La Stampa TuttoScienze 16.7.03
Espressioni dello sguardo e schizofrenia
Un nuovo studio basato sul neuro-imaging condotto dall’Istituto di Psichiatria di Toronto mostra per la prima volta come anormalità a livello cerebrale e difficoltà sociali siano correlate: in particolare, si sono rilevate differenze tra il funzionamento cerebrale di un soggetto «sano» ed il funzionamento cerebrale di un soggetto schizofrenico che possono spiegare perché sia così difficile per gli schizofrenici interpretare i sentimenti delle altre persone. Condotto dal dr. Tonmoy Sharma, lo studio ha ideato un nuovo focus di ricerca, ossia ha combinato lo studio della cognizione sociale (la capacità di riconoscere e di comprendere i sentimenti delle altre persone) con la tecnica della risonanza magnetica funzionale (fMRI), per esplorare come e perché gli schizofrenici abbiano difficoltà ad interpretare il comportamento delle altre persone. Lo schizofrenico presenta infatti problemi nel comprendere e nel prevedere pensieri, emozioni e comportamenti altrui, cosa che intacca profondamente la vita sociale, rendendo difficile - ad esempio - relazionarsi alle altre persone, fare amicizia o procurarsi un lavoro. Proprio questo fallimento nell’empatizzare con gli altri correttamente potrebbe essere una causa, o una concausa, di alcune di quelle esplosioni di violenza caratteristiche di alcune forme di schizofrenia. Nell’esperimento che supporta questo studio veniva chiesto ai partecipanti di identificare una serie di espressioni dello sguardo, e mentre essi svolgevano questo compito venivano prese immagini del loro cervello in funzionamento: si è trovato così che gli schizofrenici sono risultati effettivamente meno abili ad identificare le emozioni espresse da quegli sguardi rispetto al campione di controllo, composto da soggetti «sani». Usando l’fMRI, i ricercatori hanno inoltre potuto mostrare che nella schizofrenia le difficoltà sociali sono strettamente correlate a differenze nel funzionamento cerebrale: l’imaging ha rilevato ridotta attivazione cerebrale nei circuiti fronto-temporali dell’emisfero sinistro. Anormalità in queste aree sono ben documentate nella schizofrenia, ma questo è il primo studio in cui si usa la tecnica di fMRI per studiare le difficoltà sociali proprie della schizofrenia. Il dr. Sharma sostiene che questa sia un’area di indagine che ha assoluto bisogno di essere ulteriormente esplorata: “La capacità di riconoscere le emozioni è ciò che ci rende esseri umani, ed è proprio questa essenziale capacità che si perde nella schizofrenia. La prossima sfida è capire quali trattamenti farmacologici e psicoterapici possano recuperare questi deficit nella cognizione sociale”.
Rossana Pecorara
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
mercoledì 16 luglio 2003
schizofrenia (e igiene sociale su base israeliana)
Il Gazzettino di Venezia 16.7.03
LA NOSTRA MENTE
La schizofrenia è un morbo più funzionale che organico, legato ad un cattivo meccanismo dei processi neurocognitivi
Il cervello che perde la bussola
Prof. Antonio Augusto Rizzoli
Non molti anni fa insegnavano che la schizofrenia era caratterizzata da sintomi deliranti con un sensorio lucido, probabilmente su base organica e senza evidenti deficit psicologici. Oggi si ritiene che la schizofrenia sia una malattia, con una facilitazione genetica, più funzionale che organica, legata ad un cattivo meccanismo dei processi neurocognitivi. Il cervello di uno schizofrenico funziona diversamente dal cervello di una persona normale? Parrebbe di sì perché in esso non sarebbero attive le connessioni tra la corteccia prefrontale (pianificatoria) e le aree corticali deputate alle singole funzioni, a causa dell'interruzione di uno (o più) circuiti prefrontali sottocorticali. Queste interruzioni - di varia misura ed entità - si ipotizza sostengano la complessa sintomatologia della malattia, raggruppata attorno a tre nuclei patologici: povertà psicomotoria, distorsione della realtà e disorganizzazione dei processi logici. La schizofrenia con povertà psicomotoria (o negativa) è quella che mostra una compromissione maggiore dell'area frontoparietale ed è non solo la forma più grave di schizofrenia, ma anche quella che inizia più precocemente, portando ad un rapido deterioramento dei rapporti sociali. Il deficit di interazione sociale è interpretato come la incapacità di percepire lo stato mentale degli altri e sarebbe connesso ad un malfunzionamento della corteccia prefrontale sinistra, che è stata trovata costantemente ipofunzionante e diminuita di volume. La capacità di interazione sociale dello schizofrenico si misura con il riconoscimento dell'espressione del viso degli altri e con la percezione di ciò che sono gli intendimenti sociali, sia astratti che concreti. Gli schizofrenici, soprattutto quelli con deficit negativi (povertà motoria e/o disorganizzazione), hanno un' evidente diminuzione della capacità di riconoscimento dell'espressione di un volto, mentre gli schizofrenici con distorsione della realtà (o positivi), come gli schizofrenici paranoidi, mantengono ancora una discreta possibilità di percezione dell'espressione del viso. Il sistema di riconoscimento sociale sembra si organizzi attorno alla corteccia orbitofrontale, il solco temporale superiore e l'amigdala, mentre altre strutture (come la corteccia parietale destra, la corteccia dell' insula, i gangli della base) pare abbiano un ruolo secondario (Amy Pinkham, Am. J. Psychiatry 2003). D'altro canto un cattivo funzionamento sociale (accoppiato ad un cattivo funzionamento dell'intelligenza e alla carenze di capacità organizzative) è un preciso predittore di una possibile insorgenza di malattia schizofrenica, come hanno dimostrato nel 1999 dei ricercatori israeliani. La controprova del malfunzionamento di questi circuiti nella schizofrenia è stata data dal fatto che, in un totale di 24 studi internazionali, i più usati antipsicotici, come la clozapina, il risperidone, lo ziprasidone e l'aripiprazolo (ambedue non in vendita in Italia) l'olanzapina e la quetiapina hanno contemporaneamente sia un effetto di miglioramento dei deficit cognitivi, sia un effetto di miglioramento sulla sintomatologia della schizofrenia, superiore a quello dei neurolettici tradizionali.
aa.rizzoli@ve.nettuno.it
LA NOSTRA MENTE
La schizofrenia è un morbo più funzionale che organico, legato ad un cattivo meccanismo dei processi neurocognitivi
Il cervello che perde la bussola
Prof. Antonio Augusto Rizzoli
Non molti anni fa insegnavano che la schizofrenia era caratterizzata da sintomi deliranti con un sensorio lucido, probabilmente su base organica e senza evidenti deficit psicologici. Oggi si ritiene che la schizofrenia sia una malattia, con una facilitazione genetica, più funzionale che organica, legata ad un cattivo meccanismo dei processi neurocognitivi. Il cervello di uno schizofrenico funziona diversamente dal cervello di una persona normale? Parrebbe di sì perché in esso non sarebbero attive le connessioni tra la corteccia prefrontale (pianificatoria) e le aree corticali deputate alle singole funzioni, a causa dell'interruzione di uno (o più) circuiti prefrontali sottocorticali. Queste interruzioni - di varia misura ed entità - si ipotizza sostengano la complessa sintomatologia della malattia, raggruppata attorno a tre nuclei patologici: povertà psicomotoria, distorsione della realtà e disorganizzazione dei processi logici. La schizofrenia con povertà psicomotoria (o negativa) è quella che mostra una compromissione maggiore dell'area frontoparietale ed è non solo la forma più grave di schizofrenia, ma anche quella che inizia più precocemente, portando ad un rapido deterioramento dei rapporti sociali. Il deficit di interazione sociale è interpretato come la incapacità di percepire lo stato mentale degli altri e sarebbe connesso ad un malfunzionamento della corteccia prefrontale sinistra, che è stata trovata costantemente ipofunzionante e diminuita di volume. La capacità di interazione sociale dello schizofrenico si misura con il riconoscimento dell'espressione del viso degli altri e con la percezione di ciò che sono gli intendimenti sociali, sia astratti che concreti. Gli schizofrenici, soprattutto quelli con deficit negativi (povertà motoria e/o disorganizzazione), hanno un' evidente diminuzione della capacità di riconoscimento dell'espressione di un volto, mentre gli schizofrenici con distorsione della realtà (o positivi), come gli schizofrenici paranoidi, mantengono ancora una discreta possibilità di percezione dell'espressione del viso. Il sistema di riconoscimento sociale sembra si organizzi attorno alla corteccia orbitofrontale, il solco temporale superiore e l'amigdala, mentre altre strutture (come la corteccia parietale destra, la corteccia dell' insula, i gangli della base) pare abbiano un ruolo secondario (Amy Pinkham, Am. J. Psychiatry 2003). D'altro canto un cattivo funzionamento sociale (accoppiato ad un cattivo funzionamento dell'intelligenza e alla carenze di capacità organizzative) è un preciso predittore di una possibile insorgenza di malattia schizofrenica, come hanno dimostrato nel 1999 dei ricercatori israeliani. La controprova del malfunzionamento di questi circuiti nella schizofrenia è stata data dal fatto che, in un totale di 24 studi internazionali, i più usati antipsicotici, come la clozapina, il risperidone, lo ziprasidone e l'aripiprazolo (ambedue non in vendita in Italia) l'olanzapina e la quetiapina hanno contemporaneamente sia un effetto di miglioramento dei deficit cognitivi, sia un effetto di miglioramento sulla sintomatologia della schizofrenia, superiore a quello dei neurolettici tradizionali.
