Repubblica 4.7.04
I GLOBI D´ORO
Trionfano Castellitto e Giordana
ROMA - "Non ti muovere" di Sergio Castellitto ha vinto il Globo d´oro per il miglior film, assegnato dai 500 giornalisti della Stampa estera. Trionfo anche per Marco Tullio Giordana, la cui "Meglio gioventù" ottiene il premio per la miglior regia, sceneggiatura (di Sandro Petraglia e Stefano Rulli) e il Gran premio stampa estera. Un Globo speciale alla carriera è stato invece assegnato ad Adriana Asti. Miglior attore e attrice sono Carlo Verdone per "L´amore è eterno finché dura" e Maya Sansa per l´interpretazione in "Buongiorno, notte" di Marco Bellocchio. "Il fuggiasco" di Andrea Manni si è aggiudicato il premio come miglior opera prima e il suo protagonista, Daniele Liotti, quello per l´attore rivelazione. Michela Cescon è invece l´attrice rivelazione per "Primo amore" di Matteo Garrone. Film rivelazione dell´anno è "L´amore di Marja" di Anne Riita Ciccone mentre "Rosenstrasse" è eletto miglior film europeo. Premi anche a Riccardo Scamarcio e ad Annika e Erika Lepisto come attore e attrici esordienti. Globo d´oro per il distributore dell´anno a Medusa Film.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 4 luglio 2004
«se il cinema è filosofia»
Repubblica 4.7.04
Se il cinema è filosofia
dialogo tra Umberto Eco ed Enrico Ghezzi
ECO: "ma non voglio stare dietro l'obiettivo"
ghezzi:"perché non vedi una materia che esiste già"
Il cinéphile e il semiologo al Festival di Procida
La macchina da presa? È una protesi del corpo
di ANTONIO GNOLI
PROCIDA. Pensare il cinema? La questione messa così ha un´aria intimidatoria. Non siamo abituati a declinare insieme cinema e pensiero. Se mai a unire cinema e piacere, cinema ed erotismo, cinema e avventura o al massimo cinema ed estetica. Amare il cinema (o magari odiarlo), gustarlo come una pietanza, toccarlo con gli occhi è questo che di norma facciamo accomodandoci nel buio di una sala. Chi pensa il cinema o chi è pensato dal cinema? A prima vista sembra un equivoco, forse un´ossessione. Ed è quella ci pare che attraversa la testa, il corpo, lo sguardo di Enrico Ghezzi. Fautore di questo interessante festival che si tiene in questi giorni a Procida con tanto di filosofi annessi. Il vento del cinema, è il titolo della manifestazione, dopo un´interruzione di qualche anno (qualcuno ricorderà l´ottima edizione che si tenne a Lipari nel 2001) ha ripreso a soffiare. Una cinquantina gli ospiti: fra i registi presenti con le loro opere Kiarostami, Emmer, Abel Ferrara, Maresco, Straub, Bela Tarr, De Oliveira. Tra i filosofi: Agamben, Bodei, Curi, Giorello, Rovatti, Severino.
Dunque il pensiero come gesto filosofico più che essere respinto dal cinema ne sarebbe attratto al punto da perdersi nella luce, nel movimento di un´immagine, di un suono o di un´ombra ricompresi in un fotogramma. Ma se il cinema in un certo senso, non privo di qualche vistosa forzatura, è filosofia, quest´ultima non può esaurirsi nella somma dei film che hanno fatto la storia. Ovviamente registi considerati naturalmente più filosofici ci sono: Antonioni, Bergman, Rossellini (che è poi un caso a sé) Godard, Kieslowski, Wenders. I loro pensieri prendono corpo attraverso l´occhio della camera.
Ma ho l´impressione che la sola filosofia che il cinema possa realizzare sia quella involontaria che il mondo dell´opinione a volte inavvertitamente riesce a produrre. Più dei nomi citati vengono allora alla mente certe sequenze di Stan Laurel e Oliver Hardy, pochi fotogrammi di Buster Keaton, alcune indimenticabili scene di Hitchcock. Come dire la filosofia si posa dove meno te lo aspetti.
E in fondo non ci aspettavamo questo dialogo fitto e fisso tra uno scrittore di immenso successo come Umberto Eco e Enrico Ghezzi il cui successo è un lavoro ai margini più che nella centralità delle cose. Oggetto di questo filmato in cui il semiologo si «confessa» davanti a una camera fissa è il cinema. La voce fuori campo fa domande, a volte riflette a volte incalza o divaga. C´è una penombra linguistica che avvolge le domande e le rende volutamente sfuggenti. E´ il modo di interrogare che Ghezzi sembra involontariamente prediligere. Eco sta al gioco. Viene da pensare che un´illuminista come lui si serva della ragione come esperienza totalizzante: anche la cosa più astrusa può essere inglobata o neutralizzata.
Il dialogo dura più di due ore. Poche le pause: ogni tanto Eco con un lungo accendino attizza una sigaretta. In un paio di occasioni perdono il filo delle domande o delle risposte: «Che stavo dicendo?», pausa, vuoto, il ritmo scende di tono. E´ un modo di ricominciare. Eco ricorda la sua infanzia al cinema: due o tre film al giorno gratis. Una festa per gli occhi del ragazzo di Alessandria: «La mia attività di scrittore e perfino di saggista sono state più influenzate dalle grammatiche del cinema che non dalla letteratura. Scrivo pensando al montaggio cinematografico».
Viene in mente Kafka, irraggiungibile scrittura cinematografica, munita perfino di dissolvenza. Eco fa il nome di John Ford: «Ho imparato più da Ombre rosse che da molta letteratura. Il primo a descrivere il meccanismo di Ombre rosse è stato Aristotele nella sua "poetica"».
In fondo Eco e Ghezzi malgrado l´incolmabile distanza sono convinti che il cinema esiste prescindendo dal cinema. Un´assurdità? Mica tanto. Osserva ancora Eco: «Credo esista una macchinetta nella nostra testa che ci fa pensare cinematograficamente ancor prima della nascita dei fratelli Lumière».
Eco insomma immagina il cinema come una protesi. Lo vede come un supplemento del corpo. Un obiettivo, un cervello, un movimento equivalgono a una testa a due occhi, alle gambe per muoversi: su, giù, avanti, dietro, destra, sinistra. Sono universali linguistici utilizzabili tanto dal corpo quanto dalla camera. Ecco perché Aristotele, o magari Manzoni, potevano pensare o raccontare cinematograficamente prima dell´invenzione del cinema. Entrambi basavano le loro descrizioni sui meccanismi corporali. Dunque il cinema cade nel nostro orizzonte. Non se ne può prescindere, ma lo si può dosare.
«Io, dice Eco, sono grandemente influenzato dal cinema. Ma tu Enrico che mi chiedi perché non faccio cinema, sei come quell´omosessuale che cerca di spiegare a un etero come sono attraenti i maschietti. Non ti rendi conto che fare cinema non mi interessa. Sono un consumatore di cinema, ma non potrei fare il regista. Se non altro perché odio i tempi morti. Se stai sul set e chiedi di avere un elefante devi aspettare come minimo otto ore perché te lo portino. Sono troppo ansioso per poter aspettare». E poi, aggiunge in un´altra parte del dialogo: «Non voglio guardare il mondo attraverso l´obiettivo. E´ il culto che io ho della mia memoria a far sì che non ci sia qualcos´altro a registrare quello che accade fuori di me».
«La tua», replica Ghezzi, «mi pare una reazione sentimentale. Un desiderio di vedere nei film degli oggetti che entrino nella memoria. Ma poi c´è il rifiuto di vedere come funziona questa macchina».
«Ma io», osserva Eco, «sto spiegando le ragioni autobiografiche del mio rapporto con il cinema. Mi sarebbe piaciuto essere un grande pianista, ma non lo sono».
«Non è questo il punto», incalza Ghezzi, «ti sto chiedendo della macchina...».
«Ma il discorso è nato dal perché non ho sentito il bisogno di sfruttare questa macchina che per te è tutta la tua vita» controbatte Eco.
