martedì 20 aprile 2004

un saggio sul veltro dantesco di Lamberto Vaghetti

Lamberto Vaghetti ha scritto un breve ed importante saggio sulla profezia del veltro di Dante. È quella che dà inizio all'opera, il veltro che verrà sconfiggerà la lupa, la belva di fronte alla quale il sommo poeta indietreggia.

Il saggio è stato pubblicato in questi giorni su Nuova Antologia ma, chi è interessato a leggerlo, può trovarlo sul sito: "Progetto Dante Alighieri" alla pagina:

www.classicitaliani.it/critica_htm/vaghetti_veltro_dantesco.htm

il prof. Federico Masini intervistato da Annalina Ferrante nella ricorrenza della rivolta di Tienanmen

ricevo da Annalina Ferrante:

«ho realizzato una breve intervista a Federico Masini sui fatti di Piazza Tienanmen pubblicato sul sito:
www.radioscrigno.rai.it

Sarà visibile fino a domani sulla home page. Dopo sarà in archivio e ci si dovrà linkare, sempre sulla home page, alla voce "almanacco".
Annalina (18.4.04)»

Per ascoltare questa intervista (che è in formato Real Player) occorre dunque collegarsi al sito sopra indicato e poi cliccare sul link in basso, oppure si può scaricare quel file sul proprio computer cliccando direttamente sull'indirizzo seguente:

http://www.radio.rai.it/radioscrigno/audio/alm218.ram


18 aprile 2004
L'almanacco di Radioscrigno
Nel 1989 i moti e la tragica repressione di piazza Tienanmen


Il 18 aprile 1989, al suono degli slogan "Abbasso la rivoluzione, viva la democrazia, viva la Cina" un pugno di studenti, diventati migliaia nel corso delle settimane, occupava piazza Tienanmen (Porta della Pace Celeste) nel cuore di Pechino.
In questa piazza si svolsero raduni importanti durante la rivoluzione culturale, quando Mao, con la divisa delle Guardie Rosse, organizzava parate che riunivano fino a un milione di persone. Nel 1976 un altro milione di persone riempì la piazza per portargli l'estremo saluto. Nel 1989 fu il teatro di un'occupazione pacifica, tragicamente abbattuta sette settimane dopo, sostenuta da richieste precise da parte degli occupanti: lotta alla corruzione, risanamento dell'economia e più voce nelle scelte politiche future del paese.
Era morto da pochissimo Hu Yaobang, l'ex segretario del partito licenziato per aver appoggiato le proteste studentesche del 1987, e fu Zhao Zyang, l'allora segretario del partito, a farsi sostenitore della protesta studentesca.
Il 20 maggio viene introdotta la legge marziale, mentre il "paladino" Zhao Zyang veniva progressivamente allontanato dai vertici del partito.
In questa data gli studenti iniziano lo sciopero della fame chiedendo un dialogo che sembrava lontanissimo. Le proteste continuano con la costruzione provocatoria di una statua della libertà in polistirolo ma il 28 maggio gran parte della protesta studentesca era rientrata sfinita da una attesa lunghissima e sfidata dal silenzio duro e pervicace delle autorità.
I primi giorni di giugno, infatti, scorrono in una quiete sinistra e surreale tanto che, per esempio, sui quotidiani italiani dal 1 al 3 giugno le notizie sugli avvenimenti cinesi sono commentate da brevi corrispondenze nelle pagine interne.
Ma il silenzio minacciava una reazione che si rivelò tragica. Infatti, alle prime ore del 4 giugno l'esercito cinese interviene con i carri armati e le mitragliatrici pesanti sulla folla radunata nella piazza, mentre per tutto il giorno e fino a not te inoltrata i manifestanti si oppongono con tutti i mezzi possibili all'avanzare nei mezzi corazzati: lanci di pietre, barricate, bottiglie molotov.
La protesta viene soppressa in un bagno di sangue. Il ricordo di Tienanmen viene cancellato d'autorità dalla storia ma non dai protagonisti, dai familiari delle vittime, dai testimoni.
Quattordici anni dopo, va riconosciuto che la Cina è l'unico paese del blocco comunista dell'est a sopravvivere e rimanere saldo e compatto, sia politicamente che economicamente, tra le macerie del muro di Berlino e il collasso e la frantumazione dell'impero sovietico. Ed è una nazione all'avanguardia che ha voluto e saputo conciliare, a leggere i commentatori più attenti, comunismo e capitalismo. Un'alchimia davvero strana e incomprensibile agli occhi occidentali.
Oggi, allora, come possiamo leggere quegli avvenimenti? A che prezzo questo paese dalla cultura millenaria ha raggiunto la sua stabilità? Si può "dimenticare" una tragedia, come mille nella storia, per sopravvivere e costruire un paese nuovo?
Lo abbiamo chiesto ad un testimone d'eccellenza di quei giorni: il Prof. Federico Masini, preside della Facoltà di Studi Orientali dell'Università La Sapienza di Roma.

A cura di Annalina Ferrante

su Repubblica:
mutamenti della percezione, una ex allieva contro Jacques Lacan

Repubblica 20.4.04
Polemiche/ una ex allieva si scaglia contro il maestro
Che impostore quel Lacan
l'autrice ha trascritto per anni i seminari
di FABIO GAMBARO