aa.rizzoli@ve.nettuno.it
psicoanalisti: una bella chiacchierata tra amici
Il Giornale di Vicenza Mercoledì 16 Luglio 2003
Psicoanalisti a consulto a Lavarone nel convegno del Centro studi Gradiva, quest’anno dedicato ai «Nuovi disagi della civiltà». Il tasso di scontento attuale per il consumismo è altissimo
La nostra normale infelicità
Nel suo saggio Il disagio della civiltà Sigmund Freud indicava i "sacrifici pulsionali" imposti dalla civile convivenza come causa del malessere avvertito sia dal nevrotico che dall'uomo comune. Era l'anno 1929. Oggi, nella cultura occidentale avanzata, di fatto nessuno pone limiti alle nostre pulsioni e al nostro desiderio di autoaffermazione, eppure la libertà dai vincoli repressivi non ci rende felici. Serpeggiano, invece, nuove forme di malessere. Da questa constatazione ha preso spunto il congresso organizzato a Lavarone dal Centro Studi Gradiva. Quest'anno, nell'esplorare le frontiere della psicoanalisi, l'attenzione si è concentrata dunque sui «Nuovi disagi della civiltà», in un confronto serrato con la sociologia e l'antropologia per individuare e comprendere i cambiamenti. Superata l'identità unitaria della società industriale, oggi non possiamo ignorare gli shopping center, nuovi spazi fluidi che originano nuovi comportamenti e nuovi stili. Massimo Canevacci dell'Università La Sapienza ha sottolineato il transito dalle merci tradizionali alle merci odierne, a forte componente visuale: i loro corpi, per la forma e per il modo di presentazione (il packaging) hanno un vero e proprio sex-appeal. Ecco dunque il fascino dell'inorganico, che ha una biologia sempre più sessuata, dove sfuma la distinzione fra utile e inutile, e interviene la molteplicità della comunicazione pubblicitaria, sofisticata, ad altissimo livello di produzione semiotica.
La comunicazione è, anzitutto, televisione, e in questo campo è importante volgere l'attenzione ai bambini. Per la prima volta nella storia dell'umanità, tutti i bambini del mondo crescono conoscendo la stessa fantastica mitologia: ad affermarlo è Marina D'Amato, autrice di ricerche e pubblicazioni sul rapporto fra media e minori. I nuovi eroi, con i loro valori e modelli di comportamento, attraversano lo schermo della televisione e popolano tutte le zone del pianeta. Si possono individuare tre matrici dominanti: quella protestante, dove l'eroe vince, da solo, contro tutti, quella scintoista dei cartoni giapponesi, dove gli eroi raggiungono i risultati a costo della morte; poi ci sono i cartoni senza morale, vero e proprio filone dei senza-storia. Se aggiungiamo l'invadenza della pubblicità e la spettacolarizzazione imposta dall'audience, allora è davvero urgente educare i ragazzi a usare la televisione rimanendo liberi.
Sempre in tema di bambini la psicoanalista Anna Ferruta, sulla base della sua esperienza clinica, ha analizzato alcuni snodi fondamentali per il processo di identificazione, e precisamente la sessualità infantile, il dolore dei bambini e l'esigenza di appartenenza a un gruppo. La malattia del tempo moderno sta nella velocità, che è impedimento per il processo di identificazione.
Il tasso di scontento attuale è altissimo. Per Simona Argentieri dell'Associazione Italiana di Psicoanalisi serpeggiano nuove forme di malessere, ma soprattutto di "normale infelicità", che si diffondono nella vita di coppia, nella famiglia, nella definizione dell'identità di genere sessuale, nelle relazioni sociali. Potremmo vivere la pienezza delle emozioni e degli affetti, invece rischiamo di avere passioni affievolite ed emozioni false.
Insomma quella attuale è una società ad alto rischio che trasferisce sul piano individuale le proprie contraddizioni: secondo Ildo Tumscitz, psicologo e psicoterapeuta, in questa condizione di sicurezza endemica, assume un ruolo di primo piano l'elaborazione soggettiva dei rischi e delle minacce. Per contrastare i rischi di vulnerabilità e impoverimento del pensiero, è urgente mettere in atto misure adeguate nella scuola.
Il convegno organizzato dal Centro Gradiva si è svolto nel Centro Congressi di Lavarone con la partecipazione di numerosissimi docenti e terapeuti. L'iniziativa comprendeva anche, nell'arco di un'intera settimana, una rassegna cinematografica, una mostra dell'editoria psicoanalitica, presentazioni di libri. E a proposito di libri, il Premio Gradiva è stato assegnato, quest'anno, ex-aequo a due titoli: Il limite dell'esistenza di F. De Masi e Paesaggi della psiche di P. Aite, entrambi dell'editore Bollati Boringhieri.
Psicoanalisti a consulto a Lavarone nel convegno del Centro studi Gradiva, quest’anno dedicato ai «Nuovi disagi della civiltà». Il tasso di scontento attuale per il consumismo è altissimo
La nostra normale infelicità
Nel suo saggio Il disagio della civiltà Sigmund Freud indicava i "sacrifici pulsionali" imposti dalla civile convivenza come causa del malessere avvertito sia dal nevrotico che dall'uomo comune. Era l'anno 1929. Oggi, nella cultura occidentale avanzata, di fatto nessuno pone limiti alle nostre pulsioni e al nostro desiderio di autoaffermazione, eppure la libertà dai vincoli repressivi non ci rende felici. Serpeggiano, invece, nuove forme di malessere. Da questa constatazione ha preso spunto il congresso organizzato a Lavarone dal Centro Studi Gradiva. Quest'anno, nell'esplorare le frontiere della psicoanalisi, l'attenzione si è concentrata dunque sui «Nuovi disagi della civiltà», in un confronto serrato con la sociologia e l'antropologia per individuare e comprendere i cambiamenti. Superata l'identità unitaria della società industriale, oggi non possiamo ignorare gli shopping center, nuovi spazi fluidi che originano nuovi comportamenti e nuovi stili. Massimo Canevacci dell'Università La Sapienza ha sottolineato il transito dalle merci tradizionali alle merci odierne, a forte componente visuale: i loro corpi, per la forma e per il modo di presentazione (il packaging) hanno un vero e proprio sex-appeal. Ecco dunque il fascino dell'inorganico, che ha una biologia sempre più sessuata, dove sfuma la distinzione fra utile e inutile, e interviene la molteplicità della comunicazione pubblicitaria, sofisticata, ad altissimo livello di produzione semiotica.
La comunicazione è, anzitutto, televisione, e in questo campo è importante volgere l'attenzione ai bambini. Per la prima volta nella storia dell'umanità, tutti i bambini del mondo crescono conoscendo la stessa fantastica mitologia: ad affermarlo è Marina D'Amato, autrice di ricerche e pubblicazioni sul rapporto fra media e minori. I nuovi eroi, con i loro valori e modelli di comportamento, attraversano lo schermo della televisione e popolano tutte le zone del pianeta. Si possono individuare tre matrici dominanti: quella protestante, dove l'eroe vince, da solo, contro tutti, quella scintoista dei cartoni giapponesi, dove gli eroi raggiungono i risultati a costo della morte; poi ci sono i cartoni senza morale, vero e proprio filone dei senza-storia. Se aggiungiamo l'invadenza della pubblicità e la spettacolarizzazione imposta dall'audience, allora è davvero urgente educare i ragazzi a usare la televisione rimanendo liberi.
Sempre in tema di bambini la psicoanalista Anna Ferruta, sulla base della sua esperienza clinica, ha analizzato alcuni snodi fondamentali per il processo di identificazione, e precisamente la sessualità infantile, il dolore dei bambini e l'esigenza di appartenenza a un gruppo. La malattia del tempo moderno sta nella velocità, che è impedimento per il processo di identificazione.
Il tasso di scontento attuale è altissimo. Per Simona Argentieri dell'Associazione Italiana di Psicoanalisi serpeggiano nuove forme di malessere, ma soprattutto di "normale infelicità", che si diffondono nella vita di coppia, nella famiglia, nella definizione dell'identità di genere sessuale, nelle relazioni sociali. Potremmo vivere la pienezza delle emozioni e degli affetti, invece rischiamo di avere passioni affievolite ed emozioni false.
