domenica 8 febbraio 2004


provate questo link!

da una segnalazione di Tonino Scrimenti

cliccate qui

beh, non proprio aggiornatissimi, d'accordo, ma insomma...

un libro di Ludovica Costantino
psichiatra e psicoterapeuta

una segnalazione di Annalina Ferrante

collegandosi al sito della casa editrice Liguori, al segunte indirizzo:
www.liguori.it
? possibile acquistare on line il libro di Ludovica Costantino


Psicoterapia

Ludovica Costantino
La ricerca di un'immagine
L'anoressia mentale


ISBN: 88-207-3545-8
ed.: 2004 pp.292 ? 19,50


?In questo libro sull?anoressia l?autrice propone una ricerca storica sulle radici di quel complesso fenomeno che ha visto l?immagine femminile al centro d?una patologia in cui essa sarebbe caduta a partire da quando l?umanit? ha perduto il contatto col mondo irrazionale, col mondo dei sogni. Risulta qui approfondita la ricerca sul Cristianesimo il quale ? perduta l?iniziale proposizione rivoluzionaria e irrazionale di amore per il prossimo ? non appena si consolida come religione di Stato tender? per prima cosa a controllare e distruggere proprio quel mondo irrazionale che si esprimeva nei sogni, condannando cos? l?immagine femminile a una spiritualit? astratta e perversa. L?amore per Cristo produrr? l?immagine della martire che distrugge il proprio corpo, immagine che si evolver? nella santa anoressica: ?...essere serva di Dio [...] significa non essere soggetta all?autorit? di nessun uomo... ed ? in questa distruzione del corpo, in questa negazione della dimensione del desiderio per ottenere un?immagine elevata, che noi riconosciamo quel nucleo religioso che si trasmette come un virus pronto a virulentarsi attraverso il tempo?. Il costante riferimento a una teoria rigorosa sulla malattia mentale introduce alla terapia e alla guarigione mediante l?esposizione di appassionanti casi clinici risolti.?

dalla Libreria Amore e Psiche

vi informiamo che
è già disponibile qui da noi

la cassetta 14/15 delle lezioni di Chieti


Un saluto


Libreria Amore e Psiche
via s. caterina da siena, 61 roma
info:06/6783908 amorepsiche2003@libero.it

i nostri orari: lunedi 15-20
dal martedi alla domenica 10-20

dalla Libreria Amore e Psiche

Libreria Amore e Psiche

via s. caterina da siena, 61 roma
info:06/6783908 amorepsiche2003@libero.it

i nostri orari: lunedi 15-20
dal martedi alla domenica 10-20


Vi comunichiamo che le lezioni di Massimo Fagioli all’Università di Chieti
per l’anno 2004 si svolgeranno nei seguenti giorni:

12 e 13 Marzo; 26 e 27 Marzo; 16 e 17 Aprile; 7 e 8 Maggio


Un saluto a tutti


il dvd di "Buongiorno, notte"
in vendita on line dall'11 febbraio

una segnalazione di Peppe Cancellieri

il dvd di
"Buongiorno, notte"

che sarà in vendita dall'11 febbraio
può essere prenotato per l'acquisto on line fin da subito collegandosi al seguente indirizzo:

http://www.internetbookshop.it/dvd/ser/serdsp.asp?shop=2059&e=8026120165599

(acquistandolo attraverso questo canale lo si pagherà 22,99 € anziché al prezzo di listino di 25 €)


il dvd sarà molto presto disponibile anche presso la Libreria Amore e Psiche e ne verrà data subito notizia

sulla mostra di arte giapponese di Milano

L'ARTE GIAPPONESE A PALAZZO REALE
quotidiano Europa, 7 febbraio 2004
di Simona Maggiorelli


info:www.ukiyoe.it


«Piena attenzione ai piaceri della luna, dei fiori di ciliegio e delle foglie di acero, cantare canzoni, bere vino e provare piacer soltanto nel fluttuare, fluttuare senza curarsi minimamente della povertà che grida in faccia», così Asai Ryoi nel suo "Racconti del mondo fluttuante" raccontava il significato della parola di derivazione buddista “ukiyo”. Parola chiave della imponente mostra di arte giapponese che si apre oggi negli spazi di Palazzo Reale a Milano. Dopo la rassegna dedicata a Hokusai, una nuova iniziativa del critico d’arte e studioso di culture orientali Gian Carlo Calza. Più di cinquecento opere - dipinti, stampe, libri illustrati, scenografie, paraventi dipinti - suddivise in sei sezioni, che raccontano per immagini la trasformazione, tra il XVII e la metà del XIX secolo, della società e della cultura giapponese nella città di Edo, l’antica Tokyo. Opere che parlano della crisi dell’aristocrazia feudale e dei nuovi stimoli della nascente borghesia, mentre luoghi topici dell’arte diventano le feste, il teatro e le sue "città della notte", spazi segreti di incontri clandestini e di amori mercenari. Sono i quartieri di piacere come Yoshiwara, dove si incontrano gli intellettuali e dove le cortigiane, in qualche modo, creavano nuovi gesti e comportamenti. La mostra di Milano racconta questo mondo "fluttante" del piacere, ma anche della riscoperta del corpo e della bellezza femminile, trascurata per secoli. Attraverso le opere dei più importanti artisti giapponesi: dalla donna carnale di Moronobu alla fine del Seicento, alle donne seducenti e flessuose di Masanobu, alle dee terrene ritratte da Harunobu, fino alle immagini femminili di Utamaro, autore di opere raffinatissime dal punto di vista grafico. Importanti anche per la ricaduta che ebbero sull'arte occidentale. La grafica giapponese, val la pena di ricordarlo, ebbe grande influenza anche su Van Gogh che nel 1887 organizzò due mostre di arte giapponese, del tutto fallimentari sul piano commerciale. Ai busti di Utamaro e alle sue figure slanciate con cui la donna riacquista una bellezza reale, non più spiritualizzata, la rassegna milanese dedica una sezione a parte. Un’altra ampia sezione è incentrata sul teatro, proprio per l’importanza che ebbe nell’opera di diffusione della nuova cultura giapponese. Soprattutto i dipinti e stampe prodotti per il nuovo e popolare teatro kabuki, un genere più vicino ai nuovi ceti sociali, perché rifletteva i sentimenti e le passioni del nuovo pubblico, recuperando a un tempo, in chiave di melodrammi e scenografie miti e storie del Giappone antico. Un genere codificato e forte del teatro orientale che colpì parecchi artisti d'avanguardia del Novecento. In primis Ejzenstejn che nel saggio "L'inatteso" diceva di aver scoperto nelle tecniche spettacolari del Kabuki una conferma delle sue idee sul montaggio cinematografico. Ciò che lo colpiva era il metodo compositivo, i nessi che lui chiamava "copulativi" e che lo portarono poi a studiare gli ideogrammi cinesi: due o più immagini "capaci di creare nel loro montaggio un terzo significato diverso. Un interesse per il kabuki mutuato da Mejerchol'd, ma che Ejzenstein sviluppò in proprio come testimonia la sua sterminata biblioteca di testi giapponesi e cinesi. E arrivando a scrivere: «Il convenzionalismo del Kabuki non è affatto il manierismo stilizzato e premeditato che abbiamo nel nostro teatro... ogni singolo elemento, il suono, il movimento, lo spazio , la voce diviene uno stimolo, un insieme di attrazioni che si aggregano in una grandiosa provocazione totale per il cervello umano».

altri due articoli dalla Francia sul film di Marco Bellocchio

http://www.politis.fr/article836.html
Politis.fr 5.2.04
Culture /Cinéma
Aldo Moro, de l’histoire à l’écran
Jean-Pierre Jeancolas


Avec « Buongiorno, notte », Marco Bellocchio confirme avec une maîtrise insolente que tout film sur l’histoire est une affaire de reconstruction où l’imaginaire peut être un instrument d’élucidation.

