martedì 13 luglio 2004

LE NUOVE EDIZIONI ROMANE
E LA LIBRERIA AMORE E PSICHE
COMUNICANO

Il sogno della farfalla 3/2004

è disponibile presso gli abituali punti vendita a Roma e fuori Roma e ovviamente in Casa Editrice dalle ore 9 alle ore 19, e presso la Libreria Amore e Psiche.
________________________________________


La Libreria Amore e Psiche comunica a tutti che il n. 3/04

de Il sogno della farfalla è disponibile

in Libreria ed in Casa Editrice


La rivista è in vendita anche a Firenze
naturalmente da STRATAGEMMA
________________________________________
il volume
AULA MAGNA 19 GIUGNO 2004
l'ultimo dei cinque sugli
Incontri di Ricerca Psichiatrica 2003 - 3004


è in vendita presso la
LIBRERIA AMORE E PSICHE

ed è disponibile anche negli altri abituali punti di vendita
a Firenze, naturalmente, da STRATAGEMMA

Libreria Amore e Psiche
via s. caterina da siena, 61 roma
info:06/6783908 amorepsiche2003@libero.it
lunedi 15-20
dal martedi alla domenica 10-20


Milano:
il caso dello psichiatra assassino

Repubblica edizione di Milano 13.7.04
L'ex psichiatra che uccise con una balestra lo psicologo che lo aveva curato è rinchiuso nel manicomio criminale di Aversa
Geoffroy, chiesta una nuova perizia
Il pm vuole sapere se l'omicida di Bignamini può essere processato
di ANNALISA CAMORANI


Il caso di Arturo Geoffroy potrebbe essere riaperto. Lo psichiatra che un anno fa uccise a colpi di balestra lo psicologo Lorenzo Bignamini sarà sottoposto a una nuova perizia. Ciò che si deve stabilire è se, da quando è stato internato nel manicomio giudiziario di Aversa, le sue condizioni psichiche siano migliorate e se l´uomo, quindi, possa essere processato. È stato il giudice Fabio Paparella ad assegnare l´incarico al professor Alberto Manacorda, psichiatra del Policlinico di Napoli che avrà tempo fino al 30 settembre per stabilire se Geoffroy abbia riacquistato la capacità di intendere e di volere e se sia ancora pericoloso socialmente. Con l´esito della perizia in mano, dunque, il giudice dovrà stabilire se il processo all´ex psichiatra (che non esercitava più e che è stato sospeso nei mesi scorsi) possa riprendere, ma anche se ci sia la necessità di tenere l´uomo, che oggi ha 48 anni, chiuso in un manicomio giudiziario.
Geoffroy uccise Bignamini l´otto agosto. Ai pm che si occuparono dell´inchiesta, Giovanni Narbone e Gianluca Prisco, spiegò di ritenere la sua vittima uno dei responsabili del trattamento sanitario obbligatorio che gli era stato imposto dopo che aveva manifestato i primi segni di squilibrio mentale. Mesi prima Geoffroy era stato aggredito da due pazienti che aveva in cura. Dopo quell´episodio non fu più lo stesso: perse il posto di lavoro al Fatebenefratelli, iniziò una battaglia per farsi riconoscere l´indennità per le conseguenze dell´aggressione subita. Dichiarò guerra al mondo e decise di farsi giustizia da solo. Per tutti pagò Lorenzo Bignamini, uno psicologo, sposato e padre di due figlie, amato e stimato dai colleghi e dai pazienti. Una volta catturato (dopo l´omicidio Geoffroy era fuggito in Liguria) l´ex psichiatra fu sottoposto a una perizia che si dimostrò molto complicata, perché l´uomo non ha mai voluto parlare con i periti e si è sempre detto sano di mente. La conclusione dei professori Francesco Barale e Alessandra Luzzago fu lapidaria: «Il soggetto soffre di una psicosi delirante paranoicale detta anche disturbo delirante, non è capace di intendere e di volere». I due esperti, dopo aver visitato l´arrestato che si trovava nel carcere genovese di Marassi, spiegarono che «il dottor Geoffroy è stato uno psichiatra tragicamente travolto dalle dinamiche affettive con cui si confrontava, la sua mente è un universo ribollente e trainante di ira paranoicale». Oltretutto in carcere l´ex psichiatra si curava con farmaci che si era autoprescritto e che non facevano altro che peggiorare le sue condizioni: «Il trattamento psicofarmacologico che il dottor Geoffroy si è autoprescritto (un antidepressivo che i sanitari del carcere sono riusciti solo a diminuire nelle dosi, ndr.) - notavano ancora i due esperti - non è tale neppure da permettere di ipotizzare un minimo controllo sul disturbo». Ora quelle cure sono state sostituite dai medici dell´ospedale giudiziario di Aversa con altre più adatte a disturbi come quello manifestato da Geoffroy.
Anche per questo motivo è venuto il momento di verificare se le condizioni dell´imputato siano migliorate e se il processo possa riprendere, anche se Geoffroy potrebbe venire prosciolto per incapacità di intendere e di volere al momento del fatto. Sarà il giudice a stabilire come agire, ma sarà il professor Manacorda a dare le indicazioni necessarie a decidere se il caso Geoffroy possa essere riaperto.

iniziativa ds sulla fecondazione

Repubblica 13.7.04
Un gruppo di deputati in Cassazione per presentare alcuni quesiti, ma si potrà sostenere anche l'iniziativa radicale
Fecondazione, i Ds in campo
Verso l'appoggio al referendum contro la legge

Gli interventi di Sgreccia e Bompiani al convegno dell'Ordine degli avvocati di Roma
di MAURO FAVALE


