Corriere della sera 19.7.03
IN FAMIGLIA
Evgenia, Julia, Tania Tre sorelle unite dalla fede comunista
di AURELIO LEPRE
La lettera di Evgenia e Julia Schucht a Stalin è un altro segno di come sia stato stretto il groviglio che ha unito pubblico e privato nella vita di Antonio Gramsci. E come le sue vicende familiari possano rendere ancora più complesso il nodo della questione dei rapporti tra Gramsci e Togliatti. Antonio aveva conosciuto per prima Evgenia, nel 1922, tra le nevi del sanatorio di Sieriebriani bor, in Russia, dove entrambi erano ricoverati per esaurimento. Le fatiche dell'attività rivoluzionaria minacciavano di stroncare sia il dirigente politico italiano sia la giovane russa, che aveva combattuto la guerra civile nel corpo dei fucilieri. Tra i due nacque una forte simpatia, ma poi Antonio conobbe Julia, la sorella più giovane, e se ne innamorò. Quando nacque Delio, Evgenia si affezionò morbosamente al nipote: inutilmente il padre, Apollon, le diceva che il bambino aveva una sola madre, Julia. Antonio, che era assente per ragioni politiche, era stato avvertito, ma non era intervenuto. La situazione si aggravò nei mesi in cui i tre vissero insieme a Roma: Evgenia cercava di non fare affezionare Delio ad Antonio, che trattava con freddezza. Più tardi, mentre era in carcere, Antonio non approvò i metodi con cui Julia ed Evgenia educavano Delio e l'altro figlio, Giuliano. Non conosciamo con precisione quali rapporti si siano stabiliti in quegli anni durissimi all'interno della famiglia Schucht: Tania accennava frequentemente a complessi problemi psicologici, che Antonio non era in grado di comprendere e che lo tormentavano. Carlo, il fratello di Gramsci, dopo una visita a Mosca, informò Tania (che ne scrisse a sua volta ad Antonio) che nella famiglia Schucht si cercava di allontanare i figli dal padre, accusandolo di non essersene mai occupato, nemmeno prima di finire in carcere. Un giorno Tania gli inviò un passo di una lettera di Apollon in cui era scritto: «Non ho detto che Giulia non scrive perché è ammalata, ho detto che non lo fa che raramente, perché le riesce assai penoso di farlo nelle condizioni in cui si è costretti di compierlo».
Aldo Natoli ha avanzato l'ipotesi che Evgenia, fervente stalinista, ritenesse Gramsci filotrotzkista e cercasse perciò di impedire a Julia di scrivergli. Era la fine del 1930. L'accusa di trotzkismo mossa da Evgenia ai presunti «traditori» di Gramsci appare singolare: non è un'ipotesi azzardata supporre che, se Gramsci in quegli anni fosse vissuto in Unione Sovietica, sarebbe stato processato proprio come «trotzkista».
Nella lettera a Stalin fra i «traditori» le due sorelle non nominano né Grieco né Togliatti, ma il primo era stato un seguace di Bordiga e poteva perciò essere facilmente sospettato di simpatie per Trotzkij; il secondo aveva rischiato di essere coinvolto nei grandi processi ed era caduto in disgrazia per i suoi atteggiamenti durante la guerra di Spagna. Dolores Ibarruri dichiarò a Dimitrov, segretario del Comintern, di non fidarsene pienamente, perché sentiva in Togliatti «qualcosa di estraneo, di non nostro». È strano, inoltre, che nel 1940 Evgenia e Julia scrivano di essersi rivolte a Ezov, uno dei più sanguinari pretoriani di Stalin, che lo stesso dittatore mandò a morte nel 1938, dopo essersene servito contro i suoi nemici. Sui personaggi politici eliminati di solito cadeva il silenzio.