«Per niente. Tutta la mia vita non è neanche un film. Mi domando», si chiede Ghezzi, «perché non senti o fingi di non sentire una provocazione un po´ più intensa. Sono stupito per come il cinema sia per te non una situazione ma una macchina per produrre un certo tipo di spettacolo».
In fondo il confronto è tra uno che guarda il cinema dal di fuori e l´altro che lo osserva dal di dentro che se ne è lasciato risucchiare fino a confondersi e a perdersi in esso. Eco è uno spettatore, Ghezzi un singolare metafisico alla ricerca di ontologia opalescente e ottusa. Cita Kubrick che cerca di ridurre al massimo la casualità del set, ma poi deve fare i conti con il visibile delle cose: «Non può esimersi dal trovarsi di fronte a una materia che preesiste, che è lì da "sempre". Qualcosa che anche Warhol aveva presente».
«Ma se Warhol invece di puntare la macchina fissa sull´Empire State Bulding la puntava sulla stazione di Milano, l´effetto sarebbe stato lo stesso?», si chiede Eco. «Ho l´impressione», prosegue il semiologo, «che prima che la camera intervenga ci sia una messa in scena, una disposizione dell´ambiente. Non è vero che un regista prende la montagna più immobile e la filma. Non credo all´ottusità che sta fuori e il regista che sceglie di filmarla. Nel momento in cui sceglie nella realtà, questa non è più ottusa».
«Ma non vedi», dice Ghezzi, «nel cinema quello che i futuristi russi chiamavano "fattografia", non vedi una vicinanza più beata e terribile a questo esserci già? Proprio perché il cinema è immagine ripetuta, esso lavora a un esserci già. Il cinema astrattizza il reale. E´ una specie di kantiana sintesi apriori».
«Ho l´impressione», replica Eco, «che la presenza del dato reale di partenza sia meno importante della preparazione della scelta del dato».
La datità ineliminabile, bruta, basica, è a quella che sembra pensare Ghezzi, e che intuiva Hitchcock quando diceva che gli attori erano bestiame. Il cinema ghezziano è il common ground. Il cinema di Eco è il senso comune dello spettatore, è diversamente da ciò che accade con il teatro, la comunicazione che si dirige verso un pubblico indistinto.
Spiega Eco: «Distinguerei tra comunicazione di massa e comunicazione faccia a faccia. La prima, come il cinema, parte da una fonte e non sa quanti e quali tipi di destinatari saprà raggiungere. Quello che è fondamentale, poniamo nel teatro, è che ad ogni parola che pronunci, o gesto che fai, senti la reazione della sala. Tutto quello che un attore di cinema non può sentire e che è avvertito da un attore di teatro».
Questa conversazione che solo in parte abbiamo restituito nasce dall´ultimo romanzo di Umberto Eco: La misteriosa fiamma della regina Loana (Bompiani) che molto deve al cinema. La parola "deve" può far pensare a una imposizione, ma nulla è imposto o si impone se non l´evidenza delle cose che è anche il loro mistero, per dirla in conclusione con un bell´intervento che sull´argomento cinema ha fatto proprio ieri il filosofo Emanuele Severino..
Se il cinema è filosofia
dialogo tra Umberto Eco ed Enrico Ghezzi
ECO: "ma non voglio stare dietro l'obiettivo"
ghezzi:"perché non vedi una materia che esiste già"
Il cinéphile e il semiologo al Festival di Procida
La macchina da presa? È una protesi del corpo
di ANTONIO GNOLI
PROCIDA. Pensare il cinema? La questione messa così ha un´aria intimidatoria. Non siamo abituati a declinare insieme cinema e pensiero. Se mai a unire cinema e piacere, cinema ed erotismo, cinema e avventura o al massimo cinema ed estetica. Amare il cinema (o magari odiarlo), gustarlo come una pietanza, toccarlo con gli occhi è questo che di norma facciamo accomodandoci nel buio di una sala. Chi pensa il cinema o chi è pensato dal cinema? A prima vista sembra un equivoco, forse un´ossessione. Ed è quella ci pare che attraversa la testa, il corpo, lo sguardo di Enrico Ghezzi. Fautore di questo interessante festival che si tiene in questi giorni a Procida con tanto di filosofi annessi. Il vento del cinema, è il titolo della manifestazione, dopo un´interruzione di qualche anno (qualcuno ricorderà l´ottima edizione che si tenne a Lipari nel 2001) ha ripreso a soffiare. Una cinquantina gli ospiti: fra i registi presenti con le loro opere Kiarostami, Emmer, Abel Ferrara, Maresco, Straub, Bela Tarr, De Oliveira. Tra i filosofi: Agamben, Bodei, Curi, Giorello, Rovatti, Severino.
Dunque il pensiero come gesto filosofico più che essere respinto dal cinema ne sarebbe attratto al punto da perdersi nella luce, nel movimento di un´immagine, di un suono o di un´ombra ricompresi in un fotogramma. Ma se il cinema in un certo senso, non privo di qualche vistosa forzatura, è filosofia, quest´ultima non può esaurirsi nella somma dei film che hanno fatto la storia. Ovviamente registi considerati naturalmente più filosofici ci sono: Antonioni, Bergman, Rossellini (che è poi un caso a sé) Godard, Kieslowski, Wenders. I loro pensieri prendono corpo attraverso l´occhio della camera.
Ma ho l´impressione che la sola filosofia che il cinema possa realizzare sia quella involontaria che il mondo dell´opinione a volte inavvertitamente riesce a produrre. Più dei nomi citati vengono allora alla mente certe sequenze di Stan Laurel e Oliver Hardy, pochi fotogrammi di Buster Keaton, alcune indimenticabili scene di Hitchcock. Come dire la filosofia si posa dove meno te lo aspetti.
E in fondo non ci aspettavamo questo dialogo fitto e fisso tra uno scrittore di immenso successo come Umberto Eco e Enrico Ghezzi il cui successo è un lavoro ai margini più che nella centralità delle cose. Oggetto di questo filmato in cui il semiologo si «confessa» davanti a una camera fissa è il cinema. La voce fuori campo fa domande, a volte riflette a volte incalza o divaga. C´è una penombra linguistica che avvolge le domande e le rende volutamente sfuggenti. E´ il modo di interrogare che Ghezzi sembra involontariamente prediligere. Eco sta al gioco. Viene da pensare che un´illuminista come lui si serva della ragione come esperienza totalizzante: anche la cosa più astrusa può essere inglobata o neutralizzata.
Il dialogo dura più di due ore. Poche le pause: ogni tanto Eco con un lungo accendino attizza una sigaretta. In un paio di occasioni perdono il filo delle domande o delle risposte: «Che stavo dicendo?», pausa, vuoto, il ritmo scende di tono. E´ un modo di ricominciare. Eco ricorda la sua infanzia al cinema: due o tre film al giorno gratis. Una festa per gli occhi del ragazzo di Alessandria: «La mia attività di scrittore e perfino di saggista sono state più influenzate dalle grammatiche del cinema che non dalla letteratura. Scrivo pensando al montaggio cinematografico».
Viene in mente Kafka, irraggiungibile scrittura cinematografica, munita perfino di dissolvenza. Eco fa il nome di John Ford: «Ho imparato più da Ombre rosse che da molta letteratura. Il primo a descrivere il meccanismo di Ombre rosse è stato Aristotele nella sua "poetica"».
In fondo Eco e Ghezzi malgrado l´incolmabile distanza sono convinti che il cinema esiste prescindendo dal cinema. Un´assurdità? Mica tanto. Osserva ancora Eco: «Credo esista una macchinetta nella nostra testa che ci fa pensare cinematograficamente ancor prima della nascita dei fratelli Lumière».
Eco insomma immagina il cinema come una protesi. Lo vede come un supplemento del corpo. Un obiettivo, un cervello, un movimento equivalgono a una testa a due occhi, alle gambe per muoversi: su, giù, avanti, dietro, destra, sinistra. Sono universali linguistici utilizzabili tanto dal corpo quanto dalla camera. Ecco perché Aristotele, o magari Manzoni, potevano pensare o raccontare cinematograficamente prima dell´invenzione del cinema. Entrambi basavano le loro descrizioni sui meccanismi corporali. Dunque il cinema cade nel nostro orizzonte. Non se ne può prescindere, ma lo si può dosare.