ROMA - Contro la legge sulla procreazione assistita anche i Ds scelgono la strada dei referendum. Questa mattina una delegazione di parlamentari diessini presenzierà alla presentazione in Corte di cassazione dei quesiti referendari da parte dei comitati promotori contro la legge 40. Quesiti mirati ad abrogare quelle parti della legge, approvata lo scorso febbraio, che i Ds definiscono «più crudeli». «Crediamo sia necessario prima di tutto salvaguardare la salute della donna - spiega Barbara Pollastrini, coordinatrice delle donne Ds - favorire la libertà di ricerca scientifica e rendere possibile l´accesso alla fecondazione eterologa».
I quesiti dei Ds sono tre e affiancheranno altri due già presentati: quello che chiede la cancellazione del primo articolo della legge (che considera l´embrione titolare di diritti al pari della madre) e quello dei radicali che, invece, propone l´abrogazione totale della nuova norma. A favore della cancellazione della legge i radicali hanno già raccolto 150.000 firme. La Pollastrini considera però la scelta dei "referendum mirati" quella «più convincente», perché «ci ha permesso di allargare lo schieramento di sostegno anche a rappresentanti della maggioranza». Si sono schierati al fianco dei comitati per i quesiti mirati, infatti, anche il forzista Alfredo Biondi, Chiara Moroni del Nuovo Psi e il repubblicano Antonio Del Pennino.
Alla presentazione di oggi in Cassazione seguirà, da parte della Quercia, una campagna informativa che accompagnerà la raccolta delle firme. In ogni banchetto potranno essere firmate tutte e tre le proposte di referendum. «Un´azione congiunta, portata avanti con l´aiuto degli altri comitati, che mira al raggiungimento delle 500.000 firme necessarie entro la fine dell´estate». Accanto alla consultazione popolare, i Ds annunciano una battaglia parlamentare per riscrivere integralmente la legge e arrivare a una normativa «più mite».
Di fecondazione assistita si è parlato ieri anche in un convegno organizzato dal Centro studi del Consiglio dell´Ordine degli avvocati di Roma. Al centro dell´incontro le problematiche applicative di carattere giuridico ma anche le questioni etiche sollevate dalla nuova normativa. Al convegno hanno partecipato, fra gli altri, Adriano Bompiani, presidente onorario del comitato di Bioetica, Fernando Santosuosso, vice presidente emerito della Corte Costituzionale e monsignor Elio Sgreccia, ordinario di Bioetica all´Università del Sacro Cuore di Roma.

horror
preti

Corriere della Sera 13.7.04
Il direttore e il vice dell’istituto si sono dimessi. Sei anni fa il primate di Vienna costretto a lasciare per una vicenda di abusi
Scandalo pedofilia in seminario, choc in Austria
Inchiesta su 40 mila foto e filmati trovati nella biblioteca della più conservatrice scuola cattolica per sacerdoti
di Paolo Valentino


BERLINO - In apparenza è un seminario. Anzi, il più tradizionalista e ultraconservatore dei seminari cattolici in Austria, luogo di religiosa purezza, preghiera e pio magistero alla cura delle anime, dove volentieri l’anziano arcivescovo Kurt Krenn predicava, bollando con parole di fuoco i rei contro natura.
In realtà, quello della diocesi di Sankt Pölten, ottanta chilometri a Ovest di Vienna, è stato in questi anni un antro di orchi pedofili, teatro di perversioni peccaminose, una Sodoma asburgica dove preposti e seminaristi indulgevano spesso e volentieri in orge omosessuali, giochi erotici e notti scandite da alcol e sesso, al posto delle orazioni. Qualcuno parla anche di parodie naziste e cerimonie ufficialmente esecrate dal Vaticano, come la celebrazione di un finto matrimonio gay, fra due aspiranti preti, officiato dal direttore, inutile precisare tutti in costume adamitico.
C’è ancora del marcio nella Chiesa austriaca. A sei anni dallo scandalo del cardinale Hans Hermann Groer, l’ex primate, morto nel 2003, che era stato riconosciuto colpevole di aver sessualmente abusato di giovani religiosi, una nuova, devastante scoperta scuote le fondamenta del cattolicesimo viennese.
Non più sospetti o bugie di «querulanti ubriachi», come aveva fin qui sostenuto monsignor Krenn, capo della diocesi incriminata, quando il tema era più volte venuto a galla in passato. Ma un’incredibile documentazione fotografica, scoperta un anno fa nei computer della biblioteca del seminario e ora al vaglio delle autorità di polizia, in attesa della formale apertura di un’inchiesta criminale da parte della magistratura. Almeno 40 mila istantanee e una quantità imprecisata di filmati pornografici, che illustrano con precisione e ricchezza di dettagli gli esercizi, non esattamente spirituali, di Sankt Pölten. Alcune di queste comprenderebbero atti sessuali dei preposti con minorenni.
A svelare lo scandalo, il settimanale Profil, che nell’edizione in edicola ieri ha pubblicato alcune delle foto, dove i religiosi e i loro allievi vengono immortalati mentre si baciano appassionatamente sulla bocca. Secondo il periodico, l’inchiesta è partita, dopo che diverse immagini e film girati a Sankt Pölten erano apparsi su un sito a luci rosse polacco.
Il direttore del seminario, Ulrich Küchl e il suo vice, Wolfgang Rothe, si sono dimessi, pur protestando la loro innocenza. Su di loro pende l’accusa di pedofilia. La diocesi si è schierata a quadrato in loro difesa. Monsignor Krenn, soprattutto, ha definito gli addebiti infondati, liquidando addirittura le foto, che ha ammesso di aver visto, come «ragazzate».
Fortunatamente, i vertici della Chiesa viennese sono di ben altro parere. «Tutto ciò che ha a che fare con la pratica dell’omosessualità, non può trovare spazio in un seminario per preti», recita un comunicato della Conferenza episcopale austriaca, che ha anche annunciato l’avvio di una indagine interna, al termine della quale non è difficile prevedere le dimissioni di Krenn, 68 anni, da vescovo di Sankt Pölten.
E in questo senso si sono già levate diverse voci dall’interno del mondo cattolico: «Krenn è il vero responsabile e deve rispondere di tutto questo davanti alla Chiesa e a Dio». ha detto Martin Walchhofer, il prelato che supervisiona tutti i seminari austriaci. Anche la politica è intervenuta. «Collezionare materiale pornografico, che coinvolge bambini, non può essere liquidato come una ragazzata», ha dichiarato Thomas Huber, leader dei Verdi. Un portavoce dell’opposizione socialdemocratica, Hannes Jarolim, ha chiesto al ministero dell’Interno di indagare per favoreggiamento nei confronti dello stesso arcivescovo e aprire una procedura formale.
Secondo Profil, una foto documenterebbe la celebrazione del matrimonio gay da parte del reverendo Küchl. Il resto del materiale, con le parole del procuratore Walter Nemec, «mostra i seminaristi in situazione perverse con i loro superiori».
Un seminarista di Sankt Pölten, citato dal settimanale, afferma che «tutti sapevano cosa succedesse da noi, non era possibile ignorarlo, ma nella Chiesa domina un silenzio di piombo, quando si tratta di temi tabù, semplicemente non sappiamo in che modo affrontare correttamente il problema». Quelli che avevano provato a parlarne direttamente con i due superiori o con Krenn, sono stati subito identificati da loro come nemici e isolati.
Anche la polizia, afferma Profil, avrebbe trovato all’inizio grosse difficoltà a rompere il muro dell’omertà di Sankt Pölten, dopo la scoperta del materiale e le prime denunce inviate via email da alcuni seminaristi.