Per i suoi toni aspri e inquisitori la lettera sembra appartenere molto più a Evgenia che a Julia. Vero è che anche la mite Tania, quando, dopo la morte di Gramsci, cercò di riaprire la discussione sul «tradimento», ne diede un'interpretazione eguale a quella su cui venivano costruiti i processi staliniani: lo attribuì, infatti, «all’esplicarsi di un'attività quasi diabolica». Poiché Tania scrisse queste parole a Sraffa, è possibile pensare che volesse accennare, oltre che a Grieco, anche a Togliatti? A me non sembra probabile, ma per un chiarimento definitivo bisognerebbe conoscere meglio quale fu il ruolo di Piero Sraffa in tutta la vicenda, se semplice mediatore tra Tania e Togliatti o qualcosa di più.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
sabato 19 luglio 2003
Breve ma autorevole affermazione anglosassone sul più importante quotidiano nazionale
Corriere della Sera 19.7.03
LONDRA
Stress e depressione Una predisposizione nel Dna
Stress e depressione: è tutto nel Dna. Ricercatori inglesi, americani e neozelandesi hanno rivelato il ruolo dell'interazione tra geni e ambiente. Il tipo di reazione ad eventi stressanti o dolorosi è determinato da un tratto di Dna che, se più corto, produce meno serotonina e rende meno resistenti alla depressione.
LONDRA
Stress e depressione Una predisposizione nel Dna
Stress e depressione: è tutto nel Dna. Ricercatori inglesi, americani e neozelandesi hanno rivelato il ruolo dell'interazione tra geni e ambiente. Il tipo di reazione ad eventi stressanti o dolorosi è determinato da un tratto di Dna che, se più corto, produce meno serotonina e rende meno resistenti alla depressione.
Schopenhauer
La Stampa Tuttolibri 19/7/2003
Schopenhauer e il barboncino: lo amo perché non si pone domande
NON appena Arthur Schopenhauer cominciò a pensare si sentì diviso dal mondo. Era d'accordo con Leopardi nel ritenerlo una lega di furfanti contro gli onesti e di vigliacchi contro i generosi. Pur non respingendo nessun essere umano, incontrava solo miseri gnomi, limitati di cervello, malvagi di cuore. Le rare eccezioni avevano dai venticinque ai quarant'anni più di lui. Ai Musei Vaticani scoprì incisa sotto il busto di Biante una scritta in greco: ”La maggior parte degli uomini è malvagia”. A trent'anni ne ebbe abbastanza di considerare suoi simili esseri che in realtà non lo erano. Finché il gatto è giovane, si disse, gioca con pallottoline di carta perché crede che siano vive e simili a lui. Ma una volta cresciuto, sa cosa sono e le lascia stare. Considerando nullità gli uomini accanto a cui viveva, il suo massimo godimento erano i pensieri tramandati di esseri simili a lui che un tempo si erano affannati come lui tra quanti non lo erano. La loro lettera morta gli parlava in tono più familiare che non la viva esistenza dei bipedi. Per l'emigrato, diceva, una lettera da casa vale più di una conversazione con gli stranieri che gli stanno intorno. Considerava il suo l'isolamento di un individuo eccelso, del quale il bipede finge di non notare la superiorità con lo stesso istinto con cui un insetto si finge morto. La madre lo fece andare via di casa perché con questi discorsi offendeva i suoi ospiti. L'unico con cui Schopenhauer convisse da allora in poi fu un barboncino. Schopenhauer lo amava perché non si poneva domande. Solo l’uomo si meraviglia della propria esistenza. A trent'anni scrisse un'opera che cominciava con queste parole: ”Il mondo è la mia rappresentazione”. Ne vendette pochissime copie, nonostante alcuni paragrafi fossero stati scritti dallo Spirito Santo. Come Angelo Silesio, Schopenhauer sapeva che senza di lui Dio non poteva vivere un attimo. Come Cartesio e come i Veda, riteneva che nessuno di noi possa uscire da se stesso e vedere le cose per quello che sono, che