«Io, dice Eco, sono grandemente influenzato dal cinema. Ma tu Enrico che mi chiedi perché non faccio cinema, sei come quell´omosessuale che cerca di spiegare a un etero come sono attraenti i maschietti. Non ti rendi conto che fare cinema non mi interessa. Sono un consumatore di cinema, ma non potrei fare il regista. Se non altro perché odio i tempi morti. Se stai sul set e chiedi di avere un elefante devi aspettare come minimo otto ore perché te lo portino. Sono troppo ansioso per poter aspettare». E poi, aggiunge in un´altra parte del dialogo: «Non voglio guardare il mondo attraverso l´obiettivo. E´ il culto che io ho della mia memoria a far sì che non ci sia qualcos´altro a registrare quello che accade fuori di me».
«La tua», replica Ghezzi, «mi pare una reazione sentimentale. Un desiderio di vedere nei film degli oggetti che entrino nella memoria. Ma poi c´è il rifiuto di vedere come funziona questa macchina».
«Ma io», osserva Eco, «sto spiegando le ragioni autobiografiche del mio rapporto con il cinema. Mi sarebbe piaciuto essere un grande pianista, ma non lo sono».
«Non è questo il punto», incalza Ghezzi, «ti sto chiedendo della macchina...».
«Ma il discorso è nato dal perché non ho sentito il bisogno di sfruttare questa macchina che per te è tutta la tua vita» controbatte Eco.
«Per niente. Tutta la mia vita non è neanche un film. Mi domando», si chiede Ghezzi, «perché non senti o fingi di non sentire una provocazione un po´ più intensa. Sono stupito per come il cinema sia per te non una situazione ma una macchina per produrre un certo tipo di spettacolo».
In fondo il confronto è tra uno che guarda il cinema dal di fuori e l´altro che lo osserva dal di dentro che se ne è lasciato risucchiare fino a confondersi e a perdersi in esso. Eco è uno spettatore, Ghezzi un singolare metafisico alla ricerca di ontologia opalescente e ottusa. Cita Kubrick che cerca di ridurre al massimo la casualità del set, ma poi deve fare i conti con il visibile delle cose: «Non può esimersi dal trovarsi di fronte a una materia che preesiste, che è lì da "sempre". Qualcosa che anche Warhol aveva presente».
«Ma se Warhol invece di puntare la macchina fissa sull´Empire State Bulding la puntava sulla stazione di Milano, l´effetto sarebbe stato lo stesso?», si chiede Eco. «Ho l´impressione», prosegue il semiologo, «che prima che la camera intervenga ci sia una messa in scena, una disposizione dell´ambiente. Non è vero che un regista prende la montagna più immobile e la filma. Non credo all´ottusità che sta fuori e il regista che sceglie di filmarla. Nel momento in cui sceglie nella realtà, questa non è più ottusa».
«Ma non vedi», dice Ghezzi, «nel cinema quello che i futuristi russi chiamavano "fattografia", non vedi una vicinanza più beata e terribile a questo esserci già? Proprio perché il cinema è immagine ripetuta, esso lavora a un esserci già. Il cinema astrattizza il reale. E´ una specie di kantiana sintesi apriori».
«Ho l´impressione», replica Eco, «che la presenza del dato reale di partenza sia meno importante della preparazione della scelta del dato».
La datità ineliminabile, bruta, basica, è a quella che sembra pensare Ghezzi, e che intuiva Hitchcock quando diceva che gli attori erano bestiame. Il cinema ghezziano è il common ground. Il cinema di Eco è il senso comune dello spettatore, è diversamente da ciò che accade con il teatro, la comunicazione che si dirige verso un pubblico indistinto.
Spiega Eco: «Distinguerei tra comunicazione di massa e comunicazione faccia a faccia. La prima, come il cinema, parte da una fonte e non sa quanti e quali tipi di destinatari saprà raggiungere. Quello che è fondamentale, poniamo nel teatro, è che ad ogni parola che pronunci, o gesto che fai, senti la reazione della sala. Tutto quello che un attore di cinema non può sentire e che è avvertito da un attore di teatro».
Questa conversazione che solo in parte abbiamo restituito nasce dall´ultimo romanzo di Umberto Eco: La misteriosa fiamma della regina Loana (Bompiani) che molto deve al cinema. La parola "deve" può far pensare a una imposizione, ma nulla è imposto o si impone se non l´evidenza delle cose che è anche il loro mistero, per dirla in conclusione con un bell´intervento che sull´argomento cinema ha fatto proprio ieri il filosofo Emanuele Severino..
una scoperta archeologica:
la Venere dei Sanniti
Repubblica 4.7.04
LA SCOPERTA
La divinità è l'antenata di quella delle pitture già rinvenute. Così si comprenderà meglio la vita nell'area
La Venere dei Sanniti a Pompei eccezionale scoperta negli scavi
E nelle terme vicino al tempio le vergini erano iniziate al sesso
di STELLA CERVASIO
POMPEI - Un´antenata di Venere torna alla luce negli Scavi di Pompei. Uno scavo archeologico trova il tempio di Mefite, l´Afrodite dei Sanniti e corregge il tiro sul popolo rude e guerriero, che prima dei romani aveva tracciato gli attuali confini alla città distrutta dal Vesuvio nel 79 d.C.. Scavando sotto il tempio dedicato alla Venere Sillana che dà le spalle alla Porta Marina, lo studioso Emmanuele Curti dell´Università di Matera ha trovato resti di un tempio dell´epoca in cui Pompei era abitata dal popolo che per mezzo secolo impegnò Roma nelle guerre sannite, da alleato divenne nemico e per questo fu sterminato.
La scoperta è nel fronte sud occidentale degli Scavi: un edificio con porticato e cisterne del III secolo avanti Cristo, un tempio dedicato a una divinità femminile, forse Mefite, dea sotterranea che proteggeva il bestiame e le acque precedendo Venere, che spesso si trova a tutela dei porti. «Anche la Venere Fisica raffigurata in due pitture pompeiane - spiega l´archeologo - in quanto divinità che collega il cielo alla terra, la vita alla morte, aveva un manto stellato, che assomiglia molto a quello della Madonna del santuario della Pompei moderna».
Lo scavo è durato due settimane. «I risultati - dice Curti - sono di enorme interesse, non solo per l´individuazione e la ri-datazione delle varie fasi di vita dell´area. È un passo avanti nella comprensione della relazione tra spazi pubblici e privati di questo settore cruciale della città, a metà strada tra il Foro e l´aria esterna di Porta Marina, dove forse c´erano dei bacini portuali». Curti è originario di Perugia, ha studiato con due grandi nomi dell´archeologia, Filippo Coarelli e Mario Torelli, ha lavorato per dieci anni al Birkbeck College dell´Università di Londra ed è tornato con un progetto del "rientro dei cervelli" all´Università di Basilicata. Il suo studio ha ottenuto fondi per 80 mila euro, serviti a realizzare la campagna di scavo in collaborazione con la Soprintendenza di Pompei diretta da Pier Giovanni Guzzo. Il progetto è in sintonia con le scelte della Soprintendenza, che da anni ha trasformato Pompei in un laboratorio per studiosi di tutte le nazionalità che procedono per approcci sistematici alle diverse aree.
Seguendo questo criterio, accanto al tempio della Venere dei Sanniti è affiorato un impianto termale di epoca successiva dove, secondo l´archeologo, si praticava la prostituzione sacra. Protagoniste di questi riti di passaggio che nel terzo e secondo secolo viene affidato a professioniste del sesso, in un primo tempo sono ragazze anche di famiglia aristocratica, che perdono la verginità al riparo del "recinto sacro" in cambio di una moneta da conservare per il resto della vita, il lasciapassare per il matrimonio. Dalle due profonde cisterne del tempio sannita sono tornati alla luce centinaia di reperti, terracotte votive con piccoli eroi antenati dei puttini, monete, ossa, lucerne, piattelli, blocchetti di porpora usate dalle adolescenti per truccarsi prima degli incontri e le conchiglie da cui si estraeva il colore rosso.