Aldo Moro, un des caciques de la Démocratie chrétienne italienne, qui venait de se rallier au projet d’ouvrir à gauche la majorité parlementaire (de faire entrer le puissant Parti communiste italien dans cette majorité) a été enlevé le 16 mars 1978 par des militants des Brigades rouges qui l’ont séquestré dans un appartement romain et exécuté le 9 mai. L’affaire Moro a été vécue en Italie comme un traumatisme, dont les ondes concentriques vibrent encore. Marco Bellocchio avait alors 39 ans, huit films à son actif, et l’image d’un cinéaste en révolte contre la société catholique, patriarcale et conservatrice qui dominait l’Italie depuis la fin des années 1940.

Vingt-cinq ans après, Bellocchio revient sur l’affaire Moro, dans un film de commande de la RAI, la télévision publique italienne, qui depuis trente ans produit le meilleur d’un cinéma italien par ailleurs sinistré. Il affronte, à sa manière, la problématique (les ambiguïtés) du passage de l’histoire à l’écran. Comment dire l’histoire avec des mots, des images, des décors, du son, des acteurs, surtout quand cette histoire, encore chaude, controversée, a sa vie propre (d’autres images et plus encore un imaginaire) dans la mémoire profonde de ses spectateurs ? Le « comment on écrit l’histoire » est une des plus belles questions que s’est posé le cinéma depuis qu’il est adulte. Bellocchio y apporte sa réponse, elle est passionnante.

Dans la première scène, un jeune couple loue un appartement cossu dans un quartier résidentiel de Rome. Cet appartement sera le lieu primal du film, celui où quatre brigadistes (trois hommes, une femme) séquestreront Moro. L’extérieur réel y pénètre par le son et les images de la télévision. Par les sorties de la jeune femme, qui a gardé son travail dans les archives de ce qui est peut-être un ministère. Un autre « extérieur » investit le film, des scènes mentales, des moments du passé, des rêves, et surtout une chaîne d’images (dans images, il y a le germe d’imagination) non pas de ce qui fut, mais de ce qui aurait pu être. Une affaire Moro virtuelle, en somme, sur laquelle se clôt le film. Bellocchio trouble et piège ses spectateurs, en brouillant le statut des images, en passant sans prévenir (ou si peu : parfois une baisse d’intensité de la lumière suggère le passage du premier niveau, celui du réel, au second, celui de la mémoire, ou d’un imaginaire) d’un registre à un autre.

Lire la suite dans Politis n° 787 ainsi que l’entretien avec Marco Bellocchio
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Télérama n° 2821 - 7 février 2004
Marco Bellocchio retrace la détention d'Aldo Moro dans "Buongiorno, notte"
55 jours qui ébranlèrent l'Italie
1978 : les Brigades rouges enlèvent le chef de la Démocratie chrétienne. Traumatisme national. Le cinéaste explique pourquoi il a évité la reconstitution et privilégié la fiction.
par Cécile Mury


«Mon sang retombera sur eux », écrivait Aldo Moro depuis la « prison du peuple »... Dans "Buongiorno, notte", Marco Bellocchio s'attaque à l'épisode le plus douloureux des années de plomb en Italie. Le 16 mars 1978, à Rome, Aldo Moro, président de la puissante Démocratie chrétienne (centre droit), doit entériner un accord sans précédent : le «compromis historique» par lequel le Parti communiste va pour la première fois de son histoire voter la confiance à un gouvernement démocrate chrétien. Sur le chemin, un commando des Brigades rouges, hostile à toute négociation, attend cet homme providentiel, en passe de résoudre l'instabilité chronique de la République italienne... L'escorte policière est décimée. «Il presidente» lui-même se volatilise. Pendant cinquante-cinq jours, le pays est en état de choc, quadrillé par toutes les polices. En vain. Aldo Moro reste introuvable. Seul paraît une photo d'otage, devant la célèbre étoile à cinq branches. Et les communiqués, les lettres, qui parviennent aux journaux, aux amis politiques, à la famille, au pape. Le 9 mai, le corps d'Aldo Moro est retrouvé, à Rome, dans le coffre d'une voiture.

C'était il y a plus de vingt-cinq ans. Pour célébrer ce sombre anniversaire, la RAI propose à Marco Bellocchio d'en faire un film. Pas le premier sur le sujet, tant s'en faut (Il Caso Moro, par exemple, avec Gian Maria Volonte en Aldo Moro, en 1986). Au début, le réalisateur des "Poings dans les poches" ou du "Sourire de ma mère" hésite : «J'avais peur du genre "film historique", avec un faux Aldo Moro... Je craignais un effet de masques, d'imitation ridicule.» Comment contourner ce piège? Marco Bellocchio entame une réflexion «autour» de l'événement : «J'ai commencé par envisager de partir de l'assassinat d'Aldo Moro, pour en arriver au nouveau terrorisme, celui des tours jumelles. Ou de raconter la tragédie à travers les familles, les victimes, et ceux qui ont joué le rôle de médiateurs...»

Et puis, il lit Le Prisonnier, d'Anna Laura Braghetti (1). Cette dernière fut la geôlière d'Aldo Moro, la seule femme d'un groupe de quatre, avec Mario Moretti, Prospero Gallinari et Germano Maccari. Elle est aussi le seul témoin direct à avoir livré ses souvenirs de cette marche à la mort, étrange intimité entre le prisonnier et ses gardiens, enfermement collectif dans un appartement bourgeois de la via Montalcini, à Rome, au nez et à la barbe des autorités. Le cinéaste se recentre alors : «J'ai compris qu'il y avait là matière à une chronique, presque une vie de famille, raconte le réalisateur. Il y avait une unité de lieu, un monde clos qui m'intéressait.»

