mercoledì 9 marzo 2005

Jürgen Habermas
conferma: «L'illuminismo? È figlio del Cristianesimo»

L'Eco di Bergamo 8.3.05L'illuminismo? È figlio del Cristianesimo
Habermas: concetti come uguaglianza o dignità umana hanno radici evangeliche Il filosofo tedesco: la storia della religione appartiene alla storia della ragione
Giulio Brotti

Si è sempre descritto come un erede dell'Illuminismo, ancora convinto che la ragione umana abbia il compito di migliorare la nostra vita, di liberare le persone «dall'incanto del pensiero mitico, perché si sottomettano soltanto alla libera costrizione dell'argomento migliore». È stato anche definito, Jürgen Habermas, il «laico più puro nell'attuale mondo di lingua tedesca», per la sua concezione modesta («postmetafisica») del pensiero e del linguaggio, considerati da lui incapaci di elevarsi all'altezza dell'Assoluto (e semmai importanti, nelle relazioni tra gli esseri umani, come strumenti per raggiungere un riconoscimento reciproco, degli accordi, delle procedure condivise).
Dialogando con Habermas, siamo però partiti da un tema ricorrente, da alcuni anni a questa parte, in molti suoi saggi e volumi: l'interesse che egli laicamente nutre nei confronti delle grandi religioni storiche, il cristianesimo in particolare (fino a dichiarare esplicitamente la sua ammirazione per San Tommaso d'Aquino: «Se sfoglio le pagine della sua Summa contra Gentiles – ha affermato –, io resto incantato dal livello di complessità e differenziazione, serietà e coerenza, con cui è stata costruita dialogicamente l'argomentazione». E ancora: «Io non avrei nulla da obiettare, se qualcuno mi dicesse che la mia concezione del linguaggio sviluppa un'eredità cristiana»).
Professor Habermas, lo scorso anno, a Monaco di Baviera, lei ha incontrato pubblicamente il cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Quel vostro colloquio sul rapporto tra religione, ragione e laicità è stato commentato in modo singolare da alcuni giornali italiani: hanno scritto che «il filosofo ateo Habermas – sorprendentemente – sarebbe corso in aiuto della Chiesa cattolica», in un periodo nel quale «questa stessa Chiesa si sentirebbe minacciata da una crescente ondata anticristiana». Lei si riconosce in una descrizione di questo tipo?
«Il cardinale Ratzinger ha proposto che discutessimo circa le origini “prepolitiche” – i valori basilari – dello Stato di diritto democratico: perché non avrei dovuto accettare quest'invito? Da parte mia, ho sostenuto la tesi che lo Stato costituzionale laico di norma poggia sulle proprie gambe, e, di conseguenza, non necessita di alcuna giustificazione religiosa – il che non esclude che esso debba trattare con riguardo le stesse tradizioni religiose. Il vero problema, al presente, mi pare però un altro. Una democrazia si nutre dell'impegno dei suoi cittadini (un impegno che non può essere estorto con la forza), del loro interesse per le questioni pubbliche, del loro coraggio civile. Anche prendendo spunto dal cambiamento del clima pubblico in Italia, ci si deve chiedere se (di fronte a una modernizzazione capitalistica attuata sconsideratamente, sempre meno governata in senso politico) possiamo essere sicuri che la società moderna saprà nuovamente rigenerare, riattualizzare questi temi morali, a partire dai propri fondamenti».
Alcuni anni fa, in un dialogo con il filosofo e teologo Eduardo Mendieta, lei ha affermato: «Una filosofia che oltrepassa i limiti dell'“ateismo metodologico” non può che perdere la sua serietà filosofica». Che cosa intendeva propriamente dire? Che senso ha, per lei, questo «ateismo metodologico»?
«La filosofia moderna si è sviluppata sul versante del pensiero secolare, laico. Naturalmente, essa si è impegnata in compiti molto diversi e si è orientata in direzioni differenti. Tuttavia, deve necessariamente fare ricorso a una lingua che sia in linea di principio accessibile a tutti, allo stesso modo. Al contrario, noi preghiamo e professiamo una certa fede in un linguaggio espressivo, che può certamente essere ricco di sfumature, ma rimane legato alla prassi rituale di una determinata comunità religiosa. La filosofia, invece, con i suoi enunciati, rinvia a dei criteri di validità rigorosamente universali, che devono risultare accettabili per chiunque, a prescindere – in linea di massima – dalla sua appartenenza religiosa o ideologica. “Ateismo metodologico” significa dunque per me due cose: non fare ricorso a dei prestiti dal vocabolario religioso (di cui invece si alimenta, ad esempio, il sussurrare evocativo dell'ultimo Heidegger); e non basarsi su verità rivelate, che operano ancora, nascostamente, in coloro che usano lo strumento filosofico per degli scopi apologetici».
Vorrei citare ancora alcuni passaggi della sua conversazione con Mendieta, chiedendole di approfondirne il significato: «Per l'autocomprensione normativa della modernità – lei afferma – il Cristianesimo non rappresenta solo un precedente o un catalizzatore. L'universalismo egualitario – da cui sono derivate le idee di libertà e convivenza solidale, di autonoma condotta di vita ed emancipazione, di coscienza morale individuale, diritti dell'uomo e democrazia – è una diretta conseguenza dell'etica ebraica della giustizia e dell'etica cristiana dell'amore. Questa eredità è stata continuamente riassimilata, criticata e reinterpretata senza sostanziali trasformazioni. A tutt'oggi non disponiamo di opzioni alternative. Anche di fronte alle sfide attuali della costellazione postnazionale continuiamo ad alimentarci a questa sorgente. Tutto il resto sono chiacchiere postmoderne». Lei ritiene che lo stesso Illuminismo, nei suoi aspetti più positivi, sia stato un figlio dell'Antico e del Nuovo Testamento?
«Lo Stato costituzionale moderno, come aveva già sottolineato Hegel, è una creazione del razionalismo e dell'Illuminismo. Con questo Stato secolare la Chiesa cattolica ha fatto pace solo da alcuni decenni, con il Concilio Vaticano II, e del resto, anche in campo protestante, non è che un simile atteggiamento di accettazione sia maturato rapidamente. D'altra parte, si deve tener conto del complesso rapporto tra la filosofia greca e la tradizione giudaico-cristiana. L'attuale pensiero “postmetafisico” attinge da un'eredità religiosa i significati forti, che esso storicamente ha attribuito a concetti di origine greca, come “autonomia” e “individualità”, o di origine romana, come “emancipazione” e “solidarietà”. Uno sfondo cristiano hanno anche quei principi universalistici (come l'eguaglianza e la dignità degli individui) in cui i nostri ordinamenti giuridici si riconoscono».
Vi è stata insomma un'osmosi profonda, nel corso dei secoli, tra la Bibbia e il pensiero profano.
«Le grandi religioni mondiali non hanno soltanto avuto origine contemporaneamente alla filosofia greca, attorno alla metà del I millennio a. C. (nell'epoca che Karl Jaspers ha chiamato “periodo assiale”, per indicarne il valore fondante, rispetto allo sviluppo successivo della storia umana). Esse hanno anche compiuto uno sforzo cognitivo affine a quello filosofico, uno sforzo che le ha portate a sostituire le antiche narrazioni mitiche con un modello di spiegazione della realtà completamente diverso, basato sulla chiarificazione di concetti logico-ontologici, come “essere” e “apparire”. La storia della religione appartiene perciò alla storia della ragione. Ma ciò non implica che la religione, oggi, abbia esaurito il suo contenuto razionale, cedendolo del tutto – come sosteneva Hegel – alla filosofia. Dal punto di vista di un illuminismo divenuto autocritico, che abbia cioè superato il proprio iniziale “secolarismo”, dobbiamo lasciare aperta tale questione».
Lei è molto amico del cattolico Johann Baptist Metz, uno dei maggiori esponenti della cosiddetta “teologia politica”. Non le chiederei, qui, di raccontare la storia della vostra amicizia, ma piuttosto di spiegare quali motivi d'interesse trova nel metodo teologico di Metz.
«Di lui mi ha sempre interessato la capacità di elaborare un'autentica morale politica, dal punto di vista di un teologo devoto. La generazione cui noi due apparteniamo è cresciuta nel segno della rivelazione della verità su Auschwitz. A partire da questo fatto, Metz ha rinnovato la tradizionale questione della teodicea (il problema del rapporto tra l'esistenza di Dio e quella del male, ndr. ) con una particolare radicalità: egli ha ricollegato la riflessione teologica alla dimensione esistenziale della fede, in tutta la sua pienezza; una pienezza che non contraddice, ma comprende la stessa esperienza del dubbio all'interno della fede. Riguardo a questa problematicità interna del credere: chi, come me, ha ricevuto un'educazione protestante, può trovare una qualche consonanza con il principio luterano “Semper justus, semper peccator”...»
... per cui il credente sarebbe allo stesso tempo giustificato in Cristo, e manchevole, per quanto dipende dalle sue sole forze. Vorrei ora affrontare un'ultima questione. Mi ha colpito il fatto che lei parli dell'attualità della questione della teodicea, del «lamento di Giobbe» di fronte all'apparente strapotere del male, come di un vero, attuale problema filosofico. Nella seconda parte del XX secolo, la questione è stata spesso formulata in questo modo: «Come ha potuto Dio permettere Auschwitz?» Primo Levi rispondeva però a questa domanda dicendo che la realtà dei campi di sterminio basterebbe a confutare ogni fede religiosa: «C'è Auschwitz – scriveva –, quindi non può esserci Dio».
«Io nutro un profondo rispetto per la figura di Primo Levi – per il suo dolore, e per l'esistenza in genere di chi, come lui, è stato segnato dall'esperienza dei lager. Inoltre, non ho alcun motivo per contestare l'affermazione che lei ricordava. Semplicemente, non sento il bisogno di alcuna dimostrazione della non esistenza di Dio. In ogni caso, l'evento storico dello sterminio sistematico degli ebrei in Europa ha costituito un fatto eccezionale, sconvolgente: ha significato la negazione di tutti i più elementari scrupoli morali, fino a quell'epoca considerati ovvi. Questa negazione getta anche chi oggi si professa laico in una situazione problematica quanto quella di Giobbe. Così, che per tutti noi, in un modo o nell'altro, si riproponga la questione della teodicea, mi pare del tutto naturale. Nella lingua tedesca c'è la bella parola Menschenunmöglich , “umanamente impossibile”: si riferisce al fatto che, per un essere razionale, vi sono cose assolutamente “impossibili a farsi”. Ma dopo aver assistito alla realizzazione concreta di ciò che sembrava umanamente impossibile, come si può ancora confidare, appunto, nella “costituzione razionale” dell'uomo? È stato Kant, a parlare di una simile costituzione. E tuttavia, come possiamo aver ancora fiducia in questa eredità concettuale e valoriale dell'Illuminismo, dopo Auschwitz? Nell'arco di tutta la mia vita, il lavoro filosofico che ho condotto si fondava sul presupposto che una soluzione positiva di questo problema dovrebbe in ogni caso essere possibile. Ma lo è davvero, possibile?».