LA SCOPERTA
La divinità è l'antenata di quella delle pitture già rinvenute. Così si comprenderà meglio la vita nell'area
La Venere dei Sanniti a Pompei eccezionale scoperta negli scavi
E nelle terme vicino al tempio le vergini erano iniziate al sesso
di STELLA CERVASIO
POMPEI - Un´antenata di Venere torna alla luce negli Scavi di Pompei. Uno scavo archeologico trova il tempio di Mefite, l´Afrodite dei Sanniti e corregge il tiro sul popolo rude e guerriero, che prima dei romani aveva tracciato gli attuali confini alla città distrutta dal Vesuvio nel 79 d.C.. Scavando sotto il tempio dedicato alla Venere Sillana che dà le spalle alla Porta Marina, lo studioso Emmanuele Curti dell´Università di Matera ha trovato resti di un tempio dell´epoca in cui Pompei era abitata dal popolo che per mezzo secolo impegnò Roma nelle guerre sannite, da alleato divenne nemico e per questo fu sterminato.
La scoperta è nel fronte sud occidentale degli Scavi: un edificio con porticato e cisterne del III secolo avanti Cristo, un tempio dedicato a una divinità femminile, forse Mefite, dea sotterranea che proteggeva il bestiame e le acque precedendo Venere, che spesso si trova a tutela dei porti. «Anche la Venere Fisica raffigurata in due pitture pompeiane - spiega l´archeologo - in quanto divinità che collega il cielo alla terra, la vita alla morte, aveva un manto stellato, che assomiglia molto a quello della Madonna del santuario della Pompei moderna».
Lo scavo è durato due settimane. «I risultati - dice Curti - sono di enorme interesse, non solo per l´individuazione e la ri-datazione delle varie fasi di vita dell´area. È un passo avanti nella comprensione della relazione tra spazi pubblici e privati di questo settore cruciale della città, a metà strada tra il Foro e l´aria esterna di Porta Marina, dove forse c´erano dei bacini portuali». Curti è originario di Perugia, ha studiato con due grandi nomi dell´archeologia, Filippo Coarelli e Mario Torelli, ha lavorato per dieci anni al Birkbeck College dell´Università di Londra ed è tornato con un progetto del "rientro dei cervelli" all´Università di Basilicata. Il suo studio ha ottenuto fondi per 80 mila euro, serviti a realizzare la campagna di scavo in collaborazione con la Soprintendenza di Pompei diretta da Pier Giovanni Guzzo. Il progetto è in sintonia con le scelte della Soprintendenza, che da anni ha trasformato Pompei in un laboratorio per studiosi di tutte le nazionalità che procedono per approcci sistematici alle diverse aree.
Seguendo questo criterio, accanto al tempio della Venere dei Sanniti è affiorato un impianto termale di epoca successiva dove, secondo l´archeologo, si praticava la prostituzione sacra. Protagoniste di questi riti di passaggio che nel terzo e secondo secolo viene affidato a professioniste del sesso, in un primo tempo sono ragazze anche di famiglia aristocratica, che perdono la verginità al riparo del "recinto sacro" in cambio di una moneta da conservare per il resto della vita, il lasciapassare per il matrimonio. Dalle due profonde cisterne del tempio sannita sono tornati alla luce centinaia di reperti, terracotte votive con piccoli eroi antenati dei puttini, monete, ossa, lucerne, piattelli, blocchetti di porpora usate dalle adolescenti per truccarsi prima degli incontri e le conchiglie da cui si estraeva il colore rosso.
sul "domenicale" del Sole 24 ore del 5.7.04
Storia di un sentimento che da secoli è una delle componenti decisive della vita sociale. Da Caligola al terrorismo
LA PAURA SIAMO NOI
Aristotele la condannava come reazione irrazionale, gli stoici la consideravano una delle passioni di cui liberarsi. Ora i biologi annunciano di averne identificato il gene, mentre gli psicologi fanno di tutto per sradicarla. Ma l'unico rimedio efficace contro di essa è il timore: una virtù che concorre alla formazione della coscienza morale e aiuta ad avere fiducia nell'altro e rispetto per la sua diversità
Invece di arrenderci allo sgomento dobbiamo ritrovare la fraternità contro ogni sfida e trasgresione disumana e blasfema. Anche se segnata col nome di Dio «nominato invano»
di monsignor Gianfranco Ravasi
(prima pagina)
Jean Giono
Lo scrittore francese era affascinato dalla figura del segretario fiorentino: avrebbe voluto tradurlo
MACHIAVELLI? PIÙ VIOLENTO DI CÉLINE
di Giuseppe Scaraffia
pagina 33
Miti Greci
VIA DA EURIDICE PER RITROVARE L'ISPIRAZIONE
La circolarità della leggenda di Orfeo interpretata da Rilke, Cocteau, Pavse e Bufalino
di Martino Menghi
pagina 33
La mentalità scientifica è il vero cardie di uno stato laico e dell'uso corretto delle istituzioni politiche
RICERCA, PALESTRA DI DEMOCRAZIA
Queste le basi della civiltà moderna: difendere le proprie ragioni con argomenti razionali adducendo dati sperimentali: con la possibilità di essere smentiti da chiunque abbia tesi migliori
di Edoardo Boncinelli
pagina 36
Embriologia
La vita non comincia né all'atto della fecondazione né il 14° giorno
QUANDO INIZIA L'INDIVIDUO
di Carlo Alberto Redi
pagina 36
Bernardo Bertolucci
una segnaazione di Paolo Izzo
Repubblica 3.7.04
Il regista racconta l'amicizia con l'attore di "Ultimo tango" e come si sono ritrovati dopo 12 anni di silenzio
L'ultimo omaggio di Bertolucci "Sul set mi innamorai di lui"
"Con le lacrime agli occhi penso che morendo Marlon è diventato immortale"
«Con le lacrime agli occhi penso che morendo Marlon è diventato immortale. Ma forse lo era già allora, sul ponte di Passy, a Parigi. È quello che provava ogni giorno l´intera troupe di Ultimo Tango totalmente ipnotizzata dalla sua presenza. Nessuno di noi si era mai trovato davanti a una grande leggenda vivente. Lui era forse, per chi ama il cinema, l'unica vera mai esistita». Bernardo Bertolucci racconta il rapporto unico, difficile, complesso, con l'attore del film scandalo del '72. Brando definì Ultimo tango «una delle esperienze più imbarazzanti della sua carriera professionale». Nell'autobiografia svelò particolari scabrosi della lavorazione: «Un giorno volevano fotografarmi in un vero amplesso con Maria Schneider, ma faceva freddo e il mio pene si ridusse alla dimensione di una noce. Si era semplicemente prosciugato. Tutto il corpo sembrava essersi ritirato e la situazione era ulteriormente peggiorata dalla tensione, dall'imbarazzo e dallo stress. Ho persino parlato al mio pene e ai testicoli per farli crescere ma non ci fu verso».
Se per l'attore girare il film fu un incubo, Bertolucci rimase folgorato dalla personalità di Brando e dal suo talento. «Ricordo il primo ciak. Io grido: "Buona la prima!". Umetelli, l´operatore di macchina, arrossendo, mi sussurra: "Scusami ma mi sono trovato Marlon Brando nel mirino e sono rimasto a guardarlo, paralizzato". L'inquadratura è da rifare. All'Actor's Studio aveva imparato meglio di tutti a sentirsi un altro, a diventare un rivoluzionario messicano, o un Hell's Angel, o un portuale di New York, o un albero o un fiume. Il cinema chiede di solito a un attore di entrare nella pelle di un altro. Io invece gli ho chiesto il contrario, di portare nel film il suo vissuto, di uomo e di attore. Alla fine mi ha detto: "Non farò mai più un film così. Non mi piace fare l'attore ma questa volta è stato peggio. Mi sono sentito violentato dall´inizio alla fine, la mia vita, le mie cose più intime, anche i miei figli, mi hai strappato fuori tutto". Non mi ha parlato per dodici anni. Mi ha fatto soffrire brutalmente, mi ha fatto dubitare di me e del mio lavoro. Poi, un giorno, l'ho cercato e lui mi ha tenuto al telefono per due ore. Abbiamo ricominciato a parlare come allora, c'era un grande buco da colmare e Marlon era diabolicamente curioso. L'ultima volta l'ho visto a casa sua qualche anno fa, erano le due del pomeriggio nella luce malata di Mulholland Drive. Parlavamo parlavamo e ben presto erano le otto di sera e continuavamo a parlare senza accorgerci che era diventato completamente buio. Nel buio gli chiesi se si era mai accorto di quanto fossi stato innamorato di lui».