PARIGI. Gli idoli, si sa, sono destinati prima o poi a finire nella polvere. Jacques Lacan, il famoso psicanalista scomparso nel 1981 non ha fatto eccezione. Venerato in vita come un dei maggiori intellettuali francesi, dopo la morte è stato a più riprese aspramente criticato, anche se continua ad avere moltissimi seguaci in tutto il mondo. L´uomo infatti non era certo un tipo facile, come ha raccontato nella sua biografia Elisabeth Roudinesco. E come hanno confermato le numerose testimonianze che in tutti questi anni ne hanno rivelato i comportamenti autoritari e stravaganti. A questo coro di voci critiche, si aggiungono ora i ricordi di Maria Pierrakos, la stenotipista che dal 1967 al 1979 lo ha seguito nei suoi celebri seminari per trascriverne fedelmente le parole. Diventata in seguito psicanalista, oggi pubblica un libro in cui racconta di quei dodici anni passati accanto al fondatore dell´Ecole freudienne, proponendone un ritratto al vetriolo che certo non farà piacere ai suoi eredi.
L´opera, che s´intitola La "tapeuse de Lacan" (l´Harmattan, pagg. 79), dice già tutto nel sottotitolo: «Ricordi di una stenotipista arrabbiata, riflessioni di una psicanalista desolata». Per Maria Pierrakos, infatti, Lacan, era un uomo arrogante e distante che in dodici anni, pur vedendola tutte le settimane, non le ha mai rivolto la parola. L´ex stenotipista lo dipinge come «un caposcuola divorato da un narcisismo assoluto», un uomo «intelligentissimo e manipolatore che ha soggiogato gli intellettuali del suo tempo». Un intellettuale che ha cinicamente trasformato la teoria in uno strumento di potere, grazie soprattutto a un linguaggio oscuro, fatto di «formule sibilline e misteriose», che però erano «adorate dai suoi interpreti». E´ nato così quello che l´autrice chiama oggi il parlacan, il linguaggio di Lacan che «nel corso degli anni è diventato sempre più complicato, lambiccato e contorto, proprio come i sigari che fumava negli ultimi tempi». Ma quel linguaggio fatto di «paradossi efficaci e irrefutabili, d´ingiunzioni paradossali e paralizzanti, di dimostrazioni sapienti», secondo l´autrice era in fondo lo strumento di una vera e propria «impostura». Un termine violentemente negativo che neppure i più acerrimi nemici di Lacan avevano mai osato utilizzare.
Certo, l´ex stenotipista riconosce che il lavoro teorico di Lacan «ha permesso di risvegliare la psicanalisi dalla sua letargia», ma i comportamenti del maître à penser che ha imposto ai suoi ossequiosi discepoli «un linguaggio segreto e riti settari» avrebbero poi prodotto «un´assemblea di cloni, di tanti piccoli Lacan che imitano i suoi sospiri, il suo modo di vestirsi, cercando di parlare e di comportarsi come lui». Tutti provando a riprodurre il portamento altero dell´«homo lacanus, che in una mano tiene il manganello del paradosso e nell´altra la lancia della derisione, ben protetto sempre dalla sua sfolgorante corazza teorica». Quella di Maria Pierrakos, dunque, è una condanna senz´appello, che non mancherà di far discutere dentro e fuori gli ambienti della psicanalisi. A vent´anni dalla sua scomparsa, Lacan continua a dividere il mondo intellettuale d´oltralpe.

di questi tempi
patetici tentativi di riabilitazione della figura del Padre

Repubblica 20.4.04
UN VOLUME DI TESTIMONIANZE SMENTISCE LA SUA TRUCE IMMAGINE
QUANTE BUGIE SUL PADRE DI KAFKA
di ANDREA TARQUINI


BERLINO. Franz Kafka tramandò un´immagine unilaterale e tendenziosa di suo padre. Ne esagerò la severità, la durezza, i lati negativi. Lo dipinse come un capofamiglia autoritario e senza cuore, causa della sua infelicità. Hermann Kafka invece non era poi così cattivo. Era un borghese tranquillo, capace di slanci generosi. Il nuovo, inedito scorcio su Kafka senior ci viene da una testimonianza sulla famiglia dello scrittore, opera di un ex apprendista nel negozio che il padre del grande scrittore gestiva a Praga.
L´autore della testimonianza si chiamava Frantisek Basik. Il suo resoconto correda la nuova edizione delle lettere al padre di Franz Kafka, pubblicato da Wagenbach. Tutto cominciò in una bella mattina di settembre del 1892, quando due signore si presentarono nella bottega di Kafka senior. Una delle due, Frau Munk, proprietaria di un ufficio di collocamento, era accompagnata da un ragazzo mingherlino, che presentò a Hermann Kafka proponendoglielo come apprendista. «Ma è così piccolo, sparirà dietro il bancone», rispose Kafka senior. «Ha solo 14 anni, crescerà, non ne sarà deluso», replicò Frau Munk. E Kafka senior ridendo bonario assunse Frantisek seduta stante.
«Il signor Kafka era severo, ma sapeva anche mostrarsi generoso con noi dipendenti», scrisse l´allora apprendista. La cui testimonianza è giudicata tanto più attendibile perché scritta prima che Franz pubblicasse le sue durissime lettere al padre. «Era un uomo calmo, gioviale. Non alzava la voce, e - cosa allora rarissima - non picchiava mai né i figli né noi apprendisti. A Franz pagò la migliore istruzione. E al termine degli studi gli regalò un costoso viaggio d´istruzione».
Hermann Kafka e sua moglie Julie quasi cominciarono a voler bene a Frantisek. Gli concessero un aumento di stipendio. E in cambio di piccoli premi lo convinsero ad aiutare ogni giorno Franz allora undicenne nel difficile studio della lingua cèca. Giunsero persino a invitarlo in vacanza. La speranza di Kafka senior, afferma Volker Weidermann sulla Frankfurter Allgemeine, era che l´amicizia di Frantisek facesse uscire Franz dal suo isolamento introverso. Il sodalizio finì quando Frantisek spiegò a Franz, quindicenne, che sposarsi e far figli era un momento centrale della vita. Hermann e sua moglie Julie non gradirono questo timido e non richiesto accenno all´educazione sessuale. La carriera di apprendista di Frantisek al negozio dei Kafka finì d´improvviso, ma senza drammi né sfuriate.

