Fu ribelle e romantico, ma si convinse poi che solo la bellezza poteva salvarci:
con lui è nato il pensiero moderno
Ugo Perone
A quanti gli obiettavano l'eccessiva radicalità del dubbio su cui fondava la filosofia, Cartesio aveva risposto che chi voglia costruire un edificio più saldo e più grande, deve cominciare con lo sradicare le fondamenta incerte e deboli. In luogo di un'instabile chiesetta di campagna, gli riuscirà allora di costruire una magnifica cattedrale del sapere. Schiller, centocinquant'anni dopo, aveva perduto tale fiducia in un nuovo e magnifico edificio del sapere. Del resto, prima di lui tutta l'estetica settecentesca ne era già andata in cerca, con risultati modesti. Dopo la rivoluzione cartesiana cosa resta, infatti, di stabile, di naturale, di «oggettivo» e saldo? Dov'è, in campo estetico, la bella natura che fa vergognare l'artificio, dov'è, in una parola, l'ingenuità? Se l'era domandato, appunto, anche Schiller e, convinto di poterla identificare meglio dei suoi predecessori, aveva progettato un saggio dal titolo appunto L'ingenuo, che in estetica è come dire il vero, il genuino. Come sappiamo, quel saggio gli crebbe tra le mani e divenne nel 1795 il celebre scritto Sull'ingenuo e il sentimentale, l'opera teorica più importante del grande autore tedesco (1759-1805), di colui che come poeta, filosofo, storico, scrittore di teatro impresse un'impronta decisiva a un secolo.
Quel saggio segna l'inizio della modernità, che è erede del moderno e di Cartesio, ma che ne è al tempo stesso una nuova versione. Da quel saggio possiamo datare la consapevolezza del tempo in cui noi stessi ancora siamo. E inizia con un gesto rivoluzionario: l'ingenuo, che in tanti avevano cercato, non c'è, o meglio non c'è più, perché l'ingenuo, una volta abbattuto, una volta rescisso il legame con la tradizione, è scomparso per sempre. E a nulla valgono le generose pretese di ricostruirlo, come appunto voleva Cartesio con il suo progetto di un edificio più grande e più bello. Il moderno (dopo Cartesio), negando la possibilità di ricorrere alla natura, ha perduto l'ingenuo; la modernità (dopo Schiller) lo sa. E sa dunque che l'ingenuo, salvo l'eccezione individuale del genio, non comparirà più, se non nella forma di una nostalgia per esso. Come i malati diventano improvvisamente consapevoli di quella salute che trascuravano quando stavano bene, così noi, perduto l'ingenuo, lo riscopriamo come ciò a cui aneliamo, senza poterlo raggiungere. Siamo perciò tutti, come egli dice, sentimentali. Amiamo la natura, perché non ne siamo più parte; vorremmo l'immediatezza, perché essa ci è preclusa. La modernità, insomma, è definita da una ferita: il nostro essere, quello che davvero vorremmo essere, è là dove noi non siamo più.
Non v'è dubbio. Schiller avverte il proprio tempo come un nuovo inizio. Dall'appartato rifugio della Germania, obbligata, come egli stesso osservò, a darsi un primato culturale, proprio per l'arretratezza e la divisione politica, egli colse e condivise le novità della rivoluzione francese (fino a essere nominato cittadino onorario della Repubblica), ma fu consapevole anche dei suoi eccessi e poi degli esiti ambigui di un Napoleone. Del resto si sarebbe incaricata la storia a confermarlo.
L'eccezionalità di Schiller fa tutt'uno con l'eccezionalità dell'ambiente che lo circonda. Attorno a lui tutti i grandi intellettuali del tempo: Kant e Herder, con cui dialoga; Goethe, con cui, dopo una diffidenza iniziale, dà vita a un sodalizio produttivo eccezionale, nutrito di una frequentazione quotidiana; i giovani romantici del circolo schlegeliano; l'intimidito e inquieto Hölderlin, che non riesce a sostenere il colloquio a tu per tu con lui; Novalis, Fichte, Schelling e l'ancor giovane Hegel, che dovrebbe però, osserva Schiller, emendarsi da una certa «piattezza» e guadagnare in «duttilità».