L'Unità, su Munch

L'Unità 9 Marzo 2005
La follia di Munch
dai diari ai pennelli

La mostra al Vittoriano, uno spettacolo e una «terapia» psichiatrica
Francesca De Sanctis

Non solo quadri. I dipinti di Edvard Munch saranno esposti da domani nel complesso del Vittoriano (fino al 19 giugno) in una grande mostra intitolata «Munch 1863-1944», data di nascita e morte. In mezzo a queste due date non ci sono soltanto delle tele apprezzate in tutto il mondo. Ci sono parole scritte sui diari, incisioni, scatti autobiografici, persone care morte, esaurimenti nervosi, manicomi, paure... Riflessioni e annotazioni sulla vita del grande pittore norvegese sono contenute nei suoi diari, dai quali emergono stati d’animo e sofferenze psicologiche. Tutti questi aspetti confluiscono in due progetti paralleli alla mostra che si svolgerà nei prossimi giorni al Vittoriano: una seconda mostra, a cura di Valentina Correr, che si intitola «Rx-Munch» (Extra, Viale Giotto 1, 18-17-19 marzo, ore 21-1,00, ingresso libero); e uno spettacolo ideato e diretto da Gianluca Bottoni («I diari di Munch», 11 aprile al Teatro Eliseo e 13 aprile nella Sala Basaglia). Entrambi i progetti sono di Tiziana Biolghini e Maurizio Bartolucci che in occasione del grande evento del Vittoriano hanno pensato di puntare i riflettori non solo sull’opera di Munch ma anche sulla sua complessa personalità (progetti in collaborazione con Dipartimento V Politiche Sociali e della Salute, la Provincia e la Reale Ambasciata di Norvegia).
La mostra «Rx-Munch» esporrà soprattutto quadri e incisioni realizzati da pazienti psichiatrici, fotografie tratte dalle lezioni di arteterapia del Centro Riabilitativo Psichiatrico Rmd, dipinti ispirati all’opera di Munch, musica, letture, performance. «L’aspetto interessante del lavoro portato avanti con i pazienti psichiatrici è che nei loro quadri ci sono degli elementi ricorrenti che ritroviamo nelle opere di Munch - dice Gianluca Bottoni -. Penso a certi colori: il verde, il rosso, il blu. O alla specularità delle incisioni nel coso di Munch, della firma nel caso dei pazienti». In fondo Munch stesso ha sempre avuto a che fare nel corso della sua vita con i manicomi, basta pensare a sua sorella Laura che muore dopo una serie di ricoveri in clinica, o a due suoi amici che lavoravano nel manicomio di Salpetriere a Parigi. Uno di loro collezionava opere d’arte di pazienti psichiatrici e Munch rimase molto colpito da quei lavori.
Ad aprile, invece, andrà in scena lo spettacolo. «La nostra ricerca parte dal 1909, anno in cui Munch esce, dopo alcuni mesi, da una clinica per esaurimento nervoso - spiega il regista -. Protagoniste le parole stesse del pittore che esprimono in maniera attualissima gioia ed estasi, inquietudine ed ansietà, fatiche, tensioni e soprattutto le vibrazioni psichiche dell’uomo moderno, simboli e forme del nostro perturbante. La ricostruzione del vissuto attraverso l’elaborazione di esperienze (fortemente drammatiche fatte di precoci lutti familiari) che sono state al di là della pensabilità, disegna anche nei suoi numerosi scritti uno spazio mentale allagato d’angoscia. Ne esce come segno scenico una memoria che si dispiega a ritroso nel mondo dell’artista dove vige la “proibizione di essere”. E poi in questo momento è necessario tornare a parlare di manicomi e di elettroshoc». Quella che verrà proposta è una messinscena dove l’atmosfera avrà un valore determinante, riflettendo gli effetti degli olii, delle puntesecche, delle litografie, acqueforti e non ultime delle sue morfofobiche fotografie su un attore/interprete (Gianluca Bottoni, ndr) e sulle figure femminili uscite dalla sua biografia - interpretate da Tiziana Lo Conte - e con lo stridente organetto, suonato dal vivo, di Fabio Crosara. Lo spettacolo chiuderà le sue repliche a Palazzo Valentini. Intanto già domani i quadri di Munch si potranno ammirare nella mostra al complesso del Vittoriano che ripercorre l’intero cammino creativo e umano del grande artista anticipatore dell’Espressionismo, attraverso oltre cento capolavori, tra cui circa sessanta olii e una cinquantina di opere grafiche tra acqueforti, litografie e xilografie prestate dai più noti musei internazionali.
La Stampa 09 Marzo 2005
IL RESOCONTO DI TELEFONO ROSA
«L’anno scorso 799 chiamate e le violenze sessuali sono quasi raddoppiate»