Repubblica 3.7.04
Il regista racconta l'amicizia con l'attore di "Ultimo tango" e come si sono ritrovati dopo 12 anni di silenzio
L'ultimo omaggio di Bertolucci "Sul set mi innamorai di lui"
"Con le lacrime agli occhi penso che morendo Marlon è diventato immortale"
«Con le lacrime agli occhi penso che morendo Marlon è diventato immortale. Ma forse lo era già allora, sul ponte di Passy, a Parigi. È quello che provava ogni giorno l´intera troupe di Ultimo Tango totalmente ipnotizzata dalla sua presenza. Nessuno di noi si era mai trovato davanti a una grande leggenda vivente. Lui era forse, per chi ama il cinema, l'unica vera mai esistita». Bernardo Bertolucci racconta il rapporto unico, difficile, complesso, con l'attore del film scandalo del '72. Brando definì Ultimo tango «una delle esperienze più imbarazzanti della sua carriera professionale». Nell'autobiografia svelò particolari scabrosi della lavorazione: «Un giorno volevano fotografarmi in un vero amplesso con Maria Schneider, ma faceva freddo e il mio pene si ridusse alla dimensione di una noce. Si era semplicemente prosciugato. Tutto il corpo sembrava essersi ritirato e la situazione era ulteriormente peggiorata dalla tensione, dall'imbarazzo e dallo stress. Ho persino parlato al mio pene e ai testicoli per farli crescere ma non ci fu verso».
Se per l'attore girare il film fu un incubo, Bertolucci rimase folgorato dalla personalità di Brando e dal suo talento. «Ricordo il primo ciak. Io grido: "Buona la prima!". Umetelli, l´operatore di macchina, arrossendo, mi sussurra: "Scusami ma mi sono trovato Marlon Brando nel mirino e sono rimasto a guardarlo, paralizzato". L'inquadratura è da rifare. All'Actor's Studio aveva imparato meglio di tutti a sentirsi un altro, a diventare un rivoluzionario messicano, o un Hell's Angel, o un portuale di New York, o un albero o un fiume. Il cinema chiede di solito a un attore di entrare nella pelle di un altro. Io invece gli ho chiesto il contrario, di portare nel film il suo vissuto, di uomo e di attore. Alla fine mi ha detto: "Non farò mai più un film così. Non mi piace fare l'attore ma questa volta è stato peggio. Mi sono sentito violentato dall´inizio alla fine, la mia vita, le mie cose più intime, anche i miei figli, mi hai strappato fuori tutto". Non mi ha parlato per dodici anni. Mi ha fatto soffrire brutalmente, mi ha fatto dubitare di me e del mio lavoro. Poi, un giorno, l'ho cercato e lui mi ha tenuto al telefono per due ore. Abbiamo ricominciato a parlare come allora, c'era un grande buco da colmare e Marlon era diabolicamente curioso. L'ultima volta l'ho visto a casa sua qualche anno fa, erano le due del pomeriggio nella luce malata di Mulholland Drive. Parlavamo parlavamo e ben presto erano le otto di sera e continuavamo a parlare senza accorgerci che era diventato completamente buio. Nel buio gli chiesi se si era mai accorto di quanto fossi stato innamorato di lui».
arte e follia...
...e il fratello di Dalì
una segnalazione di Silvia Iannaco
Repubblica 2.7.04
Con Dalì all' insegna della follia
Lo scrittore e il musicista si confrontan sul tema della creazione artistica Milanesiana Questa sera si incontrano Ryuichi Sakamoto e Patrick McGrath McGrath: Scrivere un libro è una sorta di ossessione ma l' ansia riguarda la qualità della scrittur Sakamoto: Quando compongo ho bisogno di un suono che per me è come la pietra per lo scultore
di PICO FLORIDI
MILNO. Salvador Dalì ha ispirato a Elisabetta Sgarbi una serata all' insegna della follia. Una serata che anticipa la mostra di Palazzo Grassi per il centenario dell' artista con delle foto inedite e che vede protagonisti il musicista Ryuichi Sakamoto e lo scrittore Patrick McGrath. Sono stati scritti molti testi sulla follia reale o provocatoria di Dalì, ma se guardiamo la sua biografia troviamo un punto di partenza inquietante nella sua reincarnazione in un fratello morto a due anni nel 1903, un anno prima della sua nascita. Dalì fu chiamato Salvador come il bambino morto, fu vestito con gli stessi abiti e ricevette gli stessi giocattoli: una palingenesi del fratello scomparso che fu anche il destino di Vincent Van Gogh. Nacque in questo modo un uomo geniale, per il quale dipingere era una parte infinitesimale della sua personalità. La versatilità di Dalì si rispecchia in Ryuichi Sakamoto, artista che fa dell' eclettismo una virtù. Musicista classico, compositore, è uno dei padrini della techno-pop. Istintivo e camaleontico, Sakamoto attraversa le frontiere musicali e unendo generi e stili che vanno dalla bossa nova all' hip hop e anticipa un nuovo cd intitolato Chasm. In Italia è noto per le colonne sonore che ha scritto per Oshima, Stone, Almodovar, De Palma e naturalmente Bertolucci, con un Oscar per L' ultimo imperatore. Come in quella di Dalì, anche nella biografia di McGrath ci sono delle coincidenze bizzarre con quello che sarà il suo destino di scrittore. La sua promessa dell' alba è un' infanzia trascorsa a Broadmoor il manicomio criminale inglese dove il padre era responsabile della struttura. L' autore di Follia presenta Port Mungo (Bompiani, pagg. 297, euro 16) romanzo dove nulla è come sembra e dove le atmosfere minacciose fanno presa magnetica sul lettore raccontando un groviglio inestricabile di perversioni, nevrosi e insoddisfazioni. La vostra ispirazione ha mai avuto l' impeto della follia? SAKAMOTO: «La mia ispirazione non ha la forza di un demone. Quando ero più giovane cercavo gli stimoli più vari: niente sonno, droghe, ma sono metodi troppo rischiosi. Quando compongo ho bisogno di un suono, che è come la pietra per lo scultore. Un suono nel quale io possa vedere una forma bellissima. Il protocollo delle mie percezioni varia di continuo». McGRATH: «Scrivere un libro è un' ossessione, ma l' ansietà è solo rispetto alla qualità della scrittura e alla sfida di una storia ben congegnata. L' emozione è relativa solo alla paura dell' insuccesso. Le esplosioni avvengono solo nel contesto della mia scrivania e non mi seguono quando finisco la mia giornata di lavoro». Esiste una forma di scrittura musicale o letteraria che possa curare i malesseri psicologici? SAKAMOTO: «Ho scritto due pezzi per la voce di mia figlia Miu perché credo abbia delle qualità profondamente rilassanti, le qualità che ha la voce di una mamma per il suo bambino. Ma la stessa efficacia può esistere in altri suoni, naturali o artificiali. Quando ero più giovane, mi rilassavo arrivando ogni giorno nella stazione di Shinjuku, la più affollata di Tokyo. Adesso apprezzo sempre di più i suoni della natura». McGRATH: «La letteratura può essere di aiuto, è una delle sue funzioni, può aiutarci a vedere le cose con maggior chiarezza. Sto leggendo Ore italiane di Henry James. Le sue impressioni su Venezia mi aiutano a filtrare la massa di emozioni che questa città mi provoca, a dare ordine alla mia esperienza». Le vostre opere sono state descritte come a un tempo gelide e intensamente sentimentali. Come fate? SAKAMOTO: «Seguo semplicemente i miei sentimenti. Credo che ci sia sempre una parte di noi che resta obiettiva, anche quando siamo travolti da un grande dolore e la tragedia si opprime. Per l' essere umano è difficile dimenticarsi totalmente, resta sempre una specie di dislivello, un lato dal quale ci si può osservare». McGRATH: «E' una domanda difficile. Scrivo con molta cura, con molte revisioni, cercando di rendere la mia prosa chiara e musicale. La voce del narratore è molto importante perché rappresenta il controllo in superficie, lasciando erompere la passione in profondità». E' possibile l' improvvisazione pura? SAKAMOTO: «Per me il 95% della scrittura è codice. In musica non c' è un' unicità dell' originale rispetto alla copia. Siamo schiavi di un codice e possiamo solo attuare nuove combinazioni che esistono già. Quando suono il pianoforte, utilizzo lo stesso codice che era di Bach, trecento anni fa. Dov' è l' originalità, dov' è il diritto d' autore? McGRATH: «No, non esistono esperienze umane nuove. Ogni cosa che riesco a immaginare è stata vissuta da