mercoledì 17 marzo 2004

una intervista di Paolo Izzo
all'autrice di "La sindrome di Eloisa"

Zefiro n.2 del 17/03/04
Un libro che ha fatto discutere per le sue implicazioni sulla vita privata di Freud, sulla sua omosessualità: e i suoi seguaci si interrogano sulla coerenza della teoria freudiana
Sindrome d'amore
Attraverso le epistole di scrittrici e scrittori del passato, Gianna Sarra ci racconta la loto vita privata. Rivelandone i vizi e le virtù.
di Paolo Izzo


Gianna Sarra è poetessa, scrittrice e saggista. La casa editrice Nutrimenti ha da poco pubblicato un suo saggio molto interessante, un volumetto rosso con un cuore nel mezzo e l’apparenza di un romanzo d’amore. Ma “La sindrome di Eloisa” (Nutrimenti, pp. 160 - € 14,00) è soprattutto un’attenta analisi dei rapporti epistolari, a partire da quelli di scrittrici e scrittori famosi. Abbiamo intervistato l’Autrice per farci raccontare di questo viaggio tra le parole, ricco di sorprese e di inattese rivelazioni, con un piacevole sapore di passato.

Nella sua ricerca avrà scoperto i tanti segreti che le lettere d’amore nascondono…

«Prima di tutto ho scoperto con grande stupore che il linguaggio sentimentale, i circuiti cerebrali che sono addetti, diciamo, alla trasmissione di questo genere di rapporti, sono identici da millenni! Per cui una lettera di Ovidio ha lo stesso timbro di quella scritta da un poeta romantico dell’Ottocento, da un Byron per esempio, oppure da una M.me de Sévigné che scrive alla figlia, creando non poco scandalo… È sempre lo stesso linguaggio. Che poi è anche un linguaggio buffo: come ho sottolineato con una poesia di Pessoa, il senso del ridicolo viene totalmente a mancare… Perché sei fuori di te nel momento in cui sei in preda alla passione, alle emozioni, non ti rendi nemmeno conto se l’altro ti corrisponde o meno. E quindi il senso del ridicolo cade. Ma questo è il bello!»

Si va a finire nell’irrazionale… Lei dice “fuori di sé”, ma è anche molto “dentro di sé”, perché è proprio il viaggio nell’inconscio che è speciale.

«Certo. Si vanno a toccare delle corde profonde… L’eros è un fuoco. Scalda, fonde certi metalli, certe giunture che abbiamo irrigidite…»

Riproporre lettere scritte a mano quando adesso esistono le e-mail, i messaggi telefonici: mezzi molto più stringati, che vanno un po’ più dritti al punto. Questo è forse… il buffo?

«Infatti. Ma è stato studiato anche questo: la diversità del linguaggio. Pare che non sia morta del tutto la consuetudine di scrivere lettere, che anzi si stia quasi quasi riprendendo… Comunque sono due tipi di messaggi molto diversi quelli elettronici e quelli… artigianali, a mano.»

Si possono anche scrivere lettere e mandarle via e-mail: il problema è che si perde un po’ la scrittura, questa sequenza di segni tracciati a mano…

«Sì, una traccia. È il segno grafico del corpo. Un centro nervoso che si muove da certe zone del cervello, che passa alla mano, alle dita e da queste alla carta. Per questo ho voluto sottolineare anche gli aspetti della lettera come oggetto erotico: Joyce che diceva alla moglie “mettitela lì, la lettera”!, Oppure chi se la cuciva in tasca, sul cuore, nella tasca interna della giacca… Per non parlare degli ebrei, cui la Bibbia dice “tienimi legata al tuo cuore, tienimi nella tua mente”, che si cuciono dei rotoli di carta intorno ai polsi. Insomma c’è tutta una fisicità che attraverso l’elettronica si perde…»

C’è un altro aspetto che mi piace rilevare. Lei è anche poetessa: non trova che ci siano molte analogie tra lo scrivere lettere d’amore e lo scrivere poesie?

«Infatti! Questo saggio doveva essere di 300 pagine a stampa; ho dovuto fare un editing per renderlo più fruibile. Però nella versione originale c’era un capitolo dedicato a tutte le poesie-lettere, le poesie d’amore che derivano da lettere o che sono scritte in forma di lettere. Ce n’è una di Montale stupenda, “Notizie dall’Amiata”, “Ti scrivo da questa cellula di miele…”. Io stessa ho scritto poesie d’amore in forma di lettera. Oppure può capitare di scrivere una lettera e di accorgersi che sono scappati fuori dei versi: allora questi versi li ritagli e ne fai una poesia!»