Il dato è molto più che allarmante: nel 2004 a Torino sono aumentate in numero consistente le violenze sessuali a danno delle donne. È quanto emerge dalla relazione di Telefono Rosa sulle attività dello scorso anno: 799 contatti, 531 dei quali accompagnati in un percorso di affrancamento dalla violenza. Le denunce di violenze sessuali nel 2003 erano il 6% delle telefonate, nel 2004 sono state l’11%. Gli ultimi dati raccolti da Telefono Rosa denunciano, inoltre, un aumento delle violenze patite in famiglia: abusi, stupri, maltrattamenti fisici e psicologici. E l'abusatore è in genere il marito, il convivente o il fidanzato, ma è ancora un'eccezione che vengano perseguiti. Nel 78% dei casi le donne che hanno contattato Telefono Rosa hanno figli e il 79,7% ha dichiarato che era la prima volta che chiedevano aiuto. Imponenti i danni subiti: il 3,4% riporta fratture, il 22,6% contusioni e ematomi, il 5,2% ferite. «Ma il vero problema è quello dell'accettazione omertosa di tutti i tipi di violenza, radicata profondamente all'interno della società e della famiglia - spiega Lella Menzio, presidente Telefono Rosa Torino - : si crede che sia un problema della singola donna e non un problema che riguarda la società. Solo se si producono dei cambiamenti a livello culturale e politico è possibile fare emerge la denuncia dal sommerso». Telefono Rosa: 011.530.666.

depressione, dall'Economist

Panorama
Elettrodi contro la depressione

da The Economist
8/3/2005


E' la prima causa d'invalidità al mondo. Punto di partenza dei ricercatori: con la scansione cerebrale chiamata tomografia a emissione di positroni si è scoperto che un'area del cervello nota come corteccia cingolata subgenuale è iperattiva nei pazienti che ne soffrono. Da lì è nata l'idea di una terapia sperimentale, che su un ristretto campione ha funzionato

Rob Matte, trentottenne tecnico di laboratorio canadese, ha sofferto di una grave depressione per 20 anni. Ha provato di tutto - psicoterapia, antidepressivi (diversi tipi) e un'estenuante terapia elettroconvulsiva della durata di tre settimane - senza ottenere risultati. Poi il suo psichiatra gli ha parlato di un'operazione sperimentale in fase di studio presso il Western Hospital di Toronto, in Canada, basata su una tecnica chiamata "stimolazione cerebrale profonda" (Dbs, Deep brain stimulation).
Malgrado il rischio di emorragia, infezione o altre complicanze al cervello, Matte ha firmato il modulo di consenso. Per lui, il passo successivo sarebbe stato il suicidio
STUDIO PILOTA
Matte è uno dei sei soggetti di questo studio pilota, condotto da Helen Mayberg, Andres Lozano e alcuni colleghi presso il Western Hospital di Toronto, che ha come oggetto l'uso della Dbs per la cura della depressione. I risultati sono appena stati pubblicati sulla rivista Neuron e, nonostante l'esiguità del campione, l'esito si è rivelato stupefacente. Per Matte e altri tre pazienti, la terapia ha funzionato in pieno.
Non appena gli elettrodi impiantati nel loro cervello sono stati accesi, è stata subito notata una differenza.
Matte descrive come tutto quello che si trovava nella stanza sia diventato più luminoso: luci e colori sono sembrati più vividi.
La sua depressione è svanita così rapidamente da lasciarlo atterrito e non si è più ripresentata, non solo per i sei mesi dello studio, ma anche per il semestre successivo al completamento.
E nessuno dei pazienti coinvolti ha subito danni cognitivi evidenti in conseguenza dell'intervento.
Lo studio è stato ideato quando la dottoressa Mayberg, grazie a una tecnica di scansione cerebrale chiamata "tomografia a emissione di positroni", ha scoperto che un'area del cervello nota come corteccia cingolata subgenuale è iperattiva nei pazienti che soffrono di depressione. Ciò ha indotto a una riflessione.
IPERATTIVITÀ NEURONALE
L'iperattività neurale è conclamata o presunta in molte altre condizioni, tra cui il dolore cronico, la distonia, l'epilessia, la sindrome di Tourette, il tremore essenziale, il disturbo ossessivo-compulsivo e il morbo di Parkinson.
Tutte queste malattie sono curabili con la Dbs. E nel caso del morbo di Parkinson è risaputo che il trattamento attenua l'attività neurale.
Questo è quanto è avvenuto anche nei casi dell'esperimento in oggetto che hanno avuto successo. In realtà, la corrente elettrica immessa nell'area cingolata subgenuale non si è limitata a sopprimere l'attività di questo centro, ma ha anche rafforzato quella della corteccia frontale, dell'ipotalamo e del tronco cerebrale, tutte aree che, in caso di depressione, presentano un'attenuazione delle funzioni.
BATTERIA NEL TORACE
C'è comunque un rovescio della medaglia. Non solo i pazienti hanno elettrodi impiantati nel cervello, ma anche una batteria inserita nel torace (nel caso degli uomini) o nell'addome (nel caso delle donne, per evitare un danno al tessuto del seno). Tuttavia, si tratta di svantaggi insignificanti se si pensa che il trattamento ha addirittura permesso di vincere la tentazione del suicidio.
DATI OMS
Secondo l'Organizzazione mondiale della sanità, la depressione è la prima causa d'invalidità al mondo. Dei 121 milioni stimati di persone che ne soffrono, il 15-30% sono casi "refrattari", come quelli trattati da Mayberg e Lozano, ossia casi che non rispondono ad alcuna terapia. Se studi di portata più ampia dimostreranno che questo nuovo approccio alla cura della depressione refrattaria funzionerà anche solo su una minima parte di quella percentuale, è probabile che i neurochirurghi avranno molto da fare nel prossimo futuro.

© The Economist Newspaper Limited, London, 2004

bullismo

Corriere della Sera 9.3.05
Il caso delle baby gang in un liceo di piazzale Loreto. Il professor Pellai: i ragazzini crescono convinti che la sopraffazione sia vincente
«Allarme bullismo, troppa violenza a scuola»
Uno studio della Statale: in aumento i casi di teppismo. Sotto accusa la famiglia e i professori

