Libertà 3.3.04
Riunione del cast con il regista piacentino, il 19 la “prima” verdiana
Bellocchio è all'opera
«Rigoletto anni '50, ma senza trasgressioni»
Sono iniziate ieri al Municipale [di Piacenza], con la riunione del cast, le grandi manovre di avvicinamento all'attesissimo debutto del Rigoletto di Verdi messo in scena da Marco Bellocchio. Si tratta della nuova produzione del teatro piacentino. L'opera sarà in scena venerdì 19 marzo alle 20.30 (turno A) con repliche domenica 21 in matinée alle 15.30 (fuori abbonamento) e martedì 23 alle 20.30 (turno B). Il baritono Roberto Gazale sarà Rigoletto. Il cantante capitanerà un gruppo di giovani artisti con già diverse esperienze in quest'opera. Gazale è ben noto al pubblico del Municipale per essere stato tra i protagonisti della Battaglia di Legnano e Stiffelio. «Rigoletto - dice - mi porta fortuna, l'ho cantato alla Scala, all'Arena, a Firenze, due volte secondo la tradizione e poi con regie anche stravaganti. Con il regista Bellocchio sarà sicuramente un'esperienza importante per mettere a fuoco il personaggio secondo un approccio più interiorizzato. E poi è sempre un piacere tornare a cantare in questo bel teatro». Il soprano Gladys Rossi, romagnola, è una giovanissima Gilda. Ha già affrontato il ruolo nell'edizione della Fondazione Toscanini a Busseto. «E' emozionante lavorare con un regista così importante come Bellocchio - dice - in un ruolo che mi piace tantissimo. E' stato il mio debutto assoluto e, senza essere superstiziosa, sono legata in modo particolare al personaggio». Il basso Riccardo Zanellato è chiamato a fare Sparafucile. Zanellato è una vecchia conoscenza dei piacentini. «L'ultima volta è stato in Aida - dice -facevo Ramfis. E' un piacere ritornare, ritrovare amici come Gazale, la piacentina Beretta e giovani colleghi con cui è stimolante lavorare, perché i giovani hanno più voglia di fare, di imparare. Mi interessa come lavora Bellocchio, un regista che viene dal cinema. Mi aspetto molto da questa nuova esperienza». Il soprano Giovanna Beretta vestirà i panni della Contessa di Ceprano. «E' una parte che conosco, l'ho già fatta a Busseto in una edizione originale, eravamo tutti quanti trasformati in uccelli. Con Bellocchio ho avuto il piacere di lavorare in occasione della realizzazione del film omaggio a Verdi Addio del passato. E' stata un'esperinza indimenticabile e sono felice di ritrovarmi a seguire i suoi insegnamenti». Nel ruolo di Marullo è chiamato il baritono Stefanos Koroneos, appena smessa la divisa di marinaio del Ballo in maschera. «Ho già affrontato il ruolo - dice - nella produzione di Busseto con la regia di Vittorio Sgarbi. Qui sarà tutto diverso, mi piace fare questa nuova esperienza da cui mi attendo molto». Il tenore David Miller vestirà invece i panni del Duca di Mantova, Rossana Rinaldi sarà Maddalena, Lorena Scarlata vestirà i panni di Giovanna, Andrea Patucelli sarà Montenerone, Antonio Petracco Borsa, Alessandro Battiato Ceprano. Dirigerà l'Orchestra della Fondazione Toscanini il maestro Gunter Neuhold, più volte sul podio al Municipale. Il Coro del Municipale sarà diretto, come sempre, dal maestro Corrado Casati. Marco Bellocchio racconta la sua visione d'insieme della storia sintetizzata da Francesco Maria Piave nel libretto dal romanzo di Victor Hugo Il re si diverte. «Ho scelto un'ambientazione più vicina a noi - anticipa il regista - per non ripetere gli stereotipi dell'opera lirica, per restituire piuttosto una dimensione domestica, nella quale lo spettatore si possa riconoscere. Anni Cinquanta, clima padano, un segno che non vuole avere il carattere della provocazione - raccomanda Bellocchio - un canto meno a “petto in fuori”». Il regista cita I Vitelloni di Fellini per dare immagini al suo dire, ai giovani interpreti. Cita certe atmosfere cittadine, il Carnevale quand'erano gli adulti ad andare in maschera. Marco Dentici, scenografo, ha una lunga collaborazione con il regista, in particolare negli ultimi film girati, La Balia, L'ora di religione E Buongiorno notte. «Si vuole evitare la frammentazione delle scene - dice - dare allo spettatore il senso della continuità temporale. Per questo abbiamo previsto cambi di scena a vista, passaggi veloci da esterno a interno, il gioco delle luci e dell'ombra a creare i piani. Insomma si vuole evitare la convenzione, però con soluzioni lineari, discrete, d'una modernità riconoscibile». In palcoscenico fervono i lavori, è montato un grande spazio a due livelli su cui si innestano gli elementi verticali. Ancora una volta una sfida contro il tempo, per questa festa a cui lo stesso Duca di Mantova è invitato. Gian Carlo Andreoli
(c) 1998-2002 - LIBERTA'
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
mercoledì 3 marzo 2004
Wagner, tra sogno e veglia
La Stampa 3.3.04
Wagner, la creatività
si sveglia dormendo
L’ARPEGGIO CHE DA’ L’AVVIO AL CICLO DELL’«ANELLO DEL NIBELUNGO» FU CONCEPITO DAL COMPOSITORE DURANTE IL SONNO. STRETTO LEGAME TRA SOGNO E PENSIERO
di Sandro Cappelletto
UNA traversata da Genova a La Spezia, un mar Ligure inclemente; Richard Wagner - il 5 settembre 1853 - sbarca sfinito, cerca un alloggio comodo, trova soltanto una locanda, non riesce a dormire, inizia una lunga camminata nei boschi, che lo strema. Torna alla locanda, si allunga su un divano "duro e scomodo", entra in uno stato di dormiveglia e sente, dentro di sé, "l'accordo di mi bemolle maggiore risonante e ondeggiante in arpeggi ininterrotti" che darà l’avvio al ciclo dell'"Anello del Nibelungo". Torna a Genova, si rimette in viaggio verso Zurigo, inizia a comporre. Racconta subito l'episodio in una lettera alla prima moglie Minna; anni dopo, dettando alla seconda moglie Cosima la "Mia vita", così ricorda quel pomeriggio: «Riconobbi che il motivo del preludio dell'Oro del Reno mi si era a un tratto rivelato, quale da tempo avevo in mente, senza che però fino allora fossi riuscito a dargli forma». «Il momento dell'intuizione creativa è uno degli eventi più misteriosi della natura umana, soprattutto quando avviene nel sonno», scriveva Andrea Albini all'inizio dell'articolo dedicato al rapporto tra stato onirico e creatività, apparso l'11 febbraio su «Tuttoscienze». L'episodio narrato da Wagner ribadisce la necessità del rapporto tra sonno, sogno e formalizzazione del gesto creativo che Marcel Proust porrà a fondamento della sua "Recherche". Anche in questo caso la dichiarazione dell'autore è posta nelle prime righe dell'opera, come un indispensabile passo d'avvio: «Un uomo che dorme tiene in cerchio attorno a lui il filo delle ore, l'ordine degli anni e dei mondi. Lo consulta con chiarezza svegliandosi e in un attimo vi legge il punto della terra che occupa, il tempo che è fluito (écoulé) fino al suo sogno». Fluire: Proust sceglie un verbo «acquatico» per indicare il transitare del tempo. La scena iniziale della Tetralogia wagneriana è ambientata sulle rive del Reno ed è concepita come un'immagine della sacralità intatta di quelle profondità arcaiche. Il motivo del Reno ritornerà più volte durante la lunga narrazione e alla fine del percorso, come un compiersi ciclico. E' l'acqua, e le immagini simboliche e reali che ci consente, l'elemento indispensabile all'attività onirica e alle sue capacità di associazione? La riflessione di Wagner stabilisce un nesso diretto tra rivelazione durante il sogno e successiva organizzazione di quella intuizione. L'intero sistema creativo, musicale e linguistico, del compositore si presenta in un'unità inseparabile tra la fase onirica e quella razionale del pensiero. Non c'è una sola scena dell'"Anello del Nibelungo" in cui qualche personaggio non sogni, non dorma, non si risvegli, non ricordi, non associ il presente al passato, non immagini, non evochi. La sequenza più evidente - straordinaria nella sua chiarezza, mezzo secolo prima de "L'interpretazione dei sogni" di Sigmund Freud - accade nella prima scena del terzo atto di "Sigfrido"; Wotan, il signore degli dei, ma ora un uomo del tutto smarrito, privato dell'oro e dell'anello, ansioso di recuperarli perché crede garantiscano il potere e la ricchezza, privato anche dell'amore della prediletta figlia Brunilde, va a trovare Erda, la grande madre degli dei. La chiama a lungo, la invoca come "donna eterna" che tutto sa, fino a quando il suo canto sveglia la dea. "Io ti faccio uscire dal sonno - la apostrofa Wotan - perché tu possa accrescere la mia conoscenza". Erda subito replica all'accusa di dormire sempre quando c'è bisogno di lei: "Mein Schlaf ist Träumen - mein Traümen ist Sinnen - mein Sinnen Walten des Wissens" (Il mio dormire è sognare, il mio sognare pensare, il mio pensare è governare il sapere). Il rapporto tra sonno, sogno e conoscenza diventa esplicito anche nella musica: esattamente su queste parole l'orchestra ripropone, non in primo piano, ma come sottotraccia, stratificato, il tema iniziale del Reno, del fluire dell'acqua. Chi può capire lo ascolti, sembra dirci Wagner. Erda e Wotan non si intendono: lui vuole certezze per agire, lei parla abitando ormai le distanze del "sonno eterno". Wotan la rinnega, si allontana da lei per sempre e da quel momento si perde, si condanna definitivamente alla passività del proprio agire. Il segnale è chiaro: a chi non è in grado di intendere l'inconscio, sfugge il senso del proprio operare. Come la musica, anche la lingua di Wagner risponde all'esigenza di non separare il momento del sapere consapevole dalle associazioni meno rigide, ma non meno illuminanti, del pensiero che immagina: i suoi libretti - nessuna informazione, nessun documento ci autorizza a pensare che siano nati in fase onirica - sono un "panta rei" della parola che suona. I primi versi dell’"Anello" propongono una serie di vocali, nel predominio della "a", e di consonanti liquide e sfuggenti: "Weia, waga, Walhalla". Il significato di questi “canti” è nel loro essere un'invocazione rituale, insistendo su quella doppia W che nella sua stessa immagine grafica vuole ricordare l'andamento di una Welle, di un'onda. Gaston Bachelard, in «L'acqua e i sogni. Saggio sull'immaginazione della materia» scrive che la vocale "a" è il fonema della creazione attraverso l'acqua (ancora l'acqua!): la a designa una materia primigenia, è la lettera iniziale del poema universale. E' la lettera del riposo dell'anima nella mistica tibetana". E' la vocale prediletta dall'inconscio che crea? Wagner sognava spesso, e ricorrente era un incubo: non riuscire a dirigere la Nona di Beethoven, doversi fermare un attimo prima di salire sul podio, mentre l'orchestra era già seduta, pronta a iniziare, e il pubblico non aspettava che lui. Il sogno gli consentiva di creare, e solo il sogno era in grado di porre un limite al suo smisurato senso di onnipotenza. Il suo sognare significava davvero governare il sapere.