lo stile di pensiero americano
sesso ed economia:
sposarsi è meglio

Repubblica 13.7.04
Analizzata l'intimità di seimila persone adulte
È la prima analisi "matematica" che si fa sull'argomento
Il sesso appaga come la ricchezza i conti dell'economia della felicità

Uno studio Usa: ecco quanto "valgono" i momenti erotici
La soddisfazione è indipendente dal fatto di avere una relazione gay o eterosessuale
Il vero obiettivo è avere una relazione unica e duratura, condizione di gioia
Crollano le credenze. I soldi non comprano le emozioni; sposarsi è la soluzione migliore
ERIC DASH


NEW YORK - Si dice che con il denaro non si compra l´amore né la felicità, solo il sesso ("Se hai successo in consiglio d´amministrazione, hai successo anche in camera da letto"). Ma nessuno ha mai provato a dimostrarlo. Di recente, però, due economisti inglesi, David G. Blanchflower del Dartmouth College e Andrew J. Oswald dell´Università di Warwick, hanno presentato al National Bureau of Economic Research, uno degli enti di maggior prestigio nel campo, un lavoro dal titolo "Denaro, sesso e felicità: uno studio empirico".
Gli autori affermano che il loro studio è la prima, rigorosa analisi econometrica sull´argomento, e che forse la saggezza popolare andrebbe rivista. Come afferma il documento: "Il denaro appare in grado di comprare più felicità. Ma non permette di comprare più sesso". Blanchflower e Oswald sono fra gli esponenti di punta di un settore scientifico in crescita, l'"economia della felicità", che applica le tecniche econometriche, tradizionalmente limitate a cose quantificabili come i tassi salariali, all´arena delle emozioni umane.
Nel loro studio, Oswald e Blanchflower hanno analizzato l´attività sessuale autodichiarata e i livelli di felicità di oltre 16.000 adulti che hanno partecipato a una serie di ricerche sociali a partire dai primi anni 90. (La felicità è difficile da definire: gli intervistati si limitano a indicare, su una scala, il loro livello). Scomponendo in fattori gli effetti misurabili di altri eventi della vita, rivela lo studio, risulta che "l´individuo, più sesso fa più è felice". Oltre a ciò, i due economisti hanno comparato i livelli di felicità determinati da una vita sessuale intensa con altre attività il cui valore economico era stato calcolato in precedenti ricerche, riuscendo così a calcolare quanta felicità vale, in dollari, il sesso. Hanno calcolato che aumentare la frequenza dei rapporti sessuali da una volta al mese ad almeno una volta a settimana fornisce la stessa felicità che dà depositare 50.000 dollari in banca.
Un matrimonio duraturo, per fare un paragone, garantisce circa 100.000 dollari all´anno di felicità, il che significa che, mediamente, una persona single dovrebbe ricevere 100.000 dollari all´anno per essere felice come una persona sposata, a parità di livello di istruzione e status lavorativo. Il divorzio, per contro, impone un dazio emotivo di circa 66.000 dollari all´anno, anche se può esserci un guadagno economico sul breve termine per il sollievo immediato che nasce dal lasciare il proprio coniuge. La scoperta, dice Oswald, è stata che, in generale, "un reddito maggiore non consente di comprare più sesso né un partner". "Per noi economisti è stato sorprendente", ha aggiunto Oswald, "perché tendenzialmente pensiamo che il denaro possa comprare ogni cosa".
"La lobby conservatrice, pro-matrimonio, sarà felice di leggere la nostra ricerca", dice Oswald. "Le persone sposate, prosegue, fanno sesso il 30% più spesso delle persone single e risultano più felici. Anche la comunità gay e lesbica, dice Oswald, può essere soddisfatta. I dati dimostrano che la felicità che si ottiene dall´avere "una relazione omosessuale è quasi identica a quella che si ottiene da una relazione eterosessuale", e che, a prescindere dall´orientamento sessuale, il numero di partner che "massimizza la felicità" è uno.