Gloria Pozzi

Non un caso isolato. Quello del gruppetto di quattordicenni al primo anno di liceo che per settimane ha umiliato e minacciato una decina di alunni che frequentano una scuola media nella stessa zona (Loreto) della città. Ragazzini che si trasformano in aguzzini; ragazzini che si ritrovano nel ruolo di vittime: «Un fenomeno ampiamente diffuso nelle scuole di ogni ordine e grado; un fenomeno certamente in crescita. Purtroppo», commenta Alberto Pellai, ricercatore dell’Istituto di igiene e medicina preventiva dell’Università degli Studi di Milano nonché autore di diversi libri (pubblicati da Franco Angeli) sui comportamenti a rischio degli adolescenti. Statistiche vere e proprie sul moltiplicarsi nelle scuole e per le strade delle situazioni che oppongono i bulli alle prede sostanzialmente non esistono: «Perché i numeri restano piuttosto oscuri, difficilmente monitorabili, occultati come sono dalla vergogna delle vittime e dal silenzio degli adulti», avverte il professor Pellai. Dedicando la vita a capire il «disagio dell’età evolutiva» ha però la netta percezione che «non c’è classe in qualunque scuola di Milano e del mondo che non viva il fenomeno di persecutori e perseguitati. Neanche alle elementari». Ed offre un esempio per tutti quelli che potrebbe fare: «Nessuno dei 400 ragazzini/ragazzine delle medie interpellati il mese scorso sulla violenza a scuola ha risposto che non sapeva di che cosa si stesse trattando. Chi ha ammesso di essere una vittima, chi di essere un bullo, chi di aver fatto da platea agli eventi».
Ma com’è che si moltiplicano i bulli e le vittime? Semplice quanto drammatica suona la risposta del medico esperto: «Perchè la cultura dominante propone modelli che enfatizzano il ruolo del potere e non quello del valore. Anzi, l’unico valore da perseguire è il potere, indipendentemente dagli strumenti utilizzati per ottenerlo. Giustificata la filosofia e le azioni dei più potenti, i bambini e i ragazzini crescono convinti che la sopraffazione è lecita».
E questo giustificherebbe i bulli. Ma perché le vittime non si ribellano? «Perchè hanno paura di peggiorare la propria situazione denunciando i soprusi. Temono di essere percepiti come spioni, se maschi come femminucce, e di non ottenere nessun miglioramento rivolgendosi agli adulti».
Già, gli adulti. «Che i ragazzi se la sbrighino da sé»: è la ricetta che quasi sempre propongono come soluzione al conflitto tra prepotenti e inermi. Adulti passivi, indifferenti, distanti, incapaci di stimolare «l’intelligenza emotiva», così come incapaci di sentire e di vedere. Adulti che avvalorano le azioni dei violenti in erba e che contemporaneamente fanno da deterrente alle denunce di chi l’azione di quei baby-violenti patisce. «Ed è così che il fenomeno del bullismo adolescenziale si cronicizza e si alimenta», dice Pellai, che tiene a sottolineare quanto il bullismo si esprima soprattutto in prevaricazione psicologica piuttosto che in aggressione fisica. «Il rubare la merenda sistematicamente a un compagno è classificabile come atto di bullismo».
Quali gli adolescenti più a rischio? Tra gli 11 e i 14 anni sembra che nessuno sia esente dal rischio di diventare vessatore o vessato: «I ragazzi che si ritrovano a fare i bulli partono di sicuro da una carenza di autostima, abbinata a un’enorme paura di ciò che significa essere o sembrare diversi rispetto agli altri: più bassi o più alti, più grassi o più magri... Perciò è sempre quello considerato una "pecora nera", quello cui non vorrebbero somigliare, perché non fa parte degli esempi degli spot tv e delle clip musicali, che finisce per essere la vittima».
Questa la diagnosi. E la cura? «Che gli adulti imparino a mettere in discussione la cultura del più bello e forte e potente, a non essere percepiti dagli adolescenti come i punitori, ma come qualcuno che è in grado di fare da garante delle regole per una convivenza consapevole stabilite insieme».
Adnkronos 9.305 - 11.31
DEPRESSIONE: SIRCHIA- E' L'EPIDEMIA DEL TERZO MILLENNIO, COLPITI ANCHE BIMBI


Roma, 9 mar. (Adnkronos Salute) - Depressione ''epidemia del terzo millennio''. Un fenomeno in crescita che preoccupa molto per l'elevata diffusione: colpisce il 10% della popolazione, senza risparmiare neanche i bambini, a partire dai sette anni. L'allarme arriva dal ministro della Salute Girolamo Sirchia, intervenuto oggi alla trasmissione ''Uno mattina'', in onda su Raiuno. ( ... )

(Ram/Adnkronos Salute)

2600 anni fa

Le Scienze 07.03.2005
Antiche mummie egiziane
Scoperti tre nuovi sarcofagi risalenti a 2600 anni fa

Alcuni archeologi australiani hanno scoperto alcune mummie egiziane risalenti a circa 2600 anni or sono, fra le quali una in ottimo stato di conservazione. Lo ha comunicato all'agenzia Reuters Zahi Hawass, direttore del Consiglio Supremo per le Antichità dell'Egitto.
Scavando vicino alle piramidi di Saqqara, a venticinque chilometri dal Cairo, i ricercatori hanno trovato tre sarcofagi risalenti alla 26esima dinastia (664-525 a.C.). Si tratta del periodo immediatamente precedente all'occupazione della regione da parte dei Persiani per 80 anni.
"In uno dei tre sarcofagi - ha dichiarato Hawass - c'era una delle mummie meglio conservate fra tutte quelle finora scoperte di quel periodo". Due sarcofagi contenevano mummie maschili ed erano decorati con figure barbute con elaborati collari e le braccia incrociate sul petto. Le mummie erano ricoperte dalla testa alle ginocchia con una rete di perline. Il terzo sarcofago, in peggiori condizioni rispetto agli altri due, conteneva una donna mummificata, ricoperta da una rete di tasselli di un mosaico che la raffigurava.
Le mummie verranno esposte in un nuovo museo che prenderà il nome da Imhotep, il costruttore della prima piramide egiziana, e che verrà aperto a Saqqara fra tre mesi. Nella stessa area, l'anno scorso, alcuni archeologi francesi ed egiziani hanno scoperto più di cinquanta mummie dello stesso periodo.

© 1999 - 2004 Le Scienze S.p.A.
Presentazione dei candidati PRC

Mercoledì 9 marzo 2005 ore 17,00
Cinema Capranichetta ROMA

introduce Salvatore Bonadonna (Capogruppo PRC Regione Lazio)

interviene Fausto Bertinotti

Comitato Regionale PRC Lazio



Panorama 7/3/2005
L'idea di Bertinotti


Finito sui giornali dopo l’intervista a Panorama in cui dichiarava di non essere più ateo («Ora sono alla ricerca di qualcosa»), Fausto Bertinotti ha rivelato alla Stampa che cosa sta veramente cercando: l’idea di comunismo.
«La mia idea di comunismo» ha spiegato «è opposta a quella che si è realizzata, anche se non la vedo dietro l’angolo».(,,,)

Repubblica 8.3.05
L'INTERVISTA
L'appello del leader di Rifondazione. "Ai funerali di Calipari ho provato una commozione intensa"
Bertinotti: "Per il ritiro un atto di unità nazionale"
Salute pubblica Non è più questione di una mozione: rientrare da un teatro di guerra così inquinato è una misura di salute pubblica
L'orgoglio del premier A Berlusconi chiedo uno scatto d´orgoglio, come a Sigonella. Alla sinistra di non arretrare dall´unità già raggiunta
UMBERTO ROSSO