tutto ciò di cui si ha conoscenza certa si trovi dentro il nostro sistema nervoso e cerebrale. Come per Platone, Pindaro, Sofocle, Shakespeare e Calderon de la Barca, la vita per Schopenhauer era un sogno, una ragnatela di apparenze, un sortilegio. Schopenhauer era un seguace di Kant, ma mentre per Kant il fenomeno era autenticamente accessibile alla mente umana, per Schopenhauer era come il velo di Maya che copre il vero volto delle cose. L'unica cosa che esiste, diceva Schopenhauer, è la volontà di vivere, l'impulso inconscio e irresistibile che accomuna il filosofo, il barboncino, i fili d'erba e i cristalli. Ma a differenza dei cristalli, dei fili d'erba e del barboncino, il filosofo squarciava il velo di Maya dell’illusione quando asseriva di non essere che volontà. La volontà, spiegava Schopenhauer, è l'elemento in assoluto più basso e più spregevole in noi. Bisogna nasconderla come si nascondono i genitali. La vita di Schopenhauer era guidata da una massima: ”Volere il meno possibile e conoscere il più possibile”. La felicità dell'uomo comune consiste nell'alternanza di lavoro e piacere. Per Schopenhauer, invece, erano una cosa sola. Se a volte Schopenhauer si sentì infelice, fu perché aveva creduto di essere un altro rispetto a quello che era e ne aveva compianto la miseria. Per esempio quando aveva pensato di essere un libero docente che non riesce a diventare professore.
Schopenhauer e il barboncino: lo amo perché non si pone domande
NON appena Arthur Schopenhauer cominciò a pensare si sentì diviso dal mondo. Era d'accordo con Leopardi nel ritenerlo una lega di furfanti contro gli onesti e di vigliacchi contro i generosi. Pur non respingendo nessun essere umano, incontrava solo miseri gnomi, limitati di cervello, malvagi di cuore. Le rare eccezioni avevano dai venticinque ai quarant'anni più di lui. Ai Musei Vaticani scoprì incisa sotto il busto di Biante una scritta in greco: ”La maggior parte degli uomini è malvagia”. A trent'anni ne ebbe abbastanza di considerare suoi simili esseri che in realtà non lo erano. Finché il gatto è giovane, si disse, gioca con pallottoline di carta perché crede che siano vive e simili a lui. Ma una volta cresciuto, sa cosa sono e le lascia stare. Considerando nullità gli uomini accanto a cui viveva, il suo massimo godimento erano i pensieri tramandati di esseri simili a lui che un tempo si erano affannati come lui tra quanti non lo erano. La loro lettera morta gli parlava in tono più familiare che non la viva esistenza dei bipedi. Per l'emigrato, diceva, una lettera da casa vale più di una conversazione con gli stranieri che gli stanno intorno. Considerava il suo l'isolamento di un individuo eccelso, del quale il bipede finge di non notare la superiorità con lo stesso istinto con cui un insetto si finge morto. La madre lo fece andare via di casa perché con questi discorsi offendeva i suoi ospiti. L'unico con cui Schopenhauer convisse da allora in poi fu un barboncino. Schopenhauer lo amava perché non si poneva domande. Solo l’uomo si meraviglia della propria esistenza. A trent'anni scrisse un'opera che cominciava con queste parole: ”Il mondo è la mia rappresentazione”. Ne vendette pochissime copie, nonostante alcuni paragrafi fossero stati scritti dallo Spirito Santo. Come Angelo Silesio, Schopenhauer sapeva che senza di lui Dio non poteva vivere un attimo. Come Cartesio e come i Veda, riteneva che nessuno di noi possa uscire da se stesso e vedere le cose per quello che sono, che tutto ciò di cui si ha conoscenza certa si trovi dentro il nostro sistema nervoso e cerebrale. Come per Platone, Pindaro, Sofocle, Shakespeare e Calderon de la Barca, la vita per Schopenhauer era un sogno, una ragnatela di apparenze, un sortilegio. Schopenhauer era un seguace di Kant, ma