Isabelle Sommier, maître de conférences au Centre de recherches politiques de la Sorbonne (Paris I) (2), renchérit : « Le film ne traite pas du contexte politique, ne s'interroge pas sur les raisons de la lutte armée. Il met en scène la vie quotidienne, et par ce choix esthétique, donne à voir un huis clos terrible, plein d'une humanité qui se renforce peu à peu, jusqu'à la sentence de mort, qui paraît bouleverser même les assassins. »

Ces assassins, qui sont-ils? Les Brigades rouges naissent en 1970, dans un bouillonnement de mouvements d'extrême gauche, issu des luttes sociales de la fin des années 60. « On ne peut pas détacher les Brigades rouges d'une filiation, même partielle, avec 68, explique Isabelle Sommier. Au départ, ils n'étaient pas très différents des autres groupes qui prônaient la lutte armée. » C'est l'époque, par exemple, de la «jambisation» : on tire dans les jambes des journalistes, juges ou patrons, avec la « compagna pistola » (le «camarade pistolet»). «Progressivement, ils vont choisir la clandestinité et l'assassinat politique.»

En Italie, au début des années 70, ces fameuses «années de plomb», la situation est explosive : la croissance économique crée un véritable phénomène d'immigration interne, du Sud vers les grandes industries septentrionales, Turin ou Milan. «Cette frange de la classe ouvrière, d'origine paysanne, peu insérée dans le jeu syndical traditionnel, va être assez perméable aux idées de l'extrême gauche», analyse Isabelle Sommier (2). Climat instable auquel s'ajoute la célèbre «stratégie de la tension», vague d'attentats perpétrés par l'extrême droite afin de déstabiliser la relativement jeune démocratie italienne. Les militants gauchistes d'alors se vivent comme les héritiers de la résistance : dans le film, cet élément transparaît au gré des rêveries de Chiara, le «double» cinématographique d'Anna Laura Braghetti. Ils portent «l'arme du vieux partisan» et continuent, à leur sens, la lutte à laquelle a renoncé un PC entré dans le jeu démocratique. C'est dans cette poudrière qu'a lieu l'enlèvement d'Aldo Moro...

Cet homme modéré, humaniste et fin tacticien, Marco Bellocchio a d'abord hésité à le montrer : « Je voulais qu'on puisse sentir sa présence, l'entendre sans le voir. Et puis, grâce au talent de Roberto Herlitzka, j'ai changé d'avis. Il n'a pas fait un travail d'imitation "à l'américaine", mais donne une représentation en profondeur, une vérité intérieure. Et ceux qui ont connu Aldo Moro, y compris son fils, Giovanni, disent l'avoir retrouvé, au-delà des dissemblances... » Cette « vérité », pour Marco Bellocchio, passe par une forme d'infidélité assumée à la chronique historique, un glissement subtil, mais très sensible, vers la fiction. Ce qui fait dire à Giovanni Bianconi, journaliste politique au Corriere della sera et auteur d'un livre sur les anciens brigadistes (3) : « Ce n'est pas tant un film sur l'affaire Moro qu'un film sur un enlèvement et sur le rapport entre l'otage et ses gardiens. » Ceux-ci ont été également en partie modifiés, en particulier Anna Laura Braghetti, devenue Chiara, pétrie de doutes et de compassion pour son prisonnier : « J'avais besoin d'elle pour casser l'aspect inévitable de cette tragédie. Elle s'oppose, elle met un certain désordre, explique le cinéaste. Chiara n'est pas un personnage historiquement correct. La vraie Braghetti disait : "Nous étions tellement fanatiques, aveugles ; nous ne voyions pas l'être humain chez Aldo Moro, uniquement le symbole." Elle était en fait comme les autres. Mais la fiction m'a permis de la transformer. » En Italie, tout le monde n'a pas compris cette démarche : « Ceux qui faisaient partie de la classe politique au cours de ces années-là ont rejeté violemment le film. Ils n'ont pas voulu faire l'effort de voir une fiction, l'ont immédiatement confondue avec l'Histoire », regrette Marco Bellocchio.

Isabelle Sommier n'est pas étonnée : « Ces années-là sont un véritable traumatisme pour l'Italie, dont le souvenir, très douloureux, n'est pas dépassé. Le film est en totale rupture à la fois avec la représentation de Moro en martyr et avec l'image de "monstres" des brigadistes. » Même traité avec distance, le contexte historique reste brûlant. La sortie du film a relancé, dans la presse (malgré une majorité d'articles favorables), un débat douloureux : « Nuit gravement à la mémoire historique », s'exclame un éditorialiste. La question, fermeté ou négociation, divise encore aujourd'hui. « Les Brigades rouges étaient bien décidées à accepter la négociation, mais ils sont tombés dans le piège de l'aile dure de la Démocratie chrétienne, hostile au compromis historique, qui cherchait à se débarrasser d'Aldo Moro », estime Jean-Marie Vincent, qui dirige le comité de soutien à Paolo Persichetti, ancien militant d'extrême gauche incarcéré sans preuves en Italie après un long exil en France.

« Nous voulions être reconnus, a dit Adriana Faranda, ex-membre des Brigades rouges, à la presse italienne. Après le refus des autorités, l'assassinat de Moro fut l'expression d'un désespoir politique. » Coupable, l'intraitable Giulio Andreotti, alors président du Conseil? Le film montre une note de sa main, demandant au pape d'exiger une libération « sans condition ». L'homme d'Etat nie avoir influencé le pontife et défend encore la ligne de la fermeté. Pour Giovanni Bianconi, « Buongiorno, notte suggère que tout n'a pas été fait pour sauver l'otage. Voir Aldo Moro échapper à la fois à ses ravisseurs et à ses amis politiques semble confirmer cette hypothèse ».

Cette scène est l'apothéose des rêveries de Chiara. Elle libère les personnages et les spectateurs des polémiques et des douleurs du passé. Bellocchio en fait un « lien avec le présent »... Un présent qui est loin d'être apaisé en Italie, où de nouveaux groupuscules terroristes ont commencé à frapper. Mais leurs aînés brigadistes, encore en prison ou en liberté conditionnelle, disent avoir pris leurs distances avec ces années. L'Etat, lui, poursuit inlassablement la traque, s'acharne contre tous ceux qui de près ou de loin participèrent à des mouvements clandestins. Giovanni Bianconi s'interroge : « A vingt-cinq ans de distance, est-ce que suivre le cours de la justice a encore un sens, ou est-il désormais temps d'entamer une vraie réflexion? » Pour « libérer » enfin le fantôme d'Aldo Moro?

