mercoledì 11 maggio 2005

Schiller

La Stampa 11 Maggio 2005
Fu ribelle e romantico, ma si convinse poi che solo la bellezza poteva salvarci:
con lui è nato il pensiero moderno
Ugo Perone

A quanti gli obiettavano l'eccessiva radicalità del dubbio su cui fondava la filosofia, Cartesio aveva risposto che chi voglia costruire un edificio più saldo e più grande, deve cominciare con lo sradicare le fondamenta incerte e deboli. In luogo di un'instabile chiesetta di campagna, gli riuscirà allora di costruire una magnifica cattedrale del sapere. Schiller, centocinquant'anni dopo, aveva perduto tale fiducia in un nuovo e magnifico edificio del sapere. Del resto, prima di lui tutta l'estetica settecentesca ne era già andata in cerca, con risultati modesti. Dopo la rivoluzione cartesiana cosa resta, infatti, di stabile, di naturale, di «oggettivo» e saldo? Dov'è, in campo estetico, la bella natura che fa vergognare l'artificio, dov'è, in una parola, l'ingenuità? Se l'era domandato, appunto, anche Schiller e, convinto di poterla identificare meglio dei suoi predecessori, aveva progettato un saggio dal titolo appunto L'ingenuo, che in estetica è come dire il vero, il genuino. Come sappiamo, quel saggio gli crebbe tra le mani e divenne nel 1795 il celebre scritto Sull'ingenuo e il sentimentale, l'opera teorica più importante del grande autore tedesco (1759-1805), di colui che come poeta, filosofo, storico, scrittore di teatro impresse un'impronta decisiva a un secolo.
Quel saggio segna l'inizio della modernità, che è erede del moderno e di Cartesio, ma che ne è al tempo stesso una nuova versione. Da quel saggio possiamo datare la consapevolezza del tempo in cui noi stessi ancora siamo. E inizia con un gesto rivoluzionario: l'ingenuo, che in tanti avevano cercato, non c'è, o meglio non c'è più, perché l'ingenuo, una volta abbattuto, una volta rescisso il legame con la tradizione, è scomparso per sempre. E a nulla valgono le generose pretese di ricostruirlo, come appunto voleva Cartesio con il suo progetto di un edificio più grande e più bello. Il moderno (dopo Cartesio), negando la possibilità di ricorrere alla natura, ha perduto l'ingenuo; la modernità (dopo Schiller) lo sa. E sa dunque che l'ingenuo, salvo l'eccezione individuale del genio, non comparirà più, se non nella forma di una nostalgia per esso. Come i malati diventano improvvisamente consapevoli di quella salute che trascuravano quando stavano bene, così noi, perduto l'ingenuo, lo riscopriamo come ciò a cui aneliamo, senza poterlo raggiungere. Siamo perciò tutti, come egli dice, sentimentali. Amiamo la natura, perché non ne siamo più parte; vorremmo l'immediatezza, perché essa ci è preclusa. La modernità, insomma, è definita da una ferita: il nostro essere, quello che davvero vorremmo essere, è là dove noi non siamo più.
Non v'è dubbio. Schiller avverte il proprio tempo come un nuovo inizio. Dall'appartato rifugio della Germania, obbligata, come egli stesso osservò, a darsi un primato culturale, proprio per l'arretratezza e la divisione politica, egli colse e condivise le novità della rivoluzione francese (fino a essere nominato cittadino onorario della Repubblica), ma fu consapevole anche dei suoi eccessi e poi degli esiti ambigui di un Napoleone. Del resto si sarebbe incaricata la storia a confermarlo.
L'eccezionalità di Schiller fa tutt'uno con l'eccezionalità dell'ambiente che lo circonda. Attorno a lui tutti i grandi intellettuali del tempo: Kant e Herder, con cui dialoga; Goethe, con cui, dopo una diffidenza iniziale, dà vita a un sodalizio produttivo eccezionale, nutrito di una frequentazione quotidiana; i giovani romantici del circolo schlegeliano; l'intimidito e inquieto Hölderlin, che non riesce a sostenere il colloquio a tu per tu con lui; Novalis, Fichte, Schelling e l'ancor giovane Hegel, che dovrebbe però, osserva Schiller, emendarsi da una certa «piattezza» e guadagnare in «duttilità».