Wagner, la creatività
si sveglia dormendo
L’ARPEGGIO CHE DA’ L’AVVIO AL CICLO DELL’«ANELLO DEL NIBELUNGO» FU CONCEPITO DAL COMPOSITORE DURANTE IL SONNO. STRETTO LEGAME TRA SOGNO E PENSIERO
di Sandro Cappelletto
UNA traversata da Genova a La Spezia, un mar Ligure inclemente; Richard Wagner - il 5 settembre 1853 - sbarca sfinito, cerca un alloggio comodo, trova soltanto una locanda, non riesce a dormire, inizia una lunga camminata nei boschi, che lo strema. Torna alla locanda, si allunga su un divano "duro e scomodo", entra in uno stato di dormiveglia e sente, dentro di sé, "l'accordo di mi bemolle maggiore risonante e ondeggiante in arpeggi ininterrotti" che darà l’avvio al ciclo dell'"Anello del Nibelungo". Torna a Genova, si rimette in viaggio verso Zurigo, inizia a comporre. Racconta subito l'episodio in una lettera alla prima moglie Minna; anni dopo, dettando alla seconda moglie Cosima la "Mia vita", così ricorda quel pomeriggio: «Riconobbi che il motivo del preludio dell'Oro del Reno mi si era a un tratto rivelato, quale da tempo avevo in mente, senza che però fino allora fossi riuscito a dargli forma». «Il momento dell'intuizione creativa è uno degli eventi più misteriosi della natura umana, soprattutto quando avviene nel sonno», scriveva Andrea Albini all'inizio dell'articolo dedicato al rapporto tra stato onirico e creatività, apparso l'11 febbraio su «Tuttoscienze». L'episodio narrato da Wagner ribadisce la necessità del rapporto tra sonno, sogno e formalizzazione del gesto creativo che Marcel Proust porrà a fondamento della sua "Recherche". Anche in questo caso la dichiarazione dell'autore è posta nelle prime righe dell'opera, come un indispensabile passo d'avvio: «Un uomo che dorme tiene in cerchio attorno a lui il filo delle ore, l'ordine degli anni e dei mondi. Lo consulta con chiarezza svegliandosi e in un attimo vi legge il punto della terra che occupa, il tempo che è fluito (écoulé) fino al suo sogno». Fluire: Proust sceglie un verbo «acquatico» per indicare il transitare del tempo. La scena iniziale della Tetralogia wagneriana è ambientata sulle rive del Reno ed è concepita come un'immagine della sacralità intatta di quelle profondità arcaiche. Il motivo del Reno ritornerà più volte durante la lunga narrazione e alla fine del percorso, come un compiersi ciclico. E' l'acqua, e le immagini simboliche e reali che ci consente, l'elemento indispensabile all'attività onirica e alle sue capacità di associazione? La riflessione di Wagner stabilisce un nesso diretto tra rivelazione durante il sogno e successiva organizzazione di quella intuizione. L'intero sistema creativo, musicale e linguistico, del compositore si presenta in un'unità inseparabile tra la fase onirica e quella razionale del pensiero. Non c'è una sola scena dell'"Anello del Nibelungo" in cui qualche personaggio non sogni, non dorma, non si risvegli, non ricordi, non associ il presente al passato, non immagini, non evochi. La sequenza più evidente - straordinaria nella sua chiarezza, mezzo secolo prima de "L'interpretazione dei sogni" di Sigmund Freud - accade nella prima scena del terzo atto di "Sigfrido"; Wotan, il signore degli dei, ma ora un uomo del tutto smarrito, privato dell'oro e dell'anello, ansioso di recuperarli perché crede garantiscano il potere e la ricchezza, privato anche dell'amore della prediletta figlia Brunilde, va a trovare Erda, la grande madre degli dei. La chiama a lungo, la invoca come "donna eterna" che tutto sa, fino a quando il suo canto sveglia la dea. "Io ti faccio uscire dal sonno - la apostrofa Wotan - perché tu possa accrescere la mia conoscenza". Erda subito replica all'accusa di dormire sempre quando c'è bisogno di lei: "Mein Schlaf ist Träumen - mein Traümen ist Sinnen - mein Sinnen Walten des Wissens" (Il mio dormire è sognare, il mio sognare pensare, il mio pensare è governare il sapere). Il rapporto tra sonno, sogno e conoscenza diventa esplicito anche nella musica: esattamente su queste parole l'orchestra ripropone, non in primo piano, ma come sottotraccia, stratificato, il tema iniziale del Reno, del fluire dell'acqua. Chi può capire lo ascolti, sembra dirci Wagner. Erda e Wotan non si intendono: lui vuole certezze per agire, lei parla abitando ormai le distanze del "sonno eterno". Wotan la rinnega, si allontana da lei per sempre e da quel momento si perde, si condanna definitivamente alla passività del proprio agire. Il segnale è chiaro: a chi non è in grado di intendere l'inconscio, sfugge il senso del proprio operare. Come la musica, anche la lingua di Wagner risponde all'esigenza di non separare il momento del sapere consapevole dalle associazioni meno rigide, ma non meno illuminanti, del pensiero che immagina: i suoi libretti - nessuna informazione, nessun documento ci autorizza a pensare che siano nati in fase onirica - sono un "panta rei" della parola che suona. I primi versi dell’"Anello" propongono una serie di vocali, nel predominio della "a", e di consonanti liquide e sfuggenti: "Weia, waga, Walhalla". Il significato di questi “canti” è nel loro essere un'invocazione rituale, insistendo su quella doppia W che nella sua stessa immagine grafica vuole ricordare l'andamento di una Welle, di un'onda. Gaston Bachelard, in «L'acqua e i sogni. Saggio sull'immaginazione della materia» scrive che la vocale "a" è il fonema della creazione attraverso l'acqua (ancora l'acqua!): la a designa una materia primigenia, è la lettera iniziale del poema universale. E' la lettera del riposo dell'anima nella mistica tibetana". E' la vocale prediletta dall'inconscio che crea? Wagner sognava spesso, e ricorrente era un incubo: non riuscire a dirigere la Nona di Beethoven, doversi fermare un attimo prima di salire sul podio, mentre l'orchestra era già seduta, pronta a iniziare, e il pubblico non aspettava che lui. Il sogno gli consentiva di creare, e solo il sogno era in grado di porre un limite al suo smisurato senso di onnipotenza. Il suo sognare significava davvero governare il sapere.
la religione degli americani/6
parla Elie Wiesel
Repubblica 3.3.04
LA MIA FEDE FERITA
"Per la mia generazione il rapporto con Dio non può non essere sofferto, ma, dice il chassidismo, nessun cuore è intero come un cuore spezzato"
"Non ho un´immagine di Dio, costituirebbe un limite. Il mistero è parte dell´infinita grandezza"
"Credo fin da bambino anche se ho avuto dei momenti di crisi. E prego costantemente"
di ANTONIO MONDA
NEW YORK. Elie Wiesel mi riceve nel suo studio dell´Upper East Side in un giorno dall´improvvisa temperatura primaverile. Prima di iniziare a discutere del suo rapporto personale con Dio guarda a lungo i colori che si riflettono sui grattacieli dorati del tramonto. Sorride in silenzio, come se quella fosse già una prima risposta, poi mi chiede notizie sulla situazione politica del nostro paese «misteriosa per chi non vive in Italia». E´ appena tornato da un lungo viaggio all´interno degli Stati Uniti, e sta per ripartire per una serie di conferenze nelle quali tratterà anche alcuni dei temi di cui dobbiamo discutere. «Alla fine dei conti l´esistenza di Dio è l´unico problema autentico» mi dice con uno sguardo severo «...nel quale tutti gli altri problemi sono riassunti e minimizzati. A volte penso che parliamo sempre di Dio senza rendercene conto».
Tra i tanti filosofi che hanno affrontato questo argomento, Blaise Pascal ha parlato esplicitamente dell´esistenza di un Dio nascosto.
«Pascal è uno dei pensatori che ammiro maggiormente, e che mi stimola costantemente a confrontarmi con i massimi problemi. Non è stato tuttavia il primo a parlare di un Dio nascosto. La stessa Bibbia parla di Dio che si copre il volto. E io interpreto - consapevole di non essere in solitudine - che Dio si copre il volto perché non riesce a sopportare quello che vede, quello che facciamo noi uomini».
Nei Pensieri Pascal scrive, interpretando il pensiero di Dio, «non mi cercheresti se non mi avessi già trovato».
«Mi sembra che sia una frase che spiega bene l´importanza della scelta all´interno della fede».
Lei crede in Dio, professor Wiesel?
«Sì, certo».
Posso chiederle come se lo immagina?
«Può certamente chiedermelo, ma io devo risponderle che non me lo immagino».
Derek Walcott mi ha detto che non riesce a prescindere dall´immagine con cui è stato educato in infanzia: un uomo anziano di razza bianca dall´espressione saggia.
«Capisco la battuta di Walcott, ed è ovviamente un´esemplificazione molto umana a cui è difficile sottrarsi. Tuttavia penso che ogni immagine rappresenti un limite, e che il mistero sia parte della infinita grandezza».
Ha sempre creduto in Dio?
«Sin da bambino, ma ho avuto i miei momenti di crisi».
E com´era il Dio dell´infanzia?
«Non molto diverso da quello della maturità. Posso dirle che era nei miei sogni, nelle mie preghiere, in ogni aspetto di un´esistenza altrimenti inconcepibile».
I suoi genitori erano credenti?
«Sì, erano persone estremamente religiose».
Quanto è dovuto a loro la sua fede?
«Certamente devo ai mio padre Shlomo e mia madre Sarah l´educazione e l´esempio. Ma come succede a tutti anche la mia fede ha vissuto un fondamentale momento di scelta. Altrimenti non la si potrebbe definirla fede».
Lei parla di scelta. Qualcuno parlerebbe di grazia...
«Non ho problemi se vuole definirla così. Purché non si minimizza la libertà della scelta, e le conseguenze che si assumono nel momento in cui si crede».
Lei ha studiato filosofia alla Sorbona. Ritiene che quegli studi abbiano influenzato la sua fede?
«Direi di no. La filosofia mi ha dato la terminologia, il metodo e la possibilità di articolare in maniera più rigorosa il rapporto con i problemi dell´esistenza».
Un frase ricorrente in queste conversazioni sulla fede è la battuta di Dostoevskj: «se Dio non esiste, è possibile tutto».
«E´ una constatazione tragica, che mi sento di condividere».
Come concepisce l´esistenza senza la fede?
«Il mondo ne ha avuto esperienza evidente e recente: gli orrori del secolo appena terminato sono stati perpetrati da una dittatura pagana come il nazismo e atea come il comunismo. Questo non vuol dire ovviamente che in nome di Dio non siano state commesse delle mostruosità: è lunga la lista dei credenti che si sono macchiati di infamie. Tuttavia l´assenza programmatica di un Dio, o quanto meno l´illusione di combatterne la presenza, porta sistematicamente all´orrore».
Lei crede fermamente in Dio, ma vive in un mondo dove esistono il dolore, l´ingiustizia ed il sopruso.
«E´ il grande tormento della mia intera esistenza. La domanda a cui non so rispondere e credo alla quale nessuno possa rispondere. Ma anche in quei momenti terribili non vedo una assenza, ma piuttosto un´eclisse».
Crede che Dio possa permettere una guerra?
«Io credo che sia più probabile che i governanti utilizzino Dio e la religione per scatenare delle guerre. E vedo che questo succede costantemente, ma nessuno può, ne mai potrà dimostrare che una guerra è combattuta per volere di Dio. Se non fosse un argomento così tragico sarebbe da chiedere scherzosamente ogni volta un attestato notarile che certifica che la guerra che sta per essere scatenata è voluta espressamente dall´Onnipotente».
La politica di questi tempi fa ricorso sempre più spesso alla preghiera.
«Anche questo non rappresenta nulla di nuovo. Come non è nuova la presenza di atteggiamenti ipocriti, strumentali e molto spesso anche sinceri. E´ importante sottolineare come i rischi possono essere enormi in ognuno dei casi citati».
Lei prega?
«Sì, costantemente e semplicemente».
Quando ha iniziato?
«Da bambino. Ma come accade spesso, il mio primo istinto è stato quello di emulazione: non volevo essere l´ultimo della mia famiglia a mettermi in fila nelle orazioni».
Ed ha pregato sempre?
«No, ho avuto i miei momenti di crisi, che mi hanno indotto a studiare e a confrontarmi, a volte drammaticamente, con Dio».
Come definirebbe oggi la sua fede?
«Userei l´aggettivo ferito, che credo sia valido per tutte le persone della mia generazione. Il chassidismo insegna che "nessun cuore è intero come un cuore spezzato", e io dico che nessuna fede è solida come una fede ferita».
Gli uomini di fede individuano proprio nella preghiera il momento più alto della spiritualità.
«La preghiera è un aspetto fondamentale, tuttavia io dedico gran parte della mia esistenza all´azione: credo che sia un modo di interpretare la propria spiritualità».
Cosa intende?
«Che ci sono dei momenti in cui bisogna interferire con quello che succede nella storia. Ad esempio, quando la vita e la dignità umana sono messe a rischio, le differenti culture divengono irrilevanti. Nel momento in cui una persona è perseguitata per la propria razza, la religione o per le sue idee politiche, diventa - per chi ritiene di avere uno spirito religioso - il centro dell´universo».
Un altro scrittore che è stato citato in maniera ricorrente in questa riflessione sulla religione è Isaac Bashevis Singer, il cui romanzo La famiglia Moskat termina con le parole «Il Messia è la morte».
«Conoscevo bene Singer e credo che sia giusto collocarlo tra gli scrittori che si sono interrogati in maniera più efficace su questo tipo di problemi. Ma non è possibile decontestualizzare il finale della Famiglia Moskat: si tratta di una conclusione a effetto, che coincide con l´ascesa del nazismo e la fine non solo di una famiglia ma di una intera esperienza culturale e religiosa».
Non crede che questa sia la più grande delle ferite?
«Certo, ma parlare di morte sembra negare la fede. E io fin lì non arrivo: anzi credo nel contrario».
Può citarmi un artista che ammira, e che vive apertamente una fede diversa della sua?
«Ho il massimo rispetto per chiunque abbia una fede, qualunque essa sia. Anche per chi è ateo, e crede fermamente nell´inesistenza di Dio».
Possiamo dedurne che è contrario ad ogni tipo di fondamentalismo?
«Nella maniera più assoluta. Il fanatismo è un pericolo, sia nel caso dei musulmani, che dei cristiani o degli ebrei. E il rispetto per la fede altrui, nella quale credo sinceramente, esige uguale rispetto dall´interlocutore. Pensando alla mia esperienza personale mi viene in mente come esempio luminoso François Mauriac. Io, ebreo, devo ad un cattolico fervente come lui, che si dichiarava innamorato di Cristo, il fatto di essere diventato uno scrittore».