mentre per Kant il fenomeno era autenticamente accessibile alla mente umana, per Schopenhauer era come il velo di Maya che copre il vero volto delle cose. L'unica cosa che esiste, diceva Schopenhauer, è la volontà di vivere, l'impulso inconscio e irresistibile che accomuna il filosofo, il barboncino, i fili d'erba e i cristalli. Ma a differenza dei cristalli, dei fili d'erba e del barboncino, il filosofo squarciava il velo di Maya dell’illusione quando asseriva di non essere che volontà. La volontà, spiegava Schopenhauer, è l'elemento in assoluto più basso e più spregevole in noi. Bisogna nasconderla come si nascondono i genitali. La vita di Schopenhauer era guidata da una massima: ”Volere il meno possibile e conoscere il più possibile”. La felicità dell'uomo comune consiste nell'alternanza di lavoro e piacere. Per Schopenhauer, invece, erano una cosa sola. Se a volte Schopenhauer si sentì infelice, fu perché aveva creduto di essere un altro rispetto a quello che era e ne aveva compianto la miseria. Per esempio quando aveva pensato di essere un libero docente che non riesce a diventare professore.
Matteo Ricci, primo sinologo, vittima della Santa Inquisizione
Il Giornale di Vicenza Sabato 19 Luglio 2003
Una mostra che si apre oggi a Macerata ripropone al grande pubblico l’opera dell’umanista e matematico del Cinquecento
Matteo Ricci, un gesuita alla Corte dei Ming
di Nicoletta Castagni
Riuscì a costruire per la prima volta un solido ponte culturale tra l’Occidente e la Cina
Fu chiamato «il saggio d’Occidente» e riuscì a portare per la prima volta, alle soglie del ’600, il pensiero occidentale e cattolico alla corte imperiale della Cina. Eppure l’opera del gesuita Matteo Ricci è ancora sconosciuta ai più, rimossa dalle condanne dell’Inquisizione. Una mostra da oggi a Macerata (dove Ricci nacque nel 1552) la ripropone al largo pubblico. Presentata a Roma, la rassegna «Padre Matteo Ricci. L’Europa alla Corte dei Ming» (che in autunno arriverà a Roma in una sede ancora da definire) è curata da Filippo Mignini, ordinario di Storia della filosofia all’Università di Macerata, che con grande passione è riuscito a mettere insieme pezzi straordinari e in parte mai esposti prima, capaci di ricostruire l’esperienza emblematica del missionario gesuita, umanista e matematico, interamente volta a far incontrare due mondi e due culture all’epoca separati da distanze siderali.
Si tratta di una mostra difficile, ha esordito Mignini senza nascondere le difficoltà dell’iniziativa ideata dall’Istituto Matteo Ricci (nato due anni fa a Macerata), e organizzata per conto della Fondazione Cassa di Risparmio di Macerata in collaborazione con il Comune, la Provincia, la Regione e Banca delle Marche.
La fama di Ricci non è pari alla sua grandezza, ha proseguito il curatore, sottolineando che l’importanza del gesuita va ben oltre a quella di Marco Polo. In Cina, solo chi va all’università conosce le imprese del viaggiatore veneziano (anche se ora sono state divulgate da un film di successo), ha aggiunto, mentre tutti conoscono la vita di Li Madou, come veniva chiamato Padre Ricci nel Paese del Drago.
Il gesuita impiegò diciotto anni per risalire da Macao a Pechino dove arrivò all’età di 32 anni con la consegna di convertire al cattolicesimo l’imperatore di quello sconfinato e sconosciuto paese. Nell’attesa di entrare in Cina, Ricci imparò alla perfezione a leggere e scrivere nel cinese dei mandarini e come tale arrivo alla corte imperiale. Lì, come illustra la mostra di Macerata, il gesuita portò la sua considerevole cultura, formata a Firenze e a Roma, sotto la guida di maestri come il matematico Cristoforo Clavio, che fu amico di Keplero e Galilei. Ma soprattutto la sua curiosità, il desiderio di aprirsi alla diversità culturale.