«L’atto di scrivere una lettera è destinato al fallimento, a mancare cioè il suo bersaglio – che sarebbe poi l’incontro, nello stesso tempo e luogo, di due persone che si amano: un appuntamento in aria, come dei trapezisti». È un passaggio del suo libro che mi ha molto colpito. Ma cosa intendeva, davvero?

«Lo dicevo a proposito di Kafka, di quando scriveva a Milena che “i fantasmi si bevono i baci dalle lettere”… Come se i messaggi si perdessero in volo… Mi vengono in mente tutte quelle lettere scritte post-mortem: il vedovo di Sylvia Plath che le dedica “Lettere per il compleanno”; la Spaziani che scrive a Emily Dickinson, o Josif Brodskij che ha scritto una bellissima lettera a Orazio. Lettere ai morti, dunque. È perché la comunicazione non è soltanto inter-spaziale, ma anche inter-temporale. Tanto le lettere arrivano sempre! Nel senso che se tu provi un certo genere di emozioni nei confronti di un’altra persona che non ne è al corrente esplicitamente, queste onde arrivano, che siano positive o negative…»

Quindi è come se non ci si aspettasse niente in cambio di una lettera o di una poesia…

«È la cosa più egoista che esista! Nel senso che lo fai perché ti fa piacere. Quando sento dire “Eh, Leopardi, che vita infelice…”. Lui è stato il primo lettore dell’Infinito! Ci rendiamo conto? Cioè lui, nel momento in cui è stato ispirato a scrivere quei versi, se li è goduti per primo! Un conto è la biografia e un conto è la vita: è una gioia grandissima, quando ti arrivano questi versi, perché arrivano come un dono. Per la prosa e la saggistica è diverso, perché non c’è molta gratificazione narcisistica immediata: quando scrivi un saggio devi essere il più possibile oggettivo. Io ho messo molta cura e con tutto ciò mi è stato detto “sei un po’ femminista, perché sembra che qui solo gli uomini sono cattivi, le Eloise si ammalano!”. Insomma, un po’ mi è scappata la mano. Ad ogni modo la prosa è più laboriosa, più faticata; la saggistica addirittura sta in croce, perché ogni pagina, ogni virgola, ogni riferimento deve essere controllato.»

Lei comunque riesce a essere “lirica”. Si vede che viene dalla poesia. Il modo stesso in cui ripropone queste lettere, non interamente, prendendone brani e legandoli a un discorso…

«Questo secondo me è l’aspetto originale del libro, lei ha toccato il tasto giusto: è come una torta a spicchi, dico io; sono andata per temi, per argomenti… Per questo mi è stato detto che ho inventato, ma forse è meglio dire sottolineato, alcune categorie psicologiche: la sindrome di Eloisa, il complesso di Galatea, le piccole Arianne… Le racconto un episodio curioso: io ho un cugino psichiatra a Napoli, non psicologo, medico psichiatra. Si è comprato il libro e lo teneva sulla sua scrivania: arriva un paziente, vede il titolo e dice: “La sindrome di Eloisa… neh, dotto’, ma questa che è, ’n’ata malattia?”.»

A proposito di psichiatri, avrà sicuramente letto il Venerdì di Repubblica, circa un mese fa: parlavano del suo libro e delle sue rivelazioni sull’omosessualità di Freud, dicendo che lo psichiatra Massimo Fagioli ne avrebbe tratto una soddisfazione…

«Ma guardi, secondo me quella è una manipolazione, perché il libro parla di tante altre cose: quello su Freud è solo un paragrafo!»

Però l’hanno sfruttato per citare Fagioli. Che su Quaderni Radicali ha dato una bella risposta, non le pare?

