani medici, iniziativa unica in Italia.
Levi Montalcini ha ammesso che la situazione della ricerca nel nostro paese non è facile, nonostante le enormi potenzialità della medicina italiana, e ha detto che l'impegno scientifico deve essere volto a nuove scoperte, ma anche all'aiuto di chi ha bisogno: ''Spero che i giovani vedano nella scienza l'unico modo per far fronte alle tragedie che affliggono il mondo, in particolare l'Africa e il sud del pianeta''. Riguardo al recente referendum sulla procreazione assistita, Levi Montalcini ha affermato: ''L'astensione non e' stata giusta, io ero per quattro sì, ma chi non era d'accordo poteva almeno andare a votare no''. ''Forse - ha proseguito - non si doveva chiedere alla gente di confrontarsi con questioni cosi' complesse o perlomeno i quesiti dovevano essere posti in maniera piu' semplice''. (ANSA).
MEDICINA: LEVI MONTALCINI, LA RICERCA DEVE ESSERE LIBERA
(ANSA) - TORINO, 22 GIU - ''Non si può mettere il lucchetto alla ricerca scientifica, anche se è necessario regolare l'uso che se ne fa per evitare di danneggiare la società e il pianeta''. Lo ha detto il premio Nobel Rita Levi Montalcini, aprendo la giornata dedicata alla medicina e al suo rapporto con la cittadinanza, ''Medici: ieri, oggi, domani'', organizzato dall'Ordine della provincia di Torino. E' stata anche l' occasione per presentare il ''prestito d'onore'' per giovani medici, iniziativa unica in Italia.
Levi Montalcini ha ammesso che la situazione della ricerca nel nostro paese non è facile, nonostante le enormi potenzialità della medicina italiana, e ha detto che l'impegno scientifico deve essere volto a nuove scoperte, ma anche all'aiuto di chi ha bisogno: ''Spero che i giovani vedano nella scienza l'unico modo per far fronte alle tragedie che affliggono il mondo, in particolare l'Africa e il sud del pianeta''. Riguardo al recente referendum sulla procreazione assistita, Levi Montalcini ha affermato: ''L'astensione non e' stata giusta, io ero per quattro sì, ma chi non era d'accordo poteva almeno andare a votare no''. ''Forse - ha proseguito - non si doveva chiedere alla gente di confrontarsi con questioni cosi' complesse o perlomeno i quesiti dovevano essere posti in maniera piu' semplice''. (ANSA).
Poincaré e Einstein
La Stampa TuttoScienze 22.6.05
LA STORIA DI DUE GENI CHE SI IGNORARONO A VICENDA
Francesco De Pretis
IL giugno 1905 probabilmente dal punto di vista scientifico è stato il mese più fecondo: il matematico francese Jules Henri Poincaré presentava il 5 giugno all'Accademia delle Scienze di Parigi una nota di quattro pagine, intitolata "Sur la dynamique de l'électron"; il 30 giugno un allora sconosciuto impiegato dell'ufficio brevetti di Berna di nome Albert Einstein, vedeva pubblicato sui prestigiosi "Annalen der Physiks" un articolo dal nome "Zur Elektrodynamik bewegter Körper". Con questi due scritti ebbero finalmente risposta gli interrogativi sorti più di trent'anni prima, all'indomani dell'apparizione dell'opera di Maxwell, che avevano tolto il sonno a molti uomini di scienza. Nel 1873 il fisico scozzese James Clerk Maxwell, riassumendo gli studi compiuti durante tutto l'arco del XIX secolo, aveva esposto un modello matematico - quattro celebri equazioni - che forniva una corretta spiegazione delle interazioni elettromagnetiche fra corpi. Contrariamente alla concezione della meccanica newtoniana, queste equazioni però introducevano il concetto di invarianza rispetto al sistema di riferimento scelto, dal quale discendeva la costanza della velocità della luce per ogni possibile osservatore: un'affermazione non di poco conto, che faceva andare letteralmente in frantumi le fondamenta concettuali della fisica classica, destando sgomento nel mondo scientifico del tempo. Maxwell stesso, conscio dello sconvolgimento epocale sollevato dal proprio lavoro, cercò subito una soluzione, rifacendosi al concetto di etere, un ipotetico mezzo imponderabile, elastico e trasparente che si supponeva riempire l'universo per poter così spiegare le modalità di trasmissione delle onde elettro-magnetiche e l'interazione di forze a distanza. Conferme sperimentali sull'esistenza dell'etere però non arrivarono, anzi un famoso esperimento (1881-1887) dovuto ai fisici Michelson e Morley riconobbe valida l'assunzione di costanza della velocità della luce, che risultò non essere influenzata dal «vento dell'etere»: le conclusioni a cui erano pervenuti i due scienziati statunitensi scatenarono nuovi dibattiti e congetture. Per rendere ragione all'esperimento di Michelson-Morley, il