ROMA - Così «commosso ed emozionato» da non trovare le parole giuste, a lui che in genere non difettano, per ricordare Nicola Calipari «senza il rischio della retorica». E così convinto che la sua morte segni il punto di non ritorno in Iraq, da lanciare un appello che farà sobbalzare la sinistra più radical. Per Fausto Bertinotti il ritiro delle nostre truppe «non ammette più rinvii» ma non è questione più di una mozione e non è neanche più un affare che riguarda soltanto l´opposizione: «Troviamo la forza di un atto di unità nazionale. E´ una chiave totalmente diversa rispetto al passato, perché completamente diversa è la situazione».
Onorevole Bertinotti, anche lei ha reso l´ultimo saluto a Nicola nella chiesa di Santa Maria degli Angeli.
«Ho provato una commozione intensa. Esce con un nitore tale la personalità di quest´uomo, che si teme perfino di usare parole retoriche per ricordarlo. Una persona straordinaria, con un senso democratico, repubblicano che perfino i francesi potrebbero invidiarci. Un senso della missione che dà una visione corale, unitaria».
Anche Gianni Letta ha parlato, ai funerali, di unità.
«Non vorrei per nulla aprire polemiche, ma una parola contro la guerra me la sarei aspettata. Come partecipazione non solo ad un lutto condiviso ma anche ad un valore ampio, profuso. E rappresentato proprio da un uomo che apparteneva ai servizi segreti, ovvero a settori con comportamenti in questi anni quanto meno discutibili. Mi fermo qui. Poi c´è l´altra questione, che riguarda la politica. E che pretende riposte».
Su che cosa?
«La politica chiede che questa uccisione sia assunta per quella che è: una questione nazionale. Le prime reazioni del presidente del Consiglio sembravano incoraggiare questa speranza. Ma le successive dichiarazioni di esponenti del governo sembrano, queste sì, indurre alle divisioni».
Si riferisce a Fini?
«Anche. Per il vicepremier si è trattato di "fatalità". Ma la fatalità attiene alla natura, non agli eserciti, non alle forze armate. Ciò che fanno gli eserciti porta alla responsabilità di qualcuno. E la fatalità è indotta da un elemento che sovverte la volontà degli uomini e della politica: un teatro di guerra. Non solo. Sento anche mettere in discussione da più parti la linea - giustamente perseguita dal governo - della trattativa, di fare tutto il possibile per salvare una vita umana».
E´ stato un agguato?
«E´ stata la guerra, e per me è più che sufficiente. Penso che quando l´emozione, la solidarietà di una comunità in un lutto condiviso, finiscono, allora comincia la politica. E ci sono due parole che io spero, domani e non oggi, vengano dette. Pace e verità».
La pace.
«Non si dica, per favore, che si vuole dividere il paese. Ritirare le truppe da un teatro di guerra così inquinato, con una violenza così incontrollata, è una misura di salute pubblica. Il direttore di Liberazione ha scritto una cosa molto importante: ritiriamoci senza polemiche. Condivido in pieno».
Sta parlando di un ritiro graduale?
«No, è un´altra cosa. Il ritiro graduale riguarda la risoluzione dell´Onu, con la previsione di un rientro programmato di tutte le truppe di occupazione. E´ quel che, dal luglio scorso, sta scritto in tutti i documenti presentati in Parlamento dalle opposizioni. Adesso, sto parlando di una scelta nuova».
Quale?
«Il ritiro delle truppe italiane rappresenta un atto di salute pubblica che dovrebbe essere intrapreso qualunque sia stata la posizione assunta in precedenza».
Parla anche della maggioranza?
«Di tutti, del paese intero, come reazione ad un evento terribile. Il mio è un appello che dice: non facciamo polemiche, non torniamo alle discussioni che ci hanno diviso. Troviamo la forza di un atto di unità nazionale perché in Iraq siamo di fronte ad una situazione incontrollata».
La sua seconda speranza è: verità.
«C´è in discussione l´autonomia dello Stato nazionale. La possibilità di intraprendere iniziative politiche e diplomatiche, con l´obiettivo di salvare la vita a propri concittadini, può essere messa in discussione da una potenza che, peraltro, si dice nostra alleata. A Berlusconi chiedo uno scatto d´orgoglio nazionale, come avvenne a Sigonella».
Al governo c´era Craxi.
«Non l´ho mai avuto in simpatia, ma a Sigonella vi fu uno scatto di orgoglio del suo governo. In quell´atto si rilevò la dote di uno statista».
In Berlusconi non si è rivelata?
«Lo chiedo».
Il premier ha convocato l´ambasciatore americano.
«Lo chiedo, lo scatto d´orgoglio. Nell´atteggiamento iniziale del presidente del Consiglio si poteva scorgere una propensione ad andare in questa direzione, gli atti successivi di esponenti del governo mostrano il contrario».
E la mozione sul ritiro, onorevole Bertinotti? I comunisti italiani la ripresenteranno.
«Penso che non dobbiamo arretrare dai livelli di unità già raggiunti. Non si tratta solo di sbandierare qualcosa. Se il ritiro delle truppe è una misura di salute pubblica, va sostenuta con un largo respiro. Chi la pensa così, dovrebbe mettersi dentro un´iniziativa largamente unitaria, di contatti tra tutte le forze politiche, dispiegando una grande partecipazione. Poi, se non ci si riesce, si può benissimo arrivare alla mozione dell´opposizione».
Come ultima chance...
«Sì. Perché prima vorrei coinvolgere tutti, a partire dalle forze dell´opposizione, e chiedere con insistenza un grande dibattito parlamentare. La storia di Giuliana Sgrena e la morte di Nicola Calipari hanno davvero cambiato tutto».

intervista con Marco Muller

L'Arena Mercoledì 9 Marzo 2005
«Il Lido è la nostra Croisette»
Marco Müller: la Mostra del Cinema di Venezia sarà più agile e snella

Il direttore: «Far vedere meno titoli farà senz’altro bene ai film perchè potranno essere visti con attenzione»
Un Festival non è solo una passerella di star, è innanzi tutto la proiezione delle migliori pellicole della stagione. Una Biennale itinerante nel Veneto? Non credo faccia bene al settore

