domenica 23 maggio 2004

Pietro Ingrao:
"Signor Presidente, tacere non si può più"

la prima pagina di Liberazione di Sabato 22 Maggio

Dunque non era una domanda sciocca, una pedanteria giuridica, quella che chiedeva al Presidente della repubblica se era tutt'ora valido, o se era stato cassato e da chi l'articolo 11 della Costituzione repubblicana, quello che ripudia la guerra - ricordate? - «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali».
L'ha evocata, questa domanda, giovedì, dalsuo scanno di deputato a Montecitorio, Fausto Bertinotti, e l'interrogativo, l'indomani, è rimbalzato sui maggiori giornali d'Italia.
Ed è tornato, quell'interrogativo, mentre il Parlamento italiano si confrontava e dibatteva se questo paese doveva ancora tenere i suoi soldati nel fango e negli orrori della guerra irakena, o finalmente ritirarsi da quella violenza che ha visto tornare persino gli orrori della tortura di prigionieri: ormai inermi, calato il buio sugli occhi, avviliti nel sentire più segreto.
Si può continuare: si può tenere ancora i nostri soldati invischiati in quell'impresa su cui oggi dubitano tanti nel mondo (persino nel paese di Bush). Ma rmai non si può evitare quella domanda di Bertinotti.

Signor Presidente della Repubblica, lei è deputato all'alto compito di tutelare le parole scritte in quella Carta che costò tanto a questo Paese, e per cui tanti morirono. Ora deve una risposta al Parlamento. Tacere non si può più

PIETRO INGRAO

le "insalate" di Repubblica:
l'identità umana è la capacità di amare... o la guerra?

Repubblica 23.5.04
AMORE
Perché quando batte il cuore ci sentiamo veramente più umani.
Ma c'è una risposta diversa al modo di diventare umani e l'ha fornita Kojève

Un romanzo, "L'imperatore del Portogallo", è un esempio di cosa significa amare
Essere pronti a rischiare la vita per qualche cosa
I diversi modi in cui si accerta l'identità umana
di TZVETAN TODOROV (*)


Uno dei più bei romanzi del ventesimo secolo, L´empereur du Portugal di Selma Lagerlöf, inizia con l´episodio nel quale si descrive la nascita di una bambina così come viene percepita dall´anima di suo padre Jan. Costui è un povero agricoltore, che non possiede nulla, non ha combinato nulla di rilevante. Si è sposato avanti con gli anni ed ecco che la gravidanza della moglie giunge ora al termine. Jan ha trascorso l´intera giornata attendendo fuori dalla porta, ha freddo, è stanco, pensa a tutte le piccole seccature che la presenza della neonata comporterà per la sua casa. Tuttavia, alla fine entra nella stanza dove la moglie ha partorito e gli mettono tra le braccia un fagotto, dal quale spuntano un visino un po´ sgualcito e delle esili manine. All´improvviso sente il cuore battergli così forte in petto da essere quasi impaurito, e subito chiede aiuto alle altre donne lì presenti. Queste afferrano in un batter d´occhio la situazione, e scoppiano a ridere. «Non avete mai amato abbastanza qualcuno in precedenza, da provare batticuore soltanto adesso?», gli chiede la levatrice. Jan deve ammettere di no, ma comprende che cosa ha appena vissuto. E Selma Lagerlöf commenta: «Colui che non sente il proprio cuore battere, né nella tristezza né nella gioia, non può considerarsi un vero essere umano» (pag. 13).
L´imperatore del Portogallo è la storia di un amore folle, quello di un padre per sua figlia. Ci si accorge immediatamente che la posta in gioco non è insignificante - né per il protagonista, né per l´autore: si tratta, né più né meno, di identificare che cosa renda gli uomini davvero umani. L´interrogativo sull´identità umana può essere formulato nei contesti più disparati, e ricevere di conseguenza risposte quanto mai diverse. La risposta di Lagerlöf si colloca su un piano che potremmo definire antropomorfo, che si estrinseca in una sola parola: l´amore. Ciò che rende questo essere specificatamente umano è la sua capacità di amare.
È facile dire di una simile affermazione che è bella o che è nobile, ma ci si potrebbe spingere ad affermare che è vera? Prima di pronunciarmi a questo proposito, vorrei ricordare un altro tentativo di spiegare la specificità umana, che si situa sul medesimo piano antropologico. Negli anni Trenta del nostro ventesimo secolo, un giovane filosofo russo emigrato a Parigi, Alexandre Kojève, spiega a qualche attento ascoltatore il senso della celebre «dialettica del padrone e del servitore» nella Fenomenologia dello spirito di Hegel. Dopo la guerra, uno degli ascoltatori presenti nel pubblico, Raymond Queneau, pubblicherà quelle conferenze con il titolo Introduzione alla lettura di Hegel, un´opera che eserciterà una profonda influenza su numerosi autori contemporanei. La risposta di Hegel alla specificità umana (così come fu interpretata da Kojève) è molto diversa da quella di Lagerlöf. In che cosa consiste la differenza tra l´animale e l´uomo? Il primo agisce sempre e soltanto in ragione del proprio istinto di conservazione, e a questo fine si appropria di tutto ciò che gli è necessario (per esempio il cibo), eliminando gli ostacoli (i rivali). Il secondo fa altrettanto, ma non si accontenta di questo, ricerca qualcosa di più della sua semplice soddisfazione fisiologica: aspira a far sì che il suo valore sia apprezzato, e questo non può venirgli se non da altri. Dunque l´umanità ha inizio là dove «il desiderio biologico della conservazione della vita» si asservisce «all´umano desiderio di approvazione» (pag. 170).
Ne consegue che essere umani significa essere pronti a rischiare la propria vita per qualcosa che va al di là di essa. Essere umani significa smettere di considerare la propria vita un valore assoluto. Questa situazione estrema agli occhi di Kojève rivela la verità insita nella ricerca di approvazione: poiché tutti desiderano ottenerla e poiché per ottenere ciò che si auspica di ottenere dagli altri è necessario prima di tutto conquistarli, la vita umana non è altro che una spietata lotta finalizzata ad averla vinta, che sfocia con la comparsa di un padrone - il vincitore - e di un servo - il vinto. La storia dell´umanità è la storia della loro lotta e delle sue ripercussioni (della lotta di classe, dirà Marx). Kojève può dunque concludere: «L´esistenza umana, storica, cosciente di se stessa, non è pertanto possibile se non laddove vi sono - o per lo meno vi sono state - delle guerre sanguinarie, delle guerre per il prestigio». Ciò che è specificatamente umano non è più l´amore, ma la guerra.
La risposta di Kojève è sicuramente meno attraente di quella di Lagerlöf, ma è forse meno vera? Molti contemporanei paiono averla prescelta, temendo senza dubbio che li si possa accusare, in caso contrario, di sdolcinatezza (la verità deve essere sempre amara, questo è uno dei sorprendenti postulati della filosofia occidentale moderna). Rivolgiamoci allora, per cercare di vederci più chiaro, non tanto alla problematica comparsa della specie umana all´alba della storia, quanto a quella infinitamente più facile da osservare dell´individuo umano (che ben descrive il primo capitolo de L´empereur du Portugal). Alla sua nascita il piccolo d´uomo non si distingue radicalmente da quelli delle altre specie animali, per esempio le scimmie superiori: il bambino aspira a essere confortato, scaldato e nutrito - ma i piccoli delle scimmie fanno altrettanto. Le differenze tuttavia vi sono, e una tra esse acquisisce un significato del tutto particolare. A un´età che possiamo collocare approssimativamente intorno alla settima o l´ottava settimana di vita, il lattante fa un gesto che non ha uguali nel mondo animale: non si accontenta più di guardare la madre (questo lo fa dal momento stesso della sua nascita), ma cerca di catturare il suo sguardo, per esserne guardato. Ricerca e contempla lo sguardo che lo contempla: questo è l´avvenimento grazie al quale il bambino entra in un mondo inequivocabilmente umano.
Vediamo allora che la tesi di Kojève è accettabile soltanto in parte: in una prospettiva antropologica è corretto affermare che l´esistenza specificatamente umana inizia con il riconoscimento di noi stessi che riceviamo dall´esterno, da un altro essere umano. È la stessa cosa che aveva già affermato Rousseau, probabile ispiratore di Hegel a questo proposito: all´alba dell´umanità «ciascuno iniziò a guardare gli altri e a volerne essere guardato» (Inégalité, pag. 169). Ma qualsiasi riconoscimento - e qui occorre voltare le spalle a Kojève - non implica necessariamente una lotta mortale. L´esistenza dell´individuo, in quanto specificatamente umana, non inizia su un campo di battaglia, bensì con il neonato che attira su di sé lo sguardo della madre - una situazione, ammettiamolo, che pochi uomini hanno avuto l´occasione di osservare fino a un passato recente. Grazie a quello sguardo inizia a esistere.
Senza riconoscimento, senza intersoggettività, senza società non vi è umanità. E senza amore? Non sappiamo ciò che la sua assenza determinerebbe a livello di specie, ma sappiamo tutti che alcuni individui arrivano, ahimè, ad attraversare l´intera vita senza mai conoscere l´amore. «Signor Hamil, si può vivere senza amore?», domanda il piccolo Momo nel capolavoro di Romain Gary La vie devant soi. «Sì, rispose abbassando la testa, come se provasse vergogna. E si mise a piangere» (pag. 12). Coloro che vivono senza amore sono esseri sfortunati, certo, ma indiscutibilmente sono esseri umani. L´amore non è invero necessario né alla conservazione della vita né a quella dell´esistenza, che nasce dal riconoscimento e non dall´amore.
Selma Lagerlöf sarebbe forse in disaccordo con questa conclusione? Non credo, infatti l´autrice non intendeva suggerire che prima della nascita della sua bambina Jan non fosse, sinceramente parlando, un essere umano. Lei ha inteso dire che grazie all´amore che Jan prova per la figlia egli ha realizzato la propria potenziale identità, ciò che vi è di più elevato nella condizione umana. Si deve dunque intendere che un «vero essere umano» non è una constatazione di fatto, bensì un giudizio di valore. La migliore vita umana (non la vita umana in sé e per sé, dunque) è quella che vive nell´amore, pare dirci Lagerlöf. E così dicendo anche lei condividerebbe una delle idee costitutive alla base dell´amor cortese medievale - «nessun uomo ha virtù senza amore» scriveva Bernard de Ventadour - che avrebbe lasciato delle tracce profonde nel concetto europeo di amore.