fisico irlandese George Fitzgerald ipotizzò nel 1889 che le lunghezze di corpi che si muovessero a velocità prossima a quella della luce, si dovessero accorciare. Hendrik Lorentz, geniale fisico olandese, arrivò nel 1892 allo stesso risultato, che prese il nome di contrazione di Fitzgerald-Lorentz. Continuando su questo filone di ricerca, un altro fisico irlandese, Joseph Larmor, e poi lo stesso Lorentz (1899), scrissero una serie di equazioni, oggi note come trasformazioni di Lorentz, che sostituivano le trasformazioni galileiane della fisica classica: da esse risultava l'invarianza della velocità della luce per ogni sistema di riferimento possibile, ma anche - fatto del tutto rivoluzionario - uno sfasamento temporale fra due sistemi di riferimento in moto uno rispetto all'altro. Proprio partendo dal carattere non più assoluto del tempo, ecco inserirsi sulla scena la riflessione di Poincaré: un anno prima, veniva pubblicato "La mésure du temps" (1898), uno scritto nel quale lo scienziato francese meditava sull'impossibilità della simultaneità temporale di due eventi. Nel 1900, al Congresso di Parigi, Poincaré tenne la celebre "Conférence sur l'existence de l'éther", nella quale pose una sistematica e decisa critica al concetto di etere di Maxwell e nel 1904, alla conferenza di Saint-Luis (USA), propose un problema relativistico nuovamente legato al tempo, oggi conosciuto come paradosso degli orologi. Profondo conoscitore della fisica classica, Poincaré era convinto della sostanziale veridicità del principio di relatività galileiana, cioè dell'impossibilità di dimostrare il moto assoluto. Così, nello scritto del 5 giugno 1905, partendo dall’impossibilità di dimostrare il moto assoluto, riprese le riflessioni di Lorentz e mostrò che le sue trasformazioni formavano un gruppo assieme con le rotazioni, da esse dedusse la contrazione delle lunghezze e osservò acutamente che anche la legge di gravitazione universale doveva essere ripensata se le onde gravitazionali si propagavano alla velocità della luce. Questo testo fu poi ampliato da Poincaré e inviato ai "Rendiconti del circolo matematico di Palermo" (23 luglio), un periodico siciliano di scienza, il cui direttore, amico di Poincaré, pubblicò lo scritto nel gennaio del 1906. Il 30 giugno 1905 apparve il testo di Einstein, il quale, partendo da due postulati iniziali (principio di relatività galileiana e invarianza della velocità della luce in ogni sistema di riferimento), desumeva le trasformazioni di Lorentz e perveniva ai medesimi risultati ottenuti da Poincaré: questo scritto ha l'indubbio pregio di grande una chiarezza e semplicità, e di completare coerentemente il quadro di fondazione della nuova meccanica relativistica. Così pochi giorni fra due pubblicazioni di tale portata storica potrebbero stupire ma la simultaneità nella storia della scienza non è poi tanto rara: Newton e Leibniz elaborarono indipendentemente il calcolo infinitesimale verso la fine del XVII secolo, Bolyai, Gauss e Lobatchevsky contribuirono alla nascita delle geometrie non euclidee negli stessi anni del XIX secolo, ciascuno - almeno inizialmente - all'insaputa degli altri. Al di là di sterili polemiche sulla paternità della Relatività ristretta (fu un mutuo concorso fra Lorentz, Poincaré ed Einstein), il nome di Einstein fu legato indissolubilmente alla teoria della Relatività piuttosto per i lavori che il fisico tedesco produsse dopo (per essi fu decisivo l'incontro con Minkowski e l'italiano Ricci Curbastro); a lui va il merito - nel 1916 - di aver esteso la meccanica relativistica anche ai sistemi non inerziali e di aver compreso che sotto di essa vi è qualcosa di molto più complesso, un impianto teorico che si basa sulla geometria dello spazio e del tempo, una geometria dell'universo che Einstein individuò nel modello di spazio curvo di Riemann. Nonostante sia Poincaré che Einstein fossero giunti ai medesimi risultati, la reazione di entrambi sfociò in una sorta di dignitosa indifferenza: il nome di Poincaré appare solo una volta negli scritti di Einstein, quello di Einstein mai nelle carte di Poincaré, che nel 1912 morì improvvisamente. Questa freddezza fra i padri della Relatività ristretta ebbe però una infelice conclusione: Lorentz, amico di vecchia data di Poincaré, nella commissione scientifica per il Nobel del 1921, fece assegnare il prestigioso premio ad Einstein ma solo per lo scritto del 1905 legato allo studio sull’effetto foto-elettrico: un lavoro sì di grande importanza ma non rivoluzionario come la Relatività.