(1) Le Prisonnier, 55 jours avec Aldo Moro, d'Anna Laura Braghetti et Paola Tavella, éd. Denoël.
(2) La Violence politique et son deuil, L'après-68 en France et en Italie, d'Isabelle Sommier, éd. Presses universitaires de Rennes, 1998. Conférence du 31 mars 1999 "Les années de plomb en Italie", par I. Sommier, à l'Institut culturel italien de Paris.
(3) Mi dichiaro prigioniero politico ("Je me déclare prisonnier politique"), de Giovanni Bianconi, éd. Einaudi.
A noter que la chaîne "Histoire" diffuse un documentaire sur l'ancien brigadiste Toni Negri, lundi 9 à 21h.

uomini e topi: una "scoperta" sulla memoria

ANSA 7.2.04
CERVELLO: USA, TROVATO L'INTERRUTTORE DEI RICORDI DURATURI


(ANSA) - ROMA, 7 FEB - Forse e' ancora presto per pensare di aver trovato la soluzione per gli smemorati cronici o per chi, affetto da patologie nervose, ha problemi di memoria, ma intanto il premio Nobel 1987 per la Medicina, Susumu Tonegawa, direttore del Picower Center for Learning and Memory al Massachusetts Institute of Technology (MIT), ha identificato l'interruttore principale che accende la macchina per immagazzinare i ricordi di lunga durata.
Come riferito sulla rivista Cell, si tratta di una proteina del cervello che viene accesa dall'impulso nervoso legato all'informazione da memorizzare e che da' il via alle reazioni che costruiscono il ricordo stesso.
Quando uno stimolo o un'informazione arrivano al cervello, la zona colpita subisce un cambiamento strutturale dovuto alla formazione di nuovi contatti tra neuroni, le sinapsi. Questo restyling e' mediato dalla produzione di un gran numero di proteine di vario tipo ma fino ad ora non era noto il punto di partenza, cioe' chi desse i comandi per avviare la sintesi di tutte le sostanze necessarie alla costruzione del ricordo.
I ricercatori del MIT hanno capito che l'artefice di tutto cio' e' l'enzima chiamato mitogen-activated protein-chinasi (MAPK) che, a seguito del segnale elettrico associato all'attivita' dei neuroni che hanno ricevuto l'informazione, scatta accendendo il sistema di sintesi proteica.
Gli esperimenti hanno confermato le ipotesi dei ricercatori, infatti i topolini il cui gene per MAPK era stato messo KO dagli scienziati, non riuscivano a trattenere un ricordo oltre le poche ore dalla ricezione dell'informazione. Inoltre in questi animali la formazione di nuove sinapsi era praticamente nulla dopo stimoli esterni. Molti disturbi neurologici e psichiatrici sono legati a ridotta capacita' di sintesi proteica dei neuroni, osserva Tonegawa, alimentando la possibilita' che queste defaillance siano dovute proprio al malfunzionamento di MAPK.
''Se continuiamo a mappare le molecole e i meccanismi cellulari alla base delle funzioni cognitive - conclude il premio Nobel - capiremo meglio le basi dei disturbi mnemonici, rendendo possibile l'ideazione di farmaci che abbiano bersagli molecolari precisi''.

due ricercatori australiani (!?) in Toscana:
«l'udito vince sulla vista quando ciò che si vede è sfuocato»

Repubblica Edizione di Firenze 8.2.04
Come funziona il ventriloquismo? Due ricercatori australiani che lavorano a Firenze e Pisa hanno pubblicato le loro tesi
Quei trucchi del cervello muovono cinema e teatro
Una tecnica antica come l'uomo che non ha mai avuto spiegazioni chiare
La vista prevale sull'udito e viceversa a seconda della qualità della visione.
di LARA ALBANESE


Al cinema, davanti a un bel film, ci dimentichiamo spesso della distinzione fra schermo e realtà lasciandoci facilmente convincere che l'attore sullo schermo sia una persona reale. Quasi mai notiamo che la voce dell'attore proviene da diffusori del suono laterali e non esce effettivamente dalla sua bocca che si sta muovendo. Lo stesso succede seguendo uno spettacolo di marionette o burattini. Già in passato gli antichi greci, i romani ed altri ancora utilizzavano la tecnica di mettere le proprie parole in bocca ad un altro. Questo metodo era in gran voga fra gli oracoli del tempo, non ultimo l'oracolo di Delfi.
Nella realtà questo fenomeno, noto come ventriloquismo, non è un inganno da prestigiatori ma ha alle sue spalle una ben precisa spiegazione scientifica ed aiuta a comprendere come il nostro cervello interpreti i suggerimenti forniti dai diversi sensi.
Qualche giorno fa una un interessante studio sul ventriloquismo ha trovato spazio sulla prestigiosa rivista scientifica Current Biology. L'articolo è firmato da due scienziati australiani che lavorano in toscana: David Burr, ordinario di psicobiologia e psicologia fisiologica alla facoltà di Psicologia dell'Università di Firenze, e David Alais ricercatore dell'istituto di neuroscienze del CNR di Pisa.
I tentativi di spiegare il meccanismo del ventriloquismo hanno radici antiche. Nel XVIII secolo si supponeva che i ventriloqui riuscissero effettivamente a proiettare a distanza la propria voce con una tecnica non del tutto chiara. Era l'oracolo che parlava, ma la sua voce usciva da un altro punto distinto dalla sua bocca. Successivamente si suppose invece che vi fossero sensi predominanti rispetto ad altri: la vista, per esempio, vincerebbe sull'udito e per questo, sentendo un suono e vedendo una bocca muoversi, il nostro cervello sarebbe portato ad attribuire il suono alla bocca in movimento. Tutte spiegazioni plausibili, ma non del tutto soddisfacenti. Esistono infatti casi di ventriloquismo al contrario in cui cioè il cervello prende in maggiore considerazione l'udito. Un professore noioso con una classe di studenti chiacchieroni davanti a sé si fida di più del proprio udito per capire da che punto dell'aula stia uscendo una determinata parola. In qualche modo il cervello cerca di scegliere l'informazione più attendibile in una certa circostanza e per il noioso professore in difficoltà, l'udito è più sicuro della vista.
Secondo Alais e Burr quando il cervello umano deve combinare la percezione visiva e quella uditiva in modo ottimale cerca di farlo pesando il grado di affidabilità delle singole percezioni. Normalmente la visione si trova a localizzare uno stimolo meglio dell´udito e per questo quello che vediamo ha la predominanza su quello che sentiamo. In pratica normalmente se una bocca si muove siamo portati ad attribuirle le parole senza renderci conto che, a volte, non provengono esattamente dalla stessa posizione. Tutto questo in condizioni normali, in altre particolari condizioni l'udito potrebbe essere predominante rispetto alla vista. I due studiosi hanno comunque evidenziato che la precisione aumenta se l'informazione arriva da due diversi sensi e non da uno solo, se, cioè, vediamo e sentiamo qualcosa riusciamo meglio a capire la sua posizione.
Per studiare il ventriloquismo Alais e Burr non sono andati in giro per il mondo alla ricerca di oracoli, ma hanno sottoposto un buon numero di persone ad un esperimento. Hanno chiesto loro di sedersi davanti ad uno schermo su cui compariva uno stimolo visivo associato ad uno stimolo sonoro proveniente da posizioni variabili. L'esperimento veniva ripetuto sfuocando lo stimolo visivo. Coi loro esperimenti i due scienziati hanno determinato una netta predominanza della visione sull'udito quando lo stimolo visivo è bene a fuoco. L'udito vince invece sulla vista quando ciò che si vede è sfuocato. Restano ancora aperti alcuni problemi. Come fa, per esempio, il cervello a capire quale senso sia più attendibile in una data circostanza?
Forse da oggi vedendo il classico spettacolo televisivo in cui una marionetta sembra parlare davvero non resteremo stupiti per la bravura dell´intrattenitore, ma per lo straordinario funzionamento del nostro cervello.

