L'Unità 5.4.05Pace fatta tra la Cina e Antonioni.
La crisi era scoppiata all’inizio degli anni 70 per un documentario firmato dal grande regista che alle autorità cinesi non era piaciuto.
«Cina» è approdato a Pechino nei mesi scorsi ed è stato un trionfo. Della libertàRacconta Carlo Di Carlo: «Il pubblico cinese ha detto di aver visto ciò che non conosceva e capito ciò che non avevamai saputo»Dario ZontaNell'autunno del 2004 si è svolto in Cina un evento di sicura portata culturale, politica e storica, che, pur coinvolgendo uno dei maestri del nostro cinema, Antonioni, non ha avuto in Italia l'attenzione meritata.
Tra novembre e dicembre, presso l'Accademia del cinema di Pechino (in collaborazione con l'Istituto Italiano di Cultura), si è tenuta una rassegna su Michelangelo Antonioni che comprendeva anche la proiezione del famoso
Chung Kuo. Cina. Il documentario (girato nel '72) è stato da sempre proibito dal governo cinese, perché reo di aver dato una rappresentazione falsa e ingiusta della società figlia della Rivoluzione culturale. Contro Antonioni scattò all'epoca una violenta campagna diffamatoria, che dalle pagine dei giornali passò, nel corso degli anni, nei libri di scuola, dove si è studiato l'odio per Antonioni, esempio di tradimento occidentale. Il ritorno in Cina di Antonioni rappresenta, quindi, un evento eccezionale. Vi vogliamo, allora, offrire la ricostruzione della vicenda (che da cinematografica si è fatta, suo malgrado, politica e storica) e dare cronaca di quale accoglienza e quale dibattito abbia suscitato la «Cina» di Antonioni. Il regista ferrarese, per note difficoltà, non si è potuto recare a Pechino. Ha rappresentarlo è stato Carlo Di Carlo, studioso del suo cinema, nonché cineasta egli stesso e attento filologo di opere imponenti come
Heimat,
Il decalogo e ora
Heimat 3. È lui curatore della rassegna (voluta fortemente da Francesco Scisi, allora direttore dell'Istituto Italiano di Cultura), e con i suoi appunti e la sua testimonianza diretta abbiamo composto questa vicenda. Che, diciamo subito, è molto complessa e riportiamo qui, pur semplificando, nei suoi momenti essenziali
L'antefattoSiamo nel 1970, una delegazione italiana si reca in Cina. All’ordine del giorno vi è anche il progetto di girare un documentario sulla nuova Cina. Gli accordi presi con Chou En Lai porteranno alla realizzazione dell’unico documentario sulla Cina popolare, affidato a Michelangelo Antonioni (che in quel periodo soffriva un'empasse produttiva - doveva girare
Blow Up - e aveva bisogno di nuovi stimoli creativi). Nel '72 parte una troupe, seguita da una delegazione cinese. In una lettera di intenzioni, spedita a Pechino prima del viaggio, Antonioni scrive: «Progetto di concentrarmi sui rapporti e sui comportamenti e di fare della vita delle persone, delle famiglie, dei gruppi, lo scopo del mio documentario». Una volta a Pechino, dopo tre giorni di sfiancanti discussioni con i delegati cinesi, viene deciso, con un «compromesso», il percorso da seguire e inizia un viaggio di ventidue giorni e 3mila metri di pellicola.
Il filmAntonioni gira in Chun Kuo. Cina non una Cina immaginata, ma quella resa visibile dal suo occhio, sensibile ma estraneo, e teso a svelare l'uomo cinese. «La scelta di considerare i cinesi - scrive Antonioni - più delle loro realizzazioni e del loro paesaggio, come protagonisti del film è stata quasi immediata. Ricordo di aver chiesto loro che cosa simboleggiasse più chiaramente il cambiamento avvenuto dopo la Liberazione. 'L'uomo' mi avevano risposto. (...) Parlavano della coscienza di un uomo, della sua capacità di pensare e di vivere giustamente. Tuttavia quest'uomo ha anche uno sguardo, un volto, un modo di parlare e di vestirsi, di lavorare, di camminare nella sua città e nella sua campagna. Ha anche un modo di nascondersi e di voler sembrare, talvolta, migliore o comunque diverso da quello che è». Conoscendo il cinema di Antonioni, queste parole da sole descrivono lo spirito del documentario che riceve, in Italia, critiche e analisi diverse. Tutti concordano nel registrarlo come un «taccuino di viaggio» (e così lo stesso Antonioni), in cui si mostra quel che si vede. Non c'è la pretesa di un'indagine sociale e politica della nuova Cina, che non può essere data da un visitatore estemporaneo. Franco Fortini quindi ne scrive come di «una confessione di ignoranza preferibile ad una ignoranza camuffata». Mentre Alberto Moravia (anch'egli estemporaneo, ma attento, visitatore del mondo del cinema) scrive: «Le cose più belle del film sono le notazioni insieme eleganti e autentiche sulla 'povertà' , sentita come fatto spirituale prim'ancora che economico e politico».