Questa straordinaria stagione è quella cui ancor implicitamente facciamo riferimento quando parliamo della Germania come scrigno della cultura moderna. Essa è accomunata dal tentativo di dar forma di cultura, per quanto in modi sempre diversi, a quel mondo nuovo, che altrove, in Francia, aveva preso avvio. Tutti (o quasi, Kant e Herder meriterebbero un discorso a parte) i nomi che abbiamo richiamato furono romantici, almeno in un tempo della propria vita. Nessuno dei più grandi morì romantico. In ogni caso non nel senso ristretto con cui abbiamo voluto caratterizzare il romanticismo, come un tempo generoso e disordinato di reazione al razionalismo illuministico. Ma, appunto, chi inizia, chi inizia di nuovo, dopo la grande novità della rivoluzione, vuole dar forma ai nuovi sentimenti di libertà, alla nostalgia di infinito, al bisogno di assoluto. Di qui però anche l'esigenza di una nuova classicità. Quella che in filosofia prenderà il nome di idealismo: il tentativo ambizioso di modellare il reale secondo le idee. Se la rivoluzione aveva vinto, perché non pensare a una rivoluzione assoluta, quella in cui il vero e il bello danno forma al mondo?
Schiller, che aveva cominciato come il più romantico dei romantici, con la ribellione e l'elogio dell'infrazione delle regole sociali nei Masnadieri, dà così poco a poco forma a un disegno affatto classico, di cui le sue opere teatrali divengono lo specchio e il banco di prova. Il teatro è un'istituzione educativa, si crea il suo pubblico, forma la società. Il Don Carlos, tre anni prima della rivoluzione, mette in scena uno smisurato amore per l'umanità, ma lascia intendere che per realizzarlo si può dover sacrificare anche l'amicizia più sacra. Maria Stuarda descrive la scissione tra il potere (Elisabetta) e l'individualità (Maria, che diviene libera interiormente solo dopo che ha perduto il potere). Il Wallenstein, in una grandiosa trilogia, descrive una storia, quella orribile della guerra dei Trent'Anni, che ruota intorno a un protagonista, tanto più grande e misterioso, quanto più assente, estraneo, esitante. Non senza ragione, a commento, Hegel dirà che lì la storia è rappresentata come un luogo terribile e apocalittico. Giovanna d'Arco esibisce la magia del politico: una fanciulla che, fin che crede in sé, guida il popolo e che, quando diventa consapevole dei propri limiti, viene condannata come strega. Nel Guglielmo Tell, l'eroe, inpolitico, è l'unico all'altezza di una vera rivoluzione politica. Nessun dramma, insomma, pur avendo un grande centro ideale, trascura la scissione, che è la condizione della modernità. E ognuno tenta il miracolo di mettere in scena un regno della bellezza, che resta esemplare, nonostante gli orrori della storia: «seria è la vita, serena l'arte», come è detto nel Wallenstein. Il romanticismo, che si fa progetto ideale, come confermano le opere teoriche schilleriane, è consapevole delle contraddizioni dell'esistenza. Tenta allora un rilancio più impegnativo: l'ideale, l'ideale di una bellezza come salvezza del mondo.
Schiller sa però che «anche il bello deve morire». Egli lo sa e lotta, come per anni aveva lottato a domare il suo corpo contro la malattia; lotta per ritardare questa morte (e la sua morte) e per dare, nell'apparenza dell'arte, un nuovo luogo di protezione alla caducità del bello.
«Anche l'essere un canto funebre sulla bocca degli amati, è bello
ché senza pianti discende nell'Orco ciò che è ordinario»
Se il canto e la bellezza non riescono a salvare dalla morte, almeno possono renderla degna, non ordinaria.
Noi oggi siamo (apparentemente) molto lontani da questa sensibilità, nati come siamo in una stabilità protetta, quella del progresso, dello sviluppo, della libertà acquisita come per sempre. Anche noi però, se guardiamo con onestà al nostro tempo, sappiamo che questa stabilità è una costruzione che potrebbe venir meno d'un colpo: che appunto tutto, anche il bello, deve morire. Siamo allora, in qualche modo, oltre la modernità, dopo la modernità, allo stremo di essa. E non sappiamo verso quale oltre sporgerci. E allora, specularmente, potremmo volgerci indietro (come si ritorna sempre agli inizi, in tempi di vera novità) a quei vent'anni decisivi della storia tedesca, dove tanti spiriti grandi tentarono un modello di stabilità che non fosse indegno delle speranze romantiche. Potremmo fare qualcosa di analogo, e domandarci di nuovo cosa salvare, come salvare, perché salvare.