i pirati barbareschi nel Mediterraneo e in Liguria

ANSA 7.2.04
Storia: convegno su pirati e corsari del Mediterraneo
Rapporti Islam-Occidente, se ne parla in provincia di Savona


(ANSA) - CERIALE (SAVONA) - Studiosi a confronto per discutere di "Corsari, schiavi e riscatti tra Liguria e Nord Africa nei secoli XVI e XVII". Fra i temi affrontati anche quello dei legami culturali che nei secoli sono intercorsi tra il mondo occidentale e l'Islam. «La nostra intenzione - ha spiegato il professor Franco Gallea, uno degli organizzatori del convegno - e' quella di aprire un dialogo multiculturale partendo proprio dal Mediterraneo». Il seminario si concludera' domani.

La Stampa 8.2.04
OGGI NELL’EX COLONIA VERONESE DI CERIALE
Si conclude il convegno
sui pirati barbareschi


CERIALE. Si conclude oggi, con una seconda giornata di approfondimento e dibattito presso la Colonia Veronese di lungomare Diaz, il convegno internazionale «Corsari, schiavi e riscatti tra Liguria e Nord Africa nei secoli XVI e XVII". Il «ponte tra Islam ed occidente» è stato promosso dal Comune di Ceriale e dal professor Franco Gallea «per favorire il dialogo interculturale nel bacino del Mediterraneo, unendone le due sponde». Al convegno partecipano professori universitari ed esperti arrivati da sei nazioni (oltre all'Italia, Svizzera, Spagna, Malta, Tunisia e Turchia).
Questa mattina, a partire dalle 9, verrà affrontato il tema «Attori e forme di scambio» con il contributo dei professori Luciano Calzamiglia, Marco Lenci (Università di Pisa) e J.A. Martinez Torres (Università di Madrid). Seguirà un dibattito, che si preannuncia vivace e partecipato, e le considerazioni conclusive sul convegno da parte del professor Gallea. Una sessione della tavola rotonda di oggi sarà presieduta dal professor Michele Brondino, presidente dell'ente culturale «Sciences Educations et Culture en Mediterranèe» (Secum). E' prevista inoltre la pubblicazione degli atti del seminario, anche grazie al sostegno della Fondazione De Mari della Cassa di risparmio di Savona.
Ha spiegato Franco Gallea: «Il fenomeno delle invasioni corsare è stato troppo spesso affrontato dal punto di vista religioso, tralasciando aspetti importanti, come quello politico ed economico. Gli sbarchi saraceni non possono più essere affrontati solo da un'angolatura locale. Bisogna tenere in considerazione anche le prospettive tunisine ed algerine».

Margherita Hack: astronomia e poesia

Corriere della Sera 8.2.04
Quando il poeta esce a guardare le stelle
di MARGHERITA HACK


Di tutte le scienze l’astronomia è probabilmente quella che più ha ispirato e ispira tanto i più grandi poeti, del passato e di oggi, che gli innumerevoli poeti dilettanti. Questo perché il cielo è sotto gli occhi di tutti, e un cielo stellato in una notte buia dà veramente la sensazione dell’infinito. Possiamo immaginare la curiosità e forse la venerazione o lo spavento che potevano provocare tutti quei puntini luminosi che comparivano ogni notte a formare le stesse configurazioni, e che anticipavano o ritardavano il loro apparire nel corso dell’anno. Per molti popoli antichi le stelle erano divinità, o in qualche modo era ad esse che venivano collegate. Oggi proviamo ancora meraviglia nel guardare le stelle, ma è una meraviglia completamente diversa, piena di orgoglio. Da poco più di un secolo abbiamo imparato ad analizzarne la luce e a leggere i messaggi che vi sono contenuti. Abbiamo capito che le stelle sono globi gassosi formatisi sotto l’azione della gravità e che brillano grazie alle reazioni nucleari del loro interno, reazioni che col tempo ne modificano la struttura provocandone l’«invecchiamento» e la «morte». Sappiamo misurarne la distanza da noi e i moti nello spazio. In conclusione, delle stelle sappiamo tutto o quasi, e la meraviglia è che da quel minuscolo puntino luminoso a centinaia o migliaia di anni luce da noi abbiamo potuto ricavare una così grande messe di informazioni.
E’ un cielo che gli scienziati conoscono sempre meglio e che invece la popolazione va dimenticando, perché le nostre città superilluminate cancellano la volta celeste. Quando il cittadino comune si ritrova in montagna, in una notte senza luna, riscopre lo straordinario scenario offerto dalla Via Lattea e dallo scintillio di migliaia di stelle. Le immagini della Terra ottenute dai satelliti ci mostrano un’Europa cosparsa di luci che ci privano dello spettacolo del cielo notturno, dichiarato «Bene comune dell’Umanità». Un bene da salvaguardare, lasciando almeno qualche luogo immerso nell’oscurità, dove le nuove generazioni possano riappropriarsi di un grande spettacolo che appartiene a tutti.
Ma quanti poeti ci hanno parlato del cielo, fin dai tempi più remoti? Impossibile ricordarli tutti. Penso alla tristezza di Saffo, che in una fredda notte invernale, quando le Pleiadi sono alte nei nostri cieli mediterranei, esclama «e io giaccio sola». Penso alla elaborata cosmogonia di Dante, che suggella ogni cantica della Divina Commedia con la parola «stelle»: «E quindi uscimmo a riveder le stelle»; «puro e disposto a salire a le stelle»; «l’amor che muove il sole e le altre stelle». Ma chi forse ne ha più sentito il fascino è Leopardi. Appena quindicenne scrive una Storia dell’Astronomia in cui afferma: «La più sublime, la più nobile fra le Fisiche scienze ella è senza dubbio l’Astronomia. L’uomo si innalza per mezzo di essa come al disopra di se medesimo...». Una fascinazione che si esprime poi nei suoi Canti, primo fra tutti Alla luna:
«O graziosa luna, io mi rammento
che, or volge l’anno, sovra questo colle
io venia pien d’angoscia a rimirarti:
e tu pendevi allor su quella selva
siccome or fai, che tutta la rischiari»
E ancora, nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia:
«Che fai tu, Luna, in ciel? Dimmi, che fai,
silenziosa Luna?».
E nelle Ricordanze:
«Vaghe stelle dell’Orsa, io non credea
tornare ancor per uso a contemplarvi
sul paterno giardino scintillanti...».