Ritiene che il Dio in cui credeva Mauriac sia diverso da quello in cui lei crede?
«No. Ma so come possono essere diversi i nostri sguardi, ed il nostro approccio. Una volta Mauriac mi dedicò un libro scrivendo "ad Eli Wiesel, bambino ebreo che fu crocefisso". In un primo momento la presi male, ma poi compresi che era il suo modo di farmi sentire il suo amore».
(6.Fine - Le precedenti puntate sono del: 18/1/2004, Saul Bellow; 26/1, Arthur Schlesinger; 2/2, Nathan Englander; 14/2, Derek Walcott; 25/2, Tony Morrison)
LA MIA FEDE FERITA
"Per la mia generazione il rapporto con Dio non può non essere sofferto, ma, dice il chassidismo, nessun cuore è intero come un cuore spezzato"
"Non ho un´immagine di Dio, costituirebbe un limite. Il mistero è parte dell´infinita grandezza"
"Credo fin da bambino anche se ho avuto dei momenti di crisi. E prego costantemente"
di ANTONIO MONDA
NEW YORK. Elie Wiesel mi riceve nel suo studio dell´Upper East Side in un giorno dall´improvvisa temperatura primaverile. Prima di iniziare a discutere del suo rapporto personale con Dio guarda a lungo i colori che si riflettono sui grattacieli dorati del tramonto. Sorride in silenzio, come se quella fosse già una prima risposta, poi mi chiede notizie sulla situazione politica del nostro paese «misteriosa per chi non vive in Italia». E´ appena tornato da un lungo viaggio all´interno degli Stati Uniti, e sta per ripartire per una serie di conferenze nelle quali tratterà anche alcuni dei temi di cui dobbiamo discutere. «Alla fine dei conti l´esistenza di Dio è l´unico problema autentico» mi dice con uno sguardo severo «...nel quale tutti gli altri problemi sono riassunti e minimizzati. A volte penso che parliamo sempre di Dio senza rendercene conto».
Tra i tanti filosofi che hanno affrontato questo argomento, Blaise Pascal ha parlato esplicitamente dell´esistenza di un Dio nascosto.
«Pascal è uno dei pensatori che ammiro maggiormente, e che mi stimola costantemente a confrontarmi con i massimi problemi. Non è stato tuttavia il primo a parlare di un Dio nascosto. La stessa Bibbia parla di Dio che si copre il volto. E io interpreto - consapevole di non essere in solitudine - che Dio si copre il volto perché non riesce a sopportare quello che vede, quello che facciamo noi uomini».
Nei Pensieri Pascal scrive, interpretando il pensiero di Dio, «non mi cercheresti se non mi avessi già trovato».
«Mi sembra che sia una frase che spiega bene l´importanza della scelta all´interno della fede».
Lei crede in Dio, professor Wiesel?
«Sì, certo».
Posso chiederle come se lo immagina?
«Può certamente chiedermelo, ma io devo risponderle che non me lo immagino».
Derek Walcott mi ha detto che non riesce a prescindere dall´immagine con cui è stato educato in infanzia: un uomo anziano di razza bianca dall´espressione saggia.
«Capisco la battuta di Walcott, ed è ovviamente un´esemplificazione molto umana a cui è difficile sottrarsi. Tuttavia penso che ogni immagine rappresenti un limite, e che il mistero sia parte della infinita grandezza».
Ha sempre creduto in Dio?
«Sin da bambino, ma ho avuto i miei momenti di crisi».
E com´era il Dio dell´infanzia?
«Non molto diverso da quello della maturità. Posso dirle che era nei miei sogni, nelle mie preghiere, in ogni aspetto di un´esistenza altrimenti inconcepibile».
I suoi genitori erano credenti?
«Sì, erano persone estremamente religiose».
Quanto è dovuto a loro la sua fede?
«Certamente devo ai mio padre Shlomo e mia madre Sarah l´educazione e l´esempio. Ma come succede a tutti anche la mia fede ha vissuto un fondamentale momento di scelta. Altrimenti non la si potrebbe definirla fede».
Lei parla di scelta. Qualcuno parlerebbe di grazia...
«Non ho problemi se vuole definirla così. Purché non si minimizza la libertà della scelta, e le conseguenze che si assumono nel momento in cui si crede».
Lei ha studiato filosofia alla Sorbona. Ritiene che quegli studi abbiano influenzato la sua fede?
«Direi di no. La filosofia mi ha dato la terminologia, il metodo e la possibilità di articolare in maniera più rigorosa il rapporto con i problemi dell´esistenza».
Un frase ricorrente in queste conversazioni sulla fede è la battuta di Dostoevskj: «se Dio non esiste, è possibile tutto».
«E´ una constatazione tragica, che mi sento di condividere».
Come concepisce l´esistenza senza la fede?
«Il mondo ne ha avuto esperienza evidente e recente: gli orrori del secolo appena terminato sono stati perpetrati da una dittatura pagana come il nazismo e atea come il comunismo. Questo non vuol dire ovviamente che in nome di Dio non siano state commesse delle mostruosità: è lunga la lista dei credenti che si sono macchiati di infamie. Tuttavia l´assenza programmatica di un Dio, o quanto meno l´illusione di combatterne la presenza, porta sistematicamente all´orrore».
Lei crede fermamente in Dio, ma vive in un mondo dove esistono il dolore, l´ingiustizia ed il sopruso.
«E´ il grande tormento della mia intera esistenza. La domanda a cui non so rispondere e credo alla quale nessuno possa rispondere. Ma anche in quei momenti terribili non vedo una assenza, ma piuttosto un´eclisse».
Crede che Dio possa permettere una guerra?
«Io credo che sia più probabile che i governanti utilizzino Dio e la religione per scatenare delle guerre. E vedo che questo succede costantemente, ma nessuno può, ne mai potrà dimostrare che una guerra è combattuta per volere di Dio. Se non fosse un argomento così tragico sarebbe da chiedere scherzosamente ogni volta un attestato notarile che certifica che la guerra che sta per essere scatenata è voluta espressamente dall´Onnipotente».
La politica di questi tempi fa ricorso sempre più spesso alla preghiera.
«Anche questo non rappresenta nulla di nuovo. Come non è nuova la presenza di atteggiamenti ipocriti, strumentali e molto spesso anche sinceri. E´ importante sottolineare come i rischi possono essere enormi in ognuno dei casi citati».
Lei prega?
«Sì, costantemente e semplicemente».
Quando ha iniziato?
«Da bambino. Ma come accade spesso, il mio primo istinto è stato quello di emulazione: non volevo essere l´ultimo della mia famiglia a mettermi in fila nelle orazioni».
Ed ha pregato sempre?
«No, ho avuto i miei momenti di crisi, che mi hanno indotto a studiare e a confrontarmi, a volte drammaticamente, con Dio».
Come definirebbe oggi la sua fede?
«Userei l´aggettivo ferito, che credo sia valido per tutte le persone della mia generazione. Il chassidismo insegna che "nessun cuore è intero come un cuore spezzato", e io dico che nessuna fede è solida come una fede ferita».
Gli uomini di fede individuano proprio nella preghiera il momento più alto della spiritualità.
«La preghiera è un aspetto fondamentale, tuttavia io dedico gran parte della mia esistenza all´azione: credo che sia un modo di interpretare la propria spiritualità».
Cosa intende?
«Che ci sono dei momenti in cui bisogna interferire con quello che succede nella storia. Ad esempio, quando la vita e la dignità umana sono messe a rischio, le differenti culture divengono irrilevanti. Nel momento in cui una persona è perseguitata per la propria razza, la religione o per le sue idee politiche, diventa - per chi ritiene di avere uno spirito religioso - il centro dell´universo».
Un altro scrittore che è stato citato in maniera ricorrente in questa riflessione sulla religione è Isaac Bashevis Singer, il cui romanzo La famiglia Moskat termina con le parole «Il Messia è la morte».
«Conoscevo bene Singer e credo che sia giusto collocarlo tra gli scrittori che si sono interrogati in maniera più efficace su questo tipo di problemi. Ma non è possibile decontestualizzare il finale della Famiglia Moskat: si tratta di una conclusione a effetto, che coincide con l´ascesa del nazismo e la fine non solo di una famiglia ma di una intera esperienza culturale e religiosa».
Non crede che questa sia la più grande delle ferite?
«Certo, ma parlare di morte sembra negare la fede. E io fin lì non arrivo: anzi credo nel contrario».
Può citarmi un artista che ammira, e che vive apertamente una fede diversa della sua?
«Ho il massimo rispetto per chiunque abbia una fede, qualunque essa sia. Anche per chi è ateo, e crede fermamente nell´inesistenza di Dio».
Possiamo dedurne che è contrario ad ogni tipo di fondamentalismo?
«Nella maniera più assoluta. Il fanatismo è un pericolo, sia nel caso dei musulmani, che dei cristiani o degli ebrei. E il rispetto per la fede altrui, nella quale credo sinceramente, esige uguale rispetto dall´interlocutore. Pensando alla mia esperienza personale mi viene in mente come esempio luminoso François Mauriac. Io, ebreo, devo ad un cattolico fervente come lui, che si dichiarava innamorato di Cristo, il fatto di essere diventato uno scrittore».
Ritiene che il Dio in cui credeva Mauriac sia diverso da quello in cui lei crede?
«No. Ma so come possono essere diversi i nostri sguardi, ed il nostro approccio. Una volta Mauriac mi dedicò un libro scrivendo "ad Eli Wiesel, bambino ebreo che fu crocefisso". In un primo momento la presi male, ma poi compresi che era il suo modo di farmi sentire il suo amore».
(6.Fine - Le precedenti puntate sono del: 18/1/2004, Saul Bellow; 26/1, Arthur Schlesinger; 2/2, Nathan Englander; 14/2, Derek Walcott; 25/2, Tony Morrison)
interpunzione
una segnalazione di Sergio Grom
Repubblica 3.3.04
Quel piccolo segno ha 500 anni
perché la punteggiatura torna di moda
Da Manuzio a Internet come cambia la scrittura
Un libro inglese sulla interpunzione vende 700 mila copie e diventa un caso. Parla l'autrice
In che modo quei simboli inventati in Italia ci possono aiutare a pensare e a scrivere meglio
di ENRICO FRANCESCHINI
LONDRA. Lynne Truss aveva fatto un po´ di tutto nel mondo della carta stampata: correttore di bozze, redattore letterario, giornalista sportivo, critico televisivo, columnist, scrittrice. I suoi tre romanzi avevano venduto, mediamente, 3 mila copie ciascuno. Non si aspettava più di diventare un´autrice di best-seller. Ancora meno avrebbe immaginato di dovere il successo alle virgole. Quelle che, piazzate nei punti sbagliati, danno un senso assurdo al titolo del volume che le ha dato la fama: "Eats, shoots & leaves" (alla lettera, Mangia, spara e se ne va - per il significato esatto, con le virgole al posto giusto, continuare a leggere). E più in generale, le virgole che, insieme ai punti e virgola, ai due punti, agli apostrofi, ai punti esclamativi e interrogativi, costituiscono l´argomento della sua opera: un manuale, per l´appunto, di punteggiatura.
Pubblicato da una piccola casa editrice londinese, la Profile Books, il libro della Truss è il caso dell´anno in Inghilterra. Ha venduto 700 mila copie e continuano le ristampe. Sta per uscire in Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti. Ha provocato recensioni entusiastiche, decine di interviste, una scia di dibattiti. Un fenomeno editoriale, forse non solo editoriale: la scoperta che la gente, nell´era di Internet, ha una smodata passione per la punteggiatura, potrebbe significare qualcosa.
Cosa, signora Truss?
«Confesso che all´inizio non trovavo una risposta. Il successo è stato del tutto inaspettato. Avevo tenuto un programma sulla punteggiatura alla radio. Il mio editore mi ha suggerito di trarne una specie di guida. Sulle prime ho risposto di no. Poi l´idea mi ha suggestionato e siamo partiti. Ma certo senza pensare di fare un best-seller».
Aveva qualche esperienza in materia?
«Non ho mai insegnato, ma è una vita che mi occupo di come si scrive. Ho avuto qualche buon maestro e un´ottima scuola nei manuali di stile che il Times distribuiva un tempo ai suoi redattori. Ammetto però che la punteggiatura non è era la mia ossessione».
E allora?
«Pensando al libro, mi è parso che la gente stesse disimparando a scrivere. Scrivere senza le virgole al posto giusto, o trascurando accenti e apostrofi, significa scrivere senza ritmo, senza tono, senza voce. Significa non sapersi esprimere correttamente. Non saper comunicare».
Qualcuno dirà che lei esagera.
«Prendiamo il titolo del libro. E´ ricavato da una storiella. Un panda entra in un bar, ordina da mangiare, spara una pistolettata in aria e torna da dove è venuto. Il barista gli corre dietro per avere spiegazioni e l´animale gli mostra un dizionario dalla punteggiatura sbagliata, dove alla voce ?panda´ si legge: ?Simile all´orso, nativo della Cina. Mangia, spara e se ne va´. Ma basta togliere quella virgola, e la frase assume il significato autentico: ?Mangia germogli e foglie´. E´ solo un esempio. Basta guardarsi intorno per cogliere le innumerevoli distorsioni, gli errori, le storpiature della punteggiatura e della grammatica, causate dalla pubblicità, dalla televisione, dai giornali».