Ricci introdusse per primo in Cina la teologia, la filosofia, la letteratura e le arti della vecchia Europa, rivelò che la Terra non era quadrata bensì rotonda e realizzò cinque diverse carte geografiche universali (le sei tavole del Mappamondo del 1602 saranno esposte per la prima volta in mostra). Pubblicò in cinese Cicerone, Euclide e convertì al cattolicesimo un gran numero di alti funzionari dell’apparato burocratico e militare cinese. Il suo modo di rapportarsi a quella cultura tanto diversa non era però in sintonia con la Chiesa di Roma, che non apprezzò le sua traduzione in cinese di «Deus» («Figlio del Cielo» era considerato troppo legato all’aspetto materiale) e la tolleranza per i riti confuciani (per Ricci che ne conosceva la valenza filosofica erano riti civili, di rispetto e gratitudine). Tanto che, nel 1704 l’Inquisizione condannò l’operato del gesuita, che venne riabilitato solo da Pio XII e quindi dal Concilio Vaticano II.
Una mostra che si apre oggi a Macerata ripropone al grande pubblico l’opera dell’umanista e matematico del Cinquecento
Matteo Ricci, un gesuita alla Corte dei Ming
di Nicoletta Castagni
Riuscì a costruire per la prima volta un solido ponte culturale tra l’Occidente e la Cina
Fu chiamato «il saggio d’Occidente» e riuscì a portare per la prima volta, alle soglie del ’600, il pensiero occidentale e cattolico alla corte imperiale della Cina. Eppure l’opera del gesuita Matteo Ricci è ancora sconosciuta ai più, rimossa dalle condanne dell’Inquisizione. Una mostra da oggi a Macerata (dove Ricci nacque nel 1552) la ripropone al largo pubblico. Presentata a Roma, la rassegna «Padre Matteo Ricci. L’Europa alla Corte dei Ming» (che in autunno arriverà a Roma in una sede ancora da definire) è curata da Filippo Mignini, ordinario di Storia della filosofia all’Università di Macerata, che con grande passione è riuscito a mettere insieme pezzi straordinari e in parte mai esposti prima, capaci di ricostruire l’esperienza emblematica del missionario gesuita, umanista e matematico, interamente volta a far incontrare due mondi e due culture all’epoca separati da distanze siderali.
Si tratta di una mostra difficile, ha esordito Mignini senza nascondere le difficoltà dell’iniziativa ideata dall’Istituto Matteo Ricci (nato due anni fa a Macerata), e organizzata per conto della Fondazione Cassa di Risparmio di Macerata in collaborazione con il Comune, la Provincia, la Regione e Banca delle Marche.
La fama di Ricci non è pari alla sua grandezza, ha proseguito il curatore, sottolineando che l’importanza del gesuita va ben oltre a quella di Marco Polo. In Cina, solo chi va all’università conosce le imprese del viaggiatore veneziano (anche se ora sono state divulgate da un film di successo), ha aggiunto, mentre tutti conoscono la vita di Li Madou, come veniva chiamato Padre Ricci nel Paese del Drago.
Il gesuita impiegò diciotto anni per risalire da Macao a Pechino dove arrivò all’età di 32 anni con la consegna di convertire al cattolicesimo l’imperatore di quello sconfinato e sconosciuto paese. Nell’attesa di entrare in Cina, Ricci imparò alla perfezione a leggere e scrivere nel cinese dei mandarini e come tale arrivo alla corte imperiale. Lì, come illustra la mostra di Macerata, il gesuita portò la sua considerevole cultura, formata a Firenze e a Roma, sotto la guida di maestri come il matematico Cristoforo Clavio, che fu amico di Keplero e Galilei. Ma soprattutto la sua curiosità, il desiderio di aprirsi alla diversità culturale.