LA STORIA DI DUE GENI CHE SI IGNORARONO A VICENDA
Francesco De Pretis
IL giugno 1905 probabilmente dal punto di vista scientifico è stato il mese più fecondo: il matematico francese Jules Henri Poincaré presentava il 5 giugno all'Accademia delle Scienze di Parigi una nota di quattro pagine, intitolata "Sur la dynamique de l'électron"; il 30 giugno un allora sconosciuto impiegato dell'ufficio brevetti di Berna di nome Albert Einstein, vedeva pubblicato sui prestigiosi "Annalen der Physiks" un articolo dal nome "Zur Elektrodynamik bewegter Körper". Con questi due scritti ebbero finalmente risposta gli interrogativi sorti più di trent'anni prima, all'indomani dell'apparizione dell'opera di Maxwell, che avevano tolto il sonno a molti uomini di scienza. Nel 1873 il fisico scozzese James Clerk Maxwell, riassumendo gli studi compiuti durante tutto l'arco del XIX secolo, aveva esposto un modello matematico - quattro celebri equazioni - che forniva una corretta spiegazione delle interazioni elettromagnetiche fra corpi. Contrariamente alla concezione della meccanica newtoniana, queste equazioni però introducevano il concetto di invarianza rispetto al sistema di riferimento scelto, dal quale discendeva la costanza della velocità della luce per ogni possibile osservatore: un'affermazione non di poco conto, che faceva andare letteralmente in frantumi le fondamenta concettuali della fisica classica, destando sgomento nel mondo scientifico del tempo. Maxwell stesso, conscio dello sconvolgimento epocale sollevato dal proprio lavoro, cercò subito una soluzione, rifacendosi al concetto di etere, un ipotetico mezzo imponderabile, elastico e trasparente che si supponeva riempire l'universo per poter così spiegare le modalità di trasmissione delle onde elettro-magnetiche e l'interazione di forze a distanza. Conferme sperimentali sull'esistenza dell'etere però non arrivarono, anzi un famoso esperimento (1881-1887) dovuto ai fisici Michelson e Morley riconobbe valida l'assunzione di costanza della velocità della luce, che risultò non essere influenzata dal «vento dell'etere»: le conclusioni a cui erano pervenuti i due scienziati statunitensi scatenarono nuovi dibattiti e congetture. Per rendere ragione all'esperimento di Michelson-Morley, il fisico irlandese George Fitzgerald ipotizzò nel 1889 che le lunghezze di corpi che si muovessero a velocità prossima a quella della luce, si dovessero accorciare. Hendrik Lorentz, geniale fisico olandese, arrivò nel 1892 allo stesso risultato, che prese il nome di contrazione di Fitzgerald-Lorentz. Continuando su questo filone di ricerca, un altro fisico irlandese, Joseph Larmor, e poi lo stesso Lorentz (1899), scrissero una serie di equazioni, oggi note come trasformazioni di Lorentz, che sostituivano le trasformazioni galileiane della fisica classica: da esse risultava l'invarianza della velocità della luce per ogni sistema di riferimento possibile, ma anche - fatto del tutto rivoluzionario - uno sfasamento temporale fra due sistemi di riferimento in moto uno rispetto all'altro. Proprio partendo dal carattere non più assoluto del tempo, ecco inserirsi sulla scena la riflessione di Poincaré: un anno prima, veniva pubblicato "La mésure du temps" (1898), uno scritto nel quale lo scienziato francese meditava sull'impossibilità della simultaneità temporale di due eventi. Nel 1900, al Congresso di Parigi, Poincaré tenne la celebre "Conférence sur l'existence de l'éther", nella quale pose una sistematica e decisa critica al concetto di etere di Maxwell e nel 1904, alla conferenza di Saint-Luis (USA), propose un problema relativistico nuovamente legato al tempo, oggi conosciuto come paradosso degli orologi. Profondo conoscitore della fisica classica, Poincaré era convinto della sostanziale veridicità del principio di relatività galileiana, cioè dell'impossibilità di dimostrare il moto assoluto. Così, nello scritto del 5 giugno 1905, partendo dall’impossibilità di dimostrare il moto assoluto, riprese le riflessioni di Lorentz e mostrò che le sue trasformazioni formavano un gruppo assieme con le rotazioni, da esse dedusse la contrazione delle lunghezze e osservò acutamente che anche la legge di gravitazione universale doveva essere ripensata se le onde gravitazionali si propagavano alla velocità della luce. Questo testo fu poi ampliato da Poincaré e inviato ai "Rendiconti del circolo matematico di Palermo" (23 luglio), un periodico siciliano di scienza, il cui direttore, amico di Poincaré, pubblicò lo scritto nel gennaio del 1906. Il 30 giugno 1905 apparve il testo di Einstein, il quale, partendo da due postulati iniziali (principio di relatività galileiana e invarianza della velocità della luce in ogni sistema di riferimento), desumeva le trasformazioni di Lorentz e perveniva ai medesimi risultati ottenuti da Poincaré: questo scritto ha l'indubbio pregio di grande una chiarezza e semplicità, e di completare coerentemente il quadro di fondazione della nuova meccanica relativistica. Così pochi giorni fra due pubblicazioni di tale portata storica potrebbero stupire ma la simultaneità nella storia della scienza non è poi tanto rara: Newton e Leibniz elaborarono indipendentemente il calcolo infinitesimale verso la fine del XVII secolo, Bolyai, Gauss e Lobatchevsky contribuirono alla nascita delle geometrie non euclidee negli stessi anni del XIX secolo, ciascuno - almeno inizialmente - all'insaputa degli altri. Al di là di sterili polemiche sulla paternità della Relatività ristretta (fu un mutuo concorso fra Lorentz, Poincaré ed Einstein), il nome di Einstein fu legato indissolubilmente alla teoria della Relatività piuttosto per i lavori che il fisico tedesco produsse dopo (per essi fu decisivo l'incontro con Minkowski e l'italiano Ricci Curbastro); a lui va il merito - nel 1916 - di aver esteso la meccanica relativistica anche ai sistemi non inerziali e di aver compreso che sotto di essa vi è qualcosa di molto più complesso, un impianto teorico che si basa sulla geometria dello spazio e del tempo, una geometria dell'universo che Einstein individuò nel modello di spazio curvo di Riemann. Nonostante sia Poincaré che Einstein fossero giunti ai medesimi risultati, la reazione di entrambi sfociò in una sorta di dignitosa indifferenza: il nome di Poincaré appare solo una volta negli scritti di Einstein, quello di Einstein mai nelle carte di Poincaré, che nel 1912 morì improvvisamente. Questa freddezza fra i padri della Relatività ristretta ebbe però una infelice conclusione: Lorentz, amico di vecchia data di Poincaré, nella commissione scientifica per il Nobel del 1921, fece assegnare il prestigioso premio ad Einstein ma solo per lo scritto del 1905 legato allo studio sull’effetto foto-elettrico: un lavoro sì di grande importanza ma non rivoluzionario come la Relatività.