anche il "nuovo Psi" voterà quattro Sì

Agi 11.5.05
FECONDAZIONE: NUOVO PSI, ALLE URNE PER VOTARE SI

In merito alla notizia diffusa ieri nel corso di un incontro svoltosi a Milano, a proposito di una "possibile adesione" di consiglieri regionali del Nuovo Psi al comitato del 'non voto' per mantenere in vigore la legge 40 sulla procreazione assistita, la segreteria nazionale del Partito Socialista Nuovo PSI "smentisce categoricamente ogni possibile adesione, ad ogni livello, a tale comitato", in quanto - si legge in una nota - "la posizione dei socialisti riformisti autonomisti e' per il voto favorevole ai quesiti referendari del 12 e 13 giugno 2005". (AGI)

già ospite di Clochard
Angelo Vescovi, biologo cellulare e buddista osservante

Il Tempo 11.5.05
FRUSTRAZIONE
Parla Angelo Vescovi, professore di biologia cellulare
di SARINA BIRAGHI

A un mese dal referendum sulla modifica alla nuova legge sulla fecondazione, Angelo Vescovi, professore di biologia cellulare alla Bicocca e direttore del centro staminali del San Raffaele di Milano, ma anche professore in Australia ed altro ancora, si sente proprio così, frustrato, preoccupato nonchè offeso.
Ma proprio lei, professore, che potrebbe far capire alla gente di che cosa si parla e che cosa andiamo a votare?
«Appunto per questo. Credo che per far capire bene o in modo sufficiente perché andiamo a votare e di che stiamo parlando, ci vorrebbe l’attenzione incondizionata per almeno mezz’ora delle persone, non esperti, ma persone di media intelligenza. Ecco, questo tempo non è ottenibile con i giornali, la tv o la radio»
E allora?
«Allora passano e raggiungono la gente messaggi sbagliati e distorti che ognuno, secondo il proprio interesse, fa credere, compreso chi, con estrema intelligenza e capziosità, avendo capito le difficoltà della gente, invita a non andare a votare»
E chi dice che si vota per la salute e la libertà di ricerca?
«Non è vero, è un modo strumentale e falso con cui si prende in giro la gente e che mi fa imbufalire».
Come uomo o come ricercatore?
«In entrambi i casi. Ho 43 anni e da 25 anni faccio il ricercatore e cioè faccio qualcosa che non ha che niente a che fare con libertà di ricerca. Nessuno si è mai strappato le vesti per il metodismo, la burocrazia, l’assenza di meritocrazia, tutto quello che ha devastato la ricerca fino a violentarla nel più intimo... Ora tutti fautori di libertà ricerca, mi sento preso in giro».
l divieto di sperimentazione?
«Le staminali non stanno nell’embrione, stanno dentro di noi. Le assicuro che con i soldi spesi per il referendum, la campagna, i rimborsi a chi ha organizzato tutto, saremmo già passati alla sperimentazione clinica per le malattie neurovegetative, ma a questo nessuno ci pensa»
Quindi potevamo far a meno del referendum?
«La legge 40 non è perfetta ma ha il pregio di aver dato regole un settore che non ne aveva. Oggi si danno norme anche sul forno a legna della pizza, mentre la vita umana è deregolamentata. Tutte le leggi vanno corrette con un dibattito serio, non con la pressione psicologica ed emotiva che il referendum impone all’elettore. La vita umana va difesa, e non per morale o religione»
Il concetto di ootide, introdotto per distinguere dall’embrione, è utile?
«È un concetto che confonde le acque e non ha alcuna utilità scientifica. È vero che si tratta di un’entità in cui ovulo e psermatozoo non sono ancora fusi, ma la fusione avverrà. Io la chiamo zona grigia perché in effetti quell’entità contiene l’informazione genetica in fase iniziale e che poi darà vita a un processo irrevrsibile. Perché spaccare il capello in 4 su entità biologica? Se si vuole proteggere l’embrione si pensi, per esempio, alla fecondazione in vitro con cui sono arricchiti in tanti, dimenticando le altre tecniche. Le cliniche private sono cresciute come funghi arricchendosi con gli embrioni poco vitali, costringendo la donna a risottomersi all’inseminazione. Se fossi donna mi sentirei insultata, perché anche queste cose sono state fatte sulla pelle delle donne».
Insomma professor Vescovi lei non andrà a votare?
«No certo, ma seguirò e se andranno avanti i sì vado e voto no. Però sono preoccupato, dal punto di vista del principio, dell’etica, della morale ho il terrore, perché se il referendum passa così come proposto si riavrà una situazione dove tutto è possibile, si avrà una strage silenziosa di vite umane e siccome non si troveranno soluzioni, finiremo per cannibalizzare i nostri figli. Questa cosa mi da fastidio come uomo, ateo convinto»
Potrebbero accusarla di fondamentalismo...
«Chi quelli che dicono di essere progressisti? Gli oscurantisti sono loro e dovrebbero vergognarsi».