Libertà 20.4.04
«Padri, dovete riprendere il potere»
Famoso pediatra avverte: madri troppo forti un pericolo per i figli
di Tullio Giannotti


Parigi - Le mamme hanno ormai tutto il potere in famiglia, gli uomini hanno perduto il loro vero ruolo e a soffrire di tutto questo sono i bambini, che non hanno più i punti di riferimento ideali. Preoccupato per i sempre più numerosi disturbi psichici dell'infanzia, Aldo Naouri, un pediatra caposcuola in Francia, pubblica un libro che fa subito discutere.
In ognuno dei 10 libri che in poco meno di 40 anni di carriera ha pubblicato, Aldo Naouri, punto di riferimento per tanti genitori francesi, ha lanciato almeno un sasso nello stagno. Stavolta il suo è un macigno, perchè inverte la tendenza degli ultimi decenni e lo espone al rischio di farsi sbranare dalle femministe. “Les Peres et les meres”, i padri e le madri, si intitola l'opera provocatoria che incita i genitori a non confondere più i ruoli. Va bene che lui lavi i piatti, ma poi deve essere uomo, capo, maschio, una figura completamente diversa da quella della donna. La situazione ideale, per Naouri, è che il bambino «scorga da sopra la spalla della mamma, un uomo. E che quest'uomo interessi terribilmente a sua madre». «Le madri sono potentissime oggi - spiega Naouri - la malattia più grave che possa colpire un essere umano, soprattutto maschio, è di essere straboccante di una madre del genere».
«Madri - lancia poi un appello - voi vi mettete al servizio dei vostri bambini, ma vi assicuro che in questo modo non rendete loro un buon servizio». In pratica, il pediatra e psicologo dell'infanzia ritiene che la tendenza della madre sia quella di controllare il figlio sempre di più, di farlo sentire al centro di ogni interesse della famiglia, in un ideale e insano proseguimento dell'allattamento: «Se stai attaccato a me hai la vita, se ti stacchi c'è la morte» è il messaggio subliminale che passa attraverso le moderni madri che tanto si preoccupano del benessere dei figli.
E i padri moderni, democratici, liberali? «Deve riprendersi il suo ruolo. Deve essere un individuo che si interpone fra la madre e il bambino. Non combatto lo strapotere delle madri - spiega - al contrario lo celebro. Ma a una condizione: che i padri non smettano di ricordare a queste madri che sono delle donne». Ricolmo di attenzioni il bambino cresce ignaro della realtà e dipendente dal piacere - spiega Naouri - «Sarà sempre tentato di prendere la strada più facile, mancherà di ambizione e di dinamismo». In sostanza, la madre deve avere a cuore il figlio ma deve soprattutto essere la donna del suo uomo. E il padre, consiglia Naouri, per il benessere del figlio può fare soprattutto una cosa: «Fare in modo che la madre dei suoi bambini sia per tutta la vita innamorata di lui». Fin dai primi mesi di vita, il consiglio è di allattare o dare pasti a ore fisse, così che insieme alla sazietà il piccolo sperimenti la frustrazione: «Così non avremo più bambini-tiranno o abominevoli adolescenti che non hanno risolto fin dall'infanzia un problema, quello che si possono vivere dei momenti senza piacere e non per questo si muore».

psicofarmaci ai bambini: un'inchiesta

ricevuto da Daniela Venanzi

Corriere della Sera 20.4.2004, pag. 18
PSICOFARMACI AI BIMBI, APERTA UN'INCHIESTA
Molti medici avrebbero ignorato l'indicazione di non prescriverli
Di Margherita De Bac


Il ministero della Salute quando deve raccomandare qualcosa di importante ai medici ricorre allo strumento della "Dear doctor letter". Il "caro dottore" viene aggiornato sulle ultime conoscenze nel mondo dei farmaci già in prontuario. Malgrado il tono amichevole la lettera ha caratteristiche vincolanti. Alla fine del 2003 il ministero ne ha scritta una sull'uso di uno psicofarmaco di largo consumo, la paroxetina, ricordando che non può essere dato ai bambini. Nuove indagini hanno infatti evidenziato che la sostanza può determinare l'aumento del rischio di suicidio.
I medici italiani però non si sono adeguati alla raccomandazione e hanno continuato a prescrivere. Almeno questo è il sospetto della Procura di Torino. E' stata aperta un'inchiesta sulla prescrizione di paroxetina (sei le specialità vendute nel nostro Paese) sotto i 18 anni. Il procuratore aggiunto, Raffaele Guariniello, ha chiesto alla Regione Piemonte l'elenco di tutte le ricette con antidepressivi rilasciate dai medici. Vuole accertarsi se tra i destinatari delle pillole della felicità ci sono anche bambini e adolescenti cui sono sconsigliate. L'ipotesi di accusa è "somministrazione di farmaci in modo pericoloso".
Guariniello ha inoltre scritto al ministero della Salute per sapere come intende regolarsi con altre molecole indicate per la cura della depressione, come citalopram, escitalopram, sertralina e fluvoxamina, che attualmente non sono sottoposte a nessun vincolo in Italia pur essendo specificata l'età minima di prescrizione sul foglietto illustrativo: superiore a 16 o 18 anni.
La decisione del nostro ministero sulla paroxetina è arrivata sulla scia di uguali provvedimenti in Usa e Gran Bretagna. Alcuni studi dimostrano un eccesso di effetti collaterali cosiddetti di "ostilità" e di rischio di suicidio. La quasi totalità degli antidepressivi non è stata sperimentata sui bambini, specialmente quelli di ultima generazione, come appunto gli SRRI, classe cui appartiene il farmaco nel mirino della procura.
"E' un'iniziativa opportuna, ma in queste situazioni è il ministero che dovrebbe muoversi attuando un monitoraggio continuo - osserva Maurizio Bonati, laboratorio materno infantile dell'Istituto Mario Negri -. Negli ultimi 4 anni l'uso e abuso di psicofarmaci è quintuplicato in adulti e minorenni. Ci si dimentica con facilità che sono sostanze da maneggiare con oculatezza. Invece molto spesso vengono dispensate in modo errato, senza indicazioni o per cicli troppo brevi". Secondo il Negri sono 25mila i bambini che prendono psicofarmaci. Nella popolazione generale, i suicidi dei minorenni sono 40, ma non si sa se qualche caso può esser ricollegato alle pillole sotto accusa.