qualcun altro. A volte vi sono nuovi modi di esprimersi. Il Modernismo ha portato l' esperienza della macchina, del volo, della fotografia, forse è stato l' ultimo momento di novità in questo senso». Esiste una responsabilità sociale dell' artista? SAKAMOTO: «Non esiste un dovere preciso. La situazione di guerra che stiamo vivendo con l' Iraq è un problema attuale, ed è collegato a quello ambientale, che è a lungo termine. La ragione per cui la questione ambientale è profondamente connessa con tutti gli altri temi è che le decisioni sull' ambiente sono sempre motivate da ragioni economiche, politiche e spirituali». McGRATH: «Non come artista, forse come giornalista. La responsabilità dell' artista non esiste nemmeno nei confronti dell' arte. Se volessi cambiare il modo di pensare della gente scriverei dei pessimi romanzi. Molti credono che l' artista abbia un dovere in questo senso, per via della popolarità». Avete entrambi scelto di vivere parte del vostro tempo a New York. Come influisce sul vostro processo creativo? SAKAMOTO: «Per la creazione artistica è necessaria la pace. Dopo la tragedia dell' 11 settembre non potevo ascoltare né comporre musica. Avevo troppa paura. Adesso capisco gli iracheni. La sovranità dello stato è stata distrutta nel 2003». McGRATH: «L' 11 settembre ha avuto un impatto gigantesco. Stavo scrivendo Port Mungo e per molti mesi il mio lavoro è sembrato futile. Adesso l' incubo è cresciuto. Resta la sfrenata speranza di finirla con Bush a novembre».
Repubblica 2.7.04
Con Dalì all' insegna della follia
Lo scrittore e il musicista si confrontan sul tema della creazione artistica Milanesiana Questa sera si incontrano Ryuichi Sakamoto e Patrick McGrath McGrath: Scrivere un libro è una sorta di ossessione ma l' ansia riguarda la qualità della scrittur Sakamoto: Quando compongo ho bisogno di un suono che per me è come la pietra per lo scultore
di PICO FLORIDI
MILNO. Salvador Dalì ha ispirato a Elisabetta Sgarbi una serata all' insegna della follia. Una serata che anticipa la mostra di Palazzo Grassi per il centenario dell' artista con delle foto inedite e che vede protagonisti il musicista Ryuichi Sakamoto e lo scrittore Patrick McGrath. Sono stati scritti molti testi sulla follia reale o provocatoria di Dalì, ma se guardiamo la sua biografia troviamo un punto di partenza inquietante nella sua reincarnazione in un fratello morto a due anni nel 1903, un anno prima della sua nascita. Dalì fu chiamato Salvador come il bambino morto, fu vestito con gli stessi abiti e ricevette gli stessi giocattoli: una palingenesi del fratello scomparso che fu anche il destino di Vincent Van Gogh. Nacque in questo modo un uomo geniale, per il quale dipingere era una parte infinitesimale della sua personalità. La versatilità di Dalì si rispecchia in Ryuichi Sakamoto, artista che fa dell' eclettismo una virtù. Musicista classico, compositore, è uno dei padrini della techno-pop. Istintivo e camaleontico, Sakamoto attraversa le frontiere musicali e unendo generi e stili che vanno dalla bossa nova all' hip hop e anticipa un nuovo cd intitolato Chasm. In Italia è noto per le colonne sonore che ha scritto per Oshima, Stone, Almodovar, De Palma e naturalmente Bertolucci, con un Oscar per L' ultimo imperatore. Come in quella di Dalì, anche nella biografia di McGrath ci sono delle coincidenze bizzarre con quello che sarà il suo destino di scrittore. La sua promessa dell' alba è un' infanzia trascorsa a Broadmoor il manicomio criminale inglese dove il padre era responsabile della struttura. L' autore di Follia presenta Port Mungo (Bompiani, pagg. 297, euro 16) romanzo dove nulla è come sembra e dove le atmosfere minacciose fanno presa magnetica sul lettore raccontando un groviglio inestricabile di perversioni, nevrosi e insoddisfazioni. La vostra ispirazione ha mai avuto l' impeto della follia? SAKAMOTO: «La mia ispirazione non ha la forza di un demone. Quando ero più giovane cercavo gli stimoli più vari: niente sonno, droghe, ma sono metodi troppo rischiosi. Quando compongo ho bisogno di un suono, che è come la pietra per lo scultore. Un suono nel quale io possa vedere una forma bellissima. Il protocollo delle mie percezioni varia di continuo». McGRATH: «Scrivere un libro è un' ossessione, ma l' ansietà è solo rispetto alla qualità della scrittura e alla sfida di una storia ben congegnata. L' emozione è relativa solo alla paura dell' insuccesso. Le esplosioni avvengono solo nel contesto della mia scrivania e non mi seguono quando finisco la mia giornata di lavoro». Esiste una forma di scrittura musicale o letteraria che possa curare i malesseri psicologici? SAKAMOTO: «Ho scritto due pezzi per la voce di mia figlia Miu perché credo abbia delle qualità profondamente rilassanti, le qualità che ha la voce di una mamma per il suo bambino. Ma la stessa efficacia può esistere in altri suoni, naturali o artificiali. Quando ero più giovane, mi rilassavo arrivando ogni giorno nella stazione di Shinjuku, la più affollata di Tokyo. Adesso apprezzo sempre di più i suoni della natura». McGRATH: «La letteratura può essere di aiuto, è una delle sue funzioni, può aiutarci a vedere le cose con maggior chiarezza. Sto leggendo Ore italiane di Henry James. Le sue impressioni su Venezia mi aiutano a filtrare la massa di emozioni che questa città mi provoca, a dare ordine alla mia esperienza». Le vostre opere sono state descritte come a un tempo gelide e intensamente sentimentali. Come fate? SAKAMOTO: «Seguo semplicemente i miei sentimenti. Credo che ci sia sempre una parte di noi che resta obiettiva, anche quando siamo travolti da un grande dolore e la tragedia si opprime. Per l' essere umano è difficile dimenticarsi totalmente, resta sempre una specie di dislivello, un lato dal quale ci si può osservare». McGRATH: «E' una domanda difficile. Scrivo con molta cura, con molte revisioni, cercando di rendere la mia prosa chiara e musicale. La voce del narratore è molto importante perché rappresenta il controllo in superficie, lasciando erompere la passione in profondità». E' possibile l' improvvisazione pura? SAKAMOTO: «Per me il 95% della scrittura è codice. In musica non c' è un' unicità dell' originale rispetto alla copia. Siamo schiavi di un codice e possiamo solo attuare nuove combinazioni che esistono già. Quando suono il pianoforte, utilizzo lo stesso codice che era di Bach, trecento anni fa. Dov' è l' originalità, dov' è il diritto d' autore? McGRATH: «No, non esistono esperienze umane nuove. Ogni cosa che riesco a immaginare è stata vissuta da qualcun altro. A volte vi sono nuovi modi di esprimersi. Il Modernismo ha portato l' esperienza della macchina, del volo, della fotografia, forse è stato l' ultimo momento di novità in questo senso». Esiste una responsabilità sociale dell' artista? SAKAMOTO: «Non esiste un dovere preciso. La situazione di guerra che stiamo vivendo con l' Iraq è un problema attuale, ed è collegato a quello ambientale, che è a lungo termine. La ragione per cui la questione ambientale è profondamente connessa con tutti gli altri temi è che le decisioni sull' ambiente sono sempre motivate da ragioni economiche, politiche e spirituali». McGRATH: «Non come artista, forse come giornalista. La responsabilità dell' artista non esiste nemmeno nei confronti dell' arte. Se volessi cambiare il modo di pensare della gente scriverei dei pessimi romanzi. Molti credono che l' artista abbia un dovere in questo senso, per via della popolarità». Avete entrambi scelto di vivere parte del vostro tempo a New York. Come influisce sul vostro processo creativo? SAKAMOTO: «Per la creazione artistica è necessaria la pace. Dopo la tragedia dell' 11 settembre non potevo ascoltare né comporre musica. Avevo troppa paura. Adesso capisco gli iracheni. La sovranità dello stato è stata distrutta nel 2003». McGRATH: «L' 11 settembre ha avuto un impatto gigantesco. Stavo scrivendo Port Mungo e per molti mesi il mio lavoro è sembrato futile. Adesso l' incubo è cresciuto. Resta la sfrenata speranza di finirla con Bush a novembre».