psichiatri americani contro la depressione

Le Scienze 10.05.2005
Medicine o psicoterapia?
Una delle due cure può essere efficace quando l'altra non lo è

Il passaggio da una cura con antidepressivi alla psicoterapia, o viceversa, può migliorare i sintomi dei pazienti cronicamente depressi che non rispondono al trattamento iniziale. Lo sostiene un articolo pubblicato sul numero di maggio della rivista "Archives of General Psychiatry".
"Una parte sostanziale dei pazienti curati per la depressione non risponde al trattamento iniziale, che si tratti di farmaci antidepressivi o di psicoterapia", spiegano Alan F. Schatzberg della Scuola di Medicina dell’Università di Stanford e colleghi. Per i pazienti che resistono ai farmaci sono disponibili diverse opzioni, fra le quali il cambio di medicine, l'aumento o la combinazione dei trattamenti, e il passaggio alla psicoterapia.
Schatzberg e colleghi hanno studiato pazienti cronicamente depressi che sono stati trattati con nefazodone (un farmaco antidepressivo) o con un sistema di psicoterapia di analisi cognitivo-comportamentale (CBASP) per 12 settimane. I partecipanti nel gruppo del nefazodone ricevevano una dose iniziale di 200 mg al giorno, aumentata poi fino a un massimo di 600 mg al giorno. Quelli nel gruppo della CBASP partecipavano a due sedute settimanali nelle prime quattro settimane, e poi a una sola seduta settimanale fino al termine dello studio. A coloro che non rispondevano alle cure è stato cambiato il trattamento.
Sia il passaggio dal nefazodone alla CBASP, sia quello dalla CBASP al nefazodone ha prodotto un miglioramento dei sintomi depressivi. I tassi di risposta sono stati del 57 per cento per coloro che sono passati dai farmaci alla psicoterapia, e del 42 per cento per coloro che hanno fatto il passaggio inverso. I tassi di remissione non sono risultati significativamente differenti fra i due gruppi.

© 1999 - 2005 Le Scienze S.p.A.