Un altro esempio di stretto connubio fra poesia e astronomia è quello offerto da uno scrittore come Bertolt Brecht, e da uno scienziato come Galileo. La vita di Galileo, il dramma di essere costretto ad abiurare idee e scoperte per paura della tortura e la disperazione per aver mancato alla propria missione, sono profondamente sentiti da Brecht, che scrisse una prima versione del suo Leben des Galilei nel 1943, quando il nazismo imperava in Germania. E lo scienziato descrive le interpretazioni delle sue osservazioni astronomiche in modo tale da renderle non soltanto discussioni scientifiche, ma veri e propri pezzi di letteratura.
Nella nostra epoca elettronica ed informatica tutti possono ammirare su Internet le straordinarie immagini di nebulose e galassie ottenute sia dallo spazio che da terra; immagini che ispirano tanti artisti moderni, così come in passato il cielo aveva ispirato i loro antenati. Sulle pareti della Cappella degli Scrovegni a Padova è ritratta una cometa, quasi certamente quella di Halley (il cui passaggio in prossimità della Terra era avvenuto proprio intorno al 1301, anno in cui Giotto realizzava il suo affresco). Un famoso quadro di Van Gogh mostra un cielo notturno con stelle simili a grosse macchie luminose: fantasia di artista, o forse miopia, che faceva vedere al pittore quei puntini come sfocati. Oppure era il vento che spesso soffia sulle coste olandesi ad aver prodotto una fortissima turbolenza, e l’oceano d’aria perennemente agitato che ci sovrasta sfocava le immagini delle stelle.
Gli argomenti scientifici che più ci appassionano e incuriosiscono riguardano soprattutto due generi di domande: siamo soli nell’universo? Esistono altre civiltà su altri pianeti, orbitanti attorno ad altre stelle? Potremo mai incontrarli e comunicare con loro? E ancora: l’universo è finto o infinito? Come è cominciato, se è cominciato? Come finirà, se mai finirà? Sono domande che ispirano famosi scrittori di fantascienza e un incredibile numero di dilettanti. Alla prima serie hanno tentato di rispondere filosofi, scrittori, scienziati. Talete di Mileto pensava che gli astri fossero fatti della stessa materia della Terra; e non sbagliava, perché oggi sappiamo che gli stessi elementi che troviamo sul nostro pianeta sono presenti nelle stelle, e che addirittura sono queste ultime a «costruire» tutti gli elementi presenti nell’universo - elementi che poi, sparpagliati nello spazio nelle fasi finali esplosive degli astri più luminosi, formano i pianeti e i corpi dei loro abitanti, i nostri stessi corpi. Anassagora riteneva che la Luna fosse abitata e che i semi della vita fossero diffusi per tutto l’universo. Epicuro credeva all’esistenza di infiniti mondi. Giordano Bruno scrisse:
«Esistono innumerevoli soli, innumerevoli terre ruotano attorno a questi similmente a come i sette pianeti ruotano attorno al nostro sole. Questi mondi sono abitati da esseri viventi».
Per questi pensieri eretici Bruno fu mandato al rogo il 17 febbraio 1600.
Oggi sappiamo che la prima parte della sua affermazione è scientificamente provata. Le stelle sono tanti soli e attorno a molte di esse abbiamo scoperto la presenza di pianeti. E’ probabile che fra le centinaia di miliardi di stelle che popolano la nostra Via Lattea, e fra le centinaia di miliardi di galassie sparse nell’universo, esistano numerosi pianeti con condizioni favorevoli allo sviluppo della vita, ed è probabile che quanto è successo sulla Terra sia accaduto anche in molti altri luoghi. Ma le distanze sono tali che forse mai potremo verificare l’esistenza di altri esseri. Per il momento sarebbe già un grande successo trovare batteri fossilizzati, o magari viventi, sul nostro vicino pianeta Marte.

Galileo dichiarato innocente ieri a Torino

Repubblica Edizione di Torino 8.2.04
IL CASO
Si è concluso con l'assoluzione il processo simulato al grande uomo di scienza
"Galileo non era un eretico" Anche il pm vota l'innocenza
Odifreddi nel ruolo di Galilei Rossomando difensore
Il dibattito si è svolto in un'aula di giustizia affollata
di MASSIMO NOVELLI


Poteva la civilissima Torino, capitale del positivismo italiano, città di laiche tradizioni e di risorgimentali battaglie contro il potere della Chiesa (ricordate la colonna Siccardi e ciò che vi è custodito dentro?) non assolvere Galileo Galilei, figlio del fu Vincenzo, nato a Pisa il 15 febbraio 1564, Accademico dei Lincei, detenuto agli arresti domiciliari per le note vicende di stampo copernicano? Risposta: no, non poteva non proscioglierlo. Come è accaduto puntualmente ieri mattina, nell´aula magna affollatissima del Palazzo di giustizia subalpino, nel rifacimento suggestivo del processo all´autore del Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, organizzato dalla Camera penale «Vittorio Chiusano» e dal Festival dei Due Mondi di Spoleto.
Assolto dunque, dalle imputazioni di eresia e di violazione dei principi che regolano la scienza e del metodo scientifico, perché in entrambi i casi «il fatto non sussiste» secondo la sentenza emessa dal collegio giudicante composto da Romano Pettenati, Paola Perrone e Fernando Bello, due giudici autentici e un avvocato. Un pronunciamento, nel segno dell´indipendenza dei poteri più che mai attuale di questi tempi, accolto con sommo gaudio da messer Galileo, impersonato con brillantezza ed efficacia polemica dal matematico Piergiorgio Odifreddi, e dal suo difensore, l´avvocato Antonio Rossomando, appassionato evocatore delle nefande persecuzioni del libero pensiero da parte dell´Inquisizione e affini, valga per tutti il povero, grande Giordano Bruno e quell´«odore acre» del suo corpo bruciato. Anche se in verità lo stesso pubblico ministero, all´uopo monsignor Renzo Savarino, pur cercando dottamente di far quadrare il cerchio e di salvare il salvabile, aveva dovuto chiedere la nullità della sentenza di condanna del 1633 per difetto di giurisdizione.
E difetto c´era, eccome. Non tanto nella forma, bensì nella sostanza, cioè nella natura specifica dell´accusa, in primis quella, «particolarmente infamante» per uno scienziato quale Galileo, di avere leso i principi che regolano la scienza e il metodo scientifico. Come individuato dal tribunale torinese. Fu infatti la «diffida stessa» promossa dal cardinale Bellarmino, peraltro già istruttore del processo a Giordano Bruno, «a violare i principi della corretta metodologia scientifica e non Galileo, il quale era giunto a dimostrazioni parziali della teoria copernicana». Non in modo dogmatico, pertanto. Proprio perché, sperimentando anche «strade sbagliate», il Nostro «aveva potuto confrontare e approfondire la sua speculazione». Metodologicamente più che corretto.