Questa straordinaria stagione è quella cui ancor implicitamente facciamo riferimento quando parliamo della Germania come scrigno della cultura moderna. Essa è accomunata dal tentativo di dar forma di cultura, per quanto in modi sempre diversi, a quel mondo nuovo, che altrove, in Francia, aveva preso avvio. Tutti (o quasi, Kant e Herder meriterebbero un discorso a parte) i nomi che abbiamo richiamato furono romantici, almeno in un tempo della propria vita. Nessuno dei più grandi morì romantico. In ogni caso non nel senso ristretto con cui abbiamo voluto caratterizzare il romanticismo, come un tempo generoso e disordinato di reazione al razionalismo illuministico. Ma, appunto, chi inizia, chi inizia di nuovo, dopo la grande novità della rivoluzione, vuole dar forma ai nuovi sentimenti di libertà, alla nostalgia di infinito, al bisogno di assoluto. Di qui però anche l'esigenza di una nuova classicità. Quella che in filosofia prenderà il nome di idealismo: il tentativo ambizioso di modellare il reale secondo le idee. Se la rivoluzione aveva vinto, perché non pensare a una rivoluzione assoluta, quella in cui il vero e il bello danno forma al mondo?
Schiller, che aveva cominciato come il più romantico dei romantici, con la ribellione e l'elogio dell'infrazione delle regole sociali nei Masnadieri, dà così poco a poco forma a un disegno affatto classico, di cui le sue opere teatrali divengono lo specchio e il banco di prova. Il teatro è un'istituzione educativa, si crea il suo pubblico, forma la società. Il Don Carlos, tre anni prima della rivoluzione, mette in scena uno smisurato amore per l'umanità, ma lascia intendere che per realizzarlo si può dover sacrificare anche l'amicizia più sacra. Maria Stuarda descrive la scissione tra il potere (Elisabetta) e l'individualità (Maria, che diviene libera interiormente solo dopo che ha perduto il potere). Il Wallenstein, in una grandiosa trilogia, descrive una storia, quella orribile della guerra dei Trent'Anni, che ruota intorno a un protagonista, tanto più grande e misterioso, quanto più assente, estraneo, esitante. Non senza ragione, a commento, Hegel dirà che lì la storia è rappresentata come un luogo terribile e apocalittico. Giovanna d'Arco esibisce la magia del politico: una fanciulla che, fin che crede in sé, guida il popolo e che, quando diventa consapevole dei propri limiti, viene condannata come strega. Nel Guglielmo Tell, l'eroe, inpolitico, è l'unico all'altezza di una vera rivoluzione politica. Nessun dramma, insomma, pur avendo un grande centro ideale, trascura la scissione, che è la condizione della modernità. E ognuno tenta il miracolo di mettere in scena un regno della bellezza, che resta esemplare, nonostante gli orrori della storia: «seria è la vita, serena l'arte», come è detto nel Wallenstein. Il romanticismo, che si fa progetto ideale, come confermano le opere teoriche schilleriane, è consapevole delle contraddizioni dell'esistenza. Tenta allora un rilancio più impegnativo: l'ideale, l'ideale di una bellezza come salvezza del mondo.
Schiller sa però che «anche il bello deve morire». Egli lo sa e lotta, come per anni aveva lottato a domare il suo corpo contro la malattia; lotta per ritardare questa morte (e la sua morte) e per dare, nell'apparenza dell'arte, un nuovo luogo di protezione alla caducità del bello.
«Anche l'essere un canto funebre sulla bocca degli amati, è belloSe il canto e la bellezza non riescono a salvare dalla morte, almeno possono renderla degna, non ordinaria.
ché senza pianti discende nell'Orco ciò che è ordinario»
Noi oggi siamo (apparentemente) molto lontani da questa sensibilità, nati come siamo in una stabilità protetta, quella del progresso, dello sviluppo, della libertà acquisita come per sempre. Anche noi però, se guardiamo con onestà al nostro tempo, sappiamo che questa stabilità è una costruzione che potrebbe venir meno d'un colpo: che appunto tutto, anche il bello, deve morire. Siamo allora, in qualche modo, oltre la modernità, dopo la modernità, allo stremo di essa. E non sappiamo verso quale oltre sporgerci. E allora, specularmente, potremmo volgerci indietro (come si ritorna sempre agli inizi, in tempi di vera novità) a quei vent'anni decisivi della storia tedesca, dove tanti spiriti grandi tentarono un modello di stabilità che non fosse indegno delle speranze romantiche. Potremmo fare qualcosa di analogo, e domandarci di nuovo cosa salvare, come salvare, perché salvare.