Non è antiquato scrivere con un eccesso di virgole?
«Troppe, non piacciono neanche a me. Ma non va bene nemmeno troppo poche. C´è un anneddoto meraviglioso sulle discussioni tra il direttore del settimanale New Yorker e un suo redattore. Ad esempio, il redattore insiste per scrivere "i colori della bandiera americana sono rosso bianco e blu": altrimenti, sostiene, quella bandiera, appesantita dalle virgola dopo 'rosso´, non riuscirebbe a sventolare come si deve. Il direttore, a sua volta, si impunta per scrivere 'dopo cena, gli uomini si trasferirono in salotto´, sostenendo che quella virgola dopo la parola 'cena´ serve a dare loro il tempo di alzarsi in piedi e scostare la sedia, prima di andare nell´altra stanza. In sostanza: una virgola in più o in meno ha un peso considerevole».
Come definirebbe la virgola?
«Il cane da guardia delle parole. Il pastore che ne prende un gruppo, le fa stare insieme, separandole da un altro gruppo».
Il punto e virgola?
«Un´interruzione molto elegante, che sta purtroppo andando in disuso. L´avvertimento che un discorso sta prendendo una nuova direzione».
E i due punti?
«Ormai, almeno qui in Inghilterra, vengono usati quasi esclusivamente nella titolazione. Invece sono un mezzo insostituible per fare una pausa teatrale, drammatica, ed aggiungere qualcosa al discorso».
Cosa pensa delle e-mail e dei messaggi sms trasmessi con i telefonini cellulari, due modi di scrivere praticamente senza punteggiatura?
«Non mi reputo la sacerdotessa delle virgole, anche se qualcuno ora mi fa passare per tale. Capisco benissimo che il linguaggio si evolve, ed è giusto che sia così. E´ paradossale, tuttavia, che la gente smetta di scrivere correttamente proprio nel momento in cui sorgono due mezzi, e-mail ed sms, che incoraggiano di nuovo a usare la parola scritta. Il telefono sembrava avere ucciso la corrispondenza scritta. Ora e-mail e sms l´hanno rilanciata, al punto che molti, per comunicare a un amico, a un collega, al proprio amore, preferiscono scrivere un sms che parlare al telefono. Eppure mi domando se questo modo sgrammaticato di scrivere non avrà un´influenza negativa, a lungo andare, sulla comunicazione umana in senso assai più ampio».
Cosa vuol dire?
«Vede, la punteggiatura nacque praticamente in Italia, all´epoca dell´invenzione dei caratteri a stampa. Era necessario separare tutti quei caratteri, dare un ritmo alle parole. Così si svilupparono la virgola e poi via via tutti gli altri segni di interpunzione. Nel corso dei secoli, quei segni sono diventati la nostra grammatica interiore: indirizzano e stabiliscono il modo in cui parliamo, in cui ragioniamo, in cui pensiamo. Ecco, mi chiedo se riusciremmo lo stesso a pensare, nella stessa maniera di prima, se un po´ alla volta scomparissero le virgole dal nostro discorso scritto».
Da qualche parte sono già scomparse, senza danneggiare il pensiero umano. Non le piace il capitolo finale dell´Ulisse di Joyce, quel "flusso di coscienza" di settanta pagine di seguito senza un punto o una virgola?
«Il monologo di Molly Bloom è un capolavoro. Ma datemi retta: non scrivete così, se non siete James Joyce».
FRANCESCO MERLO:
Uno virgola tre periodico è un numero che ti fa impazzire perché è infinito, ma è più piccolo di due. Colui che «prende, parte e non si sente mai solo» diventa, perdendo la virgola, il suo contrario: «prende parte e non si sente mai solo». Sono virgole il vibrione del colera che uccide e lo spermatozoo che feconda. La virgola, che etimologicamente è una verga, ma piccola e graziosa, determina il senso delle parole, trasforma la realtà in significati, è il codice della strada lessicale. Capita spesso che il codice venga maltrattato, sino all´eversione carnascialesca di Totò che sparge virgole come coriandoli, o sino al complotto chirurgico di Joyce che le estirpa ad una ad una, svirgola le virgole cercando di sostituire l´universo delle distinzioni e delle identità con il flusso della coscienza, con l´utopia dell´uguaglianza. Il risultato è piattezza e inarticolazione o comico disordine. Tramare contro la virgola non paga mai. Bisogna invece amare la virgola sino alla virgolalatria, la virgola è pausa di ironia, scalo del marinaio, è il cielo in terra, la virgola ha umanizzato il mondo.
P.s: La virgolalatria non vi convince? E va bene: disinfettatela pure con le virgolette.
NEL CORSO DEI SECOLI È CAMBIATO IL MODO DI USARE LA PUNTEGGIATURA
LA STORIA MODERNA FRA VIRGOLE E PUNTI
di BICE MORTARA GARAVELLI
Prendiamo un testo antico, manoscritto o a stampa. La punteggiatura, se c´è, risponde a criteri in tutto o in parte differenti da quelli che adotteremmo oggi per lo stesso testo: diversa dunque la funzione, e anche la forma tipica dei segni, se si tratta di un manoscritto. Perfino la separazione delle parole può non corrispondere a quella che è in uso oggi. Ne abbiamo esempi dall´antichità classica alla fine del Cinquecento, in Italia. Per darne un solo campione: Michelangelo usava solo due segni, una sbarra obliqua semplice e una doppia, ignorava accenti e apostrofi e separava le parole mescolando criteri morfologici e fonetici. Come si vede in questo verso di uno dei suoi sonetti: «Di nanzi misallunga lachorteccia» (Dinanzi mi s´allunga la corteccia). Ci sono scritture dove le parole non sono mai distaccate l´una dall´altra da spazi bianchi o da altri elementi divisori: in questo caso siamo di fronte alla scriptio continua, largamente praticata nell´antichità, greca e latina, e ancora prevalente, secondo gli antropologi della comunicazione, in molte tradizioni grafiche attuali. Ma rimaniamo nell´ambito delle lingue europee. In principio ci furono «segni critici», alcuni dei quali funzionarono poi come interpunzioni. Segni critici sono, ad esempio, i tratti verticali uniti a puntini che distinguevano unità brevi del discorso in iscrizioni greche anteriori al V secolo a. C., o la lineetta orizzontale detta paragraphé "scritta a lato", che in papiri del sec. IV a. C. indicava l´inizio o la fine di un argomento. I primi segni di punteggiatura furono accorgimenti per la lettura ad alta voce; pochi di numero: i maggiori filologi ellenistici (III-II sec. a. C.) ne usarono solo due, mentre molti erano i segni critici da loro introdotti nelle edizioni di testi classici. A Roma, Cicerone diffidava delle interpunzioni segnate dai copisti: sosteneva, e quest´idea fece scuola, che per modulare nel modo giusto le cadenze del discorso si doveva fare assegnamento non su segnali esterni al testo, ma sulla comprensione della sua struttura, sintattica e ritmica.
Tre erano le «posizioni» classiche (in latino positurae o distinctiones) per le rispettive sezioni del discorso: per la minore (comma), la subdistinctio, indicata da un punto in basso; per la mediana (colon), la media distinctio, con un punto a metà altezza; per la maggiore (periodus), la distinctio, segnata da un punto a varie altezze. Grosso modo, le tre funzioni corrispondevano a quelle che sarebbero poi state attribuite, rispettivamente, alla virgola, al punto e virgola, e al punto. L´analogia è trasparente nella nomenclatura inglese, dove i tre segni conservano il nome delle partizioni antiche: comma (,) colon (:) e semicolon (;) period (.) detto anche full stop. Nei periodi tardo antico e medioevale variarono le denominazioni e soprattutto i segni grafici. Ancora più instabili furono per secoli le pratiche interpuntorie; fra i primi a introdurre una punteggiatura nella Bibbia fu San Gerolamo (tra il IV e il V sec.). Alla fine del sec. XIII l´inventario dei segni si è allungato: ha fatto la sua prima apparizione il punto interrogativo, qualche decennio dopo compare anche il punto ammirativo o esclamativo o enfatico. Ma nella pratica le interpunzioni normalmente usate o sono poche o differiscono l´una dall´altra secondo le abitudini degli scrittori o dei copisti: la difformità è la regola, non l´omogeneità delle forme e delle relative funzioni. Nel manoscritti del Canzoniere di Petrarca le interpunzioni sono ridotte a tre o quattro: il punto, una sbarra obliqua (detta virgula suspensiva) per la virgola, un punto intersecato da una virgula o posto sotto a questa per gli incisi. Oltre a questi, nell´autografo del Decameron troviamo il punto e virgola e i due punti come segno di pausa lunga, il semipunto per indicare interruzione di parola, il punto di domanda e qualche altro accorgimento grafico. L´uniformità nelle convenzioni interpuntive entrerà in gioco solo con l´avvento della stampa. È il grande stampatore veneziano Aldo Manuzio a dare origine a un sistema pressoché moderno nelle edizioni di opere di Pietro Bembo (a cominciare dal 1496): virgola nella stessa forma odierna, punto e virgola per una pausa minore di quella segnata dai due punti, punto fermo in chiusura di periodo e «punto mobile» alla fine di frasi interne al periodo, apostrofo e accento. Nel corso dei secoli il punto e virgola, o puntocoma, ha avuto attribuzioni problematiche: dall´introdurre il discorso diretto all´essere anteposto al pronome relativo, al racchiudere incisi. Con quest´ultimo valore è ancora usato da Leopardi.
Dal Cinquecento in poi fioriscono i trattati sul «modo di puntare» gli scritti; si complica la nomenclatura e si moltiplicano proposte che hanno scarso riscontro nella pratica degli scrittori, anche dei più grandi, come Machiavelli e Guicciardini. Ariosto, pur conoscendo i principali segni, li adopera pochissimo nello scrivere abituale. Nel Seicento di fa strada l´idea di una «punteggiatura per l´occhio», adatta a segnare non solo la durata delle pause nella lettura e le cadenze che danno colore al senso, ma anche a chiarire i nessi tra gli elementi del discorso: ciò che si intende per «punteggiatura logica». Le due funzioni, ritmica e logica, coesistono ancora, e spesso si scontrano, fonte di incoerenze tra gli usi indotti dalla prima e le norme suggerite dalla seconda. Nel Settecento la moda dello stile spezzettato in frasi brevi favorisce l´interpungere ritmico. Più che i contributi della trattatistica dal Sette al Novecento interessano le prese di posizione degli scrittori: Leopardi teorizza e applica una grande parsimonia interpuntiva, Manzoni, ugualmente accurato, abbonda specialmente nell´uso della virgola: la mette anche tra soggetto e verbo, quando dà informazioni del tipo «in quanto a...» («di tante belle parole Renzo, non ne credette una») oppure mette a fuoco il soggetto: «Voi, mi fate del bene...» (= siete voi che...). Nemico delle (troppe) virgole fu D´Annunzio; radicali nel sovvertire ogni tradizione interpuntoria i futuristi. Assenza o ridondanza di punteggiatura caratterizzano i movimenti letterari nel Novecento e oltre.
Repubblica 3.3.04
Quel piccolo segno ha 500 anni
perché la punteggiatura torna di moda
Da Manuzio a Internet come cambia la scrittura
Un libro inglese sulla interpunzione vende 700 mila copie e diventa un caso. Parla l'autrice
In che modo quei simboli inventati in Italia ci possono aiutare a pensare e a scrivere meglio
di ENRICO FRANCESCHINI
LONDRA. Lynne Truss aveva fatto un po´ di tutto nel mondo della carta stampata: correttore di bozze, redattore letterario, giornalista sportivo, critico televisivo, columnist, scrittrice. I suoi tre romanzi avevano venduto, mediamente, 3 mila copie ciascuno. Non si aspettava più di diventare un´autrice di best-seller. Ancora meno avrebbe immaginato di dovere il successo alle virgole. Quelle che, piazzate nei punti sbagliati, danno un senso assurdo al titolo del volume che le ha dato la fama: "Eats, shoots & leaves" (alla lettera, Mangia, spara e se ne va - per il significato esatto, con le virgole al posto giusto, continuare a leggere). E più in generale, le virgole che, insieme ai punti e virgola, ai due punti, agli apostrofi, ai punti esclamativi e interrogativi, costituiscono l´argomento della sua opera: un manuale, per l´appunto, di punteggiatura.
Pubblicato da una piccola casa editrice londinese, la Profile Books, il libro della Truss è il caso dell´anno in Inghilterra. Ha venduto 700 mila copie e continuano le ristampe. Sta per uscire in Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti. Ha provocato recensioni entusiastiche, decine di interviste, una scia di dibattiti. Un fenomeno editoriale, forse non solo editoriale: la scoperta che la gente, nell´era di Internet, ha una smodata passione per la punteggiatura, potrebbe significare qualcosa.
Cosa, signora Truss?