La Stampa 20.4.04
SONO FARMACI A BASE DI PAROXETINA: POTREBBERO CAUSARE NEGLI ADOLESCENTI OSTILITA’ E TENDENZA AL SUICIDIO
«Antidepressivi pericolosi per i bambini»
La Procura indaga: vietato prescriverli ai minori di 18 anni
di Giorgio Ballario


Secondo uno studio inglese la loro somministrazione può provocare in bambini e adolescenti stati di ostilità, labilità emozionale e persino tendenza al suicidio. Sono i farmaci antidepressivi a base di Paroxetina, un principio attivo molto usato nei Paesi anglosassoni per curare patologie moderne come depressione, disturbi ossessivo-compulsivi, ansia e attacchi di panico. In farmacia si possono trovare dietro nomi commerciali come Seroxat Gsk, Eutimil Valda Lab Farm, Sereupin Abbott.
Ora questi particolari medicinali sono finiti nel mirino della Procura, che sta cercando di capire se negli ultimi mesi ci sia stato un abuso di prescrizioni e soprattutto se i prodotti a base di Paroxetina siano stati somministrati a pazienti con meno di 18 anni. Dall’estate dello scorso anno tali farmaci possono venir prescritti soltanto a pazienti maggiorenni: la Commissione Unica del Farmaco (Cuf) e il ministero della Salute hanno infatti stabilito che l’uso pediatrico della Paroxetina non dà ancora sufficienti garanzie, anzi in termini terapeutici il rapporto costi-benefici del suo uso sarebbe negativo.
«I risultati di “clinical trial” condotti su bambini e adolescenti per il trattamento della depressione in queste fasce d’età - si legge nella nota informativa del ministero indirizzata ai medici italiani - non hanno dimostrato l’efficacia della Paroxetina rispetto al placebo e hanno altresì evidenziato un maggior rischio di comportamenti autolesivi e di tentativi di suicidio».
Malgrado il provvedimento del ministero, però, sembra che l’uso di farmaci antidepressivi nella cura di bambini e ragazzini sia ancora troppo diffuso. Anche in Piemonte. Per questo motivo il procuratore aggiunto Raffaele Guariniello ha aperto un fascicolo per il reato di somministrazione di medicinali pericolosi per la salute pubblica e ha chiesto all’Assessorato regionale alla Sanità gli elenchi di tutte le prescrizioni di farmaci a base di Paroxetina. Per il momento l’inchiesta è ancora a carico di ignoti e non ci sono persone indagate.
Guariniello ha pure scritto al ministro della Salute Girolamo Sirchia per sapere che cosa si intenda fare con altri principi attivi della stessa famiglia (Citalopram, Escitalopram, Sertralina e Fluoxetina, quest’ultimo è il composto base del famoso Prozac), non ancora presi in considerazione dalle direttive ministeriali. Il Prozac, ad esempio, ha ottenuto dalla americana Food & Drug Administration l’autorizzazione anche per la cura dei pazienti minorenni, purché al di sopra dei 6 anni.
Secondo un recente studio dell’Istituto Mario Negri di Milano, pubblicato sul British Medical Journal, in Italia il ricorso ai farmaci antidepressivi da parte di adolescenti e persino di bambini è particolarmente cresciuto negli ultimi anni. Fra il 2000 e il 2002 è addirittura quintuplicato l’uso di medicinali inibitori della ricaptazione della serotonina (Ssri in gergo scientifico), vale a dire a base di Paroxetina, Fluoxetina e altri principi attivi dello stesso genere.
Se in Italia le statistiche sui bambini depressi non destano ancora troppo allarme (sarebbero intorno all’1-2 per mille), negli Stati Uniti il fenomeno dei ragazzi con problemi neuropsichiatrici rischia di diventare la nuova emergenza: per il Mental Health Institute soffrirebbero di forme depressive il 2,4 per cento dei bambini e l’8,3 per cento degli adolescenti. Fra il 1987 e il 1996 il ricorso ad antidepressivi per uso pediatrico è triplicato.

depressione in gravidanza

ricevuto da P. Cancellieri

Yahoo! Salute  lunedì 19 aprile 2004
Depressione in gravidanza: alta prevalenza
Il Pensiero Scientifico Editore


Il risultato della revisione di una serie di studi coinvolgenti più di 19000 donne suggerisce che la percentuale di depressioni durante la gravidanza è piuttosto alta, soprattutto tra il secondo e il terzo trimestre. È il risultato di uno studio dell’Università di Toronto di cui si parla su Obstetrics and Gynecology.
La percentuale di gestanti che soffre di depressione durante la gravidanza è intorno va dal 4 al 15 per cento: questa condizione aumenta il rischio della comparsa di una depressione post-natale. I disturbi dell’ansia e i sintomi di depressione (stanchezza, esagerata emotività, disturbi del sonno e cambiamenti d’appetito) si distinguono e si riconoscono con difficoltà dalla normale gamma d’esperienze e di adattamenti propri della gravidanza. Normalmente le donne provano ansia e a volte angoscia verso i normali disagi e fastidi di questo periodo, vivono con insicurezza l’esito della gravidanza e temono di non essere in grado di accudire il neonato. Solo un alto livello di preoccupazione può nuocere sia alla salute della madre che del bambino e causare gravi disturbi dell’umore e depressione post-natale. Un eccesso di stress può peggiorare condizioni psicologiche precedentemente difficili. E’ opportuno trattare adeguatamente i sintomi depressivi per evitare difficoltà di relazione con il partner , nel legame con il bambino e l’insorgenza di problemi psicologici a lungo termine.
Poichè mancano delle stime reali sulla prevalenza della depressione durante la gravidanza, il gruppo di ricerca ha preso in considerazione i risultati di 21 diversi studi sull’argomento per un totale di 19284 donne coinvolte. Dall’analisi dei dati è emerso che la depressione durante la gravidanza ha una prevalenza del 7,4 per cento nel primo trimestre, del 12,8 per cento nel secondo, del 12 per cento nel terzo. Come precisano gli stessi autori, il dato riguardante il primo trimestre dev’essere interpretato con cautela perchè molti studi riportano una difficoltà maggiore a diagnosticare la depressione in questo periodo piuttosto che in quelli successivi, cosa che potrebbe portare ad una sottostima del numero dei casi.
Alla luce di questi risultati, “sono necessari stime ancor più precise e studi più approfonditi non solo per valutare la conseguenze che la depressione può avere sul rapporto tra mamma e figlio”, precisa Thomas Einarson, coordinatore della ricerca, “ma anche sullo sviluppo di nuove strategie per affrontare il problema”.