Copyright La Repubblica- New York Times (Traduzione di Fabio Galimberti)

filosofia e pittura

Il Giornale di Brescia 13.7.04
il pensiero espresso
FILOSOFIA CON IL PENNELLO
di Maria Mataluno


Tutti i filosofi, in ogni tempo, si sono interrogati sulla natura dell’arte. Se Platone ne svaluta l’importanza, definendola «imitazione dell’imitazione» (imitando la realtà sensibile, essa non fa che copiare qualcosa che è a sua volta un pallido riflesso della realtà autentica, ossia delle idee), Aristotele la riabilita affermando che l’arte è sì imitazione, ma delle idee e non delle cose, dell’universale e non del particolare. Se per Kant l’arte è il luogo in cui sono esibite le condizioni originarie dell’esperienza, per Heidegger è la «messa in opera della verità»; se Hegel ne denuncia la morte quale necessario passaggio per l’avvento dell’era filosofica, Nietzsche la considera l’unica attività veramente «metafisica», laddove l’aggettivo «metafisico» indica la facoltà di conferire un senso all’esistenza, sopportabile solo in quanto fenomeno estetico. L’intenso rapporto sempre esistito tra la filosofia e l’arte, però, non è a senso unico: anche l’arte ha eletto la filosofia a proprio soggetto ideale, e non solo nel senso più banale di ritrarre episodi e personaggi della storia della filosofia, ma anche nel senso che molti pittori hanno usato il pennello per trattare temi prettamente filosofici. Al rapporto tra arte e pensiero è dedicato il saggio "Filosofia e pittura. Da Giorgione a Magritte" (Bruno Mondadori, 499 pagine, 33,00 euro), nel quale Reinhard Brandt, attualmente docente di Filosofia all’Università di Marburgo, «legge» una serie di opere d’arte come se fossero testi filosofici, demolendo così il luogo comune secondo cui la filosofia si occuperebbe di oggetti che sfuggono ai sensi e dunque sarebbe impossibile consegnare riflessioni filosofiche a un’immagine. Da secoli gli storici dell’arte s’interrogano sull’identità dei Tre filosofi dipinti da Giorgione nella tela raffigurante tre uomini - un giovane in abiti contemporanei, uno più anziano con tunica e turbante di foggia orientale e un vecchio dall’aspetto di antico sapiente greco - immersi in un paesaggio incantato e rischiarato da una luce aurorale. C’è chi sostiene che siano i Re Magi, e che il chiarore che da sinistra illumina la scena e verso il quale il più giovane rivolge uno sguardo rapito sia quello della stella cometa; e c’è invece chi li identifica con tre scienziati, e in particolare con Pitagora, Tolomeo e un astronomo del ’400. Brandt non sceglie fra le due ipotesi, ma le unisce, interpretando il quadro del pittore veneto come una versione pittorica del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo di Galileo: come l’astronomo pisano dimostra che il discorso della scienza e quello della fede non sono in contraddizione, ma sono solo due diversi linguaggi per esprimere il medesimo mistero della Natura, così Giorgione avrebbe rappresentato entrambi i soggetti, i tre Re che vengono dall’Oriente per adorare il Salvatore e i tre astronomi di epoche diverse. È proprio nell’intrecciarsi di questi due contenuti che risiede l’originalità del dipinto: i tre Re seguono la luce di Colui che fa girare i mondi, redime l’umanità e la conduce fuori dalle tenebre verso la salvezza. Essi impersonano la verità della fede, semplice e facilmente intelligibile. La verità della scienza, invece, è diversa: misura il corso delle stelle e spiega la luce naturale con gli strumenti della matematica applicata. Il quadro di Giorgione, insomma, dimostra secondo Brandt come la verità della fede e quella della scienza possano conciliarsi e accordarsi, senza che l’una debba necessariamente sottomettersi all’altra. Ma lo studioso tedesco non si limita a esaminare opere in cui, come questa, la filosofia è l’esplicito soggetto - dal Filosofo di Salomon Konink alla Morte di Seneca di Rubens, dalla Scuola di Atene di Raffaello all’Aristotele e il busto di Omero di Rubens; - quello che gli interessa è mettere in luce come l’arte possa filosofare anche al di là del suo significato «letterale». Egli si cimenta perciò in un’analisi del celebre Las meninas di Velázquez, già acutamente interpretato da Michel Foucault, dimostrando come l’originalità di quest’opera consista nella capacità di mostrare qualcosa che sta al tempo stesso oltre e all’interno della rappresentazione stessa: l’infanta di Spagna che contempla in uno specchio l’immagine riflessa di sé stessa e del pittore che sta ritraendo la sua famiglia. Il soggetto non è la principessa, bensì l’opera stessa vista dal suo interno, attraverso lo sguardo di uno dei suoi personaggi. Quella che l’osservatore percepisce nella tela di Velázquez, dunque, è una realtà riflessa; ma questo non vuol dire, avverte Brandt, che il pittore abbia inteso abbracciare quella concezione della realtà che appartiene alla tradizione platonico-cartesiana, secondo la quale ciò che possiamo conoscere non è il mondo in sé stesso, ma solo una sua labile parvenza. Velázquez, anzi, esprime una visione del mondo estremamente realistica: nel suo dipinto ritrae la realtà così com’è realmente, non crede affatto che essa sia mera rappresentazione; ed è solo il suo desiderio di approfondire i meccanismi della percezione ad avergli suggerito un’opera che sull’ambiguità di apparenza e realtà fonda tutto il suo fascino. Meno fiducioso nella realtà sarà invece René Magritte, con la sua Condition humaine. In questa splendida tela che raffigura una finestra aperta sulla campagna e in parte occupata da una tela che riproduce esattamente la porzione di paesaggio che nasconde alla vista, Magritte rappresenta la conditio humana: la condizione a cui l’uomo è condannato di non avere accesso alle cose in sé, ma solo alla propria rappresentazione di esse, come accade a chi sia seduto in una stanza davanti a una tela dipinta che fa da finestra. La finestra è la realtà esterna, il quadro è la mente - o l’anima, o l’Io, o in qualunque altro modo lo si voglia chiamare - che, filtrando le informazioni provenienti dall’esterno, le trasforma in verità «per sé». «Un grande pittore nelle sue opere non gioca a dadi, ma segue un’idea coerente», afferma Brandt. L’idea seguita da Magritte è chiara: egli vuole dimostrarci come noi vediamo la realtà e al tempo stesso non la vediamo, come conosciamo il mondo e al tempo stesso non lo conosciamo. E’ forse questo, in fondo, il senso di tutta l’arte contemporanea, che dopo aver preso atto dell’impossibilità di ritrarre cose e uomini nella loro realtà oggettiva, ha deciso di abbandonare il campo dell’imitazione, di «superare il quadro» verso la sua negazione, di andare oltre il messaggio per pervenire al silenzio. Sono nati così i muti quadrati di Malevic e i «concetti spaziali» di Lucio Fontana, traduzione artistica di quello che, in filosofia, si chiamerebbe «pensiero debole».