Traduzione di Anna Bissanti

(*) Tzvetan Todorov è nato a Sofia nel 1939. Dopo il diploma, nel 1963, si trasferisce a Parigi, dove studia filosofia del linguaggio con Roland Barthes. Insegna all'Ecole pratique des hautes études e alla Yale University e diventa direttore del Centro Nazionale della Ricerca Scientifica di Parigi (CNRS). Attualmente è direttore del Centre de recherche sur les arts et le language di Parigi

cos'è stato il Novecento?:
«distruzione dell'Io e autonomia [sic!] del linguaggio»

La Stampa Tuttolibri 22.5.04
Asor Rosa, il ‘900 di ogni avanguardia
appena trascorso, due caratteristiche su tutte: la distruzione dell’Io e la promozione del linguaggio a istituto autonomo, non «servile»
di Angelo Guglielmi


CONFESSO di rimanere stupito e ammirato di fronte alla maestria e sapienza con cui Asor Rosa sa entrare nei fatti e fenomeni letterari del '900, aggredendoli e illuminandoli sotto ogni rispetto (ideologico, sociologico, politico, estetico e di gusto) tanto da qualificarsi e rivelarsi più che come storico della letteratura (dei fenomeni letterari) come storico tout court. E questo non soltanto perché la sua riflessione oltre a considerare la letteratura degli ultimi cento anni investe anche i modi di essere del cinema, del giornalismo, della moda e insomma di ogni altra forma di comunicazione che il secolo (noto per avere moltiplicato oltre ogni dire le opportunità comunicative - e la corsa non è ancora conclusa) ha prodotto e messo in campo; ma specificamente e soprattutto perché si è prima preoccupato (un prima non certo temporale quanto logico) di esplorare e rendere evidenti le più nascoste radici filosofiche e morali che hanno reso così particolare il '900, radici che hanno modellato e reso a sé la totalità degli aspetti e delle forme in cui il secolo si è manifestato determinando (e fissando) nuovi e scandalosi modi di pensare e non rinunciando a entrare (trasformandola) nella vita stessa privata (comportamenti e sentimenti) e pubblica (rapporto con le istituzioni) dei singoli individui.
Non vi è dubbio che il '900 rappresenta una rottura nella catena dei secoli che si erano fin lì inseguiti evolvendosi naturalmente (o comunque secondo una successione logica) dall'uno all'altro: con il '900 quella catena si spezza e i legami di pensiero per così dire naturale e razionale che avevano comunque tenuto insieme (pur nella diversità delle singole manifestazioni e presenze) i secoli precedenti si logorano e cedono. E il '900 rimane solo (e disperato come tutti gli abbandonati).
All'origine della drammatica rottura (e qui rinuncio a dare una pur pallida idea della complessa lettura che Asor fornisce in proposito, tanta è la ricchezza dei riferimenti e l'eccellenza dell'esposizione) vi è (semplifico atrocemente) il pensiero negativo di Nietzsche, la rivoluzione temporale di Bergson, la fine della storia di Hegel, il materialismo storico di Marx, la scoperta dell'inconscio di Freud (nonché alcuni capolavori assoluti dell'arte della parola come la Ricerca di Proust, l'Ulisse, Il processo, L'uomo senza qualità che non si sa se è più giusto considerare il risultato di quella straordinaria stagione di pensiero rivoluzionato e rivoluzionario o fattori essenziali che hanno contribuito a determinarlo). Comunque da allora il mondo non è più quello. L'uomo novecentesco è protagonista di una vita certo più fervida (in realtà più inquieta) di cui tuttavia non riconosce più la giustificazione e le finalità che la legittimano: non è più l'attesa del futuro (che si presenta oscuro e minaccioso), non è più la ricerca della verità (che non si sa cosa sia), non è più la scoperta di nuove terre (che aggiungerebbero nuove afflizioni all'afflizione del mondo) e, scendendo a motivazioni più personali, non è più l'impegno della fede e per il bene, il richiamo della solidarietà, l'amore di patria. Trionfa tra gli individui un profondo e lacerante sentimento di estraneità che si trasferisce dalla percezione delle cose al riconoscimento di sé. L'uomo perde il contatto con la realtà in cui vive che ormai non gli appare che come pura menzogna, inducendolo (e costringendolo) a una crisi di rigetto. E qui siamo già (è appena iniziato il secolo) in piena avanguardia letteraria (e più in generale artistica). E ad essa Asor Rosa dedica il suo capitolo migliore: più ricco, più penetrante, più decisivo per lo sviluppo successivo delle arti. Non vi è dubbio infatti che dell'avanguardia storica, esaminata e penetrata nella varietà e specificità delle sue manifestazioni (dal futurismo italiano, al surrealismo, al futurismo russo, al movimento dada), Asor sa cogliere, con intuizione preveggente, al di là del suo disfattismo antitradizionalista e l'azzardo un po' folcloristico dei suoi manifesti e proclami, i due caratteri (se pure in nuce) che meglio la definiscono (e che diventeranno sfrondati dalla rabbiosità di origine il canone indiscutibile cui si adeguerà tutta la migliore letteratura del secolo) e cioè: 1) la distruzione dell'io che, ci ricorda Asor, già Rimbaud aveva anticipato con il suo famoso «Perché IO è un altro. Se l'ottone si sveglia tromba non è affatto colpa sua»; 2) la promozione del linguaggio a istituto autonomo non più a servizio di esigenze esterne (e estraneo) e dunque l'affermazione che «il linguaggio non ha rispetto che di se stesso e non ha altre regole che quelle che custodisce e nasconde al suo stesso interno». Su queste due spinte si sviluppa, ripeto, tutta la più seria letteratura del secolo. Una letteratura intollerante di ogni limite, che sfonda continuamente i confini in cui tende come per natura a rinchiudersi, che si rifiuta di legittimarsi a spese del sublime e preferisce dilagare (anche pericolosamente) verso zone inedite di sensibilità, di conoscenza, di fantasia. Dunque una letteratura sì esposta a perdersi ma fortemente stimolante, esaltante, energica. E se non sempre una grande letteratura certo in grado di rappresentare un grande progetto di rinascita e di rinnovamento che fa il pari con quello che portò al (contemporaneo) rivoluzionamento del mondo delle scienze. Di questo grande progetto Asor Rosa sa tracciare gli ampi confini e raccontarne le articolazioni interne con somma dottrina e una straordinaria capacità di gestione delle idee e di resa espressiva tanto da riuscire a fornirne una rappresentazione autorevole e convincente. Ma poi che succede? Quando passa a considerare le figure (gli scrittori) che (in Italia) danno corpo a quel progetto la sua mano si fa più incerta. Negli ultimi due capitoli del volume, intitolati appunto «Figure» e «Quel che viene dopo», certo troviamo i nomi (gli ampi ritratti) di Palazzeschi e di Calvino, di Vittorini, Volponi e Pagliarani ma non vi è traccia (anzi programmata omissione) di figure che con uguale e forse più autorità di loro hanno rappresentato la modernità come Gadda (appena citato), Savinio, Fenoglio, Landolfi o Campanile (senza contare che a Pirandello e Svevo sono dedicate qui e lì solo poche righe). E passando alla generazione successiva e presente di ampio e reiterato spazio godono figure come Daniele Del Giudice e Marco Lodoli, lodevoli scrittori di ispirazione essenzialmente bellettrista; ma dove sono i più inquieti e insofferenti, così poco ligi a scrivere pulito, Arbasino, Malerba, Meneghello, Sanguineti, Celati e Tondelli e ancora Cordelli e Scarpa? E poi soltanto un sospetto di malizia può renderci comprensibile il fatto che nelle «Considerazioni sulla poesia contemporanea» non siano nemmeno (per errore) citati I novissimi. Perché questa contraddizione in Asor Rosa tra idee e (loro) applicazione? Ho tre ipotesi: perché è uno storico interessato ai problemi generali e d'impianto più che alla loro verifica nei fatti; è tradito dalla sua pretesa (giusta purché non intesa in termini bassamente contenutistici) che non vi è opera d'arte che non sia anche portatrice di comunicazione sociale; la sua tensione è sistematoria(e dunque istituzionale) più che versata a scrutare il futuro dove è più facile che germogli un seme caduto dalle pagine avventate di Tondelli che non un fiore profumato di Lodoli.