Ugo Brusaporco

Incontriamo Marco Müller nel suo ufficio a Palazzo Giustinian sede della Biennale di Venezia. Ha appena posato una grossa valigia, è tornato da un lungo viaggio e sta partendo per Los Angeles, le sue assistenti lo informano degli incontri che dovrà fare con gli Studios e i produttori indipendenti americani. Pranzo con... cena con... riunioni alle... sembra un uomo d'affari, ed il mondo delle immagini in movimento sono un affare, un grosso affare. E lui, produttore acclamato e vincitore di Oscar, ora direttore confermatissimo della Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia lo sa bene che il cinema è un affare e non solo un'arte.
Lo ascoltiamo dare le ultime istruzioni per delle rare pellicole nitrato da restaurare che devono arrivare dalla Cina, poi ci concede questa intervista.
La prima domanda non può che riguardare la Mostra, mancano circa sei mesi alla serata inaugurale, di titoli non si parla, troppo forte la paura della concorrenza, Cannes è alle porte e la corsa ai film è aperta, ma è interessante scoprire come sta oggi la Mostra e cosa ci sarà di diverso dall'ultima edizione. Marco Müller pesa parola per parola.
«Posso dire che innanzitutto, con profitto, la Mostra è uscita da una cura dimagrante che la rende agile e snella, in grado, quindi, di pantografare meglio le nuove tendenze d'autore, i fermenti delle avanguardie popolari e la possibilità d'incontro tra questi due ambiti di esperienze ed il mercato. Poi, naturalmente, corre meglio. È una Mostra che è già in corsa dopo un periodo autunnale passato ad ascoltare. Come il mio amatissimo collega Romeo Castellucci, direttore della Biennale Teatro, anch'io non ho potuto fare a meno di mettermi in ascolto per riuscire a sentire che cosa si stava affacciando di nuovo, in che direzione andavano i film portatori di rinnovamenti continui, sostanziali e, soprattutto, quelli capaci di credere davvero, nonostante tutto, al cinema, capaci di non tradirlo».
A questo proposito possiamo allora dire che i votanti del recente premio Oscar preferendo Eastwood a Scorsese abbiano scelto proprio un film portatore di quel rinnovamento di cui lei parla?
«Clint Eastwood e Martin Scorsese fanno parte entrambi di un'avanguardia commerciale. Non credo che "The Aviator" sia un film tanto più mainstream di "Million Dollar Baby". Il film di Scorsese rompe meno con i codici del cinema americano, Quello di Eastwood è un film di assoluta rottura. Ma non per questo Scorsese si chiama fuori da un discorso di autonomia espressiva e tematica che alcuni grandi registi americani si sanno ritagliare anche quando lavorano per le più grandi case con i più grandi budget».
Ha mai pensato di poter lasciare il Lido e portare la Mostra a Venezia?
«Lasciare il Lido? Voglio rispondere così anche ad alcune sgradevoli dichiarazioni di Dino de Laurentis: rivendico il fatto che il Lido è la nostra Croisette. Pensare diversamente a questo punto vorrebbe dire che il festival non si fa più a Venezia, che la Biennale non è più a Venezia. Non esiste in città, nemmeno all'Arsenale, uno spazio posizionato in modo da diventare il fulcro di un complesso di sale molto grandi, una location che dovrebbe consentire lo spostamento rapido di migliaia di spettatori da una sala all'altra. Soltanto al Lido esiste una logistica che consente di accogliere i grandi numeri di spettatori».
Quanto è importante la Mostra per il Veneto? E questa Mostra è una mosca bianca per il cinema nel Veneto?
«La Mostra diventa importante per il Veneto con la possibilità di mettere in rete quello che noi facciamo con quello che c'è di eccellente nel Veneto e di più nel Triveneto. Come scordare realtà come il "Visionario" di Udine e le altre atttività del Centro Espressioni Cinematografiche che organizza tra l'altro il Far East, uno dei festival di riferimento per i giovani. Come ignorare il lavoro in profondità che da decenni portano avanti Cinemazero e la Cineteca del Friuli e tutti i loro alleati in quello strepitoso cantiere di cinema che sono "Le Giornate del Cinema Muto". E tutto quello che succede a Trieste dove ormai si moltiplicano i festival diversificando la proposta, organizzandola su base continentale, areale», lo interrompiamo, spiegandoli che quello è il Friuli Venezia Giulia e che noi volevamo parlare del Veneto, lui allora riprende: «Restando in Veneto ... da una parte anche nel Veneto ci sono realtà di festival ed eventi notevoli da Conegliano ad Asolo. Attilio Zamperoni ha addirittura messo in piedi un ufficio dei festival veneti e organizzato pochi giorni fa un incontro tra i festival veneti per coordinarsi e meglio usare i potenziali finanziamenti comunitari. Per realizzare infine le attività permanenti della Mostra quello che ci interessa di più è soprattutto il rapporto più forte con Venezia e attraverso questo la possibilità di offrire, noi Biennale, parecchi contenuti nuovi all'Ufficio Cinema creando i presupposti per poi allargare nel territorio veneto la diffusione di opere acquisite all'Asac attraverso le nostre attività di recupero e restauro».
C'è la possibilità di portare poi in decentramento nelle città del Veneto i film della Mostra un po' come fa Berlino che porta i film a Roma o Locarno a Milano?
«Il cinema è fatto da persone che spendono un sacco di soldi per produrre i film e creare per essi circuiti di esportazione e sfruttamento. Un festival dunque serve a creare i presupposti perchè poi ci sia una vera diffusione commerciale dei film nelle sale. Per questo moltiplicare le proposte festivaliere vuol dire procastinare il momento in cui i film incontrano il vero pubblico, quello delle sale dietro casa o delle sale d'essai nei quartieri periferici. Quello del passaggio nelle sale è il tempo in cui il film comincia a vivere davvero. Per cui non ritengo giusto immaginare una Mostra a spasso per il Veneto. Quando sarà il momento, i film usciranno nelle sale: se abbiamo fatto bene il nostro lavoro, dovrebbero rimanerci a lungo».
Anni fa si pensava che il Mifed, allora prestigioso mercato mondiale del cinema, fosse pronto ad inghiottire la Mostra e portarla a Milano, ora con il Mifed in disgrazia si parla con insistenza di una Mostra pronta a farlo suo e portarlo a Venezia, cosa c'è di vero?
«La Mostra di Venezia ha bisogno di una struttura che serva agli interessi di chi produce i film, di chi li vende. Una struttura di servizio che possa coordinare le richieste dei possibili compratori sul modello dell'Industry Office di Toronto e di Locarno, quello fatto nascere da Laura Marcellino, la stessa persona cui è affidato il compito di farlo vivere a Venezia. Sempre più gli esportatori europei ci chiedono di far crescere questa struttura perchè diventi un primo embrione di mercato. Tendenza irrinunciabile. L'anno scorso abbiamo avuto un grosso incremento di compratori alla Mostra e non possiamo dire agli esportatori che a Venezia non troveranno i servizi e le strutture che servono a vendere i film».
Ci sono le strutture?
«Si, ci sono le strutture. Ci vuole la volontà politica e finanziaria anche a livello goivernativo, ci vogliono diversi partner privati. La combinazione giusta sarebbe far partire il progetto insieme alla Fiera di Milano ma non per far rinascere il Mifed nei limitati spazi del Casinò e in quelli limitrofi. Se si vuole a Venezia un mercato delle dimensioni del Mifed per ora non vediamo spazi consoni, dovranno proporceli. Per ora useremo gli spazi del Casinò, del Garden e dell'area antistante al Garden per avere un primo mercato che a titolo sperimentale potrebbe essere aperto solo agli esportatori europei. La forza di Cannes e Berlino è quella di essere festival selezionatissimi con un mercato dove trovi tutto l'esistente cinematografico prodotto in quel trimestre o semestre, e questo fa bene. Sapendo di poter vedere tutto o quasi tutto arrivano molti più compratori, di solito meno interessati ai film delle selezioni ufficiali o parallele che rispondono a criteri personali di poche persone».
Il Direttore del Festival di Berlino ha rinunciato all'ultimo momento ad un film perchè la protagonista Glenn Close non poteva essere presente alla proiezione, lei avrebbe fatto altrettanto?
«Un Festival non è solo una passerella, è innanzi tutto la proiezione dei migliori film della stagione. Non si può rinunciare ad un film soltanto perchè non hai abbastanza presenze glamour per presentarlo. Per molti anni Venezia ha fatto vedere i film di Woody Allen senza che Allen fosse presente alle proiezioni. Questo ha contribuito a costruire la sua reputazione, perchè i film erano veramente notevoli».
Come produttore ha portato il suo ultimo film "Sonze" capolavoro di Alexander Sokurov a Berlino dove non ha ricevuto il premio che meritava, lo porterebbe ancora in quel Festival sapendo come è andata?
«Era il festival giusto per quel film, non potendo portarlo a Venezia non avevo scelta, a Cannes sarebbe stato meno visibile. A Berlino, al di là dei premi, la stampa mondiale ha celebrato il film ed era quello che speravamo».
Quanto pesa la politica locale e nazionale sul destino di un Festival?
«Pesa tantissimo perchè i rapporti di forza legati alla politica di finanziamenti dei festival sono tutti a favore delle istituzioni nazionali e locali. Senza per questo postulare una subordinazione, senza cedere alle pressioni. È tuttavia importante avere un rapporto costante, trasparente e chiaro con quelle realtà istituzionali. Vale per Ministero ed Enti locali lo stesso rapporto che abbiamo con partner e sponsor privati. Lavoriamo in questo momento con Prada sulla politica di programmazione retrospettiva, sui restauri per la Mostra e le attività permanenti, teniamo Prada sempre bene informati perchè vogliamo che sappiano sempre cosa facciamo con i loro soldi».
Recentemente sono state rivolte al Presidente della Biennale, David Croff, accuse di essere politicamente di una parte contro l'attuale governo, lei come si sente rispetto a queste accuse?
«Mi sento come il Direttore che è stato accusato di essere un maoista, un servo di Forza Italia, un filo terrorista, un pupazzo nelle mani dell'attuale governo e via dicendo. Le etichette che ti possono mettere addosso non corrispondono che a fantasiose ricostruzioni di quello che poi uno sarebbe al di fuori del proprio lavoro. Noi ci definiamo nel nostro lavoro per la Biennale».
Avevamo iniziato parlando di una cura dimagrante, cosa vuol dire precisamente?
«I film della selezione ufficiale passeranno alla Sala Grande, anticipati al PalaGalileo per stampa e media e ripetuti al PalaTim per il pubblico. Alle sezioni autonome, Settimana della Critica e Giornate degli Autori, sarà dedicata la sala Perla. Questo porta ad un dimagrimento della selezione ufficiale da 76 a 60 titoli e delle parallele da quasi 30 a 20. Far vedere meno titoli farà senz'altro bene ai film perchè potranno essere visti con tutta l'attenzione che richiedono».
Per finire, possiamo sapere qualcosa sulla retrospettiva?
«Il titolo è: "La storia segreta del cinema asiatico", non ci saranno solo i film di genere ma anche i capolavori dimenticati o addirittura sconosciuti del cinema dell'estremo oriente. Non dimentichiamo che il cinema cinese compie 100 anni essendo nato nel 1905 e noi lo celebreremo con iniziative senza precedenti. Ci stiamo muovendo anche nella direzione più idonea per continuare il nostro lavoro in profondità sul cinema italiano e su quello fatto in Italia o coprodotto in Italia. Insieme alla Cineteca Nazionale siamo riusciti ad avviare il recupero di due film completi o in parte perduti di Orson Welles: Don Chisciotte e Il Mercante di Venezia».
L'intervista è finita, Marco Müller ha il carnet pieno tra incontri, progetti e...un appuntamento dal dentista. Anche i Direttori di Festival hanno un lato umano, Müller ne ha molti di "lati umani", tra questi apprezza il veronese amarone, ma chi preferisce tra Quintarelli e Del Forno?
«In passato: Quintarelli. Ora: Del Forno. Sono cambiati loro, non noi». L'intervista ora è finita davvero.