Insomma quella attuale è una società ad alto rischio che trasferisce sul piano individuale le proprie contraddizioni: secondo Ildo Tumscitz, psicologo e psicoterapeuta, in questa condizione di sicurezza endemica, assume un ruolo di primo piano l'elaborazione soggettiva dei rischi e delle minacce. Per contrastare i rischi di vulnerabilità e impoverimento del pensiero, è urgente mettere in atto misure adeguate nella scuola.
Il convegno organizzato dal Centro Gradiva si è svolto nel Centro Congressi di Lavarone con la partecipazione di numerosissimi docenti e terapeuti. L'iniziativa comprendeva anche, nell'arco di un'intera settimana, una rassegna cinematografica, una mostra dell'editoria psicoanalitica, presentazioni di libri. E a proposito di libri, il Premio Gradiva è stato assegnato, quest'anno, ex-aequo a due titoli: Il limite dell'esistenza di F. De Masi e Paesaggi della psiche di P. Aite, entrambi dell'editore Bollati Boringhieri.
la seconda e ultima parte del saggio di Citati su Hannah Arendt
Repubblica 16.7.03
LA VITA E LE IDEE/2
Riflettendo sul momento più buio della storia scrisse un libro grandioso, "Le origini del totalitarismo", opera politica e letteraria
Ciò che appassionava i dittatori era distruggere le leggi che avevano imposto
Tema antichissimo il Male era stato affrontato da Paolo da Agostino e da Kant
Nel 1944 amministrare le fabbriche della morte era per Hitler la cosa più importante
I regimi nazista e comunista sfuggivano a qualsiasi tentativo di spiegarne le ragioni
Nulla di così enorme o di così sistematico era mai accaduto nella storia universale
A New York dove si era trasferita nel 1941 apprese dei massacri attuati dai nazisti
PIETRO CITATI
Fu un´altra volta cacciata. Nel maggio 1941, mentre le truppe naziste occupavano la Francia, Hannah Arendt e Heinrich Blücher arrivarono a New York. La madre, Martha, giunse il 21 giugno. Avevano venticinque dollari e una borsa annuale di settanta dollari, offerta dalla Zionist Organization of America. Affittarono due stanzette ammobiliate al 317 di West 95 Street: una delle quali occupata dalla madre. La cucina era in comune con gli altri inquilini. Sopravvissuta al disastro, Hannah Arendt non aveva più niente: né libri né mobili né soldi né amici. Heinrich Blücher lavorava come sterratore, spalando prodotti chimici in uno stabilimento del New Jersey: diede lezioni sulla storia della Germania ai prigionieri di guerra tedeschi; infine venne assunto come annunciatore alla radio. Hannah Arendt scriveva su giornali ebraici in lingua tedesca, «con una foga e una durezza maschili»: partecipava a convegni politici; diventò direttrice di ricerche presso la Conference on Jewish Relations, caporedattrice presso la casa editrice Schocken, dove pubblicò i Diari di Kafka, e professoressa al Brooklyn College. Il tempo del petit bonheur di Parigi era finito: quelli di New York furono gli anni del lavoro intensissimo, della furia, delle amicizie culturali e politiche, del grande Libro e della gloria.
Amava gli Stati Uniti, che trovava passionately interesting: le piacevano la libertà e la partecipazione alla vita pubblica degli americani: «Non finisco di essere riconoscente per essere approdata qui». Era il regno del molteplice e dei colori. Parlava col giornalaio ebreo, il padrone del ristorante italiano, il panettiere tedesco, il portinaio francese, i quali chiedevano sempre di lei quando era lontana: e se sulle rive dello Hudson sentiva parlare tedesco, le si allargava il cuore, perché la lingua tedesca era innocente di ciò che accadeva in Europa. Conobbe molte persone: forse troppe. Invitava gli amici e i conoscenti nella piccola stanza fumosa; e, più tardi, nel primo vero appartamento, al 130 di Morningside Drive. Con gli amici condivideva il calore, la vitalità, il fascino della conversazione: talvolta era «un´orgia di chiacchiere»: le lettere a Mary McCarthy ci comunicano ancora il petillement e il pettegolezzo dell´amicizia femminile; quelle a Karl Jaspers la venerazione dell´antica discepola. Ascoltava e raccontava storie.
Quando giunsero a New York le prime notizie sui massacri nazisti, Hannah Arendt e Heinrich Blücher non vollero crederci. «E´ successa una cosa per la quale nessuno di noi era preparato... E´ accaduto qualcosa con cui era impossibile venire a patti... Ad Auschwitz è accaduto qualcosa che nessuno era preparato a comprendere», ripeté Hannah Arendt nei suoi libri, come se malgrado gli anni l´evento non potesse venire ammesso dalla mente. Lo stupore, l´orrore, la vergogna di essere uomini erano vivi come il primo giorno. Poi Hannah Arendt comprese. L´uomo aveva rivelato di poter compiere delitti, che superavano le immaginazioni più tremende. Aveva realizzato visioni infernali «senza che il cielo cadesse o la terra si aprisse». Nulla di così enorme o di così sistematico era mai accaduto nella storia universale. Auschwitz e la Kolyma non avevano precedenti. Nemmeno l´invasione dei Mongoli nel tredicesimo secolo: i paesi devastati, le città bruciate o sommerse dai fiumi, milioni di innocenti massacrati, piramidi di teste umane, roghi di Corani, uccisioni di bambini nel ventre delle madri.
Nessun mito religioso o fantasia letteraria o teoria politica aveva previsto i delitti del ventesimo secolo: né Caino, né Macbeth, né lady Macbeth, né Riccardo III, né Stavrogin. Shakespeare, Hobbes, Sade e Dostoevskij erano degli innocenti. Dopo Auschwitz e la Kolyma, tutto era possibile. Per decine di secoli, l´Occidente aveva conosciuto il decalogo: ma come si potevano applicare a Hitler e Stalin dei blandi comandamenti quali «non desiderare la donna d´altri», «non rubare», «non uccidere»? Non esistevano categorie psicologiche per comprenderli: né principii morali per giudicarli e punirli; né teorie politiche secondo le quali spiegare ciò che era accaduto. Per quanto l´intelligenza si sforzasse, il totalitarismo nazista e comunista sfuggiva a qualsiasi tentativo di indicarne le cause e le ragioni. Era inspiegabile, incomprensibile. Questa sarebbe stata la prima e l´ultima parola del grande libro che cominciò a nascere, a New York, sotto il segno del dolore e del terrore.
Le origini del Totalitarismo (titolo che la Arendt non amava) fu progettato probabilmente nel 1943. Venne concluso alla fine del 1949, e pubblicato nel 1951. Furono quasi sette anni di lavoro durissimo. C´erano gli articoli, il lavoro presso le organizzazioni ebraiche, la casa editrice, le conferenze all´università, e le letture nelle biblioteche, compiute con una specie di bulimia - il desiderio di leggere tutto, divorare tutto, possedere tutti i documenti, i libri e gli articoli, perché niente doveva venire dimenticato. La Arendt scrisse con ansia, come se non avesse tempo, o il nazismo potesse rinascere dalle sue ceneri di lava. Scrisse nel suo mediocre inglese, attraverso il quale affiora continuamente il tedesco: con ripetizioni e onde successive, e improvvisi e stupendi aforismi. Il libro comincia a fatica: poi si muove, si scioglie, si espande da tutte le parti, si divide in mille torrenti e rivoli, come un fiume in piena, che non può arrestarsi. Mai, in nessun rigo, c´è una traccia di partito preso ideologico: perché in futuro - essa disse - conteranno soltanto «coloro che non si identificheranno né con un´ideologia né con un potere». Purtroppo, il suo vaticinio non si è realizzato.
Oltre che un grandioso libro di storia politica, Le origini del Totalitarismo è un´opera letteraria: ci dà un piacere estetico, risvegliando in noi quello slancio di gioia vitale che suscitano le opere d´arte. Non ha equivalenti nel ventesimo secolo: libro di storia della cultura, dell´economia e della politica, racconto di fatti e di idee, analisi del cuore, visione, protesta, romanzo, pochade, pamphlet, atto d´accusa davanti al tribunale di Dio e, soprattutto, nascosto libro di teologia. La parte sull´antisemitismo è la più scandalosa. Hannah Arendt provava un´angosciosa compassione verso le sofferenze del suo popolo: una compassione che la feriva nella carne e la colpiva come un contagio. Ma la temeva: addirittura la odiava; e, scrivendo il suo libro e, più tardi, La banalità del male, cercò con tutti i mezzi di tenerla lontana. Come dice Dostoevskij, sbagliò, perché non dobbiamo mai avere paura della compassione, in qualsiasi regno dello spirito ci conduca. Spesso fu ingiusta verso i giudei parvenus o passivi, e mancò, come le scrisse Scholem, di «delicatezza del cuore». I capitoli sull´assimilazione ebraica nel diciannovesimo secolo sono stati scritti con divertimento, sarcasmo, talvolta euforia: le pagine sullo snobismo, la teatralità degli ebrei, le loro associazioni con gli antisemiti e il tentativo di entrare nell´esercito francese sono degni non so se di Labiche o di Proust. Questa mancanza di rispetto verso le vittime aggiunge, non toglie, alla crudele grandezza del libro.