Talete

Il Giornale di Brescia 13.7.04
Talete, l’elemento «acqua» come principio primo
La tradizione ingiustamente ce ne parla come scienziato privo di senso pratico
di Maria Mataluno


Chissà quali risposte stava cercando nel firmamento Talete, il primo filosofo della storia, quando, come racconta Platone nel Teeteto, mentre camminava col naso all’insù per osservare le stelle cadde in un pozzo. Al che una schiavetta trace che passava di lì scoppiò a ridere e lo canzonò per il fatto che proprio lui, che non vedeva nemmeno quello che stava sulla Terra, pretendesse di scorgere ciò che si trovava nelle profondità insondabili del cielo. Di certo il pensatore nato nell’isola ionia di Mileto e vissuto tra il VII e il VI secolo a.C. non stava più cercando una risposta alla domanda che, secondo Aristotele, assillò tutti i pensatori che la tradizione ricorda col nome di presocratici: «Qual è il principio primo, l’origine materiale della realtà?». A quel quesito, infatti, Talete aveva già trovato la risposta, e lo aveva fatto prima di tutti. Prima di Anassimene, che lo individuò nell’aria, prima di Eraclito, che riconobbe la mitica arché nel fuoco, prima di Democrito e di Anassagora, che si spinsero oltre il limite della realtà sensibile per rivolgersi rispettivamente agli inafferrabili atomi e alla ancor più meta-fisica «mente universale» creatrice del Tutto. Era stato Talete, però, il primo a dare la soluzione più semplice e forse più affascinante a quell’interrogativo: per lui l’origine di tutte le cose non era altro che l’acqua, «l’elemento più bello»... Oggi che il mondo si trova sull’orlo di un’emergenza idrica che potrebbe fare dell’acqua il petrolio del XXI secolo, e le sonde spaziali vengono inviate sugli altri pianeti allo scopo di scovare tracce di acqua - e dunque di una possibile forma di vita extraterrestre, passata o futura, - l’intuizione di Talete appare più che mai attuale. L’acqua, infatti, è presente in tutte le cose: di acqua è fatto al 75 per cento il nostro corpo, di acqua sono pieni la terra su cui camminiamo, l’aria che respiriamo, gli alberi che crescono nei boschi e la neve che imbianca le montagne, e di acqua hanno bisogno, per perpetuare la propria esistenza, tutte le creature viventi. Inoltre l’acqua è inodore, insapore, incolore: e cosa c’è di meglio di un ente privo di qualità per rappresentare ciò che, in quanto principio primo, sta al di qua di ogni specificazione sensibile? Il ragionamento di Talete, insomma, dovette essere molto simile a quello che gli attribuisce Aristotele: l’opinione che l’acqua fosse la sostanza e l’essenza di ogni cosa «gli fu suggerita dall’osservazione che è umido ciò di cui ogni cosa si alimenta e che anche il caldo nasce dall’umidità e sopravvive per mezzo di essa (...), ma anche in base al fatto che hanno natura umida i semi di tutte le cose, e l’acqua è appunto il principio naturale delle cose umide». Sebbene la filosofia di Talete possa essere considerata il primo passo verso quell’astrazione che avrebbe portato Platone a elaborare la sua teoria delle idee, va detto che la separazione tra realtà materiale e intellettuale, tra le idee e le cose, era ancora di là da venire. L’acqua, infatti, costituisce per Talete il fondamento del vero non solo in senso astratto, come sostrato ideale che rimane costante malgrado il continuo mutamento delle sue qualità, ma anche in senso concreto, come ciò su cui poggia il mondo che conosciamo: seguendo una concezione diffusa nel mondo antico, e in particolare in quello orientale con cui la Ionia era in stretto contatto, Talete credeva che la Terra fosse una sfera (sì, proprio una sfera, perché Tolomeo non aveva ancora elaborato la sua concezione di un mondo piatto situato al centro dell’universo), circondata da mari interni e galleggiante su un Oceano infinito. Un filosofo con i piedi per terra - o per meglio dire nell’acqua - era dunque Talete, non un metafisico a caccia di idee soprasensibili, come quel Socrate che Aristofane ritrasse nelle Nuvole sospeso in una cesta a mezz’aria per contemplare più da vicino il cielo. Il suo sguardo, certo, Talete lo rivolgeva volentieri al firmamento, tanto che lo storico Erodoto gli attribuisce la predizione di un’eclissi di sole, quella del 585 d.C., mentre un anelito di carattere religioso sembra nascondersi dietro la frase, a lui attribuita, «tutto è pieno di dei»: un’espressione che però sembra essere solo un’altra maniera per dire che "tutto è pieno di acqua", dal momento che l’acqua, in quanto origine del tutto, deve necessariamente contenere in sé un elemento di divinità. La leggenda racconta che Talete era così astratto e poco portato alle preoccupazioni quotidiane della vita, secondo lo stereotipo del pensatore con la testa fra le nuvole, che da giovane, ogni volta che sua madre insisteva affinché prendesse moglie, lui scuoteva la testa dicendo: «Non è ancora venuto il momento». Finché un giorno, divenuto ormai anziano, le rispose: «Ormai non è più il momento». Un personaggio, insomma, sul genere del professor Tournesol del fumetto Tintin di Hergé, tutto amore per la scienza e niente spirito pratico. Ma la verità sembra essere stata diversa. Di certo le sue affermazioni paradossali contrastavano col buon senso comune, come quando sosteneva che tra la vita e la morte non c’era alcuna differenza, e a chi gli chiedeva come mai, allora, non si fosse ancora risolto al suicidio, rispondeva: «Proprio perché non c’è alcuna differenza». O come quando, a chi gli domandava cosa fosse nato prima, la notte o il giorno, diceva: «La notte, un giorno prima». Eppure a Talete non si addice per nulla quell’abito di pensatore avulso dalla realtà che la tradizione gli ha cucito addosso. A questo filosofo e letterato, astronomo e matematico, nonché imprenditore di successo - quasi un Pico della Mirandola dell’antichità, - gli storici attribuiscono le più svariate scoperte scientifiche: se Platone ricorda quanto fosse abile nell’escogitare i più sorprendenti espedienti tecnici, è ancora Erodoto a raccontare come egli fosse riuscito a deviare l’alveo di un fiume; e sembra che durante un viaggio in Egitto riuscisse persino a calcolare l’altezza delle piramidi basandosi sulla loro ombra. A ciò si aggiungano, per completare il profilo di questo straordinario iniziatore del pensiero antico, un teorema geometrico che porta il suo nome - «Un fascio di rette parallele determina su due trasversali due classi di segmenti direttamente proporzionali (e viceversa)» - e un episodio citato da Aristotele nella Politica: narra lo Stagirita che Talete, grazie alle sue conoscenze astronomiche e meteorologiche, previde un abbondante raccolto di olive e si affrettò ad approfittare della circostanza, acquistando tutti i frantoi che riuscì a comprare. Il raccolto quell’anno si rivelò effettivamente eccezionale, e Talete ne ricavò ingenti guadagni. E poi dicono che il pensiero non è remunerativo. (continua)