Tommaso Campanella:
L'Atheismo trionfato
Corriere della Sera 3.7.04
Campanella inedito contro Machiavelli
di ARMANDO TORNO
E’ stata ritrovata nei manoscritti anonimi della Biblioteca Vaticana un’opera in italiano di Tommaso Campanella che si pensava perduta. Si intitola L’ateismo trionfato . La scoperta si deve a Germana Ernst, docente all’Università di Roma Tre, una delle più tenaci cacciatrici di inediti campanelliani. A lei dobbiamo anche la miglior raccolta contemporanea di opere del filosofo calabrese, pubblicata nel 1999 nei classici del Poligrafico dello Stato, contenente ben sedici testi. Per parlare de L’ateismo trionfato conviene fare un salto indietro nel tempo, recarci a Napoli e sbirciare nella corrispondenza del nunzio partenopeo, monsignor Deodato Gentile. Tra le sue lettere, soffermiamoci su quella del 9 aprile 1615, indirizzata al cardinale Scipione Borghese che, tra l’altro, era protettore dell’Ordine domenicano, a cui fra Tommaso più o meno degnamente apparteneva: «Da quattro o sei giorni in qua m’è capitato alle mani un libro scritto in lingua volgare... del Campanella, il cui carattere mi è molto ben noto e ha per titolo l’ Atheismo trionfato , ovvero Riconoscimento filosofico della religione ». All’occhio sagace del nunzio non sfuggivano le astuzie di cui era capace il frate: «... per quel poco che ne ho potuto sin hora raccogliere è pieno delli suoi antichi errori e atheismi, se ben mascherati con titolo di pietà e religione».
Il 23 aprile di quel medesimo anno, nella riunione dei cardinali dell’Inquisizione, papa Paolo V sollecitava l’invio di quel testo a Roma, senza dimenticarsi di raccomandare a chi di dovere che al prigioniero Campanella fosse impedito di scrivere. Il 7 maggio il libro era giunto e la congregazione inquisitoriale poteva consegnarlo al cardinale Agostino Galamini, per una lettura e un parere. Inutile poi inseguire la storia del libro: il manoscritto ritrovato da Germana Ernst è proprio questo, o meglio è l’autografo che Campanella aveva con sé nella cella di Castel Nuovo e che fu sequestrato all’inizio di aprile. Va detto che le improvvise e continue perquisizioni causarono la dispersione di alcuni suoi libri, come gli Astronomica ; altri, come la Metaphysica , furono riscritti con la tenacia e con la memoria formidabili del filosofo. La redazione italiana de ll’ Ateismo fu creduta smarrita; dell’opera era nota la sola versione latina, anzi addirittura si dubitava dell’esistenza di un originale in volgare.
Ma che cosa contiene il libro? Per rispondere a questa domanda, occorre ricordare che Campanella enunciò promesse mirabili, a cominciare dalla conversione degli eretici (prevedeva di recarsi in Germania lasciando parenti e discepoli in ostaggio); altre volte propose - nella Città del Sole e nelle Lettere - invenzioni tra le più curiose, come far cavalcare i soldati senza l’impaccio delle briglie, o muovere i carri con il vento, o addirittura procurare che «li vascelli senza remi navighino ancora senza vento». La parte più grossa di queste promesse è dedicata ai libri utili alla cristianità. E tra i progetti ecco, nella lettera al cardinale Odoardo Farnese del 30 agosto 1606, «un volume contra politici e machiavellisti, che son la peste di questo secolo». Egli voleva mostrare loro «con novi ed efficaci argomenti quanto s’ingannano nella dottrina dell’anima ed in pensar che la religione sia arte di stato».
Ora, L’ateismo trionfato è proprio il trattato che Campanella considera il suo contributo all’antimachiavellismo e in cui cerca di sostenere che la religione è una virtus naturale, intrinseca in ogni manifestazione del creato. Chi seguiva i suggerimenti del segretario fiorentino la considerava invece una finzione, uno strumento pratico per conseguire e rafforzare il potere.
Il manoscritto autografo e l’edizione critica dell’ Ateismo sono appena stati pubblicati in due volumi nelle edizioni, dirette da Michele Ciliberto, della Scuola Normale Superiore di Pisa. L’aver riproposto il testo campanelliano, così come l’ha lasciato il filosofo, con mille correzioni e ripensamenti, è già di per sé un avvenimento. Questo, d’altra parte, è anche l’autografo più corposo che abbiamo del frate che si finse pazzo per sfuggire all’esecuzione (e ci riuscì). Perché poi in queste pagine gli inquisitori sentirono odore di zolfo, è un’altra storia. Di certo si insospettirono del suo amore per la natura e per il ruolo ristretto concesso alla Grazia divina. Ora, con il ritrovamento dell’originale, vengono di nuovo beffati: Campanella è restituito senza le successive correzioni che fece alle sue pagine per parare i colpi dei censori.
Campanella inedito contro Machiavelli
di ARMANDO TORNO
E’ stata ritrovata nei manoscritti anonimi della Biblioteca Vaticana un’opera in italiano di Tommaso Campanella che si pensava perduta. Si intitola L’ateismo trionfato . La scoperta si deve a Germana Ernst, docente all’Università di Roma Tre, una delle più tenaci cacciatrici di inediti campanelliani. A lei dobbiamo anche la miglior raccolta contemporanea di opere del filosofo calabrese, pubblicata nel 1999 nei classici del Poligrafico dello Stato, contenente ben sedici testi. Per parlare de L’ateismo trionfato conviene fare un salto indietro nel tempo, recarci a Napoli e sbirciare nella corrispondenza del nunzio partenopeo, monsignor Deodato Gentile. Tra le sue lettere, soffermiamoci su quella del 9 aprile 1615, indirizzata al cardinale Scipione Borghese che, tra l’altro, era protettore dell’Ordine domenicano, a cui fra Tommaso più o meno degnamente apparteneva: «Da quattro o sei giorni in qua m’è capitato alle mani un libro scritto in lingua volgare... del Campanella, il cui carattere mi è molto ben noto e ha per titolo l’ Atheismo trionfato , ovvero Riconoscimento filosofico della religione ». All’occhio sagace del nunzio non sfuggivano le astuzie di cui era capace il frate: «... per quel poco che ne ho potuto sin hora raccogliere è pieno delli suoi antichi errori e atheismi, se ben mascherati con titolo di pietà e religione».
Il 23 aprile di quel medesimo anno, nella riunione dei cardinali dell’Inquisizione, papa Paolo V sollecitava l’invio di quel testo a Roma, senza dimenticarsi di raccomandare a chi di dovere che al prigioniero Campanella fosse impedito di scrivere. Il 7 maggio il libro era giunto e la congregazione inquisitoriale poteva consegnarlo al cardinale Agostino Galamini, per una lettura e un parere. Inutile poi inseguire la storia del libro: il manoscritto ritrovato da Germana Ernst è proprio questo, o meglio è l’autografo che Campanella aveva con sé nella cella di Castel Nuovo e che fu sequestrato all’inizio di aprile. Va detto che le improvvise e continue perquisizioni causarono la dispersione di alcuni suoi libri, come gli Astronomica ; altri, come la Metaphysica , furono riscritti con la tenacia e con la memoria formidabili del filosofo. La redazione italiana de ll’ Ateismo fu creduta smarrita; dell’opera era nota la sola versione latina, anzi addirittura si dubitava dell’esistenza di un originale in volgare.