La Stampa 8.2.04
GRANDE FOLLA DI PUBBLICO IERI AL PALAGIUSTIZIA PER LA RIVISITAZIONE DEL PROCESSO PER ERESIA ALLO SCIENZIATO
Galileo torna alla sbarra: assolto
di Alberto Gaino


TRECENTOSETTANTUNO anni dopo quello vero, si rifà il processo a Galileo Galilei. In un palazzo di giustizia vero, con una corte per due terzi composta da giudici veri, un vero avvocato per difensore e lo scienziato interpretato da un noto professore di logica matematica: si fa in fretta a parlare di evento. L’aula magna (700 posti a sedere) è gremita: l’avvocato Cosimo Palumbo, presidente della Camera penale, e il collega Mauro Anetrini, l’ideatore, gongolano. «Facciamo cultura». E Anetrini si lancia: «Per il processo a Luigi XVI ho contattato Cossiga». Evento mediatico a parte, tutti si sono calati molto seriamente nella parte. Il marito del giudice a latere Paola Perrone: «Mia moglie si è letta almeno 10 libri sul processo a Galileo».
L’abiura con cui il Galileo doc salvò la pelle nel 1633 risparmiando al Sant’Uffizio un rogo-bis, dopo quello di Giordano Bruno, è rivisitata completamente da Piergiorgio Odifreddi, l’imputato di ieri, che, a domanda suggestiva del presidente Romano Pettenati (”Quali danni ritiene di aver subito dal suo processo?”), non si fa pregare e trasforma il processo a Galileo in quello alla Chiesa: «Forse non è un caso che in giro per il mondo gli scienziati non siano credenti e quando lo sono sono ebrei o protestanti, religioni critiche. Nei paesi latini e cattolici, con una chiesa dogmatica, vivono popoli di marinai e di eroi, ma non di scienziati». Poi l’affondo: «Se posso aggiungere, nell’Ottocento i testi copernicani non erano più all’indice, ma l’evoluzionismo sì. L’atteggiamento conservatore della Chiesa si rinnova rispetto alle biotecnologie. La recente legge sulla procreazione assistita ne ha risentito».
Si respira aria laica e al pm, un vero monsignore e professore di storia della Chiesa, non resta che cambiare ruolo. Parla per un’ora monsignor Renzo Savarino e con quella sua aria dimessa, da studioso che ricorda un po’ i modi intellettuali di padre Pellegrino, ricostruisce i rapporti di Galilei con la Roma dei gesuiti, dei cardinali e dei papi: una realtà variegata, in cui il conflitto fra scienza e religione appare più piegato all’ordine politico piuttosto che a quello teologico. Ragiona abilmente Savarino: il contesto era quello della guerra dei Trent’anni e dell’avanzare delle chiese riformate; lo stesso papa Urbano VIII fu duramente criticato in Concistoro dai cardinali. La condanna di Galileo ne sarebbe stata una conseguenza. Cita il cardinal Roberto Bellarmino: «Sarebbe bastato che Galileo presentasse le teorie copernicane come ipotesi».
Ma il laicissimo Antonio Rossomando non fa sconti e la sua arringa difensiva diventa a sua volta requisitoria, da vero pm e non è male per il vero presidente dell’Ordine degli avvocati torinesi: «Lei parla di Bellarmino, Urbano VIII, dello stesso Galileo come di compagni toscani di merende. La Chiesa cattolica apostolica romana era anche tortura, roghi, carcere per il trionfo della teologia come regina delle scienze». Più pacatamente i giudici attualizzano i conflitti fra Chiesa e scienza: «C’è da chiedersi se vi sia ancora spazio per fenomeni di eresia surrettizia. Se cioè vi sia ancora rischio che pratiche scientifiche trovino i limiti nelle norme statuali per l’esistenza di istanze etiche» poste in posizione «di indiscussa supremazia rispetto alla scienza». Citano il Concilio di Trento, evocano il caso bollente dei «diritti fondamentali della persona sulle questioni della salute e in particolare della procreazione». Nell’assolvere Galileo «perché il fatto non sussiste» (al pari del pubblico), lo avvisano che «ha diritto ad un equo indennizzo per i danni subiti». La scienza è salva, il personaggio Galileo un po’ meno: descritto come cortigiano, rovinafiglie, amorale.

Umberto Veronesi: «credere, non credere»

Corriere della Sera 8.2.04
ANTEPRIMA
da «Una carezza per guarire», il nuovo saggio del grande oncologo
L’ultima sfida di Umberto Veronesi: una rivoluzione etica Nel nome dell’equilibrio tra medicina, politica e religione


Anticipiamo due brani dal volume «Una carezza per guarire», scritto da Umberto Veronesi con Mario Pappagallo (Sperling & Kupfer, pagine 201, €16, in libreria da martedì 10). Il testo qui sotto è tratto dal capitolo «Credere, non credere».