il prof. Severino a Cosenza
Gazzetta del Sud 22.6.05
Il pensiero medievale nella magistrale dissertazione di Emanuele Severino a Cosenza
Filosofia, la grande eresia dell'uomo
Lo straordinario tentativo di sintesi di Tommaso d'Aquino
Federica Longo
Un viaggio tra “Utopia e conoscenza” nel nome di Federico II, stupor mundi e immutator mirabilis, dove stupore del mondo significava anche elemento destabilizzante per l'ordine costituito. E tale fu l'immutator mirabilis, se si pensa alla profonda incisione culturale che ha lasciato nella storia con la sua curia magna, che fu scuola madre della lingua italiana e avanguardia nell'arte e nella scienza. Ma soprattutto fucina di pensieri e sperimentazioni culturali che rompevano schemi e rigide tradizioni. L'iniziativa promossa dalla Telecom nella sua tappa cosentina, si dipana tra il razionale e il magico. Per le vie della città fermenti di artifici spettacolari colorano l'atmosfera. I teatranti si esercitano nell'arte di spostare indietro le lancette del tempo, a quel trenta gennaio del 1222, quando a Federico imperatore «splendida di sole e festante di popolo dovette apparire Cosenza». Mentre, nella sala convegni della biblioteca Nazionale, un pubblico di appassionati attende una magistrale lezione sulla filosofia medievale. E non appena l'accademico dei Lincei, Emanuele Severino, fa il suo ingresso, un riverente silenzio accompagna il suo arrivo. Il filosofo indugia e, prima di salire in cattedra, si accomoda al di qua del sipario, quasi a cercare un'altra prospettiva, quasi per guardare le cose da una nuova angolazione. Da subito, lo studioso dichiara di volersi sottrarre ad una accentuazione accademica del tema e inizia la sua dissertazione a partire da una riflessione sul sapere filosofico. «La filosofia non è qualcosa di astratto o estraneo rispetto ai problemi reali e pratici – esordisce Severino – ma, al contrario, essa nasce perché l'uomo tenta di costruire un senso del mondo all'interno del quale cerca una risposta al dolore, alla morte, all'angoscia dell'esistenza». La filosofia come possibilità di dare significato e accettabilità alle condizioni estreme della vita. «Essa – continua – stabilisce la scacchiera sulla quale s'intrecciano tutti i giochi che costituiscono la storia dell'occidente». Le categorie filosofiche di spazio, tempo, unicità e molteplicità sono individuate come la struttura fondante dell'occidente, nei suoi aspetti culturali non meno che in quelli pratici. «Con la successiva comparsa del cristianesimo – spiega Severino – fenomeno fondamentale per comprendere l'essenza della filosofia medievale, riaffiora l'atteggiamento del mito. Un atteggiamento connotato da un'incapacità di rispondere alla domanda sul perché il senso del mondo sia quello che ci si rappresenta come tale». Il perché al quale la filosofia, «questa grande eresia dell'uomo», accompagna fin dalla sua nascita la ricerca della verità e che diventerebbe, con l'irrompere del cristianesimo, l'antagonista della fede. Sul terreno del confronto tra fede e ragione, un tema nel quale siamo profondamente immersi, sottolinea il filosofo, si concentra il senso autentico del pensiero medievale. Una diatriba che conduce dritti al laceramento che l'Europa di questi giorni sta vivendo. La Francia del no alla costituzione, l'Italia del post-referendum che sperimenta il riaffacciarsi del cattolicesimo nella vita politica, la Spagna di Zapatero alle prese con i difensori della cristianità. Segni di un ritorno all'integralismo cattolico o di una lotta tra élite culturali che strumentalizzano le masse? Quelle masse inerti e sempre pronte a conformarsi al “si deve”, al “si fa” heideggeriano, o profondamente intrise di uno spirito gregario, incapaci di lasciare che la volontà si affermi. E il dipanarsi della matassa che dal medioevo conduce ai giorni nostri non può non passare attraverso la sintesi proposta da Tommaso d'Aquino. «Uno straordinario tentativo – spiega Severino – di tenere fermi due lati, la fede e la ragione, che si presentano come assolutamente antitetici». La teoria della conciliazione e dell'armonia tra filosofia e cristianesimo, elaborata da quel gigante del pensiero che fu Tommaso, afferma lo studioso, conduce a «un'irrimediabile aporia, drammaticamente attuale». Un'aporia che o fa del cristianesimo una verità di ragione o della ragione una verità di fede. E, affrettandosi a prendere le distanze da possibili accuse di ateismo, il filosofo afferma: «Sia l'ateo che l'amico di Dio intendono tutti noi come il nulla». Il mondo tanto per il credente quanto per colui che nega Dio sarebbe un caos al quale l'uomo viene sottratto solo mediante l'azione creatrice o il caso. «L'uomo viene collocato nel sepolcro del nulla per poter essere salvato». Da questa volontà di salvare l'uomo dopo averlo originariamente annullato, Severino si allontana. E oltre il nichilismo, oltre il drammatico urlo di Nietzsche che annunciava terrorizzato il tramonto degli idoli, il filosofo audacemente conclude: «L'uomo è infinitamente di più di quello che crede di essere e c'è qualcosa di infinitamente più grande di ciò che lungo tutta la storia del pensiero è stato chiamato Dio». Una nuova prospettiva, una rottura con la tradizione del pensiero che annuncia sullo sfondo nuove domande e altri abissali perché.