Bibliografia. Bennett H, Einarson A, Taddio A et al. Prevalence of depression during pregnancy: systematica review. Obstet.Gynecol.2004; 103:698-709.

prassi del basaglismo

GAZZETTA DI PARMA 20.4.04
SOLIDARIETA'—Un seminario sull'attività del centro «Pietro Corsini»
«Così riabilitiamo i malati psichici»


Un tempo Leon Eisemberg disse: «La salute mentale è possibile, la malattia mentale è trattabile». Come? Attraverso persone che creino legami e non più legamenti. E' il sunto del seminario di studio «Dall'assistenza psichiatrica alla riabilitazione psico-sociale», organizzato dalla cooperativa sociale Domus, che si è svolto al dipartimento di filosofia della Facoltà di Lettere in occasione dell'inaugurazione ufficiale del residence «Pietro Corsini» a Pellegrino Parmense. Si tratta di una struttura condominiale, attiva dal 2002, inserita in un Centro polifunzionale e articolata in sei mini-appartamenti che ospitano dodici coinquilini, ex-degenti dell'Ospedale psichiatrico di Colorno. Un appartamento esterno, inoltre, in locazione da privato, ospita altre due persone, seguite dall'équipe del Centro. «Il lavoro si svolge attraverso Progetti riabilitativi individualizzati insistendo su tre aree: habitat, lavoro, socialità relazione; e tramite alcune iniziative collettive come il laboratorio teatrale condotto da Lenz Rifrazioni di Parma (attivo dal 1999), l'inserimento scolastico per mezzo del Centro di formazione permanente della Scuola media statale (attivo dal 2000), gruppi di motricità e laboratori artigianali», spiega Roberta Lasagna, responsabile dell'area psichiatrica della Domus. L'esperienza di Pellegrino, la collaborazione solidale e affettuosa della sua gente, l'attivazione di sinergie tra le varie istanze sociali e culturali, i malati che possono vivere in una casa propria, ha proposto un momento di riflessione sulle politiche in psichiatria.
Dopo la ricostruzione della memoria del passaggio, dall'ospedale psichiatrico (manicomio di Colorno) alle comunità terapeutiche fino al residence «Corsini», presentata dalla ricercatrice in Scienze antropologiche Licia Gambarelli attraverso interviste narrative a persone che han vissuto quei momenti, c'è stato l'intervento di alcuni dei protagonisti stessi. Ora il manicomio, l'istituzione che segnava la differenza tra «follia» e «normalità», non esiste più, ma «quando sono arrivato io – ricorda Mario Tommasini -, nel 1965, all'ospedale psichiatrico di Colorno c'erano 1500 malati di cui 200 legati al letto con le camicie di forza, con soli 4 medici, invece di 30 e 170 infermieri, invece di 500». In una sorta di ritiro quasi autistico, i pazienti «vivevano» in gruppi di 50, internati in saloni spogli d'arredo, con i letti a 30 centimetri dal muro e camminavano attaccati alle pareti… per paura delle percosse.
Oggi i malati «respirano» nelle proprie case-libertà, stimolati a continui miglioramenti tesi a far riemergere quella persona alla quale per tutta la vita è stata negata la possibilità di «esserci»: grazie a una nuova formula che vuole più riabilitazione e meno psichiatria. Come? Anzitutto sono le istituzioni che bisogna riabilitare, solo poi, inizia l'intervento sul paziente: attraverso la conoscenza della sua storia personale pre e post-ospedaliera, programmi personalizzati, norme condivise che regolano la convivenza, reti di impegno civico, integrazione con l'ambiente circostante e quant'altro.

Storia, inediti
Chabod vs. Momigliano sull'interpretazione del rapporto fra fascismo e nazismo

Il Mattino 20.4.04
INEDITI/ Rovente carteggio tra il grande storico e Momigliano sull’interpretazione del rapporto tra nazismo e fascismo
di Titti Marrone