staminali: la GB all'ONU

La Stampa 9 Marzo 2005
LA DICHIARAZIONE ONU
Londra vota sì alla clonazione

La Gran Bretagna ha votato contro la dichiarazione delle Nazioni Unite che chiede a tutti i Paesi di proibire ogni forma di clonazione umana. Il ministro della Sanità John Reid ha sottolineato che il Paese ha già autorizzato la clonazione terapeutica e le ricerche sulle cellule staminali, e che la dichiarazione dell’Assemblea dell'Onu non avrà comunque «status legale e non sarà vincolante». «La clonazione riproduttiva - ha detto - è già illegale in Gran Bretagna. Chiunque tenti di farla rischia anche 10 anni di prigione. Al contrario il governo sostiene tutti i tipi di ricerca sulle cellule staminali, comprese quelle che coinvolgono la clonazione terapeutica. La ricerca sulle staminali è agli albori, ma può rivoluzionare la medicina in questo secolo, come gli antibiotici nel secolo passato». Già due le autorizzazioni inglesi alla clonazione terapeutica: la prima (agosto 2004) all'istituto di Genetica umana dell'università di Newcastle, la seconda l'8 febbraio all'équipe del prof. Wilmut, creatore di Dolly.

Ansa.it 8.3.05
Clonazione: Onu, Assemblea vara dichiarazione bando globale
Dichiarazione appoggiata da Usa, Italia, Santa Sede

(ANSA)-NEW YORK,8 MAR-L'Assemblea generale dell'Onu ha approvato una dichiarazione non vincolante che impegna i paesi a proibire tutte le forme di clonazione umana. Compresa la clonazione di embrioni per la ricerca sulle cellule staminali. La dichiarazione, appoggiata dagli Usa, dall'Italia, dalla Santa Sede e da molti paesi a maggioranza cattolica, è passata con 84 voti a favore e 34 contrari, con 37 astensioni.
copyright @ 2005 ANSA

il libro su Laura Lombardo Radice, la compagna di Pietro Ingrao

al proposito leggi anche il post pubblicao ieri: un articolo dall'Unità segnalato da Dina Battioni