«Sì. Intelligente e rispettosa. Perché lui in sostanza dice questo: “Io ho tutto il rispetto per il cittadino però se viene da me uno che dice sto male perché vivo male questa condizione di omosessualità io lo curo”. Mi piacerebbe incontrare Fagioli, prima o poi, visto che sono stata citata negli stessi articoli…»

In tutta questa storia a lei tocca la parte della “coraggiosa ricercatrice”…

«Io non ho inventato niente, le lettere di Freud sono pubblicate. Ad essere onesti, c’è un libro che si chiama “La mente estatica” (Adelphi, 1989), che raccoglie una serie di saggi di Elvio Fachinelli, il famoso psicanalista morto qualche anno fa. In uno di questi saggi, intitolato “Sorsi di punch al Lete”, c’è tutta la storia del rapporto tra Freud e Fliess! È tutto scritto lì… Che poi Freud era anche sposato, ha avuto dei figli. In un altro capitolo del mio libro parlo anche della sua relazione, anche questa tutta mentale, con Lou Salomé: quindi al massimo parlerei di bisessualità…»

Secondo lei, uno che non ha tanto chiara la propria identità sessuale può, non dico curare, ma almeno capire quella degli altri?

«Ma lei lo sa che quasi tutti gli psicologi o psicanalisti, gli psichiatri, almeno quelli che ho conosciuto io, c’hanno tutti grossissimi problemi? Dev’essere il mito del guaritore ferito, il centauro che avendo una freccia in corpo riusciva a capire le sofferenze degli altri…»

Un mito da sfatare, si potrebbe aggiungere.

Marco Bellocchio:
un articolo su di lui di "The Village Voice" di New York, oggi
e sul New York Times

The Village Voice, da New York
March 17 - 23, 2004
Italian Master Marco Bellocchio Raises His Fists to the System
by Jessica Winter


Tribute to Marco Bellocchio
BAMcinématek, March 19 through 28


Steadily productive, fascinatingly erratic, Marco Bellocchio couples a Buñuelian scorn for bourgeois ritual with a Wiseman-like attraction to monolithic institutions and belief systems ready for the wrecking ball. One of the youngest and more leftist sprouts in the bumper crop of new Italian filmmakers in the first half of the '60s (Pasolini, Olmi, Bertolucci, the Tavianis), Bellocchio in the course of 20-some movies has dynamited small-town and socialist politics, the army, Jesuit education, and the Vatican, but he lit the first and biggest fuse under that most sacred foundation of society: the family.

Fists in His Pocket (1965) ruthlessly satirizes a provincial clan variously enervated by epilepsy, blindness, and seething resentment. When the eldest and most functional of the siblings wants to break away and take a flat in town with his fiancée, younger brother Sandro (Lou Castel, in a performance of knotted-rope tautness) contemplates aiding the cause by killing their less convenient relations. Clenched and twitchy, terrifying yet banal, Sandro is clearly meant to personify a nation's fascist hangover. Intensified by Alberto Marrama's stark black-and-white photography and the spooky thrashings of Ennio Morricone's score, Bellocchio's debut stirred 41 members of the center-right Christian Democrat Party to call for its ban as an offense against the Italian family—a charge of some irony, since the 26-year-old director made the movie with money borrowed from his own folks and shot it in mountainous Bobbio, not far from where he grew up.

Bellocchio's subsequent work has, for the most part, gone undistributed in the States. BAM's series preserves this career lacuna, jumping ahead to the spry pathos of 1984's Henry IV (1984), a Pirandello adaptation starring Marcello Mastroianni as a nobleman who believes himself to be king; then leaping again to 1991's The Conviction, a he-said-she-said account of a night spent locked in a museum that leads to sex both semi-coerced and ecstatic. Co-scripted by Bellocchio's psychoanalyst, the movie becomes a philosophical argument designed as a courtroom drama (or vice versa), posing cogent questions on the meaning of consent, power, and pleasure.

Never complacent, Bellocchio in the last few years has taken on a bold range of periods, subject matter, and tones. Set at the turn of the 20th century, The Nanny (1999) mirrors two women sorrowing through separation from their children: the despondent aristocrat who can't feed or bond with her newborn and the illiterate peasant girl who leaves her own son to nurse the rich woman's hungry boy. Patient and affecting, The Nanny nonetheless seems to be missing a last reel, as does My Mother's Smile (2002), in which a cosmopolitan painter reacts with bitter amusement and explosive rage when he learns that his monstrous mama is up for canonization. A full-body bitch-slap to the Roman Catholic church, the movie at least proved that Bellocchio's anger at institutional corruption remains bright and raw. He muted his sometimes declamatory style, however, for Good Morning, Night (2003), a terse, cagey, and mournful account of the Red Brigades kidnapping and murder of former prime minister Aldo Moro, a Christian Democrat, in 1978. (It was recently acquired for U.S. distribution by Wellspring.) Given the countercultural and even anarchic streaks in Bellocchio's early work, the film represents a sober morning-after reckoning of ideals and ideologies past.