l'unità del Sé e le neuroscienze

Galileo 20.5.04
LIBRI
Tra corpo e mente
Annamaria Quinzi
L'anello invisibile. L'unità del Sé tra bios e psiche
di Mauro Capocci

Alberto Perdisa Editore, 2004
pp.261, euro 16,00


Sono molte le prospettive e le discipline che indagano il Sé umano. Tuttavia l'integrazione tra questi diversi punti di vista è ancora lontana. Nelle parole dell'autrice, la scienza "stenta a trovare un nuovo paradigma attraverso il quale operare l'unificazione teorica delle scoperte neurobiologiche, psicologiche e mediche le quali evidenziano, ognuna dal proprio punto di vista, un aspetto parziale dell'individualità psicofisica". Questo volume vuole invece proprio sottolineare e indagare le diverse articolazioni riconosciute del Sé, cercando di far comunicare ambiti tradizionalmente separati, con "una diversa lettura epistemologica dei rapporti esistenti tra il sistema nervoso centrale, il sistema immunitario, il sogno e l'ambiente, qual momenti costitutivi, essenziali e non scindibili, del processo che definisce il Sé nella salute e nella malattia". Si tratta quindi di superare la distinzione cartesiana tra res extensa e res cogitans - il dualismo mente/corpo che ancora condiziona molti studi al proposito - senza cadere nel tranello dell'eccessiva riduzione materialista dei fenomeni psicologici. Il volume è diviso in quattro lunghi capitoli, ognuno dedicato a una delle particolari definizioni che chiamiamo "individualità psicofisica" o Sé. La prima parte prende in esame il complesso sviluppo storico dell'interazione tra discipline naturali e antropologiche, a partire da Cartesio per finire alle neuroscienze, con particolare attenzione all'importanza della teoria dell'evoluzione. D'altra parte, proprio le neuroscienze sono situate alla "confluenza teorica di diverse discipline quali l'anatomia, l'embriologia, la fisiologia, la farmacologia e la psicologia", e rappresentano la base necessaria per studiare eventuali fenomeni di ordine superiore.
Il secondo capitolo esplora proprio l'aspetto biologico delle funzioni superiori degli organismi e in particolare dell'essere umano, analizzando molte delle attuali teorie che cercano di collegare i due piani del discorso. Lasciano comunque perplessi le discussioni sull'origine psicosomatica di alcune malattie e il voler a tutti i costi ritrovare l'unità del Sé attraverso il collegamento tra mente e corpo nelle patologie, magari seguendo solo somiglianze formali tra i fenomeni che sono però selezionate arbitrariamente. Lo stesso accade anche nel terzo capitolo, che esamina il concetto di Sé immunologico, che sta a indicare la distinzione che l'organismo crea tra ciò che è riconosciuto dal sistema immunitario come appartenente all'individuo e cio che invece non lo è. Qui il legame agli stati patologici è più ovvio, e risulta interessante l'analisi del carattere "di genere" di malattie quali la schizofrenia e il lupus eritematoso sistemico, definite come "due patologie identitarie attraverso le quali l'individuo cerca di ripristinare la condizione di normalità necessaria ad interagire con il mondo esterno; di conseguenza i sintomi speculari [...] costituiscono veri e propri eventi psicoimmunologici - di cui si deve cogliere il significato globale attraverso il paradigma della complessità - e non semplici manifestazioni patologiche rilevanti sul piano clinico."
La chiusura del volume è affidata al capitolo più lungo sul sonno REM e i sogni, con la loro funzione di creazione di un mondo interno all'individuo. Anche questa parte è molto stimolante, e si basa soprattutto sui più recenti risultati delle neuroscienze, che grazie alle nuove tecniche di analisi sono riuscite a osservare e studiare i diversi tipi di attività cerebrale. Emerge quindi un quadro in cui l'organico si connette allo psicologico, in una prospettiva materialista che però non rinuncia alla diversità di linguaggi. La vastissima bibliografia consente inoltre al lettore di formarsi un percorso autonomo nella complessità di questi saperi. L'impegno richiesto al lettore dalla difficoltà degli argomenti è comunque ripagato da suggestioni e stimoli per la discussione molto interessanti e originali.