Verso le figure del Male, c´è un´allegria e un disprezzo molto più feroci: la Arendt non dimentica mai che Hitler, Goebbels, Stalin, Berija, Eichmann erano in primo luogo degli imbianchini, dei mediocri seminaristi, degli infimi giornalisti o impiegati postali, che, in altri tempi, sarebbero stati cacciati da qualsiasi ufficio. Il Male moderno aveva una sinistra tenerezza per gli imbecilli. Ma questa allegria è solo un velo dietro il quale la Arendt si nasconde. Come scrisse Karl Jaspers, lei era un medico, che studiava per la prima volta una malattia sconosciuta: fino a quel momento se ne conosceva soltanto qualche sintomo e indizio; e, all´improvviso, mentre lavorava nel suo sgabuzzino, la malattia si rivelò davanti ai suoi occhi, come una struttura coerente e compatta, dotata di leggi e manifestazioni precise, capace delle più mortali neoplasie. Lei era là, nelle biblioteche americane, lontana dalla follia europea, e studiava la malattia. Se la capiva così bene, molto meglio di quanto la compresero mai gli storici di professione, era appunto perché lei non era una storica di professione. Abitava tra le idee religiose e filosofiche: Platone, Aristotele, Paolo, Agostino, san Tommaso, Hobbes, Kant; e con il soccorso delle loro luci poteva raccontare, con una lucidità che nessuno avrebbe più condiviso, i sinistri eventi del ventesimo secolo.
Cosa era dunque accaduto? E perché era accaduto? Quale era la malattia, che stava per uccidere l´Europa e il mondo? Quale era la sua origine e il suo fondamento? E cosa aveva scoperto Hannah Arendt, nel suo appartamentino di New York? La malattia era antichissima: il Male Assoluto, o il Male Metafisico, o il Male Radicale, come aveva detto Kant; il Male come sostanza terribilmente attiva, non come privazione o negazione del bene, o semplice eccezione alla regola normale dell´universo. Ne aveva parlato san Paolo, che scrisse: «Il volere è in mio potere, ma compiere il bene no. Sicché non faccio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio. Ma se faccio quello che non voglio, non sono io a farlo, ma la forza del peccato che abita in me»: dunque il male non sta più fuori, nel mondo, ma dentro di noi, sotto quelle pallide immagini che sono la nostra ragione, la nostra volontà e la nostra coscienza. Ne aveva trattato Agostino, nelle Confessioni, quando il bambino appena nato, «pallido, con lo sguardo amaro», invidia il fratello nato dalla stessa madre; e la Gnosi, immaginando il cosmo come un meccanismo rigido e tirannico, privo di luce divina, una fortezza ermeticamente chiusa, circondata da muri e fossati invalicabili, dove siamo imprigionati dalla doppia catena del corpo e del tempo. Nei tempi moderni ne aveva raccontato Dostoevskij, quando rappresentò la natura, senza la resurrezione del Cristo, come una grande bestia: un enorme scorpione, o un ragno, o una tarantola; o una macchina sorda e insensibile, «che aveva afferrato, maciullato e inghiottito Cristo, una figura sublime e inestimabile».
Nel ventesimo secolo il Male Assoluto, che prima di allora aveva dato moltissimi cenni di sé, si era incarnato per la prima volta nella sua forma totale. Il nazismo e lo stalinismo erano Male Assoluto senza eccezione: non c´era niente, in essi, che non fosse Peccato e Satana. L´irruzione nella storia era stata abbacinante e senza rimedio, senza una minima traccia di imprevedibilità o un barlume di luce. Nazismo e stalinismo avevano storia e precedenti completamente diversi, che la Arendt indagò, almeno in parte, nelle Origini del Totalitarismo; e non esercitarono influenza l´uno sull´altro né ebbero veri rapporti, sebbene Hitler e Stalin si ammirassero a vicenda, come il grande criminale ama il grande criminale. Ma chi indagava, nel laboratorio del medico, le istituzioni e le leggi profonde del nazismo e dello stalinismo, si accorgeva che erano le stesse. La loro struttura era identica: come se il Male Assoluto, nel ventesimo secolo, potesse adottare una sola incarnazione, o avesse preparato da secoli, nei segreti della storia, quest´apparizione atroce.
Hannah Arendt aveva raccontato come, nei primi anni del secolo, il potere dell´imperialismo diventasse puro, separandosi dalla comunità politica che avrebbe dovuto servire. Il potere era ormai l´unico contenuto della politica. Non si arrestava mai: obbediva a una espansione illimitata di sé stesso, come se fossero ritornati i tempi di Alessandro Magno. Ma con Hitler e Stalin, quel progetto si capovolse: non mirava più all´aumento delle ricchezze, e non obbediva a nessuna considerazione di carattere economico o militare. Per Stalin, lo sviluppo ininterrotto della polizia era molto più decisivo del petrolio di Baku, del carbone degli Urali, dei cereali dell´Ucraina, dei tesori della Siberia. Distrusse l´agricoltura sovietica: fucilò i generali alla vigilia dell´invasione tedesca. Nel 1944, amministrare le fabbriche della morte era, per Hitler, più importante che vincere la guerra. Sebbene gli stati totalitari costruissero un rigido sistema di leggi e di gerarchie, ciò che appassionava Hitler e Stalin era distruggere le leggi che avevano imposto. Le gerarchie formavano dei poteri paralleli, che si occupavano della stessa materia: ognuno più potente dell´altro, ognuno più misterioso e invisibile dell´altro - polizie sempre più segrete, istituti sempre più oscuri. La gerarchia più potente era quella di cui, alla superficie, non giungeva nemmeno una traccia. Con disperazione dei politologi, non si erano mai visti stati più complessi, confusi e intricati degli onnipotenti stati nazista e comunista. Erano molto più prossimi alle invenzioni della Cabbala, che ai moderni ordinamenti politici. Nebel und Nacht, «nebbia e notte», come diceva il titolo che raccoglieva i documenti sui campi di sterminio.
In questa «nebbia e notte», i fedelissimi adoratori di Stalin e di Hitler erano rotelle di una macchina: come disse Himmler, in «nessun caso avrebbero fatto una cosa per sé stessa». Il vero antenato dei nazisti e dei comunisti era Necaev, il terrorista russo allievo di Bakunin: «Il rivoluzionario non ha interessi propri, affari privati, sentimenti, legami personali, proprietà. Non ha neppure un nome. Un unico interesse lo assorbe ed esclude ogni altro, un unico pensiero, un´unica passione... Conosce un´unica scienza: la scienza della distruzione». Quanto ai sudditi, dovevano rinunciare ad ogni ricordo della vita privata, dimenticando il gioco degli scacchi o lo scopone scientifico o la pittura. Sopra ogni cosa, cancellare tutto ciò che era spontaneo, casuale, imprevedibile nell´esistenza: cioè la vita stessa. La voce dell´esperienza doveva tacere. Non c´erano più fatti. Nell´opaco tramonto di tutto il visibile, trionfava soltanto l´ideologia: elementi fantastici, osservazioni immaginarie, trasformate in un sistema fitto, compatto, unitario, che in sogno rispondeva a tutte le domande.
Sebbene non venisse mai pronunciato, il vero nome dei sudditi era peccatori, che nel gergo staliniano si traduceva con nemici oggettivi. Qualsiasi cosa facessero erano colpevoli: non importava che conducessero una vita esemplare, rispettando la legge, inneggiando a Hitler, a Stalin e ai loro servi, perché le leggi cambiavano continuamente e la suprema virtù di oggi diventava, domani, la suprema colpa. E poi la colpa stava scritta non nelle azioni ma nei cuori, che sono incomprensibili. Né i poliziotti né gli accusati potevano conoscerli a fondo. Il poliziotto sovietico aveva sviluppato il dono di scoprire e smascherare la colpa, come un teologo bizantino. Ma tutto questo non serviva a niente: né lo spionaggio, né l´analisi, né l´autoanalisi. La certezza rimaneva unica: i sudditi erano insieme colpevoli e superflui. Tutti meritavano di essere torturati, fucilati, gassati ad Auschwitz e negli altri campi, fatti a pezzi, uccisi dalla fame, mandati a morire di gelo nelle miniere della Kolyma. Nel momento della morte, diventavano finalmente eguali, come Dio li aveva creati. «Non morivano come individui, uomini e donne, bambini e adulti, buoni e cattivi, belli e brutti, ma venivano ridotti al minimo comun denominatore della vita organica, sprofondati nell´abisso più profondo e cupo dell´uguaglianza originaria. Morivano come bestie, come materia, come cose che non avevano più né corpo né anima, nemmeno un volto su cui la morte potesse imporre il suo sigillo».