La feroce censuraIl film viene visto a Roma dai funzionari dell'Ambasciata e dall'Agenzia Nuova Cina, a Parigi e a Hong Kong da esponenti di livello della Repubblica Popolare Cinese. Nonostante ciò nell'ottobre del '73 il Dipartimento stampa del Ministero degli Esteri ordina la censura, e pochi mesi dopo inizia una feroce campagna stampa contro Antonioni.
Il quotidiano del popolo, organo del comitato centrale del Pc titola «Intenzione spregevole e manovra abietta», e di Antononioni scrive «un verme al servizio dei social-imperialistici sovietici». L'esempio di
Chun Kuo. Cina finisce sui manuali scolastici a memento del tradimento dei valori cinesi. Le ragioni storiche di quell'accanimento sono da riferire al delicato momento politico vissuto dalla Cina nei primi anni Settanta. Il film cade nella battaglia tra i moderati (che avevano chiamato Antonioni a riprendere quel periodo della Cina) e la «banda dei quattro» che, capitanata dalla moglie di Mao, estremizzava lo scontro a fini politici. Le ragioni estetiche e culturali sono forse da rintracciare nell'immagine che del popolo cinese si dà (e che quella nuova Cina non voleva restituire), devoto all'austerità, alla modestia, alla solidarietà, e intriso di povertà. Antonioni gela innanzi agli eventi e accusa per decenni il colpo infertogli dalla sua amata Cina. Come ci racconta di Carlo, l'eco dello scontro arriva in Italia: «Nel '74 la Biennale riformata, presieduta da Ripa Di Meana, invita
Cina a Venezia. Ma il governo d'allora interviene per evitare complicazioni nei rapporti diplomatici. Ripa Di Meana, per tutta risposta, affitta un cinema a Venezia, vicino a piazza San Marco. Io stesso ho dovuto trattenere Michelangelo (che non era uno che cercava la rissa) dai cinesi italiani che inscenarono, con striscioni e cartelli, una manifestazione anti-Antonioni». Il film cadde nel dimenticatoio e tranne qualche passaggio sul Fuori Orario di Ghezzi, la Rai, che l'ha prodotto, non l'ha mai considerato.
La riabilitazioneSono passati quasi trent'anni, la Cina sta cambiando, lentamente, e la lettura critica del passato diventa un elemento di crescita.
Chun Kuo. Cina, pur girando illegalmente, non è stato mai visto. Nel 2002 si fa un tentativo, poi fallito di riportarlo in Cina. Ma solo nel 2004, e grazie al forte interessamento di Scisci, direttore dell'Istituto di Cultura, ci sono le condizioni per fare la retrospettiva. Il 25 novembre, e con un secondo passaggio a dicembre, presso l'Accademia di Cinema inizia la manifestazione che vede proiettati otto lungometraggi, sette cortometraggi e due documentari, tra cui
Chun Kuo. Cina. Enrica Fico e Michelangelo Antonioni, non potendo partecipare, mandano un messaggio di auguri in cui è scritto: «L'attesa è stata lunga, ma il pensiero che
Chun Kuo. Cina, voluto allora dal governo cinese, possa essere visto a Pechino è di enorme soddisfazione. Michelangelo pensa che questo sia un segno di grande apertura e di cambiamento da parte della Cina». Alla proiezione del documentario c'è un pubblico nutrito e in gran parte giovane. «Per tutte e quattro le ore - ricorda di Carlo - nessuno ha battuto ciglio e, alla fine, è scattato un applauso composto e unanime. Quando poi ho parlato con esponenti del pubblico mi hanno detto che la Cina di Antonioni è stato uno specchio dove hanno visto quello che non conoscevano e hanno capito ciò che non sapevano. Questa è, forse, la più grande soddisfazione per Antonioni». L'evento viene seguito dai quotidiani, dalle riviste e dalla televisione con i programmi del canale centrale e di cinema. E conseguente, come ci dice Scisci al telefono da Pechino, è stato il dibattito culturale. Al ritorno a Roma, Carlo di Carlo racconta ad Antonioni quel che è accaduto: «Gli ho fatto vedere le fotografie e il filmato che hanno fatto i ragazzi. Lui si è commosso». Finisce così una storia esemplare, quasi una favola, che esorbita di gran lunga dalla dimensione cinematografica e supera i limiti e i pregi di un documentario che voleva essere «un taccuino di viaggio» ed è diventato la cartina di tornasole degli umori politici della Cina moderna e contemporanea.