Pietro Citati:
la guerra santa dei cristiani
(2ª e 3ª parte)

la seconda e la terza e ultima parte della storia delle Crociate di Pietro Citati. La prima parte è stata inserita in questo blog pochi giorni fa ed è ancora reperibile più sotto

Repubblica 22.5.04
2/ LA GUERRA SANTA DEI CRISTIANI
il potere del giusto Saladino

Gli esosi giullari cantavano perché venivano pagati e spesso mentivano La leggendaria storia dell' idolo di Maometto tutto oro e argento, incrostato di scintillanti pietre preziose Nel 1174 fu eletto re a Gerusalemme Baldovino IV: era bellissimo e intelligente, aveva tredici anni Il frammento della Vera Croce incastonato nella sua teca d''oro cadde nelle mani dei musulmani e in molti piansero
di PIETRO CITATI


Intanto, molto lontano, nel Settentrione, i giullari avevano cominciato a improvvisare degli immensi poemi, di cui in questo volume sono raccolti la Canzone di Antiochia e la Canzone di Gerusalemme. Non gli importavano affatto le vicende reali: se Goffredo o Tancredi avevano conquistato Gerusalemme. Cantavano perché venivano pagati: cantavano quello che i committenti desideravano: spesso enormi menzogne; gli eroi della Canzone d' Antiochia sono, per esempio, due banditi da strada, che vengono trasformati nelle guide spirituali e guerriere della Crociata. Qualche volta i giullari si rifiutavano di raccontare cosa era accaduto: uno di essi, per esempio, chiese a un onesto crociato un paio di scarpe rosse (squisito e costoso segno di eleganza) come ricompensa per i suoi versi; e quando il povero Arnald de Guines si rifiutò di acquistare le scarpe (per ragioni che mi duole moltissimo di ignorare), lo cancellò spietatamente dal suo libro. Tutto accadeva pressappoco come alla corte di Alcinoo, tra i Feaci, quando Ulisse stava per cominciare il suo racconto, i Feaci mangiavano il pane e la carne e bevevano vino. Il poeta cantava in piazza, davanti a una chiesa, o in una casa aristocratica. Nessuno, o quasi nessuno, capiva il latino, o sapeva leggere: e poi ascoltare troppo a lungo senza muoversi era noioso. Così il pubblico si spostava, beveva un bicchiere di vino, giocava a dadi, litigava col vicino per una questione di soldi, faceva chiasso. Il giullare imponeva silenzio: sempre più a fatica via via che l' enorme poema (10.000 versi) si avviava alla fine. Non gli bastava cantare: voleva soprattutto far vedere gli eventi tremendi e prodigiosi al suo pubblico, commentarli, enfatizzarli, proiettarli come su un enorme cartellone colorato. Così i due poemi, malgrado il Santo Sepolcro, la Vera Croce, la santa Lancia, non hanno nemmeno una traccia di sentimento religioso. Sono favole pittoresche, opere dei pupi, macchinazioni molto più simili al Morgante o al Guerin Meschino che alla Gerusalemme liberata. I giullari e il loro pubblico amavano le storie su Maometto e la sua religione. Specie nei canti epici, ci sono brani di irrefrenabile comicità, che non sappiamo mai se attribuire alle false informazioni, o al piacere di affabulare o di mentire e di slanciarsi nell' incredibile. La cosa curiosa è che gli occidentali di Europa e di Terrasanta avevano una discreta conoscenza dell' Islam. Sapevano che era una religione monoteista, che derivava dall' ebraismo e dal cristianesimo, sebbene negasse l' origine divina e la morte di Gesù: che Maometto era un profeta: quali fossero le differenze tra i Sunniti e gli Sciiti; e che nell' Islam il pellegrinaggio alla Mecca aveva un ruolo simile a quello che, nel Cristianesimo, aveva il pellegrinaggio al Santo Sepolcro. A Toledo, a metà del XII secolo, venne cominciata una traduzione latina del Corano; e a Hereford, in Inghilterra, il primo glossario arabo-latino. Quanto profonda fosse poi la conoscenza della filosofia, della scienza, dell' astronomia, della mistica, della lirica araba in Occidente, non è stato, credo, abbastanza studiato. Che Maometto fosse un profeta come Mosè e Abramo, non importava a nessuno dei giullari franchi. Era molto più bello immaginare che in Turchia, in Siria, in Arabia e in Palestina dominasse una vastissima religione politeista, un coacervo di dèi comici e fantastici: Maometto, Apollo (probabilmente Apollo greco), Trevigante, Cahu, Nerone, Platone, Lucifero, Giove, l' Anticristo, Pilato, Margot, Bergibus, Baratron, Mars, Filir, Alabahir. E poi, alla Mecca, c' era una divinità femminile di pietra, della quale erano emissarie donne eroticissime che impedivano ai saggi di tornare alla virtuosa religione cristiana. E poi Maometto era un cardinale diacono della Chiesa di Roma, che abbracciò l' eresia per la rabbia di non esser stato eletto papa. L' invenzione più bella era visiva. Quando Maometto morì alla Mecca, i fedeli ne unsero il cadavere con balsamo prezioso: poi racchiusero il cadavere-demone in una cassetta di ferro battuto o in un idolo d' argento, sospeso in una cappella a volta. L' idolo funerario non restava immobile, perché un gioco di calamite lo faceva aleggiare, come fosse mosso da una brezza leggera: solo che, ogni tanto, il demone morto riacquistava forza e diventava vivo, saliva su un elefante, e arringava ferocemente i suoi fedeli contro Cristo. Poi ritornava alla Mecca; e lì, ai suoi piedi, stavano accucciati, perennemente accesi, due dei tre candelabri che, tempo prima, i discepoli di Maometto avevano rubato nella grotta di Gesù a Betlemme. I fedeli cristiani avrebbero dovuto scendere alla Mecca lungo le strade carovaniere, mescolarsi ai pellegrini, impossessarsi dei candelabri, e riportarli nel Santo Sepolcro: il loro vero luogo. Mi piacerebbe sapere se qualche crociato avventuroso abbia mai tentato questo furto fantastico. Secondo la leggenda cristiana, in diversi luoghi veniva venerato un immenso idolo di Maometto, che solo sei braccia vigorose potevano sollevare: un idolo d' oro, d' argento, di porpora, brillante e scintillante, lavorato al cesello, incrostato di pietre preziose abbaglianti; una figura bellissima e affascinante sebbene fosse un figlio dell' inferno. Quando poi nel 1099, Fulcherio di Chartres e un vassallo di Tancredi d' Altavilla (che raccontava le esperienze di Tancredi) penetrarono nella moschea al-Aqsa, vi scorsero l' idolo d' argento, d' oro e di porpora. Non è necessario aggiungere che mai una moschea musulmana avrebbe custodito un idolo di Maometto o qualsiasi statua profana. Cosa era accaduto? Fulcherio e il vassallo di Tancredi avevano ascoltato quella divertentissima leggenda e la loro immaginazione fece vedere loro l' idolo di porpora proiettato sotto gli archi della moschea? Non sarebbe la prima volta che l' immaginazione è più forte della nostra capacità di vedere. Ma è possibile un' altra ipotesi. Gli arabi erano straordinari costruttori di automi: nell' 802 il califfo Hârûn-ar-Rashîd aveva regalato a Carlo Magno un orologio automatico nel quale il passaggio delle ore era segnato dalla caduta di palle di bronzo su un disco di metallo; alla dodicesima ora, dodici cavalieri uscivano da dodici porte, che si chiudevano su di loro, appena il tempo aveva segnato i suoi dodici rintocchi. L' automa era diventato celeberrimo in Europa. Forse Fulcherio e Tancredi avevano scorto qualche automa sui palazzi e le moschee di Gerusalemme; e l' avevano trasferito nel segreto del luogo sacro, come corpo visibile di Maometto.