Il potere totalitario divorava i suoi figli: Stalin mandò nei gulag e fece uccidere i comunisti che lo avevano sostenuto contro Trockij e Bucharin; i servi di Hitler diventarono sempre più insicuri, sebbene mascherassero l´incertezza con la ferocia. Sia in Germania che in Russia, via via che l´opposizione politica perdeva ogni forza, il terrore crebbe, diventando infinito. In Unione Sovietica si proclamò (sebbene venisse combattuta a parole) la «rivoluzione permanente»: in Germania, la «costante marcia in avanti verso obiettivi continuamente nuovi». Ogni stabilità era uccisa. Un movimento incessante, folle, spasmodico trascinava avanti i capi, i seguaci, le folle, cambiava programmi e nemici, liquidava lo stato e le gerarchie, cancellava l´amministrazione, annullava i miglioramenti economici. Nemmeno l´ideologia contava più: nemmeno l´antisemitismo aveva più rilievo; lo sterminio non sarebbe cessato nemmeno quando tutti gli ebrei fossero morti. Sia Stalin sia Mao Tse-Tung miravano a un altro balzo in avanti, che sarebbe stato seguito da una serie inimmaginabile di balzi in avanti. Mai era accaduto che la storia venisse così battuta, istigata e sferzata, costretta a un ritmo tanto vertiginoso. Alla fine, il potere totalitario confessava la sua anima nichilista: la sua natura consisteva in questo incessante processo di distruzione di sé e di ogni potere possibile. Non voleva il governo del mondo, ma la fine e l´esplosione definitiva del mondo.
Nella Summa Theologica, san Tommaso scrisse una frase mirabile: «Se il male totale potesse essere, distruggerebbe sé stesso». San Tommaso aveva torto: il ventesimo secolo ha dimostrato che il male totale esiste: eppure esso vuole, pretende la propria distruzione, come Hitler e Stalin hanno dimostrato. Hannah Arendt pensava che i governi democratici non comprendessero la natura profonda del loro avversario: Churchill, Roosevelt e De Gaulle erano dei nipioi avrebbero detto i greci. Ma il totalitarismo era uno sconosciuto: forse persino a sé stesso; e ignota era la forza che lo portava alla propria cancellazione. Un teologo cattolico avrebbe aggiunto che il Male Assoluto non può durare nella storia, sebbene sembri, per qualche tempo, trionfare. Nessun altro segno ci rivela che la Provvidenza non abita soltanto nei dimenticati libri di teologia della tradizione cristiana.
Hitler e Stalin possedevano un´immaginazione, dalla quale noi, mediocri inquilini del ventunesimo secolo, siamo ancora atterriti. Come il presidente Schreber, forse erano dei paranoici che hanno riempito alcuni decenni di delirii e spaventosi fantasmi, inscenando quel grandioso spettacolo teatrale che è l´inferno. Ma forse Hitler e Stalin non erano affatto paranoici. Avevano capito che la paranoia ininterrotta è l´unico sistema possibile di potere assoluto: qualche volta Stalin appariva dietro le quinte, guardava ironicamente, si prendeva gioco dello spettacolo che aveva inscenato, di sé stesso burattinaio, di noi tutti, poveri burattini. Non siamo certi di nulla. Forse Hitler e Stalin furono capi politici, che cambiavano pareri e desideri con velocità inimmaginabile. Forse furono degli spettri, i quali misero in moto una forza sconosciuta, che funzionò per molti anni da sola: lo scorpione, il grande ragno, la tarantola, la macchina sorda e insensibile di Dostoevskij, che maciullò decine di milioni di uomini.
Nel suo misero stanzino di New York, Hannah Arendt aveva studiato gli antecedenti del totalitarismo: l´antisemitismo ottocentesco, l´imperialismo dei primi anni del secolo, in parte il marxismo fino a Lenin e Stalin. Aveva scoperto i sintomi, le leggi, la struttura della malattia sconosciuta. Il suo lungo lavoro era compiuto, nel grande libro che ancora oggi vive davanti a noi, ci stimola e ci agita. Ma la sua conclusione era la stessa di quando le prime notizie sullo sterminio giunsero a New York. Per quanto se ne studi la storia, il totalitarismo è incomprensibile. Non ha cause precise. Non si può capire perché il livore antisemita e il fanatismo marxista abbiano condotto a Auschwitz e alla Kolyma. Il Male Assoluto resta inspiegabile: la profonda oscurità del mondo.
[ * * *]
Negli anni in cui Hannah Arendt scriveva, Auschwitz sconvolse le intelligenze dei teologi ebrei e cristiani. Dio, che era apparso nella Bibbia, non intervenne mai: non lasciò nemmeno un segno nei lager e dei gulag. Meglio di ogni altro, Hans Jonas spiegò la sua assenza. Quando creò la terra e l´uomo, con un atto di sovranità assoluta Dio consentì a non essere più il Signore della Bibbia: si autolimitò, rinunciò alla propria onnipotenza, venne intaccato da ciò che, nel mondo, «accade e tramonta». Con questo gesto, rischiò, affrontò una condizione di costante pericolo, si indebolì, diventò vulnerabile - come noi, sue creature, siamo feribili e vulnerabili. Così, a Auschwitz e alla Kolyma, Dio non salvò nemmeno una persona: i miracoli che accaddero durante la persecuzione furono opera di creature umane. Tacque. Rimase immerso nel più assoluto silenzio. Non intervenne nella storia degli uomini: non perché non volle, ma perché non era più in condizione di farlo.
Hannah Arendt rifiutò la spiegazione di Hans Jonas, che risaliva alle grandiose speculazioni della Gnosi ebraica. Proprio lei, che aveva compreso e rappresentato come nessun altro il Male metafisico del ventesimo secolo, rinunciò a qualsiasi interpretazione gnostica e manichea del mondo moderno. Quando anni dopo vide Eichmann a Gerusalemme - questo pallido fantasma rinchiuso nella scatola di vetro, quest´uomo di mezza età, magro, di statura media, con un´incipiente calvizie, dentatura irregolare, occhi miopi, un tic nervoso alle labbra, pieno di buoni sentimenti e ossequioso a tutte le leggi - si convinse che non era un mostro né una creatura demoniaca. Era soltanto un uomo normale: un impiegato qualsiasi, uno scrupoloso paterfamilias come Himmler. Il male possedeva «una spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità».
La visione di Eichmann nella scatola di vetro sconvolse la Arendt. E, discutendo subito dopo con Gershom Scholem, giunse a sostenere che il Male «radicale» o «assoluto» o «metafisico» non esiste, perché non ha profondità né dimensione demoniaca. «Solo il bene - aggiunse - è profondo», radicale e assoluto. La Arendt aveva torto. Il Male Assoluto può scegliere, e ha preferito scegliere nel secolo scorso, gli Himmler e gli Eichmann, gli uomini normali e banali, per realizzare le sue mete: ma anche in loro, nel loro mediocre buon senso, nel rispetto della legge, nei buoni sentimenti da scrupolosi padri di famiglia, si avverte l´orribile soffio della Tenebra. Sotto il nazismo e lo stalinismo, muovendo da quegli oscuri centri di irradiazione che furono Hitler e Stalin, il contagio aveva invaso tutti i servi del potere, cancellando i decaloghi e le regole della convivenza civile. Il mostruoso e il demoniaco erano presenti dappertutto, in qualsiasi veste e maschera. Quando la Arendt negava che il Male Assoluto esistesse, agiva su di lei la tradizione del pensiero cristiano, che ebbe sempre terrore di ogni concezione autonoma del Male, e rifuggì da ogni sia pur vago ricordo gnostico e manicheo. Il Male, dicevano gli scrittori cristiani (ma non Paolo né sempre Agostino) era soltanto una privazione di bene, senza sostanza propria.
Malgrado la sua lucida rappresentazione del Totalitarismo, Hannah Arendt non credette più, nell´ultima parte della sua vita, che la potenza oscura potesse invadere e soggiogare la terra. «Non si può andare, ella disse, contro la propria vitalità naturale»; e lei era felice. Quando vedeva la creazione, contemplava gli spettacoli della luce, i paesaggi d´America e d´Europa, parlava con gli amici, passeggiava per le vie di Parigi, si appassionava e scriveva e rideva piena di gioia, il mondo le «sembrava buono». Malgrado le parole di Nietzsche, pensava che Dio non fosse morto. Aveva conservato una infantile fiducia nel mite Dio della Bibbia, che crea la luce, il firmamento, il sole, la luna, i volatili, i pesci, le erbe verdi, i passeri e le cicogne, e foggia l´uomo a sua immagine e somiglianza. Da lui ci viene la nostra parte e dignità nella creazione. Egli ci dà il mondo. Ci dà la bontà, che è più forte del male. Ci dà l´inizio, che, diceva Platone, salva ogni cosa; e il miracolo. Soprattutto ci dà la compassione: la virtù suprema, più alta di qualsiasi sentimento umano, sebbene la Arendt avesse rifiutato di manifestarla verso gli Ebrei. La compassione abolisce ogni distanza tra gli uomini, e tra Dio e l´uomo. Gesù la prova nel discorso del Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij: la prova in silenzio, perché la voce della compassione è uno «strano silenzio» e uno strano imbarazzo verso le parole, che la contrappone alla eloquenza della virtù.