freudiani

L'Arena di Verona 13.7.04
A Lavarone si è svolto l’annuale convegno, dedicato a Sigmund Freud, sulle frontiere della psicoanalisi
Il paesaggio e la personalità
Una stretta relazione accertata tra i due elementi


Fra i paesaggi in cui viviamo e la nostra psiche c'è una relazione stretta: la nostra personalità si forma infatti nei paesaggi naturali e urbani, e d'altra parte la psiche usa la dimensione dello spazio per rappresentare l'incontro-scontro con la realtà, a cominciare dal sogno. Ad affermarlo è Paolo Aite, psichiatra e analista junghiano, che ha aperto, sabato, a Lavarone, il convegno annuale di psicoanalisi organizzato dal Centro Studi Gradiva, che quest'anno era dedicato al tema Paesaggi. Della realtà, dell'immaginazione. Da anni, Aite induce i pazienti ad esprimere le proprie emozioni mediante un gioco che consiste nel manipolare la sabbia contenuta in una vaschetta: in quella presa di contatto con la materia, è possibile rappresentare ciò che sfugge, ma è pur sempre presente in profondità. I "paesaggi" così affiorati diventano parola che dice. Il paesaggio è anche una disciplina dell'architettura. Paola Coppola Pignatelli, docente di architettura a Roma, si è soffermata sul paesaggio urbano, spesso portatore di malessere. Ha portato l'esempio di alcune costruzioni contemporanee, come il nuovo auditorium di Los Angeles progettate da Gehry, vera e propria "musica solidificata", un'opera dirompente e coraggiosa che è diventata un'attrazione. L'architettura anticipa i tempi: vi leggiamo chi siamo e dove vogliamo andare. Non c'è più spazio per le utopie: l'architetto lavora nella corrente che porta al futuro, e il computer consente morfologie che in passato non erano immaginabili. Talvolta i paesaggi sono non-luoghi, dove la gente non prova senso di appartenenza, perché la crescita è disordinata e il caos urbano fa paura per la sua alterità, come la pazzia.
Lungo queste frontiere di ricerca multidisciplinare si muove il "Premio Gradiva", che quest'anno è stato assegnato, ex-aequo al libro Ululare con i lupi (Bollati Boringhieri editore) di Eugenio Gaburri e Laura Ambrosiano, e al libro Il counselling psicodinamico (Borla) di Andrea Giannakoulas e Santa Fizzarotti Selvaggi. Menzione speciale per Le psicastrocche di Geni Valle (edizioni Magi), che ha saputo trasporre in rima la parte giocosa della psicoanalisi.
Il paesaggio è una parte di noi che ci portiamo dentro e che rappresentiamo, consciamente o inconsciamente, anche nei nostri sogni per comunicare qualcosa agli altri. Caterina Virdis Limentani, docente di storia dell'arte a Padova, ha preso spunto dalla recente mostra sulla montagna organizzata dal Mart di Rovereto per parlare "di vette e di abissi del paesaggio montano che evocano incanti e turbamenti dell'anima". Attraverso dipinti poco noti, la relatrice ha mostrato come i pittori rappresentino, attraverso simbolismi, i loro pensieri e sentimenti. Dalla paura all'esaltazione, la montagna significa sempre elevazione morale. Diverso è il discorso per la realtà ricreata in televisione o al computer, dove il paesaggio viene falsato, spesso confondendo i confini fra reale e virtuale. Secondo lo psicoanalista Antonio Di Benedetto "la nostra mente si arricchisce se l'area dei sogni , la fantasia va a fertilizzare l'area del pensiero", invece "se quest'area viene invasa dalle immagini che ci piombano addosso, dalle fantasie costruite da qualcun altro, questa nostra area elaborativa di fantasia diventa come colonizzata".
Molto interesse ha suscitato Darko Pandakovic del Politecnico di Milano con la sua denuncia del trauma profondo subito dal paesaggio italiano. Quel paesaggio, che per secoli è stato molteplicità, ricchezza, patrimonio culturale e storico, negli ultimi cinquant'anni poco a poco è scomparso. Il disagio attuale, diffusissimo, si radica proprio in quella perdita, nell'afasia del paesaggio attuale, del quale non comprendiamo i significati. E' necessario ricostruire i luoghi, le certezze, a cominciare dalla campagna, il cui linguaggio è più ricco di quello metropolitano. .