Il pensiero medievale nella magistrale dissertazione di Emanuele Severino a Cosenza
Filosofia, la grande eresia dell'uomo
Lo straordinario tentativo di sintesi di Tommaso d'Aquino
Federica Longo
Un viaggio tra “Utopia e conoscenza” nel nome di Federico II, stupor mundi e immutator mirabilis, dove stupore del mondo significava anche elemento destabilizzante per l'ordine costituito. E tale fu l'immutator mirabilis, se si pensa alla profonda incisione culturale che ha lasciato nella storia con la sua curia magna, che fu scuola madre della lingua italiana e avanguardia nell'arte e nella scienza. Ma soprattutto fucina di pensieri e sperimentazioni culturali che rompevano schemi e rigide tradizioni. L'iniziativa promossa dalla Telecom nella sua tappa cosentina, si dipana tra il razionale e il magico. Per le vie della città fermenti di artifici spettacolari colorano l'atmosfera. I teatranti si esercitano nell'arte di spostare indietro le lancette del tempo, a quel trenta gennaio del 1222, quando a Federico imperatore «splendida di sole e festante di popolo dovette apparire Cosenza». Mentre, nella sala convegni della biblioteca Nazionale, un pubblico di appassionati attende una magistrale lezione sulla filosofia medievale. E non appena l'accademico dei Lincei, Emanuele Severino, fa il suo ingresso, un riverente silenzio accompagna il suo arrivo. Il filosofo indugia e, prima di salire in cattedra, si accomoda al di qua del sipario, quasi a cercare un'altra prospettiva, quasi per guardare le cose da una nuova angolazione. Da subito, lo studioso dichiara di volersi sottrarre ad una accentuazione accademica del tema e inizia la sua dissertazione a partire da una riflessione sul sapere filosofico. «La filosofia non è qualcosa di astratto o estraneo rispetto ai problemi reali e pratici – esordisce Severino – ma, al contrario, essa nasce perché l'uomo tenta di costruire un senso del mondo all'interno del quale cerca una risposta al dolore, alla morte, all'angoscia dell'esistenza». La filosofia come possibilità di dare significato e accettabilità alle condizioni estreme della vita. «Essa – continua – stabilisce la scacchiera sulla quale s'intrecciano tutti i giochi che costituiscono la storia dell'occidente». Le categorie filosofiche di spazio, tempo, unicità e molteplicità sono individuate come la struttura fondante dell'occidente, nei suoi aspetti culturali non meno che in quelli pratici. «Con la successiva comparsa del cristianesimo – spiega Severino – fenomeno fondamentale per comprendere l'essenza della filosofia medievale, riaffiora l'atteggiamento del mito. Un atteggiamento connotato da un'incapacità di rispondere alla domanda sul perché il senso del mondo sia quello che ci si rappresenta come tale». Il perché al quale la filosofia, «questa grande eresia dell'uomo», accompagna fin dalla sua nascita la ricerca della verità e che diventerebbe, con l'irrompere del cristianesimo, l'antagonista della fede. Sul terreno del confronto tra fede e ragione, un tema nel quale siamo profondamente immersi, sottolinea il filosofo, si concentra il senso autentico del pensiero medievale. Una diatriba che conduce dritti al laceramento che l'Europa di questi giorni sta vivendo. La Francia del no alla costituzione, l'Italia del post-referendum che sperimenta il riaffacciarsi del cattolicesimo nella vita politica, la Spagna di Zapatero alle prese con i difensori della cristianità. Segni di un ritorno all'integralismo cattolico o di una lotta tra élite culturali che strumentalizzano le masse? Quelle masse inerti e sempre pronte a conformarsi al “si deve”, al “si fa” heideggeriano, o profondamente intrise di uno spirito gregario, incapaci di lasciare che la volontà si affermi. E il dipanarsi della matassa che dal medioevo conduce ai giorni nostri non può non passare attraverso la sintesi proposta da Tommaso d'Aquino. «Uno straordinario tentativo – spiega Severino – di tenere fermi due lati, la fede e la ragione, che si presentano come assolutamente antitetici». La teoria