Ma che cosa contiene il libro? Per rispondere a questa domanda, occorre ricordare che Campanella enunciò promesse mirabili, a cominciare dalla conversione degli eretici (prevedeva di recarsi in Germania lasciando parenti e discepoli in ostaggio); altre volte propose - nella Città del Sole e nelle Lettere - invenzioni tra le più curiose, come far cavalcare i soldati senza l’impaccio delle briglie, o muovere i carri con il vento, o addirittura procurare che «li vascelli senza remi navighino ancora senza vento». La parte più grossa di queste promesse è dedicata ai libri utili alla cristianità. E tra i progetti ecco, nella lettera al cardinale Odoardo Farnese del 30 agosto 1606, «un volume contra politici e machiavellisti, che son la peste di questo secolo». Egli voleva mostrare loro «con novi ed efficaci argomenti quanto s’ingannano nella dottrina dell’anima ed in pensar che la religione sia arte di stato».
Ora, L’ateismo trionfato è proprio il trattato che Campanella considera il suo contributo all’antimachiavellismo e in cui cerca di sostenere che la religione è una virtus naturale, intrinseca in ogni manifestazione del creato. Chi seguiva i suggerimenti del segretario fiorentino la considerava invece una finzione, uno strumento pratico per conseguire e rafforzare il potere.
Il manoscritto autografo e l’edizione critica dell’ Ateismo sono appena stati pubblicati in due volumi nelle edizioni, dirette da Michele Ciliberto, della Scuola Normale Superiore di Pisa. L’aver riproposto il testo campanelliano, così come l’ha lasciato il filosofo, con mille correzioni e ripensamenti, è già di per sé un avvenimento. Questo, d’altra parte, è anche l’autografo più corposo che abbiamo del frate che si finse pazzo per sfuggire all’esecuzione (e ci riuscì). Perché poi in queste pagine gli inquisitori sentirono odore di zolfo, è un’altra storia. Di certo si insospettirono del suo amore per la natura e per il ruolo ristretto concesso alla Grazia divina. Ora, con il ritrovamento dell’originale, vengono di nuovo beffati: Campanella è restituito senza le successive correzioni che fece alle sue pagine per parare i colpi dei censori.
psichiatria americana:
depressi? troppi neuroni!
Yahoo! Notizie Sabato 3 Luglio 2004, 11:15
CERVELLO:IN AREA SUPERSVILUPPATA SI CERCA CAUSA DEPRESSIONE
(ANSA) - ROMA, 3 LUG - Troppi neuroni confondono le emozioni e causano serie forme di depressione. Infatti sembra essere il sovraffollamento cellulare nella parte del cervello che controlla le emozioni, una porzione del talamo, a causare la depressione piu' grave. Lo ha scoperto un gruppo statunitense dell'universita' del Texas, che ha pubblicato la ricerca sull'American Journal of Psychiatry.
I ricercatori, coordinati da Dwight German, hanno analizzato tessuto cerebrale da cadavere di un gruppo di pazienti con questa grave forma di depressione ed hanno notato che una zona del cervello, il talamo, e' piu' grande del 16% rispetto alla norma e che, la quantita' di neuroni e' maggiore del 31% rispetto a quella presente nel talamo di individui sani. Il talamo e' una regione centrale del cervello con molteplici funzioni, tra cui quella di trasmettere informazioni da vari distretti cerebrali alla corteccia, tanto che alcuni esperti lo definiscono il 'segretario' della corteccia cerebrale. E' la prima volta, sostiene German, che si trova un legame diretto tra un disturbo psichiatrico e l'aumento del numero di cellule totale in una regione del cervello.
Umore rasoterra, mancanza di interesse verso le attivita' quotidiane, pessimismo: sono questi alcuni sintomi del male oscuro. Quest'indole pero', sottolinea German, riflette delle differenze organiche rispetto agli individui sani e non semplicemente mancanza di volonta' o espressione di un ambiente familiare che ha cresciuto la persona nel modo sbagliato.
Per sfatare questi miti che offuscano realta' e complessita' della malattia, gli scienziati statunitensi hanno esaminato i cervelli da cadavere di pazienti con varie patologie psichiatriche come depressione, disturbi bipolari dell'umore e schizofrenia, nonche' individui di controllo morti senza aver mai sofferto di malattie della psiche. All'esame la porzione talamica deputata alla gestione delle emozioni risultava considerevolmente piu' grande solo nei depressi. Nessuna conformazione anomala per gli altri disturbi ne' per i sani.
Gli scienziati hanno anche fatto un confronto tra cervelli di individui che erano stati in cura con antidepressivi e non. Stesso risultato per entrambi i gruppi: talamo piu' grosso, segno che il disturbo depressivo ha origini organiche contro cui nulla possono i trattamenti. Il talamo pero', osserva German, ha le sue dimensioni normali nei suoi sub-dstretti non deputati all'elaborazione di informazioni emotive.
Tutto cio', conclude, e' segno evidente che questo ingrossamento sia almeno una causa della depressione.(ANSA).
CERVELLO:IN AREA SUPERSVILUPPATA SI CERCA CAUSA DEPRESSIONE
(ANSA) - ROMA, 3 LUG - Troppi neuroni confondono le emozioni e causano serie forme di depressione. Infatti sembra essere il sovraffollamento cellulare nella parte del cervello che controlla le emozioni, una porzione del talamo, a causare la depressione piu' grave. Lo ha scoperto un gruppo statunitense dell'universita' del Texas, che ha pubblicato la ricerca sull'American Journal of Psychiatry.
I ricercatori, coordinati da Dwight German, hanno analizzato tessuto cerebrale da cadavere di un gruppo di pazienti con questa grave forma di depressione ed hanno notato che una zona del cervello, il talamo, e' piu' grande del 16% rispetto alla norma e che, la quantita' di neuroni e' maggiore del 31% rispetto a quella presente nel talamo di individui sani. Il talamo e' una regione centrale del cervello con molteplici funzioni, tra cui quella di trasmettere informazioni da vari distretti cerebrali alla corteccia, tanto che alcuni esperti lo definiscono il 'segretario' della corteccia cerebrale. E' la prima volta, sostiene German, che si trova un legame diretto tra un disturbo psichiatrico e l'aumento del numero di cellule totale in una regione del cervello.
Umore rasoterra, mancanza di interesse verso le attivita' quotidiane, pessimismo: sono questi alcuni sintomi del male oscuro. Quest'indole pero', sottolinea German, riflette delle differenze organiche rispetto agli individui sani e non semplicemente mancanza di volonta' o espressione di un ambiente familiare che ha cresciuto la persona nel modo sbagliato.
Per sfatare questi miti che offuscano realta' e complessita' della malattia, gli scienziati statunitensi hanno esaminato i cervelli da cadavere di pazienti con varie patologie psichiatriche come depressione, disturbi bipolari dell'umore e schizofrenia, nonche' individui di controllo morti senza aver mai sofferto di malattie della psiche. All'esame la porzione talamica deputata alla gestione delle emozioni risultava considerevolmente piu' grande solo nei depressi. Nessuna conformazione anomala per gli altri disturbi ne' per i sani.
Gli scienziati hanno anche fatto un confronto tra cervelli di individui che erano stati in cura con antidepressivi e non. Stesso risultato per entrambi i gruppi: talamo piu' grosso, segno che il disturbo depressivo ha origini organiche contro cui nulla possono i trattamenti. Il talamo pero', osserva German, ha le sue dimensioni normali nei suoi sub-dstretti non deputati all'elaborazione di informazioni emotive.
Tutto cio', conclude, e' segno evidente che questo ingrossamento sia almeno una causa della depressione.(ANSA).
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