Dopo la metà del XII secolo, un generale di origine curda, Salah ad-Din ibn Ayyub, il Saladino della tradizione occidentale, fondò un grande regno, dall' Egitto alla Mesopotamia. Il Saladino fu uno dei massimi simboli del Potere sia nella tradizione islamica sia in quella occidentale. Era il re giusto: generoso coi nemici e protettore della fede (la protesse un po' troppo, se fece uccidere, come è probabile, Shihâboddin Yahyâ Sohrawardî, uno dei massimi filosofi e narratori metafisici del mondo); e possedeva la qualità del dono, la generosità senza limiti e senza misure, che imita la sovrana magnificenza di Dio. Aveva ereditato la tradizione araba del racconto, come se fosse uscito dalle Mille e una notte: amabile, arguto, conosceva le storie e le tradizioni degli Arabi, le meraviglie e le curiosità della terra, «e le genealogie dei loro cavalli». Anche l' Occidente lo amò, lo idealizzò, lo antepose ai propri disordinati e crudeli re guerrieri, lo collocò, in disparte, nel Limbo di Dante, ma lo confuse con un altro sovrano delle Mille e una notte. Nelle Cento novelle antiche e nel Decamerone, il Saladino conosce tutte le lingue, si maschera, e percorre le terre d' occidente, per guardare, vedere, spiare ciò che fanno i suoi nemici: egli è di nuovo Hârûn-ar-Rashîd che, insonne, torturato dalla malinconia, nelle Mille e una notte si traveste da mercante, da derviscio o da pescatore e percorre di notte la sua città, Bagdad, che non conosce. Guarda, scruta, ascolta, ispeziona, spia, perché il potere trova il proprio culmine proprio nello sguardo che ispeziona le tenebre. I re cristiani di Gerusalemme non sapevano né essere giusti, né raccontare, né donare, né spiare i disegni di Dio e della notte. Quando venivano sconfitti dai nemici, i sacerdoti e i papi e persino san Bernardo proclamavano che era colpa dei loro peccati - che certo erano grandi: omicidio, lussuria, lusso, gelosia fraterna, ribellione. Ma era poi vero? A volte, avevano l' impressione che l' aiuto di Dio non bastasse: o che Dio fallisse nella storia: o che Dio non volesse apparire negli eventi, o solo in modo casuale e intermittente; o che Dio - questa era la cosa più terribile - li avesse abbandonati, sebbene avessero ucciso e fossero morti per liberare il suo Sepolcro. Forse il Dio della storia stava dalla parte di Saladino, l' uomo del dono, che spiava i segreti. Ci fu una eccezione: una grandiosa eccezione; uno dei rarissimi episodi che infondono una leggerezza celeste nella pesante storia della terra. Nel 1174 fu eletto re, di Gerusalemme, a tredici anni, Baldovino IV. Era bellissimo e intelligente, aveva una solida memoria, leggeva con passione, amava le conversazioni eleganti, e cavalcava con grazia. Ma un giorno, l' istitutore, un grande storico, Guglielmo di Tiro, si accorse che il giovane re era lebbroso. Giorno dopo giorno la malattia peggiorò, colpendo soprattutto il volto, le braccia e le gambe. «Ogni volta che i suoi fedeli rivolgevano lo sguardo su di lui, i loro cuori erano profondamente toccati da un sentimento di compassione». Fu colpito da una febbre: poi la lebbra si manifestò con sempre maggiore violenza: Baldovino perse la vista, braccia e gambe cadevano in putrefazione, le mani non afferravano nemmeno un foglio di carta, i piedi non lo reggevano. Ma rifiutò di abbandonare la dignità regale: continuò a svolgere i suoi compiti; nonostante la morte vicina, cercava, per quanto potesse, dissimulare la sua terribile debolezza. Quando il Saldino invase il fragile regno latino, Baldovino chiamò alle armi tutte le proprie truppe e i templari: uscì da Ascalone per ingaggiare battaglia contro le forze nemiche. Mentre i cavalieri saraceni erano ventiseimila, i latini erano appena trecentosessantacinque: Baldovino era portato in prima fila; e davanti alle schiere il vescovo di Betlemme innalzava il «Legno miracoloso della vivifica Croce», incastonato in una teca d' oro. Per una volta, il Saladino, così cauto e prudente, peccò di presunzione: il giovane re lebbroso gli sembrò una preda troppo facile: lasciò che le sue truppe saccheggiassero le campagne; ma i cavalieri franchi assalirono i suoi uomini e li massacrarono, ed egli fu salvato soltanto dalla guardia del corpo. I cristiani pensarono di aver vinto grazie alla protezione della Vera Croce: quel legno che aveva attraversato indenne i secoli. Ma forse Guglielmo di Tiro pensò che i cristiani non possono essere guidati da veri re: il Saladino, potentissimo e orgoglioso, apparteneva all' Islam: i cristiani possono avere soltanto dei giovanissimi re lebbrosi, discendenti di Cristo, che non appartengono del tutto a questa terra. Baldovino IV morì nel 1185, e con lui il regno di Gerusalemme. Il 4 luglio 1187 l' esercito del Saladino sconfisse rovinosamente le truppe latine ai Corni di Huttin: una piccola collina rocciosa vicino a un lago. I cavalieri franchi combatterono con coraggio, eroismo e demenza feudale: la sera erano feriti, massacrati, prigionieri. Qualche giorno dopo erano venduti come schiavi sul mercato di Damasco: uno schiavo in cambio di un sandalo. Il frammento della Vera Croce, incastonato nella sua teca d' oro, cadde nelle mani dei musulmani. Un ignoto cristiano commentò: «A che scopo vivere ancora, adesso che ci è stato tolto il Legno della Vita? ~ Ci è stato sottratto il Legno della nostra salvezza ~ Piangete su questa disgrazia, adoratori del Santo Legno, e tracciate nei vostri cuori la Vera Croce con fede salda e costante». Il 3 ottobre 1187, Saladino riconquistò Gerusalemme. Secondo la tradizione islamica, era lo stesso giorno in cui Maometto salì al cielo, con la sua cavalcatura alata, muovendo da Gerusalemme. La città era indifesa: i cavalieri e i fanti erano morti, prigionieri o schiavi. Nella pianura, avvolta dalla nebbia, i musulmani sventolavano le bandiere, squillavano le trombe, scuotevano le armi, lanciavano grida di guerra. Sugli spalti c''erano soltanto due cavalieri, qualche sedicenne nominato sull' istante cavaliere, monaci, canonici, sacerdoti, diaconi, eremiti, anacoreti: mentre le vedove e gli orfani invocavano la misericordia di Dio e la protezione dei santi. A un certo momento, i cittadini si addormentarono e lasciarono gli spalti sguarniti, pensando che se Dio non avesse protetto Gerusalemme, «a nulla sarebbe valso vigilare». «Restava un solo desiderio: morire nella Città Santa, in semplicità di cuore, dando testimonianza alla propria fede in Cristo; così ciascuno si sarebbe guadagnato - scrisse un anonimo - la sua parte di Terra Promessa in proporzione allo spazio su cui stava disteso il suo cadavere». Il Saladino propose la resa. Come era sua abitudine, fu mite. Impose un riscatto: dieci bisanti per ogni uomo, cinque per ogni donna, un bisante per ogni bambino; poi tutti sarebbero stati liberi di andarsene dove volevano, e nessuno avrebbe toccato le loro cose. Non fu interamente mite: qualche mese prima, dopo la battaglia di Huttin, aveva fatto assassinare tutti i Templari e gli Ospedalieri, ricordando i massacri cristiani di un secolo prima. Qualcuno non voleva arrendersi. «Mille volte meglio morire per Cristo». Chi avrebbe mai potuto immaginare che dei cristiani commettessero una simile empietà: consegnare volontariamente nelle mani dei pagani il Sepolcro della resurrezione di Cristo? Non si era mai letto da nessuna parte che i giudei avessero abbandonato il Sancta Santorum senza spargimento di sangue e aspra battaglia, né tanto meno che l' avessero consegnato volontariamente». I musulmani entrarono in città. Sulla Cupola della Roccia islamica, i cristiani avevano innalzato una grande croce dorata: i soldati di Saladino si arrampicarono in cima alla cupola: legarono la croce con delle funi e la gettarono al suolo: in quel momento, «tutti levarono a una voce un grido, dalla città e da fuori; i Musulmani un Allah Akbar di gioia, i Franchi un urlo di costernazione e di dolore». Il Santo Sepolcro fu depredato e spogliato di ogni ornamento, e aperto a tutti, cristiani e saraceni. Intanto, il Saladino restaurava Gerusalemme: la sua Gerusalemme. Insieme ai soldati, lavorava tutto il giorno, lavando con acqua di rose i cortili e i pavimenti delle moschee, che i cristiani avevano trasformato in chiese.