«Confesso che all´inizio non trovavo una risposta. Il successo è stato del tutto inaspettato. Avevo tenuto un programma sulla punteggiatura alla radio. Il mio editore mi ha suggerito di trarne una specie di guida. Sulle prime ho risposto di no. Poi l´idea mi ha suggestionato e siamo partiti. Ma certo senza pensare di fare un best-seller».
Aveva qualche esperienza in materia?
«Non ho mai insegnato, ma è una vita che mi occupo di come si scrive. Ho avuto qualche buon maestro e un´ottima scuola nei manuali di stile che il Times distribuiva un tempo ai suoi redattori. Ammetto però che la punteggiatura non è era la mia ossessione».
E allora?
«Pensando al libro, mi è parso che la gente stesse disimparando a scrivere. Scrivere senza le virgole al posto giusto, o trascurando accenti e apostrofi, significa scrivere senza ritmo, senza tono, senza voce. Significa non sapersi esprimere correttamente. Non saper comunicare».
Qualcuno dirà che lei esagera.
«Prendiamo il titolo del libro. E´ ricavato da una storiella. Un panda entra in un bar, ordina da mangiare, spara una pistolettata in aria e torna da dove è venuto. Il barista gli corre dietro per avere spiegazioni e l´animale gli mostra un dizionario dalla punteggiatura sbagliata, dove alla voce ?panda´ si legge: ?Simile all´orso, nativo della Cina. Mangia, spara e se ne va´. Ma basta togliere quella virgola, e la frase assume il significato autentico: ?Mangia germogli e foglie´. E´ solo un esempio. Basta guardarsi intorno per cogliere le innumerevoli distorsioni, gli errori, le storpiature della punteggiatura e della grammatica, causate dalla pubblicità, dalla televisione, dai giornali».
Non è antiquato scrivere con un eccesso di virgole?
«Troppe, non piacciono neanche a me. Ma non va bene nemmeno troppo poche. C´è un anneddoto meraviglioso sulle discussioni tra il direttore del settimanale New Yorker e un suo redattore. Ad esempio, il redattore insiste per scrivere "i colori della bandiera americana sono rosso bianco e blu": altrimenti, sostiene, quella bandiera, appesantita dalle virgola dopo 'rosso´, non riuscirebbe a sventolare come si deve. Il direttore, a sua volta, si impunta per scrivere 'dopo cena, gli uomini si trasferirono in salotto´, sostenendo che quella virgola dopo la parola 'cena´ serve a dare loro il tempo di alzarsi in piedi e scostare la sedia, prima di andare nell´altra stanza. In sostanza: una virgola in più o in meno ha un peso considerevole».
Come definirebbe la virgola?
«Il cane da guardia delle parole. Il pastore che ne prende un gruppo, le fa stare insieme, separandole da un altro gruppo».
Il punto e virgola?
«Un´interruzione molto elegante, che sta purtroppo andando in disuso. L´avvertimento che un discorso sta prendendo una nuova direzione».
E i due punti?
«Ormai, almeno qui in Inghilterra, vengono usati quasi esclusivamente nella titolazione. Invece sono un mezzo insostituible per fare una pausa teatrale, drammatica, ed aggiungere qualcosa al discorso».
Cosa pensa delle e-mail e dei messaggi sms trasmessi con i telefonini cellulari, due modi di scrivere praticamente senza punteggiatura?
«Non mi reputo la sacerdotessa delle virgole, anche se qualcuno ora mi fa passare per tale. Capisco benissimo che il linguaggio si evolve, ed è giusto che sia così. E´ paradossale, tuttavia, che la gente smetta di scrivere correttamente proprio nel momento in cui sorgono due mezzi, e-mail ed sms, che incoraggiano di nuovo a usare la parola scritta. Il telefono sembrava avere ucciso la corrispondenza scritta. Ora e-mail e sms l´hanno rilanciata, al punto che molti, per comunicare a un amico, a un collega, al proprio amore, preferiscono scrivere un sms che parlare al telefono. Eppure mi domando se questo modo sgrammaticato di scrivere non avrà un´influenza negativa, a lungo andare, sulla comunicazione umana in senso assai più ampio».
Cosa vuol dire?
«Vede, la punteggiatura nacque praticamente in Italia, all´epoca dell´invenzione dei caratteri a stampa. Era necessario separare tutti quei caratteri, dare un ritmo alle parole. Così si svilupparono la virgola e poi via via tutti gli altri segni di interpunzione. Nel corso dei secoli, quei segni sono diventati la nostra grammatica interiore: indirizzano e stabiliscono il modo in cui parliamo, in cui ragioniamo, in cui pensiamo. Ecco, mi chiedo se riusciremmo lo stesso a pensare, nella stessa maniera di prima, se un po´ alla volta scomparissero le virgole dal nostro discorso scritto».
Da qualche parte sono già scomparse, senza danneggiare il pensiero umano. Non le piace il capitolo finale dell´Ulisse di Joyce, quel "flusso di coscienza" di settanta pagine di seguito senza un punto o una virgola?
«Il monologo di Molly Bloom è un capolavoro. Ma datemi retta: non scrivete così, se non siete James Joyce».
FRANCESCO MERLO:
Uno virgola tre periodico è un numero che ti fa impazzire perché è infinito, ma è più piccolo di due. Colui che «prende, parte e non si sente mai solo» diventa, perdendo la virgola, il suo contrario: «prende parte e non si sente mai solo». Sono virgole il vibrione del colera che uccide e lo spermatozoo che feconda. La virgola, che etimologicamente è una verga, ma piccola e graziosa, determina il senso delle parole, trasforma la realtà in significati, è il codice della strada lessicale. Capita spesso che il codice venga maltrattato, sino all´eversione carnascialesca di Totò che sparge virgole come coriandoli, o sino al complotto chirurgico di Joyce che le estirpa ad una ad una, svirgola le virgole cercando di sostituire l´universo delle distinzioni e delle identità con il flusso della coscienza, con l´utopia dell´uguaglianza. Il risultato è piattezza e inarticolazione o comico disordine. Tramare contro la virgola non paga mai. Bisogna invece amare la virgola sino alla virgolalatria, la virgola è pausa di ironia, scalo del marinaio, è il cielo in terra, la virgola ha umanizzato il mondo.
P.s: La virgolalatria non vi convince? E va bene: disinfettatela pure con le virgolette.
NEL CORSO DEI SECOLI È CAMBIATO IL MODO DI USARE LA PUNTEGGIATURA
LA STORIA MODERNA FRA VIRGOLE E PUNTI
di BICE MORTARA GARAVELLI
Prendiamo un testo antico, manoscritto o a stampa. La punteggiatura, se c´è, risponde a criteri in tutto o in parte differenti da quelli che adotteremmo oggi per lo stesso testo: diversa dunque la funzione, e anche la forma tipica dei segni, se si tratta di un manoscritto. Perfino la separazione delle parole può non corrispondere a quella che è in uso oggi. Ne abbiamo esempi dall´antichità classica alla fine del Cinquecento, in Italia. Per darne un solo campione: Michelangelo usava solo due segni, una sbarra obliqua semplice e una doppia, ignorava accenti e apostrofi e separava le parole mescolando criteri morfologici e fonetici. Come si vede in questo verso di uno dei suoi sonetti: «Di nanzi misallunga lachorteccia» (Dinanzi mi s´allunga la corteccia). Ci sono scritture dove le parole non sono mai distaccate l´una dall´altra da spazi bianchi o da altri elementi divisori: in questo caso siamo di fronte alla scriptio continua, largamente praticata nell´antichità, greca e latina, e ancora prevalente, secondo gli antropologi della comunicazione, in molte tradizioni grafiche attuali. Ma rimaniamo nell´ambito delle lingue europee. In principio ci furono «segni critici», alcuni dei quali funzionarono poi come interpunzioni. Segni critici sono, ad esempio, i tratti verticali uniti a puntini che distinguevano unità brevi del discorso in iscrizioni greche anteriori al V secolo a. C., o la lineetta orizzontale detta paragraphé "scritta a lato", che in papiri del sec. IV a. C. indicava l´inizio o la fine di un argomento. I primi segni di punteggiatura furono accorgimenti per la lettura ad alta voce; pochi di numero: i maggiori filologi ellenistici (III-II sec. a. C.) ne usarono solo due, mentre molti erano i segni critici da loro introdotti nelle edizioni di testi classici. A Roma, Cicerone diffidava delle interpunzioni segnate dai copisti: sosteneva, e quest´idea fece scuola, che per modulare nel modo giusto le cadenze del discorso si doveva fare assegnamento non su segnali esterni al testo, ma sulla comprensione della sua struttura, sintattica e ritmica.
Tre erano le «posizioni» classiche (in latino positurae o distinctiones) per le rispettive sezioni del discorso: per la minore (comma), la subdistinctio, indicata da un punto in basso; per la mediana (colon), la media distinctio, con un punto a metà altezza; per la maggiore (periodus), la distinctio, segnata da un punto a varie altezze. Grosso modo, le tre funzioni corrispondevano a quelle che sarebbero poi state attribuite, rispettivamente, alla virgola, al punto e virgola, e al punto. L´analogia è trasparente nella nomenclatura inglese, dove i tre segni conservano il nome delle partizioni antiche: comma (,) colon (:) e semicolon (;) period (.) detto anche full stop. Nei periodi tardo antico e medioevale variarono le denominazioni e soprattutto i segni grafici. Ancora più instabili furono per secoli le pratiche interpuntorie; fra i primi a introdurre una punteggiatura nella Bibbia fu San Gerolamo (tra il IV e il V sec.). Alla fine del sec. XIII l´inventario dei segni si è allungato: ha fatto la sua prima apparizione il punto interrogativo, qualche decennio dopo compare anche il punto ammirativo o esclamativo o enfatico. Ma nella pratica le interpunzioni normalmente usate o sono poche o differiscono l´una dall´altra secondo le abitudini degli scrittori o dei copisti: la difformità è la regola, non l´omogeneità delle forme e delle relative funzioni. Nel manoscritti del Canzoniere di Petrarca le interpunzioni sono ridotte a tre o quattro: il punto, una sbarra obliqua (detta virgula suspensiva) per la virgola, un punto intersecato da una virgula o posto sotto a questa per gli incisi. Oltre a questi, nell´autografo del Decameron troviamo il punto e virgola e i due punti come segno di pausa lunga, il semipunto per indicare interruzione di parola, il punto di domanda e qualche altro accorgimento grafico. L´uniformità nelle convenzioni interpuntive entrerà in gioco solo con l´avvento della stampa. È il grande stampatore veneziano Aldo Manuzio a dare origine a un sistema pressoché moderno nelle edizioni di opere di Pietro Bembo (a cominciare dal 1496): virgola nella stessa forma odierna, punto e virgola per una pausa minore di quella segnata dai due punti, punto fermo in chiusura di periodo e «punto mobile» alla fine di frasi interne al periodo, apostrofo e accento. Nel corso dei secoli il punto e virgola, o puntocoma, ha avuto attribuzioni problematiche: dall´introdurre il discorso diretto all´essere anteposto al pronome relativo, al racchiudere incisi. Con quest´ultimo valore è ancora usato da Leopardi.
Dal Cinquecento in poi fioriscono i trattati sul «modo di puntare» gli scritti; si complica la nomenclatura e si moltiplicano proposte che hanno scarso riscontro nella pratica degli scrittori, anche dei più grandi, come Machiavelli e Guicciardini. Ariosto, pur conoscendo i principali segni, li adopera pochissimo nello scrivere abituale. Nel Seicento di fa strada l´idea di una «punteggiatura per l´occhio», adatta a segnare non solo la durata delle pause nella lettura e le cadenze che danno colore al senso, ma anche a chiarire i nessi tra gli elementi del discorso: ciò che si intende per «punteggiatura logica». Le due funzioni, ritmica e logica, coesistono ancora, e spesso si scontrano, fonte di incoerenze tra gli usi indotti dalla prima e le norme suggerite dalla seconda. Nel Settecento la moda dello stile spezzettato in frasi brevi favorisce l´interpungere ritmico. Più che i contributi della trattatistica dal Sette al Novecento interessano le prese di posizione degli scrittori: Leopardi teorizza e applica una grande parsimonia interpuntiva, Manzoni, ugualmente accurato, abbonda specialmente nell´uso della virgola: la mette anche tra soggetto e verbo, quando dà informazioni del tipo «in quanto a...» («di tante belle parole Renzo, non ne credette una») oppure mette a fuoco il soggetto: «Voi, mi fate del bene...» (= siete voi che...). Nemico delle (troppe) virgole fu D´Annunzio; radicali nel sovvertire ogni tradizione interpuntoria i futuristi. Assenza o ridondanza di punteggiatura caratterizzano i movimenti letterari nel Novecento e oltre.
cattolici:
intervista ad un esperto di diavoli...
Alto Adige 3.3.04
Il caso
«Il diavolo c'è davvero. Ecco come si muove»
Di PIERANGELO GIOVANETTI
«Il diavolo esiste davvero ed è molto intelligente. Si mostra con manifestazioni le più strane: rumori anormali, freddo immediato, malefici, sensazioni insolite che prendono tutta una famiglia, ossessioni, incubi ricorrenti. Ma non è il solo modo per manifestarsi. In Trentino sono molto diffuse anche le pratiche di magia nera e occultismo. Ci sono fior fori di professionisti, avvocati, medici, che le praticano per fare lo sgambetto a qualche concorrente».