Recensione e giudizio del pubblico sul film di Marco Bellocchio dal New York Times
(ricevuto da P. Cancellieri):


New York Times
Buongiorno, Notte
a.k.a. Good Morning, Night

2003 - Italy - Period Film/Docudrama/Political Drama
Reviewed by A. O. Scott
Type: Features
Distributor: Wellspring Media
Starring Roberto Herlitzka, Piergiorgio Bellocchio, Maya Sansa, Paolo Briguglia, Luigi Lo Cascio. Directed by Marco Bellocchio. (NR, 105 minutes)


In his early films, like "Fists in the Pocket" (1965), "China Is Near" (1967) and "In the Name of the Father" (1971), Marco Bellocchio emerged as perhaps the most incisive and passionate cinematic witness to the social, political and spiritual upheavals that convulsed Italy in the 1960's and 70's. His most recent movies, "My Mother's Smile" and "Good Morning, Night," struggle to make sense of the painful and ambiguous legacy of those years. "Good Morning, Night" reimagines the notorious kidnapping and murder of former Prime Minister Aldo Moro by the Red Brigades in 1978, one of the ugliest and most senseless episodes in modern Italian political history and in the annals of the Western European left. Moro was the leader of the center-right Christian Democrats and one of the architects of a power-sharing arrangement with the Italian Communist Party, a historic compromise intended to bring a measure of normalcy to the nation's fractious and chaotic political order. His kidnappers, self-proclaimed proletarian revolutionaries for whom any form of compromise (or of normalcy) was anathema, imagined that their action would incite a full-scale uprising against the state and its institutions. Mr. Bellocchio replays this large-scale ideological melodrama as a quiet domestic tragedy. — A. O. Scott, The New York Times

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Leonardo da Vinci:
una esposizione a Genova

Liberazione 17.3.04
Leonardo
uomo d'arte e di scienza
A Genova, un'esposizione dedicata al "Da Vinci, inventore", fino al 28 marzo
di Domenico Gallo


Alla fine del Quattrocento si verificano due avvenimenti destinati a produrre profondi mutamenti nella civiltà occidentale. Si è trattato dell'aprirsi delle rotte atlantiche, scoperte da Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci, e il diffondersi della stampa tipografica. Nel giro di pochi decenni, in Europa, si produssero più copie di libri di quante i copisti ne avessero pazientemente riprodotte dai tempi della caduta dell'Impero Romano. Centinaia di migliaia di libri che crearono il clima culturale di enormi potenzialità in cui crebbe l'opera di Leonardo da Vinci. Un genio, sicuramente, e autore universalmente noto di opere d'arte come "La Gioconda" o "Il Cenacolo", ma il cui ruolo all'interno dell'evolversi della cultura europea non è altrettanto conosciuto. Ingegnere e filosofo naturale, pittore e artigiano di bottega, Leonardo si è ostinatamente impegnato nel tentativo di unificare due culture che sembrano votate alla divisione e all'indifferenza. Sapere teorico e operare pratico sono inscindibili in tutta la sua carriera, anche se molti storici hanno aspramente sottovalutato il suo contributo, tanto da affermare che la scienza sarebbe stata la stessa se Leonardo da Vinci non fosse mai esistito. Un genio che non ha lasciato neppure un libro, ma solo quei preziosi codici che raccolgono i suoi appunti, le notazioni spesso curiose, i disegni e i progetti irrealizzabili. Albrecht Dürer, suo contemporaneo, pubblicava invece trattati sulle arti militari, l'ingegneria e il corpo umano. Cosa erano, dunque, le sue creazioni? Giocattoli costruiti per il divertimento dei sovrani, come sostengono gli storici che accusano Leonardo di essersi dedicato all'elaborazione e avere trascurato la realizzazione, o un passo avanti verso un più preciso metodo di rappresentazione e di conoscenza tutto visuale?

Non sono ancora gli anni del microscopio e del telescopio, ma Leonardo è certo immerso in una cultura in cui il vedere e il riprodurre anticipano, e limitatamente sviluppano, quell'approccio straniante che sarà poi la caratteristica innovatrice di Galileo Galilei e della rivoluzione scientifica. La necessità di comprendere intimamente questa magnifica "vasta macchina" che è la natura fa parte di quell'ambizioso progetto razionale a cui, nei secoli successivi, nelle scienze come in politica, nulla è dato per scontato.