Ricci introdusse per primo in Cina la teologia, la filosofia, la letteratura e le arti della vecchia Europa, rivelò che la Terra non era quadrata bensì rotonda e realizzò cinque diverse carte geografiche universali (le sei tavole del Mappamondo del 1602 saranno esposte per la prima volta in mostra). Pubblicò in cinese Cicerone, Euclide e convertì al cattolicesimo un gran numero di alti funzionari dell’apparato burocratico e militare cinese. Il suo modo di rapportarsi a quella cultura tanto diversa non era però in sintonia con la Chiesa di Roma, che non apprezzò le sua traduzione in cinese di «Deus» («Figlio del Cielo» era considerato troppo legato all’aspetto materiale) e la tolleranza per i riti confuciani (per Ricci che ne conosceva la valenza filosofica erano riti civili, di rispetto e gratitudine). Tanto che, nel 1704 l’Inquisizione condannò l’operato del gesuita, che venne riabilitato solo da Pio XII e quindi dal Concilio Vaticano II.
un proverbio toscano: "chi si somiglia si piglia"
Giornala di Brescia 19.7.03
Herbert Marcuse sepolto a Berlino accanto a Hegel
INUMATE IERI LE CENERI
BERLINO - Le ceneri del filosofo americano di origine tedesca Herbert Marcuse sono state inumate ieri a Berlino, ventiquattro anni dopo la sua morte. Durante la cerimonia, cui hanno partecipato un centinaio di persone, erano presenti il figlio di Marcuse, Peter, insieme a suo figlio Harold e alla femminista americana Angela Davis, allieva del filosofo. Marcuse è stato tra i fondatori della storica «Scuola di Francoforte» ed è morto nel 1979 durante una visita a Stanberg, in Germania. La vedova Ricky, che riteneva «sufficiente il numero di ebrei mandati nei forni crematori in Germania», volle che il corpo del marito fosse cremato in Austria, poi le ceneri furono portate negli Stati Uniti. L’urna è stata conservata per diversi anni a New Haven, nel Connecticut, vicino alla residenza del figlio Peter e riportata soltanto il 14 luglio scorso in Germania per la sepoltura. Marcuse, oltre a riposare vicino alla tomba di Hegel, suo padre spirituale, sarà seppellito vicino ad un altro importante filosofo tedesco, Johann Gottlieb Fichte, teorico della «Nazione tedesca».
Herbert Marcuse sepolto a Berlino accanto a Hegel
INUMATE IERI LE CENERI
BERLINO - Le ceneri del filosofo americano di origine tedesca Herbert Marcuse sono state inumate ieri a Berlino, ventiquattro anni dopo la sua morte. Durante la cerimonia, cui hanno partecipato un centinaio di persone, erano presenti il figlio di Marcuse, Peter, insieme a suo figlio Harold e alla femminista americana Angela Davis, allieva del filosofo. Marcuse è stato tra i fondatori della storica «Scuola di Francoforte» ed è morto nel 1979 durante una visita a Stanberg, in Germania. La vedova Ricky, che riteneva «sufficiente il numero di ebrei mandati nei forni crematori in Germania», volle che il corpo del marito fosse cremato in Austria, poi le ceneri furono portate negli Stati Uniti. L’urna è stata conservata per diversi anni a New Haven, nel Connecticut, vicino alla residenza del figlio Peter e riportata soltanto il 14 luglio scorso in Germania per la sepoltura. Marcuse, oltre a riposare vicino alla tomba di Hegel, suo padre spirituale, sarà seppellito vicino ad un altro importante filosofo tedesco, Johann Gottlieb Fichte, teorico della «Nazione tedesca».
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