© Copyright 2003, Athesis Editrice S.p.A. - Tutti i diritti riservati - [Credits]

il convegno
scienza e filosofia a Firenze

Il Mattino Lunedì 12 Luglio 2004
CONVEGNO A FIRENZE
Quel blackout tra la scienza e la filosofia


«Humanitas. Il paradigma di ”natura umana” tra scienza e filosofia» è il tema di un convegno che si terrà oggi e domani a Firenze, a Villa Ruspoli, promosso dal Cnr e dall’Istituto italiano di Scienze umane. Tra i relatori, Edoardo Boncinelli, Giulio Giorello, Roberto Esposito, Carlo Ossola, Giacomo Marramao, Salvatore Veca ed Eugenio Mazzarella, di cui pubblichiamo di seguito un intervento.
Eugenio Mazzarella
La filosofia è un blackout. Accendere la luce, o una stentata candela. Forse perché nella luce una volta siamo stati. Forse perché la luce è alle nostre spalle, nel bagliore - che si spegne - del mito: nel distacco dall’animale-mondo di chi si racconta come è nato, dove la luce cieca, abbagliante, di un’appartenenza s’inabissa nel sorgere della coscienza; luce che ricomincia il suo cammino in ciò che resta del lumen naturale, del venire insieme alla luce di tutto ciò che nasce. L’animale sta nella luce, l’uomo vede la luce - e questo è il suo problema. Ne è ancora traccia il racconto dell’Eden, o il passaggio dal sapere dell’anèr philosophos di Eraclito che Heidegger legge come colui che sta nel sophòn, in armonia nell’Uno, con l’Uno Tutto, alla disarmonia dell’òrexis platonica, che anch’essa a quella luce delle origini deve già tornare mentre comincia ad essere filosofia. Da allora il problema sarà come si appartiene al mondo da cui ci si distacca nel modo di un necessario rimanervi che crede di cadervi perché, alla fine, ci si vede restituito. L’uomo è quell’animale che comincia ad andare a tentoni quando ci vede. Il re Edipo ha sempre un occhio di troppo.
A questa sfida dell’ente, che di questo si tratta, la filosofia come sapere ha sempre organizzato la risposta, sospesa tra l’episteme delle scienze ed un sapere riflessivo di sé; ha da sempre organizzato la risposta all’emergenza del fatto che, per qualcuno, che vuole continuare a starvi di fronte, qualcosa c’è, e questo fatto deve rimanere, perché si tratta di nient’altro che il proprio rimanere. Come sapere che si sa, come sapere che viene al sapere, la filosofia questo lo ha fatto talvolta in eccesso, dandosi per scontata nell’ordine della natura o per voluta (liberamente magari, ma voluta) nel piano della creazione - in sostanza proponendo un principio antropico, debole nel secondo caso, forte nel primo, all’opera nel cosmo. Questo principio potrebbe ben essere, nell’una e nell’altra versione, una pia illusione. E l’ontologia del caso, che non vi crede, è nata molto presto. E tuttavia, posto come sia che sia principiato, questo principio - nel modo in cui è principiato, vale a dire difendendo le condizioni interne ed esterne, a contorno, che lo rendono possibile - va difeso. L’essenza di qualcosa è il dispiegarsi delle possibilità custodite nella sua origine. In effetti è il principio che Vico ha forse individuato meglio di altri (e vale tanto per un’ontologia del caso che per un’ontologia della necessità o di una creazione che lasci le cose alla loro legge) - «natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali, sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon cose» -, nella sottolineatura ontologica (natura di cosa come nascimento) dell’essenza di tutto ciò che nasce come funzione evolutiva del suo originario orizzonte «modale», ancorata ad un range non trascendibile di possibilità. E questo vale anche per il modo umano, per quanto aperto e progettuale esso voglia pensarsi.
Se questo è il principio - «dov’è l’inizio per quell’esserci che sa di averlo?: presso se stesso, ma non solo da se stesso, questo è il filo del labirinto» -, un’ontologia della labilità, sia essa per caso o programmata o voluta, allora la filosofia non può sfuggire alla sfida della prescrizione. Anche come fenomenologia, come fenomenologia dell’evento, sapere in ultima istanza solo di ciò che si vede, essa non può limitarsi ad essere descrittiva, ma deve avere il coraggio ermeneutico non solo della «riduzione» eidetica, o della chiarificazione del contesto/destino di una cosa, dell’eidos, dell’idea come svolgimento di una cosa, ma anche della «costituzione» eidetica di una cosa, del suo eidos come programma da assolvere o da mantenere, come qualcosa da tenere in vista - innanzi tutto la propria vita.

anoressia

Il Messaggero Lunedì 12 Luglio 2004
IN ITALIA
Oltre mezzo milione “litiga” col cibo