della conciliazione e dell'armonia tra filosofia e cristianesimo, elaborata da quel gigante del pensiero che fu Tommaso, afferma lo studioso, conduce a «un'irrimediabile aporia, drammaticamente attuale». Un'aporia che o fa del cristianesimo una verità di ragione o della ragione una verità di fede. E, affrettandosi a prendere le distanze da possibili accuse di ateismo, il filosofo afferma: «Sia l'ateo che l'amico di Dio intendono tutti noi come il nulla». Il mondo tanto per il credente quanto per colui che nega Dio sarebbe un caos al quale l'uomo viene sottratto solo mediante l'azione creatrice o il caso. «L'uomo viene collocato nel sepolcro del nulla per poter essere salvato». Da questa volontà di salvare l'uomo dopo averlo originariamente annullato, Severino si allontana. E oltre il nichilismo, oltre il drammatico urlo di Nietzsche che annunciava terrorizzato il tramonto degli idoli, il filosofo audacemente conclude: «L'uomo è infinitamente di più di quello che crede di essere e c'è qualcosa di infinitamente più grande di ciò che lungo tutta la storia del pensiero è stato chiamato Dio». Una nuova prospettiva, una rottura con la tradizione del pensiero che annuncia sullo sfondo nuove domande e altri abissali perché.
da Maria e Salomé, ai roghi delle streghe, alla psichiatria
Il Tempo 21.6.05
Nei secoli l’intolleranza religiosa divenne un problema psichiatrico
di VALENTINA CORRER
«Nel sesto mese, l'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria». (Vangelo secondo Luca 1, 26-28) Era Elisabetta, madre di Giovanni, ad essere al sesto mese di gravidanza, Maria lo seppe solo dopo l'Annunciazione e si recò da lei, vi rimase per i tre mesi restanti, poi Elisabetta partorì. Sei mesi dopo nacque quindi Gesù, il 25 dicembre. Otto giorni prima delle calende di gennaio; sei mesi prima nacque Giovanni, otto giorni prima delle calende di luglio, il 24 giugno. In quel giorno si festeggia San Giovanni Battista (l'Evangelista è il 27 dicembre). Al 24 giugno è legata una leggenda medioevale, quella di Salomè, figlia di Erodiade. Si dice che dopo aver danzato chiese, sotto consiglio della madre, la testa del Battista che le fu portata ancora in vita su un vassoio. Come punizione per aver causato la morte di Giovanni Salomè fu costretta all'infinito a vagare, volando su una scopa. Durante la notte che precede il 24 giugno, notte di veglia come per il Natale, si dice che gruppi di streghe si aggirino, sorvolino la basilica di San Giovanni a cavallo di una scopa tutte dirette ad un grande sabba annuale. Per difendersi da tanto influsso maligno si ricorreva al fuoco (da qui nascono i falò della notte di San Giovanni), all'acqua (specialmente la rugiada a cui sono attribuiti vari racconti legati alla fertilità) e alle erbe consacrate al santo (con poteri di protezione dal malocchio). In questo giorno si mangiano lumache (per difendersi dalle infedeltà e dai litigi) e si raccolgono le noci non ancora mature per farne del liquore, il nocino. E non è un caso che il più famoso albero di noci sia proprio quello di Benevento, albero intorno al quale si dice si raccogliessero le streghe, leggenda dalle antiche radici che risale all'epoca longobarda. Così recita un poemetto ottocentesco napoletano "Un gran noce di grandezza immensa germogliava d'estate e pur d'inverno; sotto di questa si tenea gran mensa da streghe, stregoni e diavoli d'Inferno". Benevento, città di origine del leggendario liquore Strega, il cui produttore Alberto Strega è promotore e finanziatore dell'omonimo noto premio letterario istituito nel 1947, che si svolge proprio il 24 giugno. Ma strega non è solo sinonimo di simpatiche leggende, superstizioni, gatti neri, scope, buffi cappelli e fortunate serie televisive. Vaste sono le pagine di storia dedicate alla caccia delle streghe, che con l'ausilio di veri processi sulla base di false testimonianze estorte tramite tortura, causarono la morte di migliaia di innocenti, soprattutto donne. La caccia alle streghe nasce nel XV secolo e prosegue per tutto il XVI e XVII, l'ultimo processo celebrato in Italia è dei primi del XVIII. È del 1486 il Malleus Maleficarum dei frati tedeschi Jacob Sprenger e Heinric Kramer, vero e proprio manuale del caso. È sicuramente il 1600 il secolo che più si è prestato a questo genere di persecuzioni, il secolo della Controriforma. Per lo più accusate di stregoneria erano le donne, proprio il Malleus termina così "la stregoneria deriva dalla lussuria della carne, che nelle donne è insaziabile". Le streghe, donne pericolose, oggetto di morbose attrazioni sessuali, capaci di causare l'infertilità, avide di bambini non battezzati da sacrificare al diavolo. Molte