(2. Fine)
LA VITA E LE IDEE/2
Riflettendo sul momento più buio della storia scrisse un libro grandioso, "Le origini del totalitarismo", opera politica e letteraria
Ciò che appassionava i dittatori era distruggere le leggi che avevano imposto
Tema antichissimo il Male era stato affrontato da Paolo da Agostino e da Kant
Nel 1944 amministrare le fabbriche della morte era per Hitler la cosa più importante
I regimi nazista e comunista sfuggivano a qualsiasi tentativo di spiegarne le ragioni
Nulla di così enorme o di così sistematico era mai accaduto nella storia universale
A New York dove si era trasferita nel 1941 apprese dei massacri attuati dai nazisti
PIETRO CITATI
Fu un´altra volta cacciata. Nel maggio 1941, mentre le truppe naziste occupavano la Francia, Hannah Arendt e Heinrich Blücher arrivarono a New York. La madre, Martha, giunse il 21 giugno. Avevano venticinque dollari e una borsa annuale di settanta dollari, offerta dalla Zionist Organization of America. Affittarono due stanzette ammobiliate al 317 di West 95 Street: una delle quali occupata dalla madre. La cucina era in comune con gli altri inquilini. Sopravvissuta al disastro, Hannah Arendt non aveva più niente: né libri né mobili né soldi né amici. Heinrich Blücher lavorava come sterratore, spalando prodotti chimici in uno stabilimento del New Jersey: diede lezioni sulla storia della Germania ai prigionieri di guerra tedeschi; infine venne assunto come annunciatore alla radio. Hannah Arendt scriveva su giornali ebraici in lingua tedesca, «con una foga e una durezza maschili»: partecipava a convegni politici; diventò direttrice di ricerche presso la Conference on Jewish Relations, caporedattrice presso la casa editrice Schocken, dove pubblicò i Diari di Kafka, e professoressa al Brooklyn College. Il tempo del petit bonheur di Parigi era finito: quelli di New York furono gli anni del lavoro intensissimo, della furia, delle amicizie culturali e politiche, del grande Libro e della gloria.
Amava gli Stati Uniti, che trovava passionately interesting: le piacevano la libertà e la partecipazione alla vita pubblica degli americani: «Non finisco di essere riconoscente per essere approdata qui». Era il regno del molteplice e dei colori. Parlava col giornalaio ebreo, il padrone del ristorante italiano, il panettiere tedesco, il portinaio francese, i quali chiedevano sempre di lei quando era lontana: e se sulle rive dello Hudson sentiva parlare tedesco, le si allargava il cuore, perché la lingua tedesca era innocente di ciò che accadeva in Europa. Conobbe molte persone: forse troppe. Invitava gli amici e i conoscenti nella piccola stanza fumosa; e, più tardi, nel primo vero appartamento, al 130 di Morningside Drive. Con gli amici condivideva il calore, la vitalità, il fascino della conversazione: talvolta era «un´orgia di chiacchiere»: le lettere a Mary McCarthy ci comunicano ancora il petillement e il pettegolezzo dell´amicizia femminile; quelle a Karl Jaspers la venerazione dell´antica discepola. Ascoltava e raccontava storie.
Quando giunsero a New York le prime notizie sui massacri nazisti, Hannah Arendt e Heinrich Blücher non vollero crederci. «E´ successa una cosa per la quale nessuno di noi era preparato... E´ accaduto qualcosa con cui era impossibile venire a patti... Ad Auschwitz è accaduto qualcosa che nessuno era preparato a comprendere», ripeté Hannah Arendt nei suoi libri, come se malgrado gli anni l´evento non potesse venire ammesso dalla mente. Lo stupore, l´orrore, la vergogna di essere uomini erano vivi come il primo giorno. Poi Hannah Arendt comprese. L´uomo aveva rivelato di poter compiere delitti, che superavano le immaginazioni più tremende. Aveva realizzato visioni infernali «senza che il cielo cadesse o la terra si aprisse». Nulla di così enorme o di così sistematico era mai accaduto nella storia universale. Auschwitz e la Kolyma non avevano precedenti. Nemmeno l´invasione dei Mongoli nel tredicesimo secolo: i paesi devastati, le città bruciate o sommerse dai fiumi, milioni di innocenti massacrati, piramidi di teste umane, roghi di Corani, uccisioni di bambini nel ventre delle madri.
Nessun mito religioso o fantasia letteraria o teoria politica aveva previsto i delitti del ventesimo secolo: né Caino, né Macbeth, né lady Macbeth, né Riccardo III, né Stavrogin. Shakespeare, Hobbes, Sade e Dostoevskij erano degli innocenti. Dopo Auschwitz e la Kolyma, tutto era possibile. Per decine di secoli, l´Occidente aveva conosciuto il decalogo: ma come si potevano applicare a Hitler e Stalin dei blandi comandamenti quali «non desiderare la donna d´altri», «non rubare», «non uccidere»? Non esistevano categorie psicologiche per comprenderli: né principii morali per giudicarli e punirli; né teorie politiche secondo le quali spiegare ciò che era accaduto. Per quanto l´intelligenza si sforzasse, il totalitarismo nazista e comunista sfuggiva a qualsiasi tentativo di indicarne le cause e le ragioni. Era inspiegabile, incomprensibile. Questa sarebbe stata la prima e l´ultima parola del grande libro che cominciò a nascere, a New York, sotto il segno del dolore e del terrore.
Le origini del Totalitarismo (titolo che la Arendt non amava) fu progettato probabilmente nel 1943. Venne concluso alla fine del 1949, e pubblicato nel 1951. Furono quasi sette anni di lavoro durissimo. C´erano gli articoli, il lavoro presso le organizzazioni ebraiche, la casa editrice, le conferenze all´università, e le letture nelle biblioteche, compiute con una specie di bulimia - il desiderio di leggere tutto, divorare tutto, possedere tutti i documenti, i libri e gli articoli, perché niente doveva venire dimenticato. La Arendt scrisse con ansia, come se non avesse tempo, o il nazismo potesse rinascere dalle sue ceneri di lava. Scrisse nel suo mediocre inglese, attraverso il quale affiora continuamente il tedesco: con ripetizioni e onde successive, e improvvisi e stupendi aforismi. Il libro comincia a fatica: poi si muove, si scioglie, si espande da tutte le parti, si divide in mille torrenti e rivoli, come un fiume in piena, che non può arrestarsi. Mai, in nessun rigo, c´è una traccia di partito preso ideologico: perché in futuro - essa disse - conteranno soltanto «coloro che non si identificheranno né con un´ideologia né con un potere». Purtroppo, il suo vaticinio non si è realizzato.
Oltre che un grandioso libro di storia politica, Le origini del Totalitarismo è un´opera letteraria: ci dà un piacere estetico, risvegliando in noi quello slancio di gioia vitale che suscitano le opere d´arte. Non ha equivalenti nel ventesimo secolo: libro di storia della cultura, dell´economia e della politica, racconto di fatti e di idee, analisi del cuore, visione, protesta, romanzo, pochade, pamphlet, atto d´accusa davanti al tribunale di Dio e, soprattutto, nascosto libro di teologia. La parte sull´antisemitismo è la più scandalosa. Hannah Arendt provava un´angosciosa compassione verso le sofferenze del suo popolo: una compassione che la feriva nella carne e la colpiva come un contagio. Ma la temeva: addirittura la odiava; e, scrivendo il suo libro e, più tardi, La banalità del male, cercò con tutti i mezzi di tenerla lontana. Come dice Dostoevskij, sbagliò, perché non dobbiamo mai avere paura della compassione, in qualsiasi regno dello spirito ci conduca. Spesso fu ingiusta verso i giudei parvenus o passivi, e mancò, come le scrisse Scholem, di «delicatezza del cuore». I capitoli sull´assimilazione ebraica nel diciannovesimo secolo sono stati scritti con divertimento, sarcasmo, talvolta euforia: le pagine sullo snobismo, la teatralità degli ebrei, le loro associazioni con gli antisemiti e il tentativo di entrare nell´esercito francese sono degni non so se di Labiche o di Proust. Questa mancanza di rispetto verso le vittime aggiunge, non toglie, alla crudele grandezza del libro.