Di esoterismo e demonologia s´è sempre occupato don Renato Tisot, tanto che l´arcivescovo gli ha più volte chiesto di fare l´esorcista. «Gli ho detto di no perché sono già fin troppo preso, ma seguo da vicino questi fenomeni. E soprattutto aiuto le persone che ci sono dentro a liberarsene», dice don Tisot. «Assisto a sedute di esorcismo, e devo dire che sono molto dolorose. Anche di dolore fisico, finché il demonio non abbandona la persona di cui si è impadronito».
L´arcivescovo Bressan domenica ha messo in guardia i trentini: "Attenti che il diavolo c´è, non sottovalutatelo". Don Tisot, ma come si manifesta il demonio?
«Non pensiamo che il diavolo si presenti con i corni e con la forca. È troppo intelligente. S´insinua in forme più subdole, per esempio con certe ideologie accattivanti, certe pratiche, certe distorsioni antievangeliche, che addolciscono ogni cosa e fanno diventare indulgenti verso noi stessi e che legittimano tutto, come ha messo in guardia molto bene l´arcivescovo. Certo, non dobbiamo sempre dare la colpa al diavolo per ogni cosa. C´è infatti la libertà dell´uomo. Il maligno però è il tentatore per eccellenza».
Il diavolo ha delle forme visibili con cui esercita la sua tentazione?
«Certamente. Pensiamo a tutta la diffusione delle pratiche di occultismo ed esoterismo diffusissime oggi anche in Trentino. C´è una varietà di tipologie: dall´evocazione dei morti, alle formule magiche, agli oroscopi, alle fatture, alle stregonerie. Il 20% dei trentini ne sono coinvolti. Una volta non era così ostentato da noi, ma adesso pratiche esoteriche di questo tipo si sono diffuse anche in Trentino».
Lei è a conoscenza anche della pratica di messe nere?
«Sì, certo. Anche se in forme circoscritte. Molto più diffusa è la pratica della magia, il ricorso alle fatture. Ci sono librerie cattoliche che espongono libri di esoterismo, perché - si giustificano - la richiesta è altissima. So di avvocati, medici, che cercano di togliere di mezzo qualche concorrente sgradito, praticando fatture e magia nera. La magia è un farsi dominare dal diavolo».
Ma il diavolo si "fa vivo" anche nella normalità della vita quotidiana?
«Altroché. Ci sono persone vessate dal diavolo, è una specie di mobbing che subiscono. Ci sono persone che hanno subìto malefici, che poi sono i sacramentali del demonio. Certi comportamenti non sono dettati solo da cattiveria umana. C´è lo zampino del maligno dietro. E poi ci sono vere e proprie "stranezze" che appaiono nella vita di una persona, e che sono il segno che il diavolo è in azione».
Quali sono queste "stranezze" che indicano la presenza del diavolo?
«Sono incubi che non ti danno più pace, pensieri ricorrenti, ossessioni. C´è una grande sofferenza dietro questo. Poi ci sono anche fenomeni "atipici". Di colpo in una famiglia accade quello che prima non era mai successo. Si ripetono rumori strani, sensazioni inconsuete, freddi immediati, stranezze che succedono non ad uno solo ma a tutta la famiglia».
Cosa consiglia in questi casi?
«Da me si rivolgono persone con questi problemi. La prima cosa che consiglio è di rivolgersi ad un medico, ad uno psicologo. Molte volte, però, queste ossessioni non si manifestano di fronte allo psicanalista. Si evidenziano solo in presenza del sacro, del religioso. È quella la conferma dell´azione del diavolo. Lì allora inizio subito con invocazioni, benedizioni, formule di comando al maligno di lasciare l´anima di cui si è impossessato. Sono forme di esorcismi minori. Ma a volte bisogna ricorrere all´esorcismo vero e proprio».
Lei ha mai preso parte a queste sedute di esorcismo?
«Sì, è una cosa crudele, che rompe il cuore. Hai di fronte una personalità veramente devastata dal demonio. Presenta dolori immensi, anche nel corpo. Spesso parlano lingue strane, esprimono una forza straordinaria. Per tenere una donna ci sono voluti quattro uomini corpulenti, tanta forza sprigionava. A volte ci vogliono più sedute, perché una sola non basta».
A parte questi casi di possessione diabolica, nelle altre situazioni cosa consiglia a chi si rivolge da lei?
«In alcuni casi bastano semplici benedizioni e formule liberatorie, a volte è sufficiente la confessione che aiuta la persona a liberarsi di un peso che ha nell´animo. A volte cerco di risvegliare la persona, di farle prendere coscienza del male che agisce. L´importante è rendersi conto di questo. Non sottovalutarlo. Il ricorso all´occultismo avviene anche perché come Chiesa non teniamo sufficientemente in considerazione la paura dell´uomo. E non trovando nel sacro la risposta, rifugge nel magico, nell´occulto, e quindi nel diabolico».
Il caso
«Il diavolo c'è davvero. Ecco come si muove»
Di PIERANGELO GIOVANETTI
«Il diavolo esiste davvero ed è molto intelligente. Si mostra con manifestazioni le più strane: rumori anormali, freddo immediato, malefici, sensazioni insolite che prendono tutta una famiglia, ossessioni, incubi ricorrenti. Ma non è il solo modo per manifestarsi. In Trentino sono molto diffuse anche le pratiche di magia nera e occultismo. Ci sono fior fori di professionisti, avvocati, medici, che le praticano per fare lo sgambetto a qualche concorrente».
Di esoterismo e demonologia s´è sempre occupato don Renato Tisot, tanto che l´arcivescovo gli ha più volte chiesto di fare l´esorcista. «Gli ho detto di no perché sono già fin troppo preso, ma seguo da vicino questi fenomeni. E soprattutto aiuto le persone che ci sono dentro a liberarsene», dice don Tisot. «Assisto a sedute di esorcismo, e devo dire che sono molto dolorose. Anche di dolore fisico, finché il demonio non abbandona la persona di cui si è impadronito».
L´arcivescovo Bressan domenica ha messo in guardia i trentini: "Attenti che il diavolo c´è, non sottovalutatelo". Don Tisot, ma come si manifesta il demonio?
«Non pensiamo che il diavolo si presenti con i corni e con la forca. È troppo intelligente. S´insinua in forme più subdole, per esempio con certe ideologie accattivanti, certe pratiche, certe distorsioni antievangeliche, che addolciscono ogni cosa e fanno diventare indulgenti verso noi stessi e che legittimano tutto, come ha messo in guardia molto bene l´arcivescovo. Certo, non dobbiamo sempre dare la colpa al diavolo per ogni cosa. C´è infatti la libertà dell´uomo. Il maligno però è il tentatore per eccellenza».
Il diavolo ha delle forme visibili con cui esercita la sua tentazione?
«Certamente. Pensiamo a tutta la diffusione delle pratiche di occultismo ed esoterismo diffusissime oggi anche in Trentino. C´è una varietà di tipologie: dall´evocazione dei morti, alle formule magiche, agli oroscopi, alle fatture, alle stregonerie. Il 20% dei trentini ne sono coinvolti. Una volta non era così ostentato da noi, ma adesso pratiche esoteriche di questo tipo si sono diffuse anche in Trentino».
Lei è a conoscenza anche della pratica di messe nere?
«Sì, certo. Anche se in forme circoscritte. Molto più diffusa è la pratica della magia, il ricorso alle fatture. Ci sono librerie cattoliche che espongono libri di esoterismo, perché - si giustificano - la richiesta è altissima. So di avvocati, medici, che cercano di togliere di mezzo qualche concorrente sgradito, praticando fatture e magia nera. La magia è un farsi dominare dal diavolo».
Ma il diavolo si "fa vivo" anche nella normalità della vita quotidiana?
«Altroché. Ci sono persone vessate dal diavolo, è una specie di mobbing che subiscono. Ci sono persone che hanno subìto malefici, che poi sono i sacramentali del demonio. Certi comportamenti non sono dettati solo da cattiveria umana. C´è lo zampino del maligno dietro. E poi ci sono vere e proprie "stranezze" che appaiono nella vita di una persona, e che sono il segno che il diavolo è in azione».
Quali sono queste "stranezze" che indicano la presenza del diavolo?
«Sono incubi che non ti danno più pace, pensieri ricorrenti, ossessioni. C´è una grande sofferenza dietro questo. Poi ci sono anche fenomeni "atipici". Di colpo in una famiglia accade quello che prima non era mai successo. Si ripetono rumori strani, sensazioni inconsuete, freddi immediati, stranezze che succedono non ad uno solo ma a tutta la famiglia».
Cosa consiglia in questi casi?
«Da me si rivolgono persone con questi problemi. La prima cosa che consiglio è di rivolgersi ad un medico, ad uno psicologo. Molte volte, però, queste ossessioni non si manifestano di fronte allo psicanalista. Si evidenziano solo in presenza del sacro, del religioso. È quella la conferma dell´azione del diavolo. Lì allora inizio subito con invocazioni, benedizioni, formule di comando al maligno di lasciare l´anima di cui si è impossessato. Sono forme di esorcismi minori. Ma a volte bisogna ricorrere all´esorcismo vero e proprio».
Lei ha mai preso parte a queste sedute di esorcismo?
«Sì, è una cosa crudele, che rompe il cuore. Hai di fronte una personalità veramente devastata dal demonio. Presenta dolori immensi, anche nel corpo. Spesso parlano lingue strane, esprimono una forza straordinaria. Per tenere una donna ci sono voluti quattro uomini corpulenti, tanta forza sprigionava. A volte ci vogliono più sedute, perché una sola non basta».
A parte questi casi di possessione diabolica, nelle altre situazioni cosa consiglia a chi si rivolge da lei?
«In alcuni casi bastano semplici benedizioni e formule liberatorie, a volte è sufficiente la confessione che aiuta la persona a liberarsi di un peso che ha nell´animo. A volte cerco di risvegliare la persona, di farle prendere coscienza del male che agisce. L´importante è rendersi conto di questo. Non sottovalutarlo. Il ricorso all´occultismo avviene anche perché come Chiesa non teniamo sufficientemente in considerazione la paura dell´uomo. E non trovando nel sacro la risposta, rifugge nel magico, nell´occulto, e quindi nel diabolico».
la storia della diffidenza francese verso i musulmani
Le Monde Diplomatique
Dietro il velo
Dai saraceni in poi, un'antica diffidenza
di Alain Ruscio*
Perché questa diffidenza tenace di una parte non trascurabile della popolazione francese nei confronti dei maghrebini che vivono in Francia?
O, più in generale, verso i musulmani? Le persone che hanno qualche conoscenza storica risponderanno: la diffidenza inizia «dopo le prime conquiste coloniali, nel 1830». I francesi che conoscono "Vingt ans dans les Aurès" (1), faranno risalire il fenomeno alla guerra d'Algeria, a partire dal 1954. I giovani beurs delle periferie avranno tendenza a rispondere: «è colpa di Le Pen!». Ogni generazione ha, spontaneamente, la sensazione che le discussioni teoriche abbiano avuto inizio con lei. Bisogna fare uno sforzo per dimenticare l'immediata attualità e risalire il passato per ritrovare le radici lontane dei fenomeni contemporanei.
Gran parte dei francesi sarebbe stupita, oggi, nel 2004, se rispondessimo che il razzismo antiarabo risale... al Medioevo, alle origini della Reconquista (2), alle crociate, o forse persino a prima! Non è significativo che alcuni elementi costitutivi della cultura storica dei francesi siano intimamente legati agli scontri con il mondo arabo-musulmano?
Nell'ordine cronologico: Poitiers, Roncisvalle, San Luigi e le Crociate...
La battaglia di Poitiers, nel 732 (che, tra parentesi, sembra aver avuto luogo nel 733!). Destino favoloso! Le parole di Chateaubriand riassumono una delle idee preconcette più radicate nella nostra epopea nazionale: «è uno dei più grandi avvenimenti della storia: se i saraceni avessero vinto, il mondo sarebbe stato maomettano». Sottinteso: quel giorno, la civiltà ha trionfato sulla barbarie.
In effetti, la battaglia di Poitiers è stata presentata a generazioni di scolari come un elemento costitutivo della nazione francese. Figura, per esempio, tra le «trenta giornate che hanno fatto la Francia» della celebre collana di Gallimard (3). Carlo Martello, che aveva tuttavia sulla coscienza qualche raid contro alcune chiese, nella memoria collettiva è diventato il simbolo del baluardo della cristianità.
L'immagine delle orde scatenate di «maomettani» che si spezzavano, a ondate, sulle solide difese franche resta impressa in molte menti.
Interrogate la maggior parte dei francesi con ancora qualche reminiscenza scolastica: Poitiers nel 732 arriva sempre nel gruppo di testa delle grandi date conosciute, assieme all'incoronazione di Carlomagno nell'800, la battaglia di Marignano nel 1515 o la presa della Bastiglia nel 1789. Non può essere una coincidenza.