ROMA - Sono mezzo milione, in Italia, le persone che soffrono di comportamenti patologici legati al cibo. Che non riescono a smettere di introdurre cibo nell’organismo o che si costringono a digiunare. Più di 140 mila, dicono gli specialisti, «accusano problemi acuti». Che significa essere colpiti da anoressia e bulimia.
Si tratta di disturbi che privilegia il sesso femminile. Accanto ad un uomo si contano dieci donne. Ottantamila le ragazze sotto i 18 anni che convivono con l’anoressia, circa sessantamila con la bulimia. E, spesso, le due patologie si sovrappongono. Ancora numeri per “disegnare” la situazione: sette malati su dieci guariscono. Ma passano mediamente tre o quattro anni prima che un paziente, e i suoi genitori, si decidono a chiedere aiuto ad un medico.
Tra i fattori predisponenti gli esperti individuano una particolare struttura psicologica caratterizzata da bassa autostima, perfezionismo, difficoltà nel rapporto con gli altri e paura dell’autonomia. Ma anche disturbi preesistenti come l’ansia, la depressione, le ossessioni. «Dismisure e conflitti in campo alimentare - scrive nella prefazione del libro “Figlie in lotta con il cibo” lo psichiatra dell’università “La Sapienza” di Roma Massimo Cuzzolaro - mangiare troppo, pentirsi, troppo poco, mai abbastanza poco, sono diventati così una sorta di idioma, terribilmente comune e corrente, attraverso il quale esprimere malessere, infelicità, fatica di vivere».

Il Messaggero Lunedì 12 Luglio 2004
La storia/ Appello di una sedicenne alle famiglie degli adolescenti. Estate, mesi a rischio
«Cari genitori, io anoressica vi rivelo le mie ossessioni»
di GIULIA A.


(...) Ho sedici anni e ho finito il secondo anno del Liceo scientifico. Sono in terapia famigliare e sono seguita da una psichiatra dell’Università La Sapienza.
Ho chiesto a mio padre di aiutarmi a scrivere queste righe e vorrei fossero i genitori - gli adulti - a leggerle, soprattutto dopo aver visto sui giornali la morte di quella ragazza dell'Aurelio che - forse, ma il dubbio è sufficiente - è morta a causa di questo disturbo. E come lei credo tante altre, che magari non muoiono di anoressia, ma certo ne soffrono e si disperano. Perché spesso gli adulti non riescono a vedere l’anoressia nelle proprie figlie.
E’ difficile per voi adulti ammettere che vostra figlia si sta uccidendo. Anche perché noi mettiamo in atto tutta una serie di trucchi e specchi che vi impediscono di vedere. Cerchiamo di essere quelle che “mangiano fuori”, dove non è possibile controllarci. Diventiamo delle brave cuoche in casa, anche se poi non mangiamo i manicaretti che vi proponiamo. E, data la nostra ossessione per il cibo, cerchiamo qualcosa che tenga occupata la mente. Quindi, spesso, andiamo bene, benissimo a scuola. Insomma, sembriamo ragazze perfette. Solo, non mangiamo più.
Che mondo c’è dietro queste ragazze perfette?
Innanzitutto, c’è un Programma. Ce lo facciamo da sole, con due scopi: dimagrire dove vogliamo noi (ed è proprio la parte del corpo che, ai nostri occhi, rimane grassa e quindi il Programma non finisce mai) e controllare il nostro corpo e la nostra mente, sopprimendo la sensazione - che è sempre molto acuta - della fame.
Perché noi sentiamo che non smetteremmo mai di mangiare, se non ci fosse il Programma a mantenerci in riga. E a non farci impazzire: possiamo non mangiare per una giornata intera, ma abbiamo bisogno di giustificare il sacrificio anche con uno sfizio. Così, la vostra ragazza perfetta è anche una capace di mangiare di punto in bianco un grande gelato, un cornetto o qualcosa che vi fa pensare: ecco, non è vero che rifiuta il cibo. Noi invece viviamo sul filo del senso di colpa. Se mangiamo qualcosa al di fuori del Programma il senso di colpa ci fa soffrire e poi digiunare per giorni interi.
Il Programma ci toglie l’idea di noi stesse. Così, ci raccontiamo bugie. I nostri rapporti con gli altri sono rovinati, perché non possiamo andare a cena da amici che ci guardano chiedendo: “perché non mangi?”. E poi siamo così tanto ossessionate dal cibo da non avere più tempo per altro. Al massimo, ci compriamo vestiti.
Che potete fare per noi? Mettetevi in testa che in realtà il cibo è il problema numero Tre.
La prima cosa da fare, è riuscire a entrare in contatto davvero con noi. Con tutte e due le parti di noi, quella anoressica e quella “sana”. Stabilire un dialogo magari parlando di voi, della vostra storia, di come vi sentite.
La seconda, accettare la realtà e aiutare noi a decidere di farci aiutare. Da uno specialista. Perché voi da soli e noi da sole (o solo noi e voi) non ce la potremmo fare. C’è un nodo iniziale, dentro la famiglia, che ci fa scattare l’anoressia ma che dimentichiamo presto. Solo uno specialista - uno psichiatra, non abbiate paura delle parole - può tirarlo fuori e salvarci la vita.
La terza cosa è, appunto, il cibo. Noi controlliamo il corpo, perché ci manca qualcosa, un punto di forza, di equilibrio. Non mangiare è la conseguenza, non la causa. Così, il Programma rende inutile la domanda del genitore: “perché non mangi? E’ così facile”. Non è facile per niente. A me è capitato. Sono stata fortunata. Io e i miei genitori abbiamo fatto assieme i passi uno, due e tre. Così sono tornata al peso forma e ora la mia mente non è più prigioniera del Programma.