Verso le figure del Male, c´è un´allegria e un disprezzo molto più feroci: la Arendt non dimentica mai che Hitler, Goebbels, Stalin, Berija, Eichmann erano in primo luogo degli imbianchini, dei mediocri seminaristi, degli infimi giornalisti o impiegati postali, che, in altri tempi, sarebbero stati cacciati da qualsiasi ufficio. Il Male moderno aveva una sinistra tenerezza per gli imbecilli. Ma questa allegria è solo un velo dietro il quale la Arendt si nasconde. Come scrisse Karl Jaspers, lei era un medico, che studiava per la prima volta una malattia sconosciuta: fino a quel momento se ne conosceva soltanto qualche sintomo e indizio; e, all´improvviso, mentre lavorava nel suo sgabuzzino, la malattia si rivelò davanti ai suoi occhi, come una struttura coerente e compatta, dotata di leggi e manifestazioni precise, capace delle più mortali neoplasie. Lei era là, nelle biblioteche americane, lontana dalla follia europea, e studiava la malattia. Se la capiva così bene, molto meglio di quanto la compresero mai gli storici di professione, era appunto perché lei non era una storica di professione. Abitava tra le idee religiose e filosofiche: Platone, Aristotele, Paolo, Agostino, san Tommaso, Hobbes, Kant; e con il soccorso delle loro luci poteva raccontare, con una lucidità che nessuno avrebbe più condiviso, i sinistri eventi del ventesimo secolo.
Cosa era dunque accaduto? E perché era accaduto? Quale era la malattia, che stava per uccidere l´Europa e il mondo? Quale era la sua origine e il suo fondamento? E cosa aveva scoperto Hannah Arendt, nel suo appartamentino di New York? La malattia era antichissima: il Male Assoluto, o il Male Metafisico, o il Male Radicale, come aveva detto Kant; il Male come sostanza terribilmente attiva, non come privazione o negazione del bene, o semplice eccezione alla regola normale dell´universo. Ne aveva parlato san Paolo, che scrisse: «Il volere è in mio potere, ma compiere il bene no. Sicché non faccio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio. Ma se faccio quello che non voglio, non sono io a farlo, ma la forza del peccato che abita in me»: dunque il male non sta più fuori, nel mondo, ma dentro di noi, sotto quelle pallide immagini che sono la nostra ragione, la nostra volontà e la nostra coscienza. Ne aveva trattato Agostino, nelle Confessioni, quando il bambino appena nato, «pallido, con lo sguardo amaro», invidia il fratello nato dalla stessa madre; e la Gnosi, immaginando il cosmo come un meccanismo rigido e tirannico, privo di luce divina, una fortezza ermeticamente chiusa, circondata da muri e fossati invalicabili, dove siamo imprigionati dalla doppia catena del corpo e del tempo. Nei tempi moderni ne aveva raccontato Dostoevskij, quando rappresentò la natura, senza la resurrezione del Cristo, come una grande bestia: un enorme scorpione, o un ragno, o una tarantola; o una macchina sorda e insensibile, «che aveva afferrato, maciullato e inghiottito Cristo, una figura sublime e inestimabile».
Nel ventesimo secolo il Male Assoluto, che prima di allora aveva dato moltissimi cenni di sé, si era incarnato per la prima volta nella sua forma totale. Il nazismo e lo stalinismo erano Male Assoluto senza eccezione: non c´era niente, in essi, che non fosse Peccato e Satana. L´irruzione nella storia era stata abbacinante e senza rimedio, senza una minima traccia di imprevedibilità o un barlume di luce. Nazismo e stalinismo avevano storia e precedenti completamente diversi, che la Arendt indagò, almeno in parte, nelle Origini del Totalitarismo; e non esercitarono influenza l´uno sull´altro né ebbero veri rapporti, sebbene Hitler e Stalin si ammirassero a vicenda, come il grande criminale ama il grande criminale. Ma chi indagava, nel laboratorio del medico, le istituzioni e le leggi profonde del nazismo e dello stalinismo, si accorgeva che erano le stesse. La loro struttura era identica: come se il Male Assoluto, nel ventesimo secolo, potesse adottare una sola incarnazione, o avesse preparato da secoli, nei segreti della storia, quest´apparizione atroce.
Hannah Arendt aveva raccontato come, nei primi anni del secolo, il potere dell´imperialismo diventasse puro, separandosi dalla comunità politica che avrebbe dovuto servire. Il potere era ormai l´unico contenuto della politica. Non si arrestava mai: obbediva a una espansione illimitata di sé stesso, come se fossero ritornati i tempi di Alessandro Magno. Ma con Hitler e Stalin, quel progetto si capovolse: non mirava più all´aumento delle ricchezze, e non obbediva a nessuna considerazione di carattere economico o militare. Per Stalin, lo sviluppo ininterrotto della polizia era molto più decisivo del petrolio di Baku, del carbone degli Urali, dei cereali dell´Ucraina, dei tesori della Siberia. Distrusse l´agricoltura sovietica: fucilò i generali alla vigilia dell´invasione tedesca. Nel 1944, amministrare le fabbriche della morte era, per Hitler, più importante che vincere la guerra. Sebbene gli stati totalitari costruissero un rigido sistema di leggi e di gerarchie, ciò che appassionava Hitler e Stalin era distruggere le leggi che avevano imposto. Le gerarchie formavano dei poteri paralleli, che si occupavano della stessa materia: ognuno più potente dell´altro, ognuno più misterioso e invisibile dell´altro - polizie sempre più segrete, istituti sempre più oscuri. La gerarchia più potente era quella di cui, alla superficie, non giungeva nemmeno una traccia. Con disperazione dei politologi, non si erano mai visti stati più complessi, confusi e intricati degli onnipotenti stati nazista e comunista. Erano molto più prossimi alle invenzioni della Cabbala, che ai moderni ordinamenti politici. Nebel und Nacht, «nebbia e notte», come diceva il titolo che raccoglieva i documenti sui campi di sterminio.
In questa «nebbia e notte», i fedelissimi adoratori di Stalin e di Hitler erano rotelle di una macchina: come disse Himmler, in «nessun caso avrebbero fatto una cosa per sé stessa». Il vero antenato dei nazisti e dei comunisti era Necaev, il terrorista russo allievo di Bakunin: «Il rivoluzionario non ha interessi propri, affari privati, sentimenti, legami personali, proprietà. Non ha neppure un nome. Un unico interesse lo assorbe ed esclude ogni altro, un unico pensiero, un´unica passione... Conosce un´unica scienza: la scienza della distruzione». Quanto ai sudditi, dovevano rinunciare ad ogni ricordo della vita privata, dimenticando il gioco degli scacchi o lo scopone scientifico o la pittura. Sopra ogni cosa, cancellare tutto ciò che era spontaneo, casuale, imprevedibile nell´esistenza: cioè la vita stessa. La voce dell´esperienza doveva tacere. Non c´erano più fatti. Nell´opaco tramonto di tutto il visibile, trionfava soltanto l´ideologia: elementi fantastici, osservazioni immaginarie, trasformate in un sistema fitto, compatto, unitario, che in sogno rispondeva a tutte le domande.
Sebbene non venisse mai pronunciato, il vero nome dei sudditi era peccatori, che nel gergo staliniano si traduceva con nemici oggettivi. Qualsiasi cosa facessero erano colpevoli: non importava che conducessero una vita esemplare, rispettando la legge, inneggiando a Hitler, a Stalin e ai loro servi, perché le leggi cambiavano continuamente e la suprema virtù di oggi diventava, domani, la suprema colpa. E poi la colpa stava scritta non nelle azioni ma nei cuori, che sono incomprensibili. Né i poliziotti né gli accusati potevano conoscerli a fondo. Il poliziotto sovietico aveva sviluppato il dono di scoprire e smascherare la colpa, come un teologo bizantino. Ma tutto questo non serviva a niente: né lo spionaggio, né l´analisi, né l´autoanalisi. La certezza rimaneva unica: i sudditi erano insieme colpevoli e superflui. Tutti meritavano di essere torturati, fucilati, gassati ad Auschwitz e negli altri campi, fatti a pezzi, uccisi dalla fame, mandati a morire di gelo nelle miniere della Kolyma. Nel momento della morte, diventavano finalmente eguali, come Dio li aveva creati. «Non morivano come individui, uomini e donne, bambini e adulti, buoni e cattivi, belli e brutti, ma venivano ridotti al minimo comun denominatore della vita organica, sprofondati nell´abisso più profondo e cupo dell´uguaglianza originaria. Morivano come bestie, come materia, come cose che non avevano più né corpo né anima, nemmeno un volto su cui la morte potesse imporre il suo sigillo».