accusate erano infatti tutte quelle che avevano a che fare con i neonati, levatrici e bambinaie. In clima di Controriforma la stregoneria era un reato contro l'ordinamento della religione, il processo e la condanna a morte poi garantivano l'espiazione del peccato e la purificazione tramite il rogo. Ma verso il XVIII secolo, con la fine dei processi alle streghe, andando verso l'Illuminismo, la stregoneria passa da problema teologico a disturbo psichiatrico, risultato di un pensiero razionalista e tutti i casi connessi riempiono i trattati di medicina mentale. Sono soprattutto il diritto, la giustizia, il processo ad essere il centro del problema. Era inammissibile accettare una confessione ottenuta tramite tortura, si doveva garantire la giustizia. Beccaria e Verri si pronunciano fermamente contro la tortura, definendola una pena inutile, scrive Beccaria ne Dei delitti e delle pene "Qual è il fine politico delle pene? Il terrore degli altri uomini". Questo è sicuramente il risvolto comune a qualsiasi tipo di persecuzione, in qualsiasi tempo. Scriveva Arthur Miller nel 1953 un testo chiamato "Il crogiuolo" altrimenti conosciuto come "Le streghe di Salem". Riferendosi ad una caccia alle streghe del 1692, Miller metteva in evidenza le analogie con il clima di persecuzione iniziato dal senatore McCarthy contro l'ideologia comunista di cui lo stesso scrittore fece esperienza. Due società a confronto accomunate dalla stessa assurda caccia ad innocenti, alimentate dalla bigotteria e dall'odio.
Nei secoli l’intolleranza religiosa divenne un problema psichiatrico
di VALENTINA CORRER
«Nel sesto mese, l'angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria». (Vangelo secondo Luca 1, 26-28) Era Elisabetta, madre di Giovanni, ad essere al sesto mese di gravidanza, Maria lo seppe solo dopo l'Annunciazione e si recò da lei, vi rimase per i tre mesi restanti, poi Elisabetta partorì. Sei mesi dopo nacque quindi Gesù, il 25 dicembre. Otto giorni prima delle calende di gennaio; sei mesi prima nacque Giovanni, otto giorni prima delle calende di luglio, il 24 giugno. In quel giorno si festeggia San Giovanni Battista (l'Evangelista è il 27 dicembre). Al 24 giugno è legata una leggenda medioevale, quella di Salomè, figlia di Erodiade. Si dice che dopo aver danzato chiese, sotto consiglio della madre, la testa del Battista che le fu portata ancora in vita su un vassoio. Come punizione per aver causato la morte di Giovanni Salomè fu costretta all'infinito a vagare, volando su una scopa. Durante la notte che precede il 24 giugno, notte di veglia come per il Natale, si dice che gruppi di streghe si aggirino, sorvolino la basilica di San Giovanni a cavallo di una scopa tutte dirette ad un grande sabba annuale. Per difendersi da tanto influsso maligno si ricorreva al fuoco (da qui nascono i falò della notte di San Giovanni), all'acqua (specialmente la rugiada a cui sono attribuiti vari racconti legati alla fertilità) e alle erbe consacrate al santo (con poteri di protezione dal malocchio). In questo giorno si mangiano lumache (per difendersi dalle infedeltà e dai litigi) e si raccolgono le noci non ancora mature per farne del liquore, il nocino. E non è un caso che il più famoso albero di noci sia proprio quello di Benevento, albero intorno al quale si dice si raccogliessero le streghe, leggenda dalle antiche radici che risale all'epoca longobarda. Così recita un poemetto ottocentesco napoletano "Un gran noce di grandezza immensa germogliava d'estate e pur d'inverno; sotto di questa si tenea gran mensa da streghe, stregoni e diavoli d'Inferno". Benevento, città di origine del leggendario liquore Strega, il cui produttore Alberto Strega è promotore e finanziatore dell'omonimo noto premio letterario istituito nel 1947, che si svolge proprio il 24 giugno. Ma strega non è solo sinonimo di simpatiche leggende, superstizioni, gatti neri, scope, buffi cappelli e fortunate serie televisive. Vaste sono le pagine di storia dedicate alla caccia delle streghe, che con l'ausilio di veri processi sulla base di false testimonianze estorte tramite tortura, causarono la morte di migliaia di innocenti, soprattutto donne. La caccia alle streghe nasce nel XV secolo e prosegue per tutto il XVI e XVII, l'ultimo processo celebrato in Italia è dei primi del XVIII. È del 1486 il Malleus Maleficarum dei frati tedeschi Jacob Sprenger e Heinric Kramer, vero e proprio manuale del caso. È sicuramente il 1600 il secolo che più si è prestato a questo genere di persecuzioni, il secolo della Controriforma. Per lo più accusate di stregoneria erano le donne, proprio il Malleus termina così "la stregoneria deriva dalla lussuria