Don Giovanni rimase pensieroso e poi ricominciò a parlare lentamente: «Allora è proprio vero? Me l’avevano detto, ma non potevo accettarlo: proprio tu, così devoto, quando servivi messa accanto a me... ma come è avvenuto?».
«Te lo racconterò la prossima volta», dissi io salutandolo.
E così iniziò una lunga serie di conversazioni sul senso della vita, sul ruolo delle religioni, sul mistero della creazione, sull’evoluzione degli esseri viventi, sulla Chiesa cattolica, sui rituali, sui rapporti tra Chiesa e politica, sul laicismo, sulla libertà di pensiero. Ogni quattro mesi un incontro. Volle sapere subito il perché del mio allontanamento dalla fede.
«E’ semplicissimo e quasi paradossale, è stato proprio il mio desiderio di approfondire che ha minato le mie convinzioni. Come diceva il grande filosofo Mircea Eliade, quanto più si studiano le varie teorie religiose e la loro storia, tanto più nascono i dubbi. Mi sono convinto che le dieci principali religioni del mondo siano soprattutto proiezioni della struttura sociopolitica e dei relativi bisogni dei vari popoli. E’ inevitabile che la Grecia antica, costituita da un infinito numero di Stati corrispondenti alle isole dell’arcipelago, non potesse che costruirsi una religione politeistica in modo che ognuno degli Stati avesse il proprio Dio protettore; viceversa i grandi imperi monolitici non potevano che darsi una religione solidamente monoteistica. In altre parole non è stato Dio a creare gli uomini, ma gli uomini a creare Dio, per far fronte alle loro incertezze e insicurezze esistenziali, strutturando il sistema religioso secondo gli schemi gerarchici propri».
Don Giovanni fu pronto a ribattere: «Mi pare un’interpretazione molto materialistica, vicina alle tesi marxiste. Poiché citavi Eliade voglio solo ricordarti che questo studioso e tutta la scuola "cognitiva" hanno una visione diversa della religione e si soffermano molto sulle analogie che sono presenti in movimenti religiosi anche molto lontani tra loro. Le religioni hanno in comune concezioni simili del mito in quanto esprimono l’unità della mente umana, che in qualsiasi parte del mondo si interroga, in modo primitivo o evoluto, sul mistero della vita e della morte, del bene e del male e del senso stesso della vita, cui la scienza non è in grado di dare una risposta». (...)
Uno dei primi argomenti delle nostre conversazioni riguardò la creazione. Lui introdusse l’argomento con molta forza: «Non puoi pensare che la perfezione con cui il mondo è costruito sia semplicemente opera del caso. Se io trovo un orologio per terra, con tutti i suoi perfezionatissimi ingranaggi, faccio fatica a pensare che la materia si sia organizzata spontaneamente nei millenni in modo da dar vita a un orologio. Mi è più facile pensare che dietro l’orologio ci sia un orologiaio. Tu vivi nel mondo della scienza e sai più di me come la complessità del corpo umano sia così sofisticata, e come tutte le funzioni seguano un itinerario logico, per cui è chiaro che tutti gli organismi viventi siano parte di un progetto biologico e, se c’è un progetto, ci deve essere un progettista. Guarda che non mi riferisco solo alla materia vivente, ma anche al mondo inorganico: elementi chimici che stanno insieme perché regolati da rigidissime leggi fisiche. Come è possibile che un tale delicatissimo sistema sia risultato del caso?».
Ricordo ancora la mia risposta: «Credo che nessun uomo di scienza possa rispondere alla tua domanda: noi sappiamo solo che ci troviamo nel mezzo di un universo costituito da miliardi di galassie, ciascuna con miliardi di stelle, tutto questo come risultato del Big Bang, cioè dell’esplosione di un nucleo di materia, occorsa 25 miliardi di anni fa. E poiché ogni stella ha intorno a sé dei frammenti di materia (i pianeti) vi sono miliardi e miliardi di pianeti in parte verosimilmente simili alla nostra Terra, data l’origine comune, ed è fortemente probabile che forme di vita simile alla nostra si siano sviluppate in parti diverse dell’universo. Quello che fa sorgere dei dubbi è la posizione presa dalla religione nei riguardi della creazione: tutto si è svolto in pochi giorni, ma è riferito esclusivamente alla creazione della Terra, o dell’uomo, mentre il resto dell’universo (Sole, stelle e Luna) è solo un completamento della Terra stessa, posta al suo centro. Ma c’è di più: nel Vangelo di Luca si può addirittura risalire alla data della creazione, contando il numero delle generazioni che vanno da Adamo a Gesù. Solo migliaia di anni prima di Cristo, non miliardi come poi ha indicato il mondo scientifico. Allora la domanda che mi faccio è questa: se i testi sacri sono di ispirazione divina e quindi per definizione sono infallibili, come possono essere così lontani dalla verità?».
Don Giovanni fu come sempre pronto: «Tu hai eluso la mia domanda sulla perfezione delle creature viventi e non viventi e sulla sua origine. Penso quindi che, implicitamente, accetti l’idea che un ente superiore dotato di un’intelligenza superiore abbia ideato, progettato e attuato questo straordinario universo. Per quanto riguarda i libri sacri, la loro semplicità di linguaggio era strumentale alla comprensione degli uomini di allora. L’umanità era nella sua infanzia e necessitava di una comunicazione con un linguaggio adatto, che può in effetti sembrare quello di una favola. Ma sia l’Antico che il Nuovo Testamento hanno una loro coerenza e, più che i fatti, devi considerare i contenuti e i messaggi morali che trasmettono».
E io: «Parli sempre del progetto divino, ma di che razza di progetto si tratta, che contempla una vita dell’uomo che si svolge su un pianeta, la Terra, che per il secondo principio della termodinamica è destinato, un giorno, a raffreddarsi completamente e a divenire un corpo inerte e gelido che si aggirerà nell’universo privo di vita? Che scopo ha tutto questo? In cosa consiste, a lungo termine, il progetto divino sull’esistenza umana? E poi, tu dici, i libri sacri sono semplici per necessità. Ma questi libri sacri sono un testo indiscutibile per i religiosi più intransigenti e nel passato esprimere un dubbio su di essi poteva condurre al rogo. E quante guerre di religione, crudelissime, sono occorse per diffondere un’interpretazione dei testi rispetto a un’altra?».

Franco Rella: «il naufragio del progetto illuminista»

Corriere della Sera 8.2.04
SAGGI
Rella esplora la scrittura e la sfida a narrare, malgrado la «nuda vita» l’abbia messa in scacco
La parola sulla soglia del silenzio
di Paola Capriolo


Da tempo Franco Rella conduce una serrata, affascinante analisi di quella crisi dei linguaggi che costituisce forse la caratteristica fondamentale del «moderno» e che investe in primo luogo la filosofia, il poderoso apparato concettuale della metafisica con il quale da Platone in poi si è preteso di spiegare la realtà. In nessuna delle sue versioni questo apparato sembra in grado di affrontare adeguatamente le zone «estreme» dell’esperienza, quelle legate alla sfera più intima dell’io: la corporeità e l’eros, il dolore e la morte. Di qui l’interesse per linguaggi diversi, non filosofici, ma artistici e letterari, in cui Rella scorge l’espressione di un «pensiero tragico» capace di esplorare le contraddizioni senza voler conciliarle artificiosamente nell’unità di un sistema.
Lungo questo cammino, condotto negli anni con rigorosa coerenza, Dall’esilio rappresenta insieme una conferma e un ulteriore punto di crisi: analizzando i massimi scrittori e poeti della modernità, da Flaubert a Kafka, da Baudelaire a Proust, da Beckett a Montale, Rella ci mostra infatti come non solo le categorie filosofiche, ma gli stessi mezzi espressivi dell’arte vengano meno dinanzi all’indicibilità della «nuda vita».
Non vi è forse autore significativo, almeno da un secolo e mezzo, la cui opera non sia in qualche modo segnata dal presagio di una «morte della parola», di un suo radicale fallimento ontologico, e quando Bouvard e Pécuchet, dopo aver esplorato tutto lo scibile, si rassegnano a copiare meccanicamente rinunciando a qualunque ricerca di un senso, non denunciano soltanto il naufragio del progetto illuminista, ma anche la fine dell’illusione flaubertiana «di tenere insieme il mondo nella scrittura e nell’opera d’arte».
Movendo dalla consapevolezza di questo «esilio» della parola, Rella riafferma la sua fede nella possibilità da parte della scrittura, e in particolare della narrazione, di offrire almeno una testimonianza della propria crisi, di «lavorare pazientemente i confini per trasformarli... in soglie»; intanto però, nel «silenzio glaciale» in cui sembra sprofondato il mondo da quando è tramontata l’utopia della redenzione estetica, i due copisti di Flaubert seguitano ad accompagnarci come beffardi numi tutelari e tendendo l’orecchio possiamo cogliere ancora lo scricchiolio delle penne che celebrano ostinatamente il loro rito estremo e insensato.

FRANCO RELLA Dall'esilio. La creazione artistica come testimonianza Feltrinelli editore pagine 150, 12,50