Durante la guerra d'Algeria, i commandos di irriducibili dell'Organizzazione dell'esercito segreto (Oas) presero il nome di Carlo Martello. Più vicino a noi, all'indomani dell'11 settembre 2001, un giornalista del Figaro, Stéphane Denis, ha spiegato tranquillamente che l'occidente non doveva avere vergogna delle crociate. Principale argomento: «non ho mai sentito un arabo scusarsi per essere andato fino a Poitiers» (4). Infine, in occasione dell'ultima elezione presidenziale, tutti hanno potuto vedere sui muri delle città «Martello 732, Le Pen 2002».
La storia strumentalizzata Tuttavia, studi storici autorevoli sono d'accordo per ridurre la portata della battaglia. La conquista araba è stata una realtà. Ma il raid su Poitiers mirava soprattutto a piegare Tours e le ricchezze dell'abbazia Saint Martin. Attacco potente. Ma senza lo scopo di conquista territoriale, senza ambizione di dominazione politica durevole.
Lo storico Henri Pirenne scrive a questo riguardo: «questa battaglia non ha l'importanza che le è stata attribuita. Non è paragonabile alla vittoria riportata su Attila. Segna la fine di un raid, ma in realtà non ferma nulla. Se Carlo fosse stato sconfitto, la conseguenza sarebbe stata soltanto un saccheggio più considerevole» (5). Il riflusso arabo fu senza dubbio maggiormente legato ai problemi interni di un Impero molto giovane ma già immenso, una sorta di crisi di crescita, che ai colpi inferti da Carlo.
Andiamo avanti di qualche decennio e di qualche centinaia di chilometri e spostiamoci a Roncisvalle, nell'estate del 778. Due o tre generazioni di allievi delle medie hanno fatto conoscenza con la letteratura francese, in prima, attraverso la Chanson de Roland nel celeberrimo «Lagarde et Michard» (6): i successi dei prodi cavalieri carolingi Roland e Olivier di fronte ai saraceni fanatici che attaccavano in massa. Ma, benché nessuno contesti che la battaglia di Roncisvalle abbia avuto veramente luogo, sappiamo da tempo che Roland è caduto di fronte a dei guerrieri (oggi si direbbe dei guerriglieri)... baschi.
La Chanson de Roland è soltanto la più nota delle canzoni delle gesta medioevali. In una ottima tesi dedicata all'immagine dei musulmani in questa letteratura, lo studioso Paul Bancourt delinea diversi tratti di una diabolica attualità (7). In questi testi, scritti tra l'XI e il XII secolo, i luoghi comuni sono legioni: i saraceni (termine, tra l'altro, molto vago, che designa tutti i musulmani in modo indifferenziato), «agenti dello spirito del male, simili a demoni» sono furbi, sornioni.
L'attacco alle spalle, lo stupro delle donne sono moneta corrente.
Se crediamo al testo intitolato La distruzione di Roma, «l'efferatezza dei saraceni raggiunge un grado estremo. Le loro bande danno fuoco ai castelli, alle città, alle fortificazioni, bruciano e violano le chiese, incendiano tutta la campagna romana, lasciano un ammasso di rovine al loro passaggio. Saccheggiano i beni (...) L'emiro fa uccidere tutti i prigionieri, laici e religiosi, donne e ragazze.
I saraceni si abbandonano alle peggiori atrocità, tagliando il naso e le labbra, la mano e l'orecchio delle loro vittime innocenti, stuprando le suore (...) Entrati a Roma, decapitano tutti coloro che incontrano.
Il papa stesso è decapitato nella basilica di San Pietro» (8).
Più circospetto, Paul Bancourt assicura che il papa è morto di morte assolutamente naturale. Non ci sono state affatto delle violenze contro le persone. Al massimo dei saccheggi. Evidentemente, i saraceni non sono stati più angelici della quasi totalità dei soldati di quell'epoca di estrema violenza. Né più né meno. Inoltre, Paul Bancourt si chiede se tale o talaltro atto di barbarie attribuito ai saraceni non sia stato commesso, in realtà, dai normanni o dagli ungari (9)! Ritroviamo qui la stessa menzogna, senza dubbio inconscia, che nella Chanson de Roland.
Perché una tale parzialità? La spiegazione è nelle date. La Chanson de Roland venne scritta all'inizio del XII secolo. Ripercorre dei fatti... della fine dell'VIII! La distruzione di Roma è stata redatta nel XIII secolo e descrive degli avvenimenti dell'...846! Come se leggessimo, in un giornale che porta la data di oggi, una descrizione della battaglia di Marignano. Cosa poteva esserci nella mente degli scrittori e dei lettori dell'XI-XII secolo? L'attualità del tempo, che aveva due facce: le crociate in oriente, le prime vittorie della Reconquista in occidente! Vale a dire degli scontri con l'islam.
In precedenza, tutti i popoli pagani d'Europa o venuti dall'Asia erano stati cristianizzati, uno a uno. Sussistevano soltanto masse potenti nel sud-ovest e all'est dell'Europa cristiana, in Spagna e nell'Impero ottomano, che minacciavano Costantinopoli, l'«altra Roma» della cristianità. Questi musulmani erano effettivamente inassimilabili, contrariamente agli altri. «Il germano - scrive Henri Pirenne - si romanizza appena entra nell'influenza di Roma. Il romano, al contrario, si arabizza quando è conquistato dall'islam». C'è qui un pericolo mortale per tutto il cristianesimo. «Con l'islam - prosegue Pirenne - un nuovo mondo si introduce su queste rive mediterranee dove Roma aveva diffuso il sincretismo della sua civiltà. Una lacerazione è aperta e durerà fino ai nostri giorni. Ai bordi del Mare nostrum si estendono ormai due civiltà diverse e ostili» (10).
L'idea della crociata, guerra santa, nasce precisamente in questo momento di contatto tra i due mondi, quando diventa evidente agli occhi di re e papi dell'occidente cristiano che questo nemico non è assimilabile. Non è naturale, in queste condizioni, che le cronache del tempo confondano allegramente tutti i nemici dell'occidente?
Attraverso un fenomeno mentale frequente nella storia degli uomini - l'auto-intossicazione - i baschi, i normanni o gli ungari sono diventati dei saraceni...
Lo spirito di crociata, da allora, impregna le mentalità. Gli «infedeli», termine infamante a quei tempi di fede profonda, sono per forza di cose i musulmani. E questo perdura. Chateaubriand cita la crociata come uno dei soli soggetti epici che valga (Génie du christianisme, 1816). Delacroix dipinge nel 1841 una lirica Entrata dei crociati in Costantinopoli. Victor Hugo scrive, nella Leggenda dei secoli (11): «i turchi, davanti a Costantinopoli/videro un cavaliere gigante: dallo scudo d'oro e di sinope/ seguito da un leone famigliare/ Mahometto II, sotto le mura/ Gli gridò: chi sei? Il gigante/ disse: mi chiamo Funerale/ e tu, tu ti chiami Nulla/ Il mio nome, sotto il sole, è Francia/ Tornerò con il chiaro/ porterò la liberazione/ porterò la libertà...».
Quando i francesi, nel 1830, intraprendono la conquista dell'Algeria, sono in uno stato dello spirito che predispone a una nuova guerra santa. Anche se la motivazione religiosa non era in primo piano.
Ma l'ostilità alla «falsa religione» impregna tutta la società francese.
Gli avvenimenti della conquista, poi della «pacificazione» della colonia nord-africana, non l'attenueranno. In seguito, lo scontro non è mai veramente cessato. Tutte le generazioni di francesi ne hanno avuto qualche eco: guerra intrapresa da Abd El-Kader (1832-1847), rivolta della Cabilia (1871), lotta contro i Krumiri e istituzione del protettorato sulla Tunisia (1880-1881), conquista del Marocco e istituzione del protettorato su questo paese (1907-1912), rivolta dell'Algeria (1916-1917), guerra del Rif (1924-1926), rivolta e repressione in Algeria (maggio 1945), scontri in Marocco con il sultano e il partito indipendentista Istiqlal (1952-1956), con il Neo-Destour in Tunisia (1952-1954). La guerra d'Algeria rappresenta un elemento supplementare - che diventerà sempre più pesante - nella lunga serie degli scontri tra i popoli della regione e il potere coloniale.
La Francia del razzismo e quella della fraternità Allora, l'islamofobia (12) e il razzismo anti-arabo sono consustanziali alla cultura francese? Sì e no! Non bisogna per nulla dimenticare che, di fronte a questa ostilità manifesta, un'altra parte del paese si è in permanenza opposta. Ci sono sempre stati dei francesi che hanno riconosciuto la maestà della civiltà musulmana, la bellezza delle sue realizzazioni, per osservare senza preconcetti le popolazioni arabe e berbere. Bisogna rileggere Eugène Fromentin (Un été dans le Sahara, Une année dans le Sahel). O questa frase di Lamartine, scritta nel 1833: «bisogna rendere giustizia al culto di Maometto, che ha imposto soltanto due grandi doveri all'uomo: la preghiera e la carità (...) Le due più alte verità di ogni religione». Più avanti, loda l'islam «morale, paziente, rassegnato, caritatevole e tollerante per natura».
Vari francesi, più numerosi di quanto in genere si creda, si sono opposti al razzismo diffuso dell'era dell'apogeo coloniale. Alla resistenza morale al razzismo si è sempre sommata una resistenza politica alla colonizzazione o, almeno, ai suoi «eccessi». Basti ricordare la grande voce di Jaurès, che protesta contro la conquista del Marocco, lo sciopero indetto dal Partito comunista francese e dalla Confederazione generale del lavoro unitaria (Cgtu) contro la guerra del Rif nel 1925, le proteste di Charles-André Julien contro le violenze e le ingiustizie nell'insieme dell'Africa del nord, l'opposizione francese alla guerra d'Algeria...
I giovani musulmani di Francia tentati di cedere alle sirene dell'integralismo, che pensano che il razzismo abbia tendenza a generalizzarsi, scelgono la lotta sbagliata. Ci sono, all'inizio del XXI secolo come nel XIX o nel XX, due France: quella dello scontro e quella della comprensione, quella del razzismo e quella della fraternità. Qualunque cosa se ne pensi, la tendenza storica è all'arretramento della prima - anche se resta importante e degli attacchi di febbre non sono da escludere - e al prevalere della seconda.
note:
* Storico, autore in particolare di "Credo de l'homme blanc", prefazione di Albert Memmi, ed. Complexe, Bruxelles, 2002 e di Nous et moi, grandeurs et servitudes communistes, ed. Tirésias, Parigi, 2003.
(1) Titolo del film di René Vautier sulla guerra d'Algeria, girato nel 1972 e a lungo proibito in Francia.
(2) Alcuni piccoli stati cristiani della penisola iberica partono, dal 718, alla «riconquista» del territorio.
(3) Jean-Henri Roy e Jean Deviosse, La Bataille de Poitiers, Gallimard, Parigi, 1966. Va sottolineato che questi autori prendono chiaramente le distanze dal mito «Poitiers, baluardo della cristianità».
(4) Le Figaro, 24 settembre 2001.
(5) Henri Pirenne, Mahomet et Charlemagne, Alcan, Bruxelles, Nse, 1936.
(6) Manuale di letteratura utilizzato negli anni '60 e '70 dagli allievi dalla prima media alla maturità.
(7) Les Musulmans dans les chansons de geste du Cycle du Roi, 2 volumi, Pubblicazione dell'Università di Provenza, Aix-en-Provence, 1982.
(8) Citato da Henri Pirenne, op.cit.
(9) Les Musulmans dans les chansons de geste..., op.cit.
(10) Mahomet et Charlemagne..., op.cit.
(11) Cfr. «1453», poema scritto nel 1858.
(12) Questo termine, che suscita dibattito, è impiegato qui come rigetto dell'insieme delle pratiche dell'islam (e non come critica della religione).
(Traduzione di A. M. M.)
Dietro il velo
Dai saraceni in poi, un'antica diffidenza
di Alain Ruscio*
Perché questa diffidenza tenace di una parte non trascurabile della popolazione francese nei confronti dei maghrebini che vivono in Francia?
O, più in generale, verso i musulmani? Le persone che hanno qualche conoscenza storica risponderanno: la diffidenza inizia «dopo le prime conquiste coloniali, nel 1830». I francesi che conoscono "Vingt ans dans les Aurès" (1), faranno risalire il fenomeno alla guerra d'Algeria, a partire dal 1954. I giovani beurs delle periferie avranno tendenza a rispondere: «è colpa di Le Pen!». Ogni generazione ha, spontaneamente, la sensazione che le discussioni teoriche abbiano avuto inizio con lei. Bisogna fare uno sforzo per dimenticare l'immediata attualità e risalire il passato per ritrovare le radici lontane dei fenomeni contemporanei.
Gran parte dei francesi sarebbe stupita, oggi, nel 2004, se rispondessimo che il razzismo antiarabo risale... al Medioevo, alle origini della Reconquista (2), alle crociate, o forse persino a prima! Non è significativo che alcuni elementi costitutivi della cultura storica dei francesi siano intimamente legati agli scontri con il mondo arabo-musulmano?
Nell'ordine cronologico: Poitiers, Roncisvalle, San Luigi e le Crociate...