Il potere totalitario divorava i suoi figli: Stalin mandò nei gulag e fece uccidere i comunisti che lo avevano sostenuto contro Trockij e Bucharin; i servi di Hitler diventarono sempre più insicuri, sebbene mascherassero l´incertezza con la ferocia. Sia in Germania che in Russia, via via che l´opposizione politica perdeva ogni forza, il terrore crebbe, diventando infinito. In Unione Sovietica si proclamò (sebbene venisse combattuta a parole) la «rivoluzione permanente»: in Germania, la «costante marcia in avanti verso obiettivi continuamente nuovi». Ogni stabilità era uccisa. Un movimento incessante, folle, spasmodico trascinava avanti i capi, i seguaci, le folle, cambiava programmi e nemici, liquidava lo stato e le gerarchie, cancellava l´amministrazione, annullava i miglioramenti economici. Nemmeno l´ideologia contava più: nemmeno l´antisemitismo aveva più rilievo; lo sterminio non sarebbe cessato nemmeno quando tutti gli ebrei fossero morti. Sia Stalin sia Mao Tse-Tung miravano a un altro balzo in avanti, che sarebbe stato seguito da una serie inimmaginabile di balzi in avanti. Mai era accaduto che la storia venisse così battuta, istigata e sferzata, costretta a un ritmo tanto vertiginoso. Alla fine, il potere totalitario confessava la sua anima nichilista: la sua natura consisteva in questo incessante processo di distruzione di sé e di ogni potere possibile. Non voleva il governo del mondo, ma la fine e l´esplosione definitiva del mondo.
Nella Summa Theologica, san Tommaso scrisse una frase mirabile: «Se il male totale potesse essere, distruggerebbe sé stesso». San Tommaso aveva torto: il ventesimo secolo ha dimostrato che il male totale esiste: eppure esso vuole, pretende la propria distruzione, come Hitler e Stalin hanno dimostrato. Hannah Arendt pensava che i governi democratici non comprendessero la natura profonda del loro avversario: Churchill, Roosevelt e De Gaulle erano dei nipioi avrebbero detto i greci. Ma il totalitarismo era uno sconosciuto: forse persino a sé stesso; e ignota era la forza che lo portava alla propria cancellazione. Un teologo cattolico avrebbe aggiunto che il Male Assoluto non può durare nella storia, sebbene sembri, per qualche tempo, trionfare. Nessun altro segno ci rivela che la Provvidenza non abita soltanto nei dimenticati libri di teologia della tradizione cristiana.
Hitler e Stalin possedevano un´immaginazione, dalla quale noi, mediocri inquilini del ventunesimo secolo, siamo ancora atterriti. Come il presidente Schreber, forse erano dei paranoici che hanno riempito alcuni decenni di delirii e spaventosi fantasmi, inscenando quel grandioso spettacolo teatrale che è l´inferno. Ma forse Hitler e Stalin non erano affatto paranoici. Avevano capito che la paranoia ininterrotta è l´unico sistema possibile di potere assoluto: qualche volta Stalin appariva dietro le quinte, guardava ironicamente, si prendeva gioco dello spettacolo che aveva inscenato, di sé stesso burattinaio, di noi tutti, poveri burattini. Non siamo certi di nulla. Forse Hitler e Stalin furono capi politici, che cambiavano pareri e desideri con velocità inimmaginabile. Forse furono degli spettri, i quali misero in moto una forza sconosciuta, che funzionò per molti anni da sola: lo scorpione, il grande ragno, la tarantola, la macchina sorda e insensibile di Dostoevskij, che maciullò decine di milioni di uomini.
Nel suo misero stanzino di New York, Hannah Arendt aveva studiato gli antecedenti del totalitarismo: l´antisemitismo ottocentesco, l´imperialismo dei primi anni del secolo, in parte il marxismo fino a Lenin e Stalin. Aveva scoperto i sintomi, le leggi, la struttura della malattia sconosciuta. Il suo lungo lavoro era compiuto, nel grande libro che ancora oggi vive davanti a noi, ci stimola e ci agita. Ma la sua conclusione era la stessa di quando le prime notizie sullo sterminio giunsero a New York. Per quanto se ne studi la storia, il totalitarismo è incomprensibile. Non ha cause precise. Non si può capire perché il livore antisemita e il fanatismo marxista abbiano condotto a Auschwitz e alla Kolyma. Il Male Assoluto resta inspiegabile: la profonda oscurità del mondo.
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Negli anni in cui Hannah Arendt scriveva, Auschwitz sconvolse le intelligenze dei teologi ebrei e cristiani. Dio, che era apparso nella Bibbia, non intervenne mai: non lasciò nemmeno un segno nei lager e dei gulag. Meglio di ogni altro, Hans Jonas spiegò la sua assenza. Quando creò la terra e l´uomo, con un atto di sovranità assoluta Dio consentì a non essere più il Signore della Bibbia: si autolimitò, rinunciò alla propria onnipotenza, venne intaccato da ciò che, nel mondo, «accade e tramonta». Con questo gesto, rischiò, affrontò una condizione di costante pericolo, si indebolì, diventò vulnerabile - come noi, sue creature, siamo feribili e vulnerabili. Così, a Auschwitz e alla Kolyma, Dio non salvò nemmeno una persona: i miracoli che accaddero durante la persecuzione furono opera di creature umane. Tacque. Rimase immerso nel più assoluto silenzio. Non intervenne nella storia degli uomini: non perché non volle, ma perché non era più in condizione di farlo.
Hannah Arendt rifiutò la spiegazione di Hans Jonas, che risaliva alle grandiose speculazioni della Gnosi ebraica. Proprio lei, che aveva compreso e rappresentato come nessun altro il Male metafisico del ventesimo secolo, rinunciò a qualsiasi interpretazione gnostica e manichea del mondo moderno. Quando anni dopo vide Eichmann a Gerusalemme - questo pallido fantasma rinchiuso nella scatola di vetro, quest´uomo di mezza età, magro, di statura media, con un´incipiente calvizie, dentatura irregolare, occhi miopi, un tic nervoso alle labbra, pieno di buoni sentimenti e ossequioso a tutte le leggi - si convinse che non era un mostro né una creatura demoniaca. Era soltanto un uomo normale: un impiegato qualsiasi, uno scrupoloso paterfamilias come Himmler. Il male possedeva «una spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità».
La visione di Eichmann nella scatola di vetro sconvolse la Arendt. E, discutendo subito dopo con Gershom Scholem, giunse a sostenere che il Male «radicale» o «assoluto» o «metafisico» non esiste, perché non ha profondità né dimensione demoniaca. «Solo il bene - aggiunse - è profondo», radicale e assoluto. La Arendt aveva torto. Il Male Assoluto può scegliere, e ha preferito scegliere nel secolo scorso, gli Himmler e gli Eichmann, gli uomini normali e banali, per realizzare le sue mete: ma anche in loro, nel loro mediocre buon senso, nel rispetto della legge, nei buoni sentimenti da scrupolosi padri di famiglia, si avverte l´orribile soffio della Tenebra. Sotto il nazismo e lo stalinismo, muovendo da quegli oscuri centri di irradiazione che furono Hitler e Stalin, il contagio aveva invaso tutti i servi del potere, cancellando i decaloghi e le regole della convivenza civile. Il mostruoso e il demoniaco erano presenti dappertutto, in qualsiasi veste e maschera. Quando la Arendt negava che il Male Assoluto esistesse, agiva su di lei la tradizione del pensiero cristiano, che ebbe sempre terrore di ogni concezione autonoma del Male, e rifuggì da ogni sia pur vago ricordo gnostico e manicheo. Il Male, dicevano gli scrittori cristiani (ma non Paolo né sempre Agostino) era soltanto una privazione di bene, senza sostanza propria.
Malgrado la sua lucida rappresentazione del Totalitarismo, Hannah Arendt non credette più, nell´ultima parte della sua vita, che la potenza oscura potesse invadere e soggiogare la terra. «Non si può andare, ella disse, contro la propria vitalità naturale»; e lei era felice. Quando vedeva la creazione, contemplava gli spettacoli della luce, i paesaggi d´America e d´Europa, parlava con gli amici, passeggiava per le vie di Parigi, si appassionava e scriveva e rideva piena di gioia, il mondo le «sembrava buono». Malgrado le parole di Nietzsche, pensava che Dio non fosse morto. Aveva conservato una infantile fiducia nel mite Dio della Bibbia, che crea la luce, il firmamento, il sole, la luna, i volatili, i pesci, le erbe verdi, i passeri e le cicogne, e foggia l´uomo a sua immagine e somiglianza. Da lui ci viene la nostra parte e dignità nella creazione. Egli ci dà il mondo. Ci dà la bontà, che è più forte del male. Ci dà l´inizio, che, diceva Platone, salva ogni cosa; e il miracolo. Soprattutto ci dà la compassione: la virtù suprema, più alta di qualsiasi sentimento umano, sebbene la Arendt avesse rifiutato di manifestarla verso gli Ebrei. La compassione abolisce ogni distanza tra gli uomini, e tra Dio e l´uomo. Gesù la prova nel discorso del Grande Inquisitore nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij: la prova in silenzio, perché la voce della compassione è uno «strano silenzio» e uno strano imbarazzo verso le parole, che la contrappone alla eloquenza della virtù.
(2. Fine)
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