Questa è la storia del giallo di una busta di lettere a lungo cercata dagli studiosi e poi improvvisamente apparsa. Vi si racconta di un clamoroso litigio tra due grandi della storiografia italiana, Federico Chabod e Arnaldo Momigliano. Vi emerge una delle più virulente polemiche tra intellettuali del secolo scorso, di cui si conosceva l’eco ma non il reale contenuto, sull’interpretazione del rapporto tra fascismo e nazismo, sui tempi della «nazificazione» dell’Italia e sulla possibilità di decifrare il tutto con gli strumenti dell’idealismo.
La busta di lettere, su cui era stata vergata l’annotazione «affaire Chabod», è stata scovata dallo studioso Riccardo Di Donato in una borsa di pelle nella casa londinese del grande storico dell’antichità Arnaldo Momigliano. Non era destinata ad essere distrutta in mortem, cosa prescritta invece da Momigliano per molte sue carte, ma ad essere ritrovata a distanza di tempo e interpretata quando la tensione passionale fosse stata sufficientemente placata perché menti più sgombre riconsiderassero la materia del contendere. Ed è quanto avviene adesso, a ritrovamento compiuto: lo scambio di lettere tra Arnaldo Momigliano e uno dei maestri indiscussi della storiografia contemporanea, Federico Chabod, è stato oggetto di una sorta di «consulto» storico tra Di Donato e Gennaro Sasso, direttore dell’Istituto italiano per gli studi storici «Benedetto Croce», che le ha prese, per così dire, in custodia, le ha raccolte e commentate per «Il Mulino» nel volume Chabod-Momigliano, un carteggio del 1959 che sarà presentato giovedì alle 16 a palazzo Filomarino dallo stesso Sasso con Di Donato, Giuseppe Galasso e Andrea Giardina. Sasso racconta di aver faticato non poco per decifrare la grafia di Chabod, «perturbata come il suo animo mentre scriveva soprattutto la seconda epistola». Però aggiunge che ha potuto contare sull’aiuto di una vera esperta di grafie impossibili, Lidia Croce, che ha affinato la sua abilità sugli illeggibili manoscritti paterni.
Lo scambio epistolare tra Chabod e Momigliano del 1959 si svolse con veemenza tutt’altro che insolita tra intellettuali ma piuttosto rara nel pacato microcosmo racchiuso tra palazzo Filomarino, la «Rivista storica italiana», l’Enciclopedia Treccani e l’Accademia dei Lincei e fu stimolato da una richiesta nata all’interno di un rapporto di reciproca stima: la richiesta di Momigliano a Chabod, che conosceva dagli anni giovanili del comune lavoro alla Treccani, di un parere sul «necrologio» che aveva scritto in morte del filosofo Carlo Antoni. Momigliano aveva solo otto anni meno di Chabod, si rivolgeva al grande studioso in un rapporto percepito come alla pari e probabilmente non poteva immaginare quanto lo aspettava: una lettera di Chabod puntigliosissima, divisa in tre parti, che equivaleva a una vera e propria stroncatura del suo scritto, cui Momigliano rispose con veemenza quasi pari all’asprezza di Chabod. Il quale ribatté a sua volta, ancor più aspro.
In primo luogo, Chabod dissentiva da Momigliano per aver postulato un’influenza di Antoni su Croce e trovava fondamentalmente sminuito nel necrologio il ruolo di questi. «Però, in un certo senso, difendendo Antoni, Chabod difendeva se stesso e si sentiva attaccato dalle argomentazioni di Momigliano», dice Sasso. «All’epoca Chabod era infatti direttore del ”Croce”, dunque si sentiva custode di una tradizione umanistica che, a detta di Momigliano, non sarebbe stata sufficientemente avvertita nel cogliere la pericolosità di un certo momento storico».
Il dissenso più forte emerge dal tema adombrato dalle lettere che riportiamo qui accanto: Momigliano indicava già nel 1933-34 l’inizio di una «nazificazione dell’Italia», mentre per Chabod questo cominciò solo dopo le leggi razziali, nel 1938. La veemenza con cui Chabod criticò Momigliano definendo la sua interpretazione «uno sproposito» è così spiegata da Sasso: «Chabod non era mai stato fascista, ma aveva guardato con un blando interesse al primo periodo. Dunque, si sentì ferito nel vivo a quell’affermazione di Momigliano, peraltro complessivamente poco fondata sul piano storico, poiché non mi sembra si posa rintracciare un antisemitismo sistematico del fascismo prima delle leggi razziali».
L’eco della polemica giunse già allora a Sasso, Romeo, Arnaldi e De Caprariis, ma i suoi contenuti sono stati noti solo alla scoperta del carteggio. Sullo sfondo di essa, e al di sotto degli argomenti di Momigliano, si coglieva l’imminenza di una svolta: quella di un disagio di tipo illuminista nei confronti dell’idealismo crociano che presto si sarebbe manifestato, con più evidenza nel marxismo, in buona parte della cultura italiana.

Lettere sulla «nazificazione» dell’Italia

Lettera di Chabod a Momigliano del 5 novembre 1959:
«Caro Momigliano,
(fai) un errore di fatto: ”nel decennio che fu non solo di nazismo in Germania, ma di nazificazione dell’Italia”. Secondo te, dunque, ci sarebbe una nazificazione dell’Italia sin dal 1933 (...). Questo è uno sproposito, che altera tutta la storia italiana ed europea, salta a pié pari il primo periodo di ”urti” Mussolini-Hitler sino al ’35, e salta a pié pari le differenze, grosse assai, ancora degli anni ’35-’37 sino dopo la primavera del ’38.
Di nazificazione (per essere più precisi direi tentata nazificazione: è ingiusto infatti dimenticare che la politica razziale di Mussolini incontrò (...) ostilità quasi generale, di ciò si ebbe la prova concreta nei rapporti fra quasi tutti gli italiani non ebrei e gli ebrei».
Lettera di Momigliano a Chabod dell’11 novembre 1959:
«Caro Chabod,
la pressione da parte tedesca per permeare il fascismo di idee naziste cominciò nel 1933 o forse anche prima. Non so bene. Quando Ginzburg e compagni furono arrestati, già si accentuò la loro origine ebraica. L’ascesa di Interlandi-Tevere, Preziosi-Vita Italiana, l’alleanza Preziosi-Farinacci (Regime Fascista), l’uscita di Evola dalla «lunatic fringe», se ricordo bene, sono eventi anteriori al 1938. Soprattutto ricordo l’ansietà che tu, io, Cantimori etc. sentivamo per questa pressione. Avrei dovuto probabilmente scrivere ”progressiva” o ”tentata nazificazione”, ma in verità badavo al risultato del processo progressivo, e non temevo di essere frainteso».

beni culturali:
un'intervista di Simona Maggiorelli, parte di un suo dossier in edicola giovedì su Avvenimenti

Anticipiamo l'intervista al professor Salvatore Settis(*) che sarà pubblicata su Avvenimenti, sul numero in edicola da giovedì prossimo, ad apertura di un dossier che Simona Maggiorelli ha curato sul futuro dei beni culturali. Il 1 maggio infatti entrerà in vigore il nuovo codice Urbani che prevede molte innovazioni quanto meno assai discutibili.
L'intervista a Settis sarà seguita da alcune pagine che ricostruiranno l'inter della "Patrimonio spa" più uno zoom su palazzi anche importanti che pare si vogliano vendere a Roma e varie altre cose.