La battaglia di Poitiers, nel 732 (che, tra parentesi, sembra aver avuto luogo nel 733!). Destino favoloso! Le parole di Chateaubriand riassumono una delle idee preconcette più radicate nella nostra epopea nazionale: «è uno dei più grandi avvenimenti della storia: se i saraceni avessero vinto, il mondo sarebbe stato maomettano». Sottinteso: quel giorno, la civiltà ha trionfato sulla barbarie.
In effetti, la battaglia di Poitiers è stata presentata a generazioni di scolari come un elemento costitutivo della nazione francese. Figura, per esempio, tra le «trenta giornate che hanno fatto la Francia» della celebre collana di Gallimard (3). Carlo Martello, che aveva tuttavia sulla coscienza qualche raid contro alcune chiese, nella memoria collettiva è diventato il simbolo del baluardo della cristianità.
L'immagine delle orde scatenate di «maomettani» che si spezzavano, a ondate, sulle solide difese franche resta impressa in molte menti.
Interrogate la maggior parte dei francesi con ancora qualche reminiscenza scolastica: Poitiers nel 732 arriva sempre nel gruppo di testa delle grandi date conosciute, assieme all'incoronazione di Carlomagno nell'800, la battaglia di Marignano nel 1515 o la presa della Bastiglia nel 1789. Non può essere una coincidenza.
Durante la guerra d'Algeria, i commandos di irriducibili dell'Organizzazione dell'esercito segreto (Oas) presero il nome di Carlo Martello. Più vicino a noi, all'indomani dell'11 settembre 2001, un giornalista del Figaro, Stéphane Denis, ha spiegato tranquillamente che l'occidente non doveva avere vergogna delle crociate. Principale argomento: «non ho mai sentito un arabo scusarsi per essere andato fino a Poitiers» (4). Infine, in occasione dell'ultima elezione presidenziale, tutti hanno potuto vedere sui muri delle città «Martello 732, Le Pen 2002».
La storia strumentalizzata Tuttavia, studi storici autorevoli sono d'accordo per ridurre la portata della battaglia. La conquista araba è stata una realtà. Ma il raid su Poitiers mirava soprattutto a piegare Tours e le ricchezze dell'abbazia Saint Martin. Attacco potente. Ma senza lo scopo di conquista territoriale, senza ambizione di dominazione politica durevole.
Lo storico Henri Pirenne scrive a questo riguardo: «questa battaglia non ha l'importanza che le è stata attribuita. Non è paragonabile alla vittoria riportata su Attila. Segna la fine di un raid, ma in realtà non ferma nulla. Se Carlo fosse stato sconfitto, la conseguenza sarebbe stata soltanto un saccheggio più considerevole» (5). Il riflusso arabo fu senza dubbio maggiormente legato ai problemi interni di un Impero molto giovane ma già immenso, una sorta di crisi di crescita, che ai colpi inferti da Carlo.
Andiamo avanti di qualche decennio e di qualche centinaia di chilometri e spostiamoci a Roncisvalle, nell'estate del 778. Due o tre generazioni di allievi delle medie hanno fatto conoscenza con la letteratura francese, in prima, attraverso la Chanson de Roland nel celeberrimo «Lagarde et Michard» (6): i successi dei prodi cavalieri carolingi Roland e Olivier di fronte ai saraceni fanatici che attaccavano in massa. Ma, benché nessuno contesti che la battaglia di Roncisvalle abbia avuto veramente luogo, sappiamo da tempo che Roland è caduto di fronte a dei guerrieri (oggi si direbbe dei guerriglieri)... baschi.
La Chanson de Roland è soltanto la più nota delle canzoni delle gesta medioevali. In una ottima tesi dedicata all'immagine dei musulmani in questa letteratura, lo studioso Paul Bancourt delinea diversi tratti di una diabolica attualità (7). In questi testi, scritti tra l'XI e il XII secolo, i luoghi comuni sono legioni: i saraceni (termine, tra l'altro, molto vago, che designa tutti i musulmani in modo indifferenziato), «agenti dello spirito del male, simili a demoni» sono furbi, sornioni.
L'attacco alle spalle, lo stupro delle donne sono moneta corrente.
Se crediamo al testo intitolato La distruzione di Roma, «l'efferatezza dei saraceni raggiunge un grado estremo. Le loro bande danno fuoco ai castelli, alle città, alle fortificazioni, bruciano e violano le chiese, incendiano tutta la campagna romana, lasciano un ammasso di rovine al loro passaggio. Saccheggiano i beni (...) L'emiro fa uccidere tutti i prigionieri, laici e religiosi, donne e ragazze.
I saraceni si abbandonano alle peggiori atrocità, tagliando il naso e le labbra, la mano e l'orecchio delle loro vittime innocenti, stuprando le suore (...) Entrati a Roma, decapitano tutti coloro che incontrano.
Il papa stesso è decapitato nella basilica di San Pietro» (8).
Più circospetto, Paul Bancourt assicura che il papa è morto di morte assolutamente naturale. Non ci sono state affatto delle violenze contro le persone. Al massimo dei saccheggi. Evidentemente, i saraceni non sono stati più angelici della quasi totalità dei soldati di quell'epoca di estrema violenza. Né più né meno. Inoltre, Paul Bancourt si chiede se tale o talaltro atto di barbarie attribuito ai saraceni non sia stato commesso, in realtà, dai normanni o dagli ungari (9)! Ritroviamo qui la stessa menzogna, senza dubbio inconscia, che nella Chanson de Roland.
Perché una tale parzialità? La spiegazione è nelle date. La Chanson de Roland venne scritta all'inizio del XII secolo. Ripercorre dei fatti... della fine dell'VIII! La distruzione di Roma è stata redatta nel XIII secolo e descrive degli avvenimenti dell'...846! Come se leggessimo, in un giornale che porta la data di oggi, una descrizione della battaglia di Marignano. Cosa poteva esserci nella mente degli scrittori e dei lettori dell'XI-XII secolo? L'attualità del tempo, che aveva due facce: le crociate in oriente, le prime vittorie della Reconquista in occidente! Vale a dire degli scontri con l'islam.
In precedenza, tutti i popoli pagani d'Europa o venuti dall'Asia erano stati cristianizzati, uno a uno. Sussistevano soltanto masse potenti nel sud-ovest e all'est dell'Europa cristiana, in Spagna e nell'Impero ottomano, che minacciavano Costantinopoli, l'«altra Roma» della cristianità. Questi musulmani erano effettivamente inassimilabili, contrariamente agli altri. «Il germano - scrive Henri Pirenne - si romanizza appena entra nell'influenza di Roma. Il romano, al contrario, si arabizza quando è conquistato dall'islam». C'è qui un pericolo mortale per tutto il cristianesimo. «Con l'islam - prosegue Pirenne - un nuovo mondo si introduce su queste rive mediterranee dove Roma aveva diffuso il sincretismo della sua civiltà. Una lacerazione è aperta e durerà fino ai nostri giorni. Ai bordi del Mare nostrum si estendono ormai due civiltà diverse e ostili» (10).
L'idea della crociata, guerra santa, nasce precisamente in questo momento di contatto tra i due mondi, quando diventa evidente agli occhi di re e papi dell'occidente cristiano che questo nemico non è assimilabile. Non è naturale, in queste condizioni, che le cronache del tempo confondano allegramente tutti i nemici dell'occidente?
Attraverso un fenomeno mentale frequente nella storia degli uomini - l'auto-intossicazione - i baschi, i normanni o gli ungari sono diventati dei saraceni...
Lo spirito di crociata, da allora, impregna le mentalità. Gli «infedeli», termine infamante a quei tempi di fede profonda, sono per forza di cose i musulmani. E questo perdura. Chateaubriand cita la crociata come uno dei soli soggetti epici che valga (Génie du christianisme, 1816). Delacroix dipinge nel 1841 una lirica Entrata dei crociati in Costantinopoli. Victor Hugo scrive, nella Leggenda dei secoli (11): «i turchi, davanti a Costantinopoli/videro un cavaliere gigante: dallo scudo d'oro e di sinope/ seguito da un leone famigliare/ Mahometto II, sotto le mura/ Gli gridò: chi sei? Il gigante/ disse: mi chiamo Funerale/ e tu, tu ti chiami Nulla/ Il mio nome, sotto il sole, è Francia/ Tornerò con il chiaro/ porterò la liberazione/ porterò la libertà...».
Quando i francesi, nel 1830, intraprendono la conquista dell'Algeria, sono in uno stato dello spirito che predispone a una nuova guerra santa. Anche se la motivazione religiosa non era in primo piano.
Ma l'ostilità alla «falsa religione» impregna tutta la società francese.
Gli avvenimenti della conquista, poi della «pacificazione» della colonia nord-africana, non l'attenueranno. In seguito, lo scontro non è mai veramente cessato. Tutte le generazioni di francesi ne hanno avuto qualche eco: guerra intrapresa da Abd El-Kader (1832-1847), rivolta della Cabilia (1871), lotta contro i Krumiri e istituzione del protettorato sulla Tunisia (1880-1881), conquista del Marocco e istituzione del protettorato su questo paese (1907-1912), rivolta dell'Algeria (1916-1917), guerra del Rif (1924-1926), rivolta e repressione in Algeria (maggio 1945), scontri in Marocco con il sultano e il partito indipendentista Istiqlal (1952-1956), con il Neo-Destour in Tunisia (1952-1954). La guerra d'Algeria rappresenta un elemento supplementare - che diventerà sempre più pesante - nella lunga serie degli scontri tra i popoli della regione e il potere coloniale.
La Francia del razzismo e quella della fraternità Allora, l'islamofobia (12) e il razzismo anti-arabo sono consustanziali alla cultura francese? Sì e no! Non bisogna per nulla dimenticare che, di fronte a questa ostilità manifesta, un'altra parte del paese si è in permanenza opposta. Ci sono sempre stati dei francesi che hanno riconosciuto la maestà della civiltà musulmana, la bellezza delle sue realizzazioni, per osservare senza preconcetti le popolazioni arabe e berbere. Bisogna rileggere Eugène Fromentin (Un été dans le Sahara, Une année dans le Sahel). O questa frase di Lamartine, scritta nel 1833: «bisogna rendere giustizia al culto di Maometto, che ha imposto soltanto due grandi doveri all'uomo: la preghiera e la carità (...) Le due più alte verità di ogni religione». Più avanti, loda l'islam «morale, paziente, rassegnato, caritatevole e tollerante per natura».
Vari francesi, più numerosi di quanto in genere si creda, si sono opposti al razzismo diffuso dell'era dell'apogeo coloniale. Alla resistenza morale al razzismo si è sempre sommata una resistenza politica alla colonizzazione o, almeno, ai suoi «eccessi». Basti ricordare la grande voce di Jaurès, che protesta contro la conquista del Marocco, lo sciopero indetto dal Partito comunista francese e dalla Confederazione generale del lavoro unitaria (Cgtu) contro la guerra del Rif nel 1925, le proteste di Charles-André Julien contro le violenze e le ingiustizie nell'insieme dell'Africa del nord, l'opposizione francese alla guerra d'Algeria...
I giovani musulmani di Francia tentati di cedere alle sirene dell'integralismo, che pensano che il razzismo abbia tendenza a generalizzarsi, scelgono la lotta sbagliata. Ci sono, all'inizio del XXI secolo come nel XIX o nel XX, due France: quella dello scontro e quella della comprensione, quella del razzismo e quella della fraternità. Qualunque cosa se ne pensi, la tendenza storica è all'arretramento della prima - anche se resta importante e degli attacchi di febbre non sono da escludere - e al prevalere della seconda.
note:
* Storico, autore in particolare di "Credo de l'homme blanc", prefazione di Albert Memmi, ed. Complexe, Bruxelles, 2002 e di Nous et moi, grandeurs et servitudes communistes, ed. Tirésias, Parigi, 2003.
(1) Titolo del film di René Vautier sulla guerra d'Algeria, girato nel 1972 e a lungo proibito in Francia.
(2) Alcuni piccoli stati cristiani della penisola iberica partono, dal 718, alla «riconquista» del territorio.
(3) Jean-Henri Roy e Jean Deviosse, La Bataille de Poitiers, Gallimard, Parigi, 1966. Va sottolineato che questi autori prendono chiaramente le distanze dal mito «Poitiers, baluardo della cristianità».
(4) Le Figaro, 24 settembre 2001.
(5) Henri Pirenne, Mahomet et Charlemagne, Alcan, Bruxelles, Nse, 1936.
(6) Manuale di letteratura utilizzato negli anni '60 e '70 dagli allievi dalla prima media alla maturità.
(7) Les Musulmans dans les chansons de geste du Cycle du Roi, 2 volumi, Pubblicazione dell'Università di Provenza, Aix-en-Provence, 1982.
(8) Citato da Henri Pirenne, op.cit.
(9) Les Musulmans dans les chansons de geste..., op.cit.
(10) Mahomet et Charlemagne..., op.cit.
(11) Cfr. «1453», poema scritto nel 1858.
(12) Questo termine, che suscita dibattito, è impiegato qui come rigetto dell'insieme delle pratiche dell'islam (e non come critica della religione).
(Traduzione di A. M. M.)
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