(2 - continua)


Repubblica 23.5.04
3/ LA GUERRA SANTA DEI CRISTIANI
Il festoso sbarco ad Acri, l´amore-odio col Saladino Finito il loro tempo, ecco la presa di Costantinop nel 1204
Come Kagemusha, il Sultano guardava dall´alto di una collina Il re cristiano caricava le fila saracene con la lancia abbassata
Usberghi lucenti, elmi corruschi, tanti nobili destrieri dall´alto nitrito, tante gualdrappe e tanti cavalieri e stendardi
di PIETRO CITATI


Poi la storia cambiò ritmo e colore. Appena Riccardo Cuor di Leone, re di Inghilterra, scese ad Acri, la crociata perse quasi ogni profumo religioso e diventò una tappezzeria cavalleresca e romanzesca, ricamata dalla mano di qualche grande principessa francese o inglese, o da quella di Robert Louis Stevenson. Riccardo era un uomo alto, slanciato, bellissimo, con i capelli color rosso dorato. Non gli piaceva governare ed amministrare, come fanno i noiosi potenti della terra. Non gli piaceva nemmeno il futuro: solo il colorato, mobilissimo, adorabile presente. Amava fare la guerra: ardente, temerario, aggressivo, coraggiosissimo, agilissimo, elegantissimo, appena lo vedevano, uomini e donne, amici e nemici, cadevano affascinati. Era - dicevano - «il fiore della prodezza», il «vertice della cavalleria», superiore ad Orlando e ad Olivieri.
L´11 giugno 1191 sbarcò ad Acri, nella parte settentrionale della Palestina, e subito la terra fu scossa dal tumulto dei cristiani esultanti. «La notte serena, più limpida del solito, sembrava sorridergli. Nella notte si levavano striduli squilli di tromba, il suono dei corni, il timbro acuto dei pifferi, le basse tonalità dei flauti, il rimbombo dei tamburi. Tutti partecipavano alla letizia collettiva, perché con Riccardo era arrivata la gioia. Qualcuno intonava canti popolari, qualcuno recitava racconti epici sulle imprese degli eroi antichi e moderni, qualcuno beveva, qualcuno danzava. La gente minuta era mescolata ai nobili, senza distinzione di rango. Da ogni parte brillavano candele, torce e fiaccole, tanto che «i turchi pensavano che l´intera vallata fosse in fiamme». La mattina, i combattenti si equipaggiarono. «Avreste visto tanti usberghi lucenti, tanti elmi corruschi, tanti nobili destrieri dall´alto nitrito, tante gualdrappe biancheggianti, tanti scelti cavalieri, e pennoncelli e stendardi di qualsiasi genere». All´improvviso, il mondo era diventato una festa, alla quale tutti partecipavano.
Il Saladino e il mondo arabo amavano Riccardo Cuor di Leone: come Riccardo Cuor di Leone e il mondo cristiano amavano il Saladino, sebbene si combattessero a vicenda. «Era di gran coraggio e alto animo», scriveva Baha Ad-Din. Solo qualcuno avanzava riserve: molto più saggi dei franchi, gli arabi pensavano che essi apprezzassero troppo il valore guerriero: «quanto più un cavaliere è alto e slanciato, scrisse Usama ibn Munqidh, tanto più essi lo ammirano, e nessuno ha preminenza fuori dai cavalieri». Anche Saladino pensava che Riccardo mancasse di «saggezza e di moderazione». Ma quando Riccardo andava all´assalto, chi poteva resistergli? Come Kagemusha, Saladino guardava dall´alto di una collina: la cavalleria cristiana si precipitava contro i turchi con fragore di tuono; e in testa, con gli svolazzanti capelli rossi, c´era sempre Riccardo, montato su un possente destriero, che caricava le fila saracene con la lancia abbassata, fino a quando la sua asta di frassino si spezzava in schegge intrise di sangue. Allora snudava la spada e si avventava sui fuggiaschi. Sembrava che «avanzasse irraggiando bagliori». Una volta, mentre Riccardo guidava la carica, il suo cavallo fu colpito, e il Saladino, pieno di ammirazione, mandò nella mischia un servo con due cavalli, perché il re nemico continuasse la battaglia.
Spesso Riccardo, abituato ai teneri verdi e alle nebbie dell´Inghilterra, si ammalava: l´agosto palestinese lo prostrava; e il Saladino inviava al rivale pesche e pere e neve del monte Hemon per rinfrescare le sue bevande. Non importa che questa parte dell´Itinerario dei pellegrini e le imprese di re Riccardo, scritte tra il 1191 e il 1222, sembri composta a quattro mani da Walter Scott e Robert Louis Stevenson. Quello era Riccardo: quello era il Saladino, come li vedevano gli arabi, i turchi, i crociati, e soprattutto gli scrittori: quella era la leggenda che si trascinavano dietro come un manto di seta; e non è il caso di dimenticarla.
Riccardo dovette tornare in Inghilterra: non vide mai Gerusalemme, che non aveva saputo conquistare: stese una tregua di tre anni, anzi un «inviolabile accordo di pace» col Saladino. Poi ripartì, in incognito, per l´Inghilterra. A Vienna fu preso prigioniero da Leopoldo d´Austria, che aveva offeso in Terrasanta per ragioni frivolissime. Cadde nelle mani dell´imperatore Enrico VII e, solo dopo aver pagato un enorme riscatto, nel 1194 ritornò a casa. Né il Saladino né lui avrebbero vissuto a lungo. Mentre il Saladino era agli estremi, lo sheikh gli recitava il Corano: quando giunse al versetto: «Egli è l´unico Dio, conoscitore del Mistero e di ciò che si vede», il Saladino sorrise, e il volto gli si illuminò e rese l´anima ad Allah, il misericordioso. Quanto a Riccardo, non avrebbe mai potuto morire durante la lettura di un libro sacro. Combatté gli intrighi di suo fratello Giovanni e gli assalti di Filippo di Francia. Il 26 marzo 1199 assaliva un castello ribelle nel Limousin, quando una freccia, guidata dalla volontà o dal caso, colpì in fronte, «il fiore della prodezza, il vertice della cavalleria».
[***]
Tra i molti misteri dell´animo femminile, che non finiscono di inquietarmi, ce n´è uno al quale nessuno ha mai risposto. Perché le donne non sanno comporre libri di storia? Meravigliose scrittrici di memorie, di diari, di confidenze, di pettegolezzi, di chiacchiere, la storia non sembra appartenere al loro orizzonte. Non hanno Erodoto né Tucidide né Tacito né Procopio né Psello né Machiavelli né Guicciardini né Gibbon né Tocqueville né Taine né Burckhardt né Bloch né Scholem. Forse pensano che la storia non esista, né quella divina né quella profana: o almeno non si possa raccontarla. Nei fatti non si trova quel filo conduttore, che la ingenua innocenza dei maschi crede di riconoscere. Ci sono eventi separati, briciole di memorie, suoni, profumi, parole, lampi che per un momento colpiscono lo sguardo, e poi subito fuggono via. Credo a ragione, le donne non vedono altro.
Eppure una grandissima storica esistette, e proprio negli anni delle Crociate, a Bisanzio. Era Anna Comnena, figlia dell´imperatore Alessio Commeno. Nacque a Costantinopoli il 2 dicembre 1083, venne «allevata nella porpora», leggeva Aristotele e Platone, Omero, Tucidide e Erodoto, volumi di teologia, di matematica e di astrologia. Scrisse un capolavoro storiografico, l´Alessiade, «col pudore - sosteneva - che conviene a una donna e a una principessa di sangue imperiale». Il libro ha una bellissima nobiltà di stile, e un occhio, un intuito, un genio psicologico, che attraversano la realtà, la traforano, la denudano davanti ai nostri occhi. Leggendola, si ha la sensazione che solo i grandi storici suscitano: il miracolo si è compiuto, abbiamo attraversato all´indietro i secoli, e percorriamo i palazzi e le strade di Costantinopoli e le contrade della Grecia e dell´Anatolia. La realtà è qui, per sempre.
Nel suo grande libro, Anna Comnena compose due ritratti di Normanni, due degli antichi Vichinghi, Roberto il Guiscardo, che aveva conquistato l´Italia meridionale, e il figlio Boemondo, che cercò di conquistare la terra, dovunque posasse i suoi occhi azzurri e indomabili. Malgrado il «pudore» imperiale, il ritratto di Boemondo sembra dipinto da una donna affascinata o innamorata al primo sguardo. Come ammira quella statura altissima, che «supera di un braccio gli uomini più alti», le spalle e il petto largo, la vita stretta e sottile, quasi femminile: le grandi mani robuste: la pelle bianchissima, da bambino, del volto, con un lieve tocco roseo: la barba leggera, appena una spuma pelosa: gli occhi azzurri, gli occhi-lampi; e il naso e le narici che respiravano con forza l´aria sottile che percorre il mondo, e lo facevano vivere più intensamente degli altri uomini. Ma quell´uomo bellissimo aveva qualcosa di duro, di sinistro, di spaventoso, che la faceva rabbrividire. Persino il suo riso inquietava. Era versatile, ambiguo e astuto come Ulisse, ma senza la cautela di Ulisse. Da quelle spalle, da quegli occhi, da quelle narici emanava il selvaggio spirito di distruzione, che fra poco avrebbe abbattuto i palazzi, i monasteri, le chiese, le icone, la religione di Costantinopoli. Tutto ciò che Anna Comnena amava, stava per essere trascinato via come una festuca. Non c´era salvezza.
Così, per un secolo, la civiltà bizantina e quella celta (come la chiamava Anna Comnena) si osservarono attraverso il ritratto di Boemondo d´Antiochia. I Normanni guardavano i Greci, i Greci i Normanni. E mai, credo, nella storia due civiltà si odiarono così profondamente. Si ha l´impressione, a volte, che tutti quei Roberti, Boemondi, Tancredi e Baldovini fossero scesi verso il Mediterraneo per occupare Costantinopoli non Gerusalemme - dove c´era soltanto il sepolcro di un dio morto. I franchi adoravano la forza, che per loro era la droiture feudale: niente era più bello delle spade, dei gonfaloni, dei cavalli, delle aste, del rosso sangue della guerra. Per i bizantini, almeno per quelli dell´undecimo e dodicesimo secolo, la guerra era qualcosa di vergognoso: bisognava coltivare tutte le arti della diplomazia, del compromesso, dell´astuzia e della corruzione, pur di evitare lo scontro sul campo. Amavano gli squisiti fiori della retorica, il miele delle Muse: non c´era altra verità che nella parola, che incanta e affascina per tutta la notte, per tutte le notti. Così i due popoli si rivolgevano accuse sanguinose, malgrado la comune fede cristiana. Per i bizantini, i franchi erano testardi, violenti, ambiziosi, ardenti e focosi, avidi di denaro, incostanti, insaziabili chiacchieroni. Non conoscevano né la misura né la rinuncia: ciò che gli dèi della Grecia e il dio cristiano ci hanno insegnato. Per i franchi, i bizantini erano pavidi, vili, ipocriti, doppi, ingannevoli, traditori - perché la parola non è altro che tradimento e inganno. Anche senza la sordida astuzia dei Veneziani, franchi e bizantini sarebbero giunti allo scontro definitivo.
