giovedì 7 luglio 2005

«L'OSPITE E L'ARLECCHINA»
di Annio Gioacchino Stasi e Mery Tortolini

Il Giornale 6.7.05 pagina 29
Vacanze da leggere in punta di penna
di FABRIZIO OTTAVIANI
Visalli, De Cataldo, Cavalli, Sarcina e Stasi: novità editoriali che non meritano l’«oblio estivo»

Di libri se ne stampano a valanghe e bisogna selezionarli su due piedi; poi la valanga passa e solo di rado si ha la possibilità di gettare uno sguardo a valle, dettato dallo scrupolo o dal senso di colpa. E se qualcosa di notevole fosse sfuggito? E se quella copertina dimessa, quel volume di editore minore e autore sconosciuto, ma anche quel romanzo reso antipatico dalla sfacciata pubblicità, meritasse più di quanto lì per lì non ritenemmo giusto attribuirgli? È dura la vita del recensore: assomiglia a quella di uno strapazzato Don Giovanni, il letto troppo piccolo e i polpastrelli intorpiditi dal lungo sfiorare. Oggi abbiamo scelto di soffermarci su cinque libri usciti negli ultimi mesi che possano essere letti in un giorno o due sotto non agostani ombrelloni, magari durante i primi week-end al mare.
Cominciamo con un racconto nero come l’inchiostro di Romano Visalli, Vuoti a perdere (Robin BdV, pagg. 114, euro 10). Autunno del 1898: fingendo di essere funzionari del ministero dell’Istruzione due carabinieri, basettoni cilindro e tenebrosa marsina, arrestano il professor Cardella. L’uomo, tornato da poco da un viaggio in Nuova Guinea, è figlio del truce Edoardo Cardella, senatore del Regno e braccio politico di un gruppo di alienisti facenti capo a Cesare Lombroso. Diventato dirigente del locale manicomio grazie all’appoggio del padre, il neodirettore, vincendo lo scetticismo generale, ha convinto medici ed infermieri a dare il via libera ad un suo metodo innovativo, una terapia in quattro punti: individuazione dei casi, visita medica, colloqui, e infine allontanamento. Ciò in vista di un solo obiettivo, la «disinfezione dell’anima». Stranamente, il professore decide di sottoporre alla nuova terapia, in qualità di cavie, due ragazzi scelti tra i più aggressivi e insofferenti, stabilendo «che la migliore destinazione per quei ragazzi erano due famiglie borghesi di San Remo, dove da anni trascorreva le vacanze natalizie». Al treno, però, preferisce accompagnarli da solo. Forse perché ciò che sta per succedere, è meglio non leggerlo subito dopo aver mangiato?
Giancarlo De Cataldo, l’autore di Romanzo criminale, ha pubblicato qualche mese fa un romanzo breve nella neonata collana «Assolo» delle edizioni e/o: Il padre e lo straniero (pagg. 143, euro 8,50). È la storia di un grigio impiegato ministeriale, Diego, la cui vita è travolta dall’amicizia con il misterioso Walid, arabo ricco e colto incontrato nelle sale d’attesa di un centro per bambini disabili: entrambi gli uomini, infatti, hanno un figlio con gravi menomazioni psichiche. Walid trascinerà Diego nel demi monde che frequenta i bagni turchi e i locali notturni per poi d’improvviso scomparire, lasciando l’amico nei guai. Sono, queste di De Cataldo, pagine molto belle; l’accattivante struttura del giallo è un’occasione per dare spazio alle meditazioni del protagonista su due temi eterni ed attuali: il contatto tra civiltà diverse, l’araba e la cristiana, e il senso di smarrimento di fronte ai due sfortunati bambini; quest’ultimo argomento in particolare è affrontato con coraggio, senza mire consolatorie ed anzi mettendo il dito sulla piaga.