ALL'INCANTO
A maggio entra in vigore il nuovo codice dei beni culturali voluto da Urbani. Iniziano i saldi di fine Paese. Il nostro patrimonio ceduto al migliore, ma mica tanto, offerente
Salvatore Settis: "In 120 giorni le soprintendenze dovranno rispondere se un bene potrà essere venduto. Se tacciono è come se dicessero sì. Ma senza personale e con pochi fondi è difficile che riescano a fare il loro lavoro"
di Simona Maggiorelli


Il primo maggio entrerà in vigore il nuovo codice dei Beni culturali voluto dal ministro Urbani e tra pochi giorni inizieranno ad apparire sui giornali gli avvisi di vendita e di aste per la cessione di beni del patrimonio pubblico. In una previsione del Demanio, ancora approssimativa, si parla di oltre 15mila immobili. Le soprintendenze territoriali, già acciaccate da tagli e accorpamenti e, sotto organico, saranno intasate dal lavoro. Su di loro pende la spada di Damocle del silenzio-assenso. Ogni mancata risposta al Demanio verrà letta, così dice la legge, come un via libera alla vendita. Le associazioni ambientaliste, esperti e storici dell'arte denunciano, da più parti, il rischio di dismissioni selvagge. Qualche assaggio si è già avuto lo scorso dicembre con la cessione della Manifattura tabacchi di Firenze. L'ha decisa il ministro Tremonti per decreto, senza consultare il ministero dei Beni culturali. "Alla vigilia della sua entrata in vigore il nuovo codice destava parecchia preoccupazione - spiega Salvatore Settis, direttore della Normale di Pisa, uno dei cinque consulenti di Urbani per la tutela dei beni culturali e autore del polemico volume, Italia Spa - Assalto al patrimonio culturale -. Abbiamo temuto che per beni non si intendesse più " tutto ciò che ha un interesse culturale", ma soltanto ciò che ha "un interesse culturale particolarmente importante". Così si sarebbe potuto considerare importante il Colosseo e magari non una tomba sulla via Appia. Per fortuna il testo è stato corretto in più punti. Ma restano, ancora, diverse ombre".

Per esempio?
Il confine incerto fra le competenze dello Stato e quelle delle Regioni. Si è adottata una via molto fumosa: allo Stato spetta la tutela e alle Regioni la valorizzazione. Una distinzione senza capo né coda. Che non ha luogo in nessun paese al mondo. Ma bisogna anche dire che molto si deve alla modifica del Titolo V della Costituzione, di cui la responsabilità politica va al precedente governo. Il presidente della Consulta ha ammesso, di recente, che la metà del lavoro della Corte riguarda l'interpretazione di questo titolo, il che vuol dire che la riforma è stata fatta veramente con i piedi.

Perché si è scagliato contro la norma sul silenzio-assenso? Eppure Urbani dice che con questo meccanismo aumenteranno le tutele.
"Ma no. Questo è un meccanismo molto negativo inserito il gennaio scorso su indicazione del ministro dell'economia Tremonti. Un modo per favorire le vendite. Alle soprintendenze spetterà dire se un bene che il Demanio vuole vendere abbia un valore culturale oppure no. Ma se la soprintendenza non risponderà entro 120 giorni, il silenzio verrà interpretato come un assenso alla vendita".

Il nuovo codice ridisegna le soprintendenze. Che ruolo avranno?
"Il codice, di fatto, non stabilisce nulla in materia. Ma dà alle soprintendenze tantissimi compiti. Per rispondere entro i tempi stabiliti alle richieste di valutazione ci vorrebbe un adeguato personale. Invece le soprintendenze, da 20 anni a questa parte, stanno perdendo dipendenti. Nei cinque anni del centrosinistra sono state assunte circa 300 persone, a fronte di 3000 dipendenti che, nel frattempo, sono andati in pensione. Di questo passo la situazione diventerà ingestibile. Il ministro Urbani sta approntando un decreto che riordina tutta la materia delle soprintendenze. Ma ci sono aspetti che io trovo molto criticabili. Si continua a moltiplicare il numero delle posizioni di vertice, mentre diminuisce quello delle soprintendenze territoriali. Le posizioni di vertice erano quattro nel 1998. Con il ministro Melandri, sono diventate nove. E adesso sono 15. La tutela si fa nelle soprintendenze territoriali, si fa sul luogo stesso, non a Roma nei corridoi dei ministeri. Le posizioni di vertice hanno stipendi elevati, così si depauperano le finanze del ministero, mentre sul territorio ci saranno sempre meno persone".

Un quadro abbastanza fosco quello delle soprintendenze locali, stipendi bassi, pochi addetti, ridotti quasi a far volontariato...
"È così. Gli stipendi di chi lavora in soprintendenza non sono per nulla competitivi. E spesso si tratta di persone molto preparate. Se lavorassero in un museo americano, con le stesse mansioni, sarebbero pagati almeno 7 o 8 volte di più."

Il sistema americano in Italia viene spesso citato astrattamente. Lei che è stato responsabile del Getty di Los Angeles che ne pensa? È davvero un modello da inseguire?
"Conosco il sistema americano, gli ho dedicato sei anni della mia vita. Per certe cose mi piace, per altre no. Apprezzo, ad esempio, il rapporto che gli americani hanno con la loro Costituzione: prima di metterci le mani ci pensano su parecchio. Da noi, invece, la Carta è diventata come una sorta di leggina che si può cambiare a piacimento. Per quanto riguarda i musei in senso stretto, non credo siano un modello esportabile in Italia. Le condizioni sono completamente diverse. Il Metropolitan Museum o il Getty non hanno nulla a che fare con il territorio circostante. Si va al Metropolitan per vedere un Tiziano, ma quando si esce per le strade di New York non c'è niente che gli corrisponda. Non è così a Venezia".