il manifesto 9.3.05

Il lessico famigliare della passione
GIOVANNA PAJETTA
La storia di una madre, Laura Lombardo Radice, ricostruita, con amore di figlia, da Chiara Ingrao. Memorie di ieri, attraverso lettere, poesie, articoli, appunti, e riflessioni di oggi, in un confronto intimo e profondo tra due generazioni di donne. Storia familiare e politica dietro e dentro la biografia di una donna indomita. «Soltanto una vita» per Baldini Castoldi Dalai
I sessantanni di Auschwitz e del 25 aprile, la giornata della memoria e quella del ricordo, gli sceneggiati tv sulle foibe e i filmati d'epoca di History channel. Mai come quest'anno il Novecento e il suo punto cruciale, di svolta, sono stati sotto i riflettori. L'effetto però, non sempre è quello sperato. Perché, tra retorica e violente polemiche revisioniste, il rischio è che vada perduto proprio ciò che si dovrebbe ricordare, o scoprire di nuovo. A cominciare dall'esperienza di una generazione di giovani uomini, e forse ancor più di giovani donne che attraversarono quegli anni terribili. Per trovare nell'affannoso rincorrersi di carcere, morte e primi amori, quel nucleo di passione che molte di loro, come Laura Lombardo Radice, avrebbero poi portato con sé per tutta la vita. Scritto a quattro mani, le poesie, le lettere e gli articoli di Laura raccolti e commentati da sua figlia Chiara Ingrao, Soltanto una vita (Baldini Castoldi Dalai, pp.371, € 18) inizia in una famiglia molto speciale. I Lombardo Radice, coppia di pedagogisti che fanno dei loro figli i protagonisti dei loro libri, sono un po' la versione romana dei Ginzburg. Anche loro hanno un «lessico famigliare», anche da loro a tavola si parla dei classici, magari direttamente in latino. E quando i tempi si fanno magri, si cucina «l'aringa alla Vittorini», prendendo la ricetta da Conversazioni in Sicilia. Per servirla magari proprio a quel giovane comunista clandestino che, stupefatto, sbotterà «Ma Vittorini sono io!». Questo però avverrà molto dopo, perché negli anni Trenta in casa si vive solo quello che Chiara chiama «un antifascismo naturale». Così come naturale, anzi addirittura eterno, pareva a tanti italiani il regime di Benito Mussolini. E chi, come Laura e suo fratello Lucio e gli amici del cuore, l'amatissimo Giaime Pintor, i Natoli, Misha Kamenetzky (che proprio allora coniò lo pseudonimo che divenne il suo nome, Ugo Stille), cresceva cercando altro doveva presto scoprire che nemmeno i padri o i maestri tanto amati, come Benedetto Croce, avevano più voglia o capacità di dare risposte. Così mentre già giungeva l'eco della guerra di Spagna, mentre in Francia si installava il governo socialista del Fronte popolare ognuno diventò «maestro di se stesso». Aiutato solo dai fratelli maggiori. Glauco Natoli portava libri e documenti clandestini da Parigi, Bruno Sanguinetti, già comunista, faceva circolare i testi di Gramsci. Oppure, come racconta Laura si andava in biblioteca a leggere, tra le righe dei commenti di Croce, il «Manifesto dei comunisti» di Marx.
Ma sarà il 1939 a far precipitare le cose e trasformare quella ricerca ancora soprattutto intellettuale in qualcosa di molto diverso. La guerra in Europa, la fine dei repubblicani spagnoli e, per rimanere alla vita di Laura, l'arresto di suo fratello Lucio. «Se devo dare una data alla mia militanza comunista - scriverà anni dopo Laura, raccontando la nascita di quello che nella Resistenza si chiamò «il gruppo romano» - direi che si è chiarita in quei giorni, quando passammo da un antifascismo riflessivo alla coscienza di essere persone che il fascismo espelleva dal corpo sociale». Ma quel Natale per lei finirà per significare anche qualcosa di più personale. Perché è proprio portando i pacchi dono a Lucio, nell'androne di Regina Coeli, che scoprirà l'esistenza di un'altra città. Le giovani popolane romane che parlano tra loro di aborti mal riusciti, quell'omone quasi storpio che a lei, vissuta sui libri, fa venire alla mente i bassifondi della Parigi di Victor Hugo e si rivelerà invece niente più che uno sfortunato facchino. Facce anonime che diventeranno compagni di lotta quando, nella Roma occupata dai tedeschi, Laura sarà spettatrice e organizzatrice della rivolta delle donne per il pane, testimone della morte di Teresa Gullace immortalata poi in «Roma città aperta» di Roberto Rossellini. E' un rapporto con un mondo diverso e lontano dal suo, non sempre facile, ma curioso, appassionato, mai paternalista. E, soprattutto, è un confronto che diventerà un punto mobile di tutta la sua vita.
Ironica e curiosa, insofferente al conformismo, non solo fascista, Laura Lombardo Radice mal si adatta al dopoguerra. Non le piacciono gli intellettuali romani che cancellano così facilmente i tempi bui dei nove mesi dell'occupazione ma non ama neanche, pur cadendo come tutti nel Pci nella trappola del mito sovietico, il suo burocratico partito. Quello in cui, come scrive a Zangrandi nel `56, si guarda agli altri come a «quella gente che agli occhi nostri fa sempre `massa': un tranviere, un artigiano.. Mentre noi siamo Giuliano, Marcello, Antonello...». La lettera in realtà non la spedirà mai. Più che alle discussioni nel partito preferirà, di cui rimarrà comunque sempre una militante, occuparsi per l'appunto degli altri. La sua famiglia, il suo amatissimo marito Pietro, le quattro ragazze e il piccolo Guido, gli studenti dell'Oriani che arrivavano a scuola dalle borgate della periferia romana. Ma il suo non è certo un ritorno a casa, come fu per tante donne e mogli comuniste. Perché Laura Lombardo Radice rimarrà per tutta la vita, per usare un'espressione decisamente fuori moda, una donna indomita. Capace di buttarsi con quella che sua figlia Chiara chiama «la sua foga», in una battaglia dopo l'altra. Sempre però con il suo tocco leggero, e profondamente femminile. Quello con cui cuciva i deliziosi vestiti di carnevale delle sue figlie, che lasciavano a bocca aperta tutti i bimbi comunisti di allora, o che si ritrova nelle poesie e negli articoli di costume che scriveva per Noi donne.
Così, a cinquantanni, come dice lei stessa, autoironica, Laura «fa il `68». Mette la foto del Che sul comò, accanto a quella di Giame, e si butta nelle assemblee studentesche, in quel «marasma stimolante e positivo». In tasca la tessera del Pci, legge con disappunto gli attacchi di Giorgio Amendola e apprezza le aperture del «cauto, insomma discreto» Luigi Longo. Ma non sarà l'unica avventura fuori tempo. Perché, come scriverà una delle sue nipotine, raccontando le passeggiate con la nonna, «bisogna sempre camminare senza fermarsi mai». E così a settanta anni suonati, ormai in pensione, Laura Lombardo Radice decide di tornare a insegnare. In una scuola molto particolare, a Rebibbia. Il carcere del resto, in quel lontano 1939, quando in cella c'era suo fratello Lucio, era stato un'esperienza cruciale, mai dimenticata. I suoi nuovi studenti sono ben diversi, tutti detenuti, condannati per furto, rapina o omicidio. «I miei assassinetti» come li chiamerà Laura, che aveva scelto loro, rifiutando invece di essere la maestra dei tanti «politici» finiti a Rebibbia negli anni di piombo. «Loro hanno già tutta l'attenzione, stanno sempre sotto i riflettori - spiegava cocciuta - Sono i comuni che sono dimenticati da tutti. E' con loro che bisogna lavorare». Figli e nipoti di quell'altra Roma che aveva incontrato per la prima volta a Regina Coeli e che da allora era sempre rimasta nel suo cuore.

l'omicidio rituale

L'Unità 9.3.05
L’omicidio rituale: una leggenda che ha fatto comodo nei secoli
Leggere per non dimenticare presenta il libro di Massimo Introvigne, proseguendo il filone magia, scienza e mito
Renzo Cassigoli

FIRENZE Cattolici, antisemitismo e sangue - Il mito dell’omicidio rituale. Con questo libro di Massimo Introvigne introdotto da Paolo Rossi Leggere per non dimenticare prosegue il breve ciclo sul nesso fra magia, scienza, filosofia e mito che si concluderà con il Tommaso Campanella di Germana Ernst. Il libro di Introvigne reca in appendice il “voto”, che il Cardinale Garganelli preparò per il Sant'Uffizio e fu approvato il 24 dicembre del 1759. Nel documento l’alto prelato (poi papa Clemente XIV) metteva in guardia i cattolici dal prestare fede a false accuse contro gli ebrei e presentava l’omicidio rituale come una leggenda metropolitana. Di cosa si tratta? Per secoli si è diffusa la cosiddetta “letteratura del sangue” secondo la quale gli ebrei, dovendo bere sangue cristiano, rapivano e uccidevano soprattutto i bambini. Muovendo dall’accusa, il libro insegue la storia, e le storie, in una serie di città che nei secoli hanno rappresentato altrettante tappe dei pregiudizi che colpiscono il diverso, lo straniero, colui che non rientra in quella che stabiliamo essere la norma. «Tuttavia - sostiene Introvigne - né la credenza dei vampiri né l’accusa del sangue possono essere spiegate con semplici richiami psicologici a paure ancestrali. Entrambe richiedono analisi di tipo sociologico». L’autore richiama quindi l’impostazione metodologica di Rodney Stark in tema di antisemitismo, secondo cui all’origine dei conflitti religiosi ci sarebbe la pretesa tipica del monoteismo di costituire l’unica vera religione. Il documentatissimo testo di Introvigne induce il lettore ad alcune riflessioni su aspetti che per venti secoli hanno segnato la chiesa cattolica nei confronti degli ebrei accusati di deicidio. Accusa che solo Giovanni XXIII ha cancellato dalla liturgia e che ha portato Giovanni Paolo II ad esortare la Chiesa a compiere quel «cammino di purificazione della memoria» a proposito delle relazioni con gli ebrei (e non solo, se si considera la richiesta di perdono per gli errori e i delitti compiuti, dalla strage degli Ugonotti alla Shoa). Sempre, nella lunga storia dell'umanità, ritroviamo il “capro espiatorio” che nel gioco di potere è individuato nel diverso, nell'estraneo, di volta in volta gettati in pasto alle folle quali responsabili delle carestie, delle pesti, delle catastrofi magari dovute alla guerra. Del resto il nazismo usò gli ebrei (poi sarebbe toccato agli zingari, agli omosessuali, ai malati di mente fino ai politici) come capro espiatorio della crisi di un paese sconfitto nella prima guerra mondiale (ma anche chi fu tra i vincitori si ritrovò con il fascismo). Il pregiudizio, insomma, non tramonta mai. Ancora oggi i nostri guai trovano un facile capro espiatorio nell'immigrato estracomunitario costretto a un disperante spaesamento causato da un modello di vita e di consumo che, diceva Mario Luzi, si alimenta della fame nel mondo.