A Genova, fino al 28 marzo, nell'ambito degli eventi di "Genova Capitale Europea della Cultura", un'esposizione dedicata a "Leonardo da Vinci - L'inventore" consente di conoscere la sfida di Leonardo, il suo personale approccio ai problemi scientifici e tecnologici del suo tempo. Centocinquanta pezzi esposti, tra riproduzioni di pagine, per lo più tratte dal Codice Atlantico, e ricostruzioni di macchine si affiancano a postazioni multimediali che approfondiscono l'intero contributo leonardesco.

"Lionardo" nasce a Vinci il 15 aprile del 1542. È il figlio illegittimo di un giovane notaio, Ser Piero da Vinci, e di una donna di nome Caterina che, l'anno successivo, si sposa con un fornaciaio dal simpatico nome di Accattabriga. Leonardo viene accolto nella casa paterna, accedendo a una discreta educazione, e quando Ser Piero, diventato notaio di Cosimo de' Medici, si trasferisce a Firenze, segue il padre e viene avviato alla bottega del Verrocchio, dove lavorerà assieme ad allievi come Perugino e Botticelli. La bottega fiorentina di quegli anni è un intersecarsi di cultura, arte e tecnica; lì si produce pittura, scultura, architettura, ingegneria, si fondono campane e armature, si inventano gli apparati per le feste, si realizzano sistemi di saldatura innovativi. Ottica, geometria, chimica, anatomia, meccanica e idraulica fanno parte delle competenze di un artista dell'epoca. A causa della sua formazione esplicitamente tecnica, forse affiancata all'insegnamento in una "scuola d'abaco" (un'istituzione in cui venivano insegnati primi elementi di matematica a scopo commerciale e un po' di testi in volgare), Leonardo comprende, specialmente quando abbandona Firenze per Milano, che deve ampliare la propria cultura. Le sue note riportano che attorno al 1485 possedeva 5 libri, che si incrementarono a 40 nel 1495, fino a diventare 116 nel 1503: un numero enorme per l'epoca, anche per la biblioteca di un uomo colto. Ma la sua indagine della natura sarà sempre particolare, così affidata alle immagini e così poco alle parole, tanto che i suoi progetti macchinali hanno sempre anche una valenza estetica. L'attenzione si concentra sulle mutazioni naturali, traendo da Aristotele l'apparato concettuale che distingue tra la perfezione della sfera celeste e la corruttibilità del mondo terreno, dove elementi come aria, acqua, terra e fuoco sono in costante movimento. Un movimento che non è semplicemente dislocarsi nello spazio ma trasformazione. In questo senso la mostra è ricca di spunti e di conferme. La muscolatura del collo umano è paragonata alla struttura che sorregge un albero di nave in costruzione, l'anatomia umana è comparata a quella animale, definisce il sistema nervoso come un "albero di nervi", studia la putrefazione dei cadaveri e ne calcola i tempi, innesta all'uomo le ali e comprende il paracadute sulla base dei moti naturali delle foglie. Nonostante avesse definito la guerra una "pazzia bestialissima", la sua immaginazione lo porta a progettare una serie di macchine letali come il carro armato, il sottomarino, armi a ripetizione, cannoni raffreddati ad acqua, apparecchiature per l'assedio, gigantesche balestre e catapulte. Invenzioni non realizzate che si affiancano alla bicicletta, all'automobile e a un avveniristico ponte sul Bosforo. Sembra che Leonardo fosse in grado di comprendere quanto fosse ampia la potenzialità di trasformazione della società europea che una nuova visione della conoscenza, e le sue applicazioni, fossero in grado di attuare. In questo senso Leonardo appartiene alla tradizione degli utopisti, che in molti aspetti precorre, pensando a nuove forme della città. Questo eccezionale visionario si spegne in Francia, nel 1519, lasciando tutti i suoi manoscritti, disegni e strumenti all'allievo Francesco Melzi, mentre i dipinti, fra cui la Gioconda, vanno a Giangiacomo Salai, ma la sua eredità intellettuale attende l'opera di Galileo Galilei, di Giordano Bruno e altri, fino ai giorni nostri.