Attesero un secolo. L´8 novembre 1202 cominciò allegramente la quarta crociata, che puntò verso Costantinopoli. Il sepolcro di Cristo non interessava quasi a nessuno. La partenza da Venezia fu una festa di suoni e di colori: «la più bella cosa che mai fosse dal principio del mondo», disse Robert de Clari, un povero crociato di Amiens, quando tornò in Francia. «C´erano infatti ben cento paia di trombe, in argento o in bronzo, che presero tutte a squillare alla partenza, e tanti timpani e tamburi e altri strumenti che erano una meraviglia rara. Quando furono in mare aperto ed ebbero spiegato le vele e alzato sui castelli delle navi le loro imprese e le loro insegne, sembrò davvero che il mare fosse un vasto brulichio, tutto infiammato dalle navi che conducevano e dalla gran gioia che mostravano». La flotta oltrepassò Pola, conquistò Zara, scivolò lungo la Grecia, passò davanti ai castelli e alle chiese di Monemvasia. Quando giunse a Costantinopoli, risalì il Braccio di san Giorgio, fiorito di navi e di galee: arrivò a santo Stefano; e finalmente vide Costantinopoli in tutta la sua ampiezza, ancorandosi nel porto. «Nessuno poteva immaginare che potesse esserci nel mondo - scrisse Geoffroy de Villehardouin - una città tanto ricca, quando videro quelle alte mura e quelle torri possenti, dalle quali era chiusa tutt´intorno in cerchio, e quei ricchi palazzi in così gran numero e quelle alte chiese, e nessuno avrebbe potuto crederlo se non l´avesse visto con i suoi occhi». Tutti provarono un intenso stupore. «L´illustre e venerabile città brillava stranamente di una infinità di meraviglie». Intanto gli abitanti di Costantinopoli salirono sulle mura e sui tetti delle case per ammirare gli splendori della flotta crociata.
La meraviglia reciproca non durò a lungo. I crociati assediarono da terra e dal mare: macchine da guerra, petriere, mangani; e il 17 luglio 1203 avvenne l´assalto. La città fu conquistata. Nel maggio 1204 Baldovino di Fiandra fu eletto imperatore del nuovo impero latino. I grandi signori crociati occuparono i palazzi di marmo abbandonati, i biaus palés marberins lungo le rive del mare e tra i giardini, indossando le preziose vesti di porpora degli antichi signori di Costantinopoli. I sergenti, i garzoni, i contadini di Francia e di Lombardia inscenavano grottesche mascherate lungo le strade di Costantinopoli. Avevano infilato le sontuose vesti senatorie, e calcavano le mitre di lino sulle teste dei loro cavalli. Altri crociati portavano in mano penne, calamai e libri, dileggiando i burocrati, i letterati e la letteratura: l´anima di Bisanzio, la forma, che essi ignoravano o detestavano. Poi tutti insieme mangiavano i bolliti. «Trascorrevano tutto il giorno mangiando e bevendo, contenti del loro consueto alimento composto di spalle bovine messe in paiuoli, di salati porcini bolliti in farina di fave, con salsa di agli e succhi prodotti da un miscuglio di altri agri liquori», annotava disgustato il raffinatissimo e coltissimo Niceta Coniate.
A terra era sceso anche Robert de Clari, vassallo di Pierre d´Amiens, che possedeva un feudo di sei ettari e mezzo: quasi un contadino. Non sapeva scrivere: amava le storie cavalleresche e quelle degli antichi. Forse non aveva mai visto nessuna delle nuove, bellissime cattedrali di Francia, né Notre-Dame, né Reims, né Chartres. Aveva visto soltanto le vecchie chiese medievali di Amiens. Ma la grande cattedrale di Amiens, ammirata da Ruskin e da Proust, non era stata ancora costruita; e così Roberto non conosceva le grandi vetrate trasparenti, d´oro verde e di fiamma, né la Vergine dorata colla sua «parure» squisita e semplice di biancospini: né, sulla facciata occidentale, il formicolio dentellato delle statue: «questo mondo di santi, queste generazioni di profeti, questo gruppo di apostoli, questa sfilata di peccatori, quest´assemblea di giudici, questo volo d´angeli «che guardavano la città dall´altro delle nicchie e dal bordo delle gallerie. Era un uomo semplice, perennemente meravigliato davanti allo spettacolo delle cose, che non capiva nulla della storia ufficiale, quella che piaceva tanto al solenne maresciallo Geoffroy de Villehardouin, grandissimo diplomatico, che scrisse anche lui una Conquista di Costantinopoli. Quando Robert de Clari racconta, la storia diventa sempre una deliziosa farsa plebea, piena di sergenti, di garzoni e di contadini.
Costantinopoli lo affascinò e lo possedette completamente, risvegliando la sua curiosità e il suo stupore, come se la sua vera patria fosse la città d´oro e di marmo, e non i suoi fangosi sei ettari e mezzo di terreno in Piccardia, o l´irraggiungibile sepolcro di Cristo. Senza saperlo, immerso in quel radioso celeste, imparò cosa erano la bellezza e le opere d´arte, e si doleva di non saperle descrivere con precisione, come molti secoli più tardi Bernard Berenson e Roberto Longhi, che probabilmente disprezzavano il loro modesto antenato. Costantino il grande aveva riempito le strade e le piazze della città di capolavori statuari strappati alla Grecia. Robert contemplava i mosaici d´oro, le colonne di diaspro e di porfido, i pavimenti così brillanti da sembrare di cristallo, le reliquie della Vera Croce, la fiala di cristallo col sangue di Cristo, la sua tunica, la sua corona di giunchi marini pungenti, un lembo della veste della Madonna, le corone degli imperatori, i drappi di seta ricamati d´oro, Santa Sofia, le sue colonne, che possedevano ciascuna un diverso potere curativo, il ciborio e i cento lampadari, la statua bronzea di Giustiniano, dove gli aironi facevano il nido, la porta chiamata Mantello d´oro, due elefanti di bronzo, un cocchio d´oro a quattro ruote, degli automi guasti o che credette guasti. Tutto era fastoso, luminoso e sacro, e lui era felice.
Nel Foro di Costantino vide una statua di bronzo alta trenta piedi. Non sapeva che era, probabilmente, la statua di Atena Promaos («combattente in prima fila»), di Fidia, che Costantino aveva trafugato dalle pendici dell´Acropoli di Atene. Non sapeva chi fosse Atene né Fidia né Atena né l´Acropoli né la Grecia: degli dèi di allora aveva una vaghissima idea romanzesca: forse per lui erano i parenti o i genitori di Alessandro Magno; il passato del mondo era scivolato via come acqua nella sua mente di contadino. La bellissima statua non aveva nulla di guerriero: Robert de Clari non sapeva che la cintura intorno ai fianchi era dedicata ad Ares, che la testa della Gorgone sul petto doveva incutere terrore, e la strana coda di cavallo che ondeggiava sulla testa lo meravigliò. Guardò la veste di bronzo a pieghe che arrivava ai piedi, per proteggere dagli sguardi umani tutte le membra divine. Com´era bella quella figura misteriosa! Il capo era quietamente inclinato, il collo nudo e lungo, il corpo si chinava mollemente, vene modulavano appena la fronte, i capelli intrecciati e legati dietro il capo sfuggivano all´elmo, ciocche scendevano sulla fronte, gli occhi gettavano dardi, la mano sinistra sollevava le pieghe della veste. Il bronzo imitava ogni particolare del corpo, si piegava, si modulava, diventava viso, collo, capelli, vesti; e a tratti sembrava trasformarsi in voce e parlargli. Tutta la figura senza vita fioriva di vita, «facendo fluire negli occhi tutta la forza dell´ardore». Robert non aveva mai visto una donna di così «invincibile dolcezza».
All´improvviso, una turba di ubriachi si scagliò contro la statua, e la fece a pezzi, accusandola di attirare con gli occhi le navi dei crociati. Tutto precipitò. I crociati appiccarono fuoco alle case di Costantinopoli, e le fiamme divamparono per una notte e un giorno divorando ogni cosa: niente resistette all´incendio, nemmeno le case lontane; le fiamme divorarono le colonne di diaspro e di porfido. I soldati uccisero migliaia di cittadini in fuga, stuprarono, saccheggiarono, penetrarono nelle chiese, gettando a terra le icone e le reliquie, frantumarono gli altari, fecero entrare nelle chiese muli, che coprirono di escrementi i chiari pavimenti di cristallo. Poi il bottino fu portato in un´abbazia. «Il bottino, che era ricchissimo - scriveva Robert de Clari ingenuamente - comprendeva una tale quantità di vasellame pregiato d´oro e d´argento, di tessuti tramati d´oro e di gioielli preziosi che era davvero una meraviglia: dalla creazione del mondo mai si vide né si conquistò un simile tesoro, così splendido e opimo, né ai tempi di Alessandro né all´epoca di Carlo Magno». Costantinopoli era colpita a morte, sebbene sopravvivesse per qualche secolo.
Nel 1205 Robert de Clari ritornò in patria. Senza la statua di bronzo e la sua «invincibile dolcezza», non amava più Costantinopoli: quei prepotenti signori feudali, che avevano indossato la finta veste dei Crociati, lo infastidivano. Portò con sé molte reliquie, tra le quali una parte della cintura e del velo della Vergine; e le donò all´abbazia di Corbie, vicino al suo poderetto di sei ettari e mezzo. Non sappiamo cosa facesse nel resto della vita: se viaggiò ancora, nella Francia delle cattedrali. Certo in un anno ignoto, forse nel suo piccolo feudo di Cléry-les-Pernois, dettò a uno scrittore sconosciuto quello che aveva visto «nell´illustre e venerabile città, che brillava stranamente di un´infinità di meraviglie»: una delle gemme più umili e preziose, che siano mai passate attraverso le fitte maglie della storia universale.