Dunque?
"Il rapporto museo territorio da noi è un nesso stringente. Non è stata una scelta felice quella del ministro Melandri di creare i cosiddetti poli museali svincolati dal territorio. Non è mai stato così nella nostra storia. E poi i musei americani sono quasi tutti privati. E in Italia, per ingenuità, ma credo anche per disinformazione, quando si parla di gestione privata si pensa subito che il museo funzioni come una azienda e faccia profitti. Non è così".

Il Getty o il Moma come si reggono?
"Il Getty spende ogni anno 200-250 milioni di dollari e ne incassa circa 1000. Certamente non è la biglietteria che lo fa andare avanti. Mister IL Getty ha circa 7 miliardi di dollari investiti in borsa. Con gli utili che producono viene tenuto in vita il museo. Quando sento dire facciamo degli Uffizi una specie di Getty mi viene da ridere, perché gli Uffizi sono grandi almeno 30 o 40 volte il Getty Museum e non hanno fondi investiti o investibili".

I giornali economici dicono che nel 2003, su cinque milioni di imprese italiane, solo 571 hanno usufruito della norma delle erogazioni per i beni culturali. Tutti ignoranti o non ci sono gli strumenti adeguati?
"Ecco, come si fa a pensare di poter trasformare gli Uffizi o altri musei italiani in musei privati o retti da privati? E poi bisogna studiare la storia. In Europa, e in particolare in Italia, i musei nascono dallo Stato, prima dai sovrani poi dalla Repubblica, ed è lo Stato che ne assicura la vita perché sono dei servizi. L'America è troppo giovane per avere questo tipo di passato, fino al 1900 non c'era nessun museo importante. Da quella data in poi grandi mecenati hanno cercato di creare una grande rete dei musei, sostituendosi allo Stato. Insomma il modello americano da noi è un'assoluta impossibilità istituzionale ed economica e stupisce vederlo citato anche da persone che dovrebbero essere informate".

Se dovesse pensare a come rilanciare i musei italiani da dove partirebbe?
"Innanzitutto dalla ricomposizione di quel nesso museo-territorio di cui dicevamo. Parlando degli Uffizi, è assurdo che facciano capo al polo museale fiorentino, mentre Palazzo Vecchio e le chiese cento metri più in là rispondano ad altri. Bisognerebbe creare più semplicemente una soprintendenza “città di Firenze”, una “città di Roma” e così via. E fare in modo che godano di larga autonomia. Bisognerebbe in primo luogo incrementare il finanziamento pubblico e al tempo stesso incoraggiare le donazioni private mediante un sistema di defiscalizzazione totale. Tentando un circolo virtuoso fra i due. Puntando non solo sul grosso personaggio che regala dieci quadri, ma anche sul singolo cittadino che dà cento o mille euro".

Incoraggiare le donazioni ma non le speculazioni private?
"Quando si pensa a delle imprese private che entrano in un museo per guadagnarci, bisogna anche considerare che chi ci guadagna non incrementa i finanziamenti del museo".

E con le attuali situazioni d'impasse? Per restare in tema il corridoio vasariano a Firenze, con tutto ciò che contiene, è chiuso al pubblico e probabilmente lo resterà ancora a lungo, nonostante i buoni propositi.
"Ovviamente bisogna cercare un maggiore dinamismo. Il corridoio vasariano che è una delle cose più belle, non solo di Firenze, ma al mondo, dovrebbe essere riaperto. So che c'è un progetto. Per realizzarlo occorre più personale e trovare una gestione che non tratti i musei in maniera polverosa.

In questo quadro qual è il ruolo delle fondazioni? La trasformazione del Museo Egizio in fondazione ha suscitato parecchie polemiche.
"Le fondazioni, io credo, vadano viste una per una. La situazione del museo egizio così come si presenta oggi, non mi piace. Quello è un caso in cui ci sono ben due fondazioni bancarie. L'esordio credo sia stato di 70 milioni di euro fra tutte e due. Il tipo di marchingegno che è stato creato fa sì che la fondazione inghiotta il museo. È inaccettabile che ci sia un consiglio di amministrazione composto da 9 persone di cui uno solo rappresenta la struttura delle soprintendenza. Lo Stato, che dà due o tre miliardi di euro con tutti gli oggetti del museo, dovrebbe avere la maggior parte del consiglio di amministrazione. Invece si mette in minoranza. Ora uno Stato che si mortifica, si genuflette per 70 milioni di euro, a me non piace. Io credo in uno Stato forte che negozia con i privati. Sono anche per un ruolo molto propositivo dei privati, ma non così".

Allora cosa pensa del condono e della sua proroga?
"Lo considero una sciagura nazionale. È uno degli atti contraddittori che questo governo ha fatto, oltretutto dopo un mese o due che il ministro Urbani ha varato una legge sulla qualità architettonica. Non si può proteggere la qualità architettonica e insieme condonare qualsiasi orrore. Sono due concezioni completamente opposte. Il condono, fra l'altro, pare abbia prodotto un gettito inferiore a un quarto di quanto si attendeva. Non ho verificato questa cifra, ma al di là del possibile incasso penso sia un modo assai sbagliato di affrontare i problemi. Ne esce un discorsetto di questo genere: esistono delle regole, ma non importano più nulla se serve a fare cassa. Quando Craxi, nell'84, varò il primo condono, si disse che era una tantum. Da allora si è concesso altre due volte. Ormai tutti hanno la quasi certezza che ogni 5 o 6 anni ci sarà un condono e questo incoraggia gli abusivi.

(*) SALVATORE SETTIS: professore ordinario di storia dell'arte e archeologia classica, è direttore della Scuola Normale di Pisa. Dal 1994, per sei anni, è stato direttore del Getty Center Research Institute a Los Angeles e, l'anno scorso, è stato fra i cinque saggi a cui il ministro Urbani ha chiesto una consulenza sui temi della tutela. Fra i suoi tanti scritti, i saggi su Giorgione, sulla colonna Traina e sull'evoluzione del canone della pittura, fra sfumato e disegno, fra '400 e '500. Nel 2002 ha pubblicato il pamphlet Italia Spa, assalto ai beni culturali e, sempre per Einaudi, è appena uscito il suo Futuro del classico.