della carne, che nelle donne è insaziabile". Le streghe, donne pericolose, oggetto di morbose attrazioni sessuali, capaci di causare l'infertilità, avide di bambini non battezzati da sacrificare al diavolo. Molte accusate erano infatti tutte quelle che avevano a che fare con i neonati, levatrici e bambinaie. In clima di Controriforma la stregoneria era un reato contro l'ordinamento della religione, il processo e la condanna a morte poi garantivano l'espiazione del peccato e la purificazione tramite il rogo. Ma verso il XVIII secolo, con la fine dei processi alle streghe, andando verso l'Illuminismo, la stregoneria passa da problema teologico a disturbo psichiatrico, risultato di un pensiero razionalista e tutti i casi connessi riempiono i trattati di medicina mentale. Sono soprattutto il diritto, la giustizia, il processo ad essere il centro del problema. Era inammissibile accettare una confessione ottenuta tramite tortura, si doveva garantire la giustizia. Beccaria e Verri si pronunciano fermamente contro la tortura, definendola una pena inutile, scrive Beccaria ne Dei delitti e delle pene "Qual è il fine politico delle pene? Il terrore degli altri uomini". Questo è sicuramente il risvolto comune a qualsiasi tipo di persecuzione, in qualsiasi tempo. Scriveva Arthur Miller nel 1953 un testo chiamato "Il crogiuolo" altrimenti conosciuto come "Le streghe di Salem". Riferendosi ad una caccia alle streghe del 1692, Miller metteva in evidenza le analogie con il clima di persecuzione iniziato dal senatore McCarthy contro l'ideologia comunista di cui lo stesso scrittore fece esperienza. Due società a confronto accomunate dalla stessa assurda caccia ad innocenti, alimentate dalla bigotteria e dall'odio.
archeologia
il vetro più antico del mondo
Le Scienze 21.06.2005
Il vetro più antico del mondo
Identificato un sito di fabbricazione del vetro nell'antica città reale di Ramses II
Nell'antichità, il vetro era qualcosa di molto raro e prezioso: chi sapeva come fabbricarlo possedeva dunque una tecnologia molto potente. Alcuni frammenti scoperti nell'odierno Iraq suggeriscono che la produzione di vetro sia cominciata attorno al 1500 a. C. in Mesopotamia e che per molti secoli sia rimasta un segreto accuratamente custodito. O almeno così si pensava.
Un nuovo studio rivela ora che gli antichi egiziani erano già in grado di produrre vetro pochi anni dopo i mesopotamici, e che usavano questa tecnologia per estendere la propria influenza attraverso il Mediterraneo e il Medio Oriente. La scoperta è stata descritta il 17 giugno sulla rivista "Science".
Alcuni artefatti disseppelliti nella parte orientale del delta del Nilo mostrano che in quella regione il vetro veniva prodotto a partire da materie prime attorno al 1250 avanti Cristo. Gli artefatti sono stati trovati presso l'antica capitale del faraone Ramses II. Le rovine rappresentano il più antico sito di fabbricazione di vetro conosciuto al mondo, l'unico che risale all'età del bronzo.
Le scoperte mostrano anche i metodi usati per produrre il vetro antico. "Per la prima volta - afferma Thilo Rehren dell'University College di Londra, co-autore dello studio - possiamo spiegare dove e come lo fabbricavano".
Il vetro più antico del mondo
Identificato un sito di fabbricazione del vetro nell'antica città reale di Ramses II
Nell'antichità, il vetro era qualcosa di molto raro e prezioso: chi sapeva come fabbricarlo possedeva dunque una tecnologia molto potente. Alcuni frammenti scoperti nell'odierno Iraq suggeriscono che la produzione di vetro sia cominciata attorno al 1500 a. C. in Mesopotamia e che per molti secoli sia rimasta un segreto accuratamente custodito. O almeno così si pensava.
Un nuovo studio rivela ora che gli antichi egiziani erano già in grado di produrre vetro pochi anni dopo i mesopotamici, e che usavano questa tecnologia per estendere la propria influenza attraverso il Mediterraneo e il Medio Oriente. La scoperta è stata descritta il 17 giugno sulla rivista "Science".
Alcuni artefatti disseppelliti nella parte orientale del delta del Nilo mostrano che in quella regione il vetro veniva prodotto a partire da materie prime attorno al 1250 avanti Cristo. Gli artefatti sono stati trovati presso l'antica capitale del faraone Ramses II. Le rovine rappresentano il più antico sito di fabbricazione di vetro conosciuto al mondo, l'unico che risale all'età del bronzo.
Le scoperte mostrano anche i metodi usati per produrre il vetro antico. "Per la prima volta - afferma Thilo Rehren dell'University College di Londra, co-autore dello studio - possiamo spiegare dove e come lo fabbricavano".
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