(3 - fine)

"psicologia sperimentale":
perché amiamo la musica...

Yahoo! Notizie Venerdì 21 Maggio 2004, 19:58
PSICOLOGIA:
LA MATEMATICA SVELA I SEGRETI DELLE EMOZIONI IN MUSICA

(ANSA) - ROMA, 21 MAG - E' stato dissolto dall'implacabile scure della matematica il segreto nascosto sotto la magia delle emozioni in musica: sono certe caratteristiche tecniche associate a ciascun brano a far affiorare in chi l'ascolta determinate emozioni, almeno secondo quanto dedotto dallo psicologo Emery Schubert dell'Universita' del New South Wales in Australia.
Le emozioni suscitate dalle note di un brano, dalla felicita' alla tristezza, dalla sensazione di briosita' a quella di vero e proprio fremito, o semplicemente la noia, sembrano potersi ricondurre al fragore, al temperamento del brano stesso e, in minor misura, al suo ritmo. Si tratta del primo studio che esamina matematicamente l'impatto della musica sulle emozioni, spiega Schubert in un articolo in via di pubblicazione sulla rivista Music Perception.
La felicita' all'ascolto per esempio, sostiene lo psicologo, cresce al crescere dell'altezza dei suoni e del numero di strumenti usati per produrre la musica. Le sue conclusioni derivano da un esperimento musicale su un campione di 67 persone. Queste dovevano ascoltare quattro diversi brani: l'opera numero 46 di Anton Dvorak, il Concerto de Arunquez di Joaquin Rodrigo, il Pizzicato Polka di Johan Strauss Jr and Josef Strauss e il 'Mattino' di Edvard Grieg.
Ogni volta che la musica suscitava in loro delle emozioni, gli ascoltatori dovevano muovere un mouse ed indicare sullo schermo di un computer quale fosse l'emozione suscitata tra la gamma riportata sullo schermo stesso. Il tutto avveniva sotto l'occhio dello psicologo, mentre il computer registrava secondo dopo secondo ogni mossa dell'ascoltatore, mettendola in relazione con le proprieta' della musica nell'istante stesso in cui il mouse era in movimento.
Ma niente paura, rassicura lo psicologo, nessun musicista potra' essere, almeno per ora, tanto furbo da rubare la 'formula matematica' vincente per comporre musica col potere di manipolare le nostre emozioni. Queste affiorano solo per complesse interazioni tra la musica e chi l'ascolta, anche se la ricerca evidenzia che certi parametri musicali permettono di fare previsioni parziali sulle emozioni che essa suscitera'. Esiste insomma la possibilita', conclude lo psicologo, di localizzare e quantificare le emozioni in musica con discreta precisione sulla base di parametri tecnici. (ANSA).