Cambiamo decisamente argomento, come ripetono ogni santo giorno i mezzibusto dei telegiornali: con Quattro errori di Dio (Aragno, pagg. 139, euro 13), finalista al premio Campiello, la sbrigliata fantasia dello scrittore e giornalista Ennio Cavalli si materializza nelle forme tipiche dell’umorismo ebraico. L’inizio è folgorante, il resto un po’ di meno. Londra, 1990: tra le antiche pareti del Travellers’ Club, odorose di cuoio e boiserie, i soci presenti pendono dalle labbra del leggendario viaggiatore Sir Malcolm Barry. L’uomo racconta delle maledizioni inviate al cielo dal pastore che quarant’anni prima, sull’altipiano di Qumran presso il Mar Morto, scoprì in una grotta non l’oro sperato, bensì gli antichi manoscritti degli esseni. Uno di quei rotoli scottava troppo, per lasciarlo alle cure dei paleologi. Per meglio delibarne il contenuto, trasferiamoci nella parte più recondita della sala da biliardo del club, detta l’Antro delle Disgrazie. Il contenuto, mai diffuso, del rotolo in questione è alquanto imbarazzante: pare che Dio, quando all’inizio dei tempi prendeva le sue decisioni, non lo facesse con sufficiente lungimiranza.
Per esempio, sapete perché si estinsero i dinosauri?
È stata una piacevole sorpresa sfogliare Immagina. Le storie della family (Bompiani, pagg. 113, euro 9,90) di Francesco Sarcina, il cantante di Le Vibrazioni, e rimanere ammaliati dal suo candore surreale. Storie brevissime, appunti per canzoni, tracce contenenti tutte uno scarto curioso, un oplà improvviso su un fondo di gradevolissima semplicità che sembra provenire da Rodari o da Calvino. Soffici enigmi senza angoli fastidiosi, drammi minimali che non stanno in piedi e dunque fanno le capriole, giocosi e rasserenanti. Sarebbe bastato gigioneggiare un po’ di meno, per esempio limitando le battute in romanesco e i passaggi villani, perché Immagina diventasse un piccolo caso letterario.
Ad un diverso genere di fiabesco appartiene invece L’ospite e l’Arlecchina (Ibiskos, pagg. 185, euro 15) di Annio Gioacchino Stasi. L’opera è il precipitato di un progetto ambizioso che vede l’interazione di scrittura, immagini (della pittrice Mery Tortolini) e ricordi neonatali. Il risultato, più che il «romanzo» dichiarato in copertina, è una serie di suggestivi quadri verbali, di monologhi in sé compiuti utilissimi per sfuggire alla prosaicità della vita quotidiana ed entrare en artiste in un mondo di simboli forse junghiani, forse new age. È, questo, libro da non leggere tutto d’un fiato, ma da centellinare: magari la sera al ritorno dalla spiaggia, come una preghiera o una formula magica per zittire il ronzio che affligge le nostre città; sì, purtroppo anche le balneari.

PIETRO INGRAO

Il Messaggero 6 Luglio 2005
VOCAZIONE A SINISTRA
Politica alla ricerca della passione perduta
In un dialogo epistolare con Goffredo Bettini, Pietro Ingrao rivela: «Sono un tattico»
di MARIO AJELLO

ROMA La pseudo-modernità della politica senz’anima. Il vuoto teatrino del nulla di Palazzo. L’opposto di tutto questo si chiama Pietro Ingrao. Novant’anni. Un poeta. Un leader. Un comunista del cuore, il quale ha sempre vissuto la politica - così scrive Goffredo Bettini, deputato Ds e storico dirigente della sinistra romana - in un intreccio di «incanto» e «disincanto».
Un libriccino affettuoso, intitolato «Una lettera di Pietro Ingrao», è appena apparso per le edizioni Cadmo. Contiene l’articolo che nel 1992, su «Paese Sera», Bettini scrisse a proposito dell’antico dirigente comunista e presidente della Camera, quando egli decise di non candidarsi più alle elezioni. In più ci sono la missiva che subito dopo Ingrao scrisse a Bettini e alcune pagine che quest’ultimo ha dedicato di recente a Ingrao, in occasione dei suoi 90 anni.
Praticamente, un dialogo sentimentale. Fra due politici che appartengono a generazioni diverse, ma vivono da decenni nello stesso mood. «Io sono scisso - scrive Ingrao al suo compagno più giovane - e sapessi quante volte quell’intervenire nella politica, persino sotto l’aspetto tattico, mi appare di una lontananza astrale dai miei stati d’animo più profondi». E sulla politica politicante: «Quante volte, stando ”dentro le mura”, so che vengo e sto ”fuori le mura”: sento una estraneità, persino una strana indifferenza in certi momenti. Mi chiedo: che ho a che spartire?». Ed è appunto questa percezione lucida di un limite ciò che di Ingrao ha affascinato intere generazioni di militanti politici e di persone di sinistra. E Bettini più che altri. Scrive: «C’è un nucleo sempre presente delle idee di Ingrao. La politica non riesce a rappresentare spazi dell’animo umano, che pure chiedono continuamente di essere riconosciuti». Un leader così è un leader che, del ’900, ama immensamente Kafka e Charlot, «Il processo» e «Tempi moderni»: due rappresentazioni della mutilazione spirituale dell’individuo.
E tuttavia, non c’è eticismo nè retorica nell’approccio di Ingrao alla vita e alla politica. Lo racconta lui stesso, al giovane compagno nella lettera del ’92: «Ogni tanto mi accorgo che (assai diversamente da quello che qualcuno dice di me) a me interessa nella politica anche l’aspetto ”tattico”. Mi capisci: non nel senso di furbesco...». Ancora: «Io ho sempre molte esitazioni ad adoperare il termine ”morale”. Il ”dover essere” mi sembra che contenga una astrazione; e io credo molto in una corporeità della vita; credo nelle passioni vitali che ci scuotono e ci inseguono». Dunque, Ingrao decodifica Ingrao. Anzi, lo rilegge e lo smonta. Senza autoindulgenza. «In certo senso, la politica non è un agire per gli altri. E’ un agire per me». Nel senso che «io sento penosamente la sofferenza altrui: dei più deboli o dei più offesi. Ma la sento perchè pesa a me: per così dire, mi dà fastidio, mi fa star male».
Bettini lesse queste righe e ora risponde parlando di sè: «Non sono stati i libri di Marx, di Gramsci o di Togliatti, o un’astratta scelta ideologica o di valori, a farmi diventare a quattordici anni un comunista. E’ stata, piuttosto, la materialità di un grumo di passioni, di emozioni, di esigenze psicologiche e di spinte che potrei definire psichiche, di paure e di speranze, di reazioni alla vita e alle sue sorprese». Ecco che cos’è l’ingraismo: un’approccio senza tempo alla politica, uno sguardo sul mondo che non teme di apparire umano.

storia dell'uomo
la scrittura, i numeri, le valenze

Repubblica 7.7.05
LA SCOPERTA DELL'ALFABETO E DEI NUMERI
L'universo atomico del poeta Lucrezio
Le remote radici di matematica e letteratura

PIERGIORGIO ODIFREDDI

In principio era la letteratura, e la letteratura era vicina alla scienza, e la scienza era letteratura. Più precisamente, in principio c'erano in Occidente il De Rerum Natura di Lucrezio, e in Oriente l'I Ching taoista-confuciano.
Ed entrambi i classici narravano letterariamente un'unica visione del mondo: quella che permette oggi a un chimico, a un matematico e a un logico di salire sullo stesso palco in una sera d´estate, per mostrare la sostanziale unità dell'approccio scientifico attraverso l'apparente diversità delle proprie discipline.
La «natura delle cose», annunciata da Lucrezio fin dal titolo del suo singolare poema scientifico, era l'atomismo di Democrito: il fatto, cioè, che l'intero universo degli esseri creati è formato da semi di materia eterna e solida, chiamati atomi, o indivisibili. Questi atomi costituiscono un limite al possibile disgregarsi delle cose, e la loro esistenza è assicurata dalla constatazione che, altrimenti, ogni cosa sarebbe formata di un numero infinito di parti, e costituirebbe un intero universo a se stante.
Come scrittore, Lucrezio trovava nel suo lavoro un esempio archetipico di atomismo: la scrittura, i cui atomi sono le lettere che si aggregano a formare, via via, parole, frasi, paragrafi, capitoli e opere. E notava che, come le lettere dell'alfabeto sono limitate in numero, ma le loro combinazioni sono infinite, cosí è per gli atomi e le cose: perché poche lettere sono comuni a molte parole, ma le parole suonano e significano diversamente a causa della diversa disposizione delle stesse lettere. Un'immagine, questa, che manterrà inalterato il suo fascino poetico nei secoli: dai «vari accozzamenti di venti caratteruzzi» dei Dialoghi di Galileo, alla «scrittura come metafora della sostanza pulviscolare del mondo» delle Lezioni italiane di Calvino.
In filosofia, il legame fra lettere e parole era già stato un'ispirazione per la teoria delle idee di Platone, che nel Teeteto aveva dichiarato: «la parola non coincide con le lettere, ma è piuttosto un'unità composta che costituisce un'unica idea, diversa da quella delle lettere». Furono però gli stoici a estendere la metafora atomica dal vocabolario all'intero linguaggio, riducendo le frasi alle loro costituenti logiche elementari: da una parte le proposizioni semplici o atomiche, non ulteriormente analizzabili, e dall'altra quelle composte o molecolari, ottenute combinando fra loro le precedenti mediante particelle chiamate «connettivi», che costituiscono l'analogo logico delle valenze chimiche.
L'analogia divenne programmatica nel 1918, quando Bertrand Russell pubblicò La filosofia dell'atomismo logico : un testo in cui l'analisi logica delle proposizioni venne appunto esplicitamente paragonata all'analisi chimica degli elementi. E come Lucrezio aveva cantato la seconda analisi nel De Rerum Natura, Ludwig Wittgenstein cantò la prima nel Tractatus logico-philosophicus, un'opera con maggiore efficacia artistica che scientifica, come notò Gottlob Frege, nella quale l'atomismo logico è descritto in una serie di variazioni sul verso: «la proposizione è una funzione di verità delle proposizioni elementari».
Quanto alla chimica, se l'immagine preventiva offertane da Lucrezio era puramente qualitativa e generica, il «libro delle mutazioni» cinese ne prefigurava invece già una versione quantitativa e specifica: non a caso, visto che la sua ispirazione era l'impresa alchemica taoista, che aveva come scopo la trasmutazione degli elementi. Il libro si basava su 64 esagrammi, ottenuti combinando in tutti i modi possibili sei righe intere o spezzate, che indicavano simbolicamente gli opposti. E, come suggerivano sia la complementarità di yin e yang, sia lo stesso titolo del libro, l'idea dominante dell'I Ching era che le linee intere possono spezzarsi, e quelle spezzate integrarsi: in tal modo gli esagrammi si mutano l'uno nell'altro, con un processo che rappresenta la corrispondente trasmutazione degli elementi chimici ad essi associati.
Gli elementi dell'I Ching erano 64: praticamente lo stesso numero, cioè 63, degli elementi della tavola periodica che Dimitri Mendeleev letteralmente sognò una notte del 1869, dopo aver giocato un solitario prima di addormentarsi. Da tempo il chimico russo stava cercando di trovare un ordine logico di sistemazione delle schede sulle quali aveva scritto i nomi e le caratteristiche dei 63 elementi allora conosciuti (oggi saliti a 109), e nel sogno le schede si mossero e si disposero miracolosamente da sole in una tabella di sette righe e diciotto colonne, a formare quella che divenne una delle icone della chimica moderna.
La tavola che porta il suo nome, e che si trova in ogni libro di testo, in realtà è un po' diversa da quella originale di Mendeleev (e di Lothar Meyer, che ne scoprí una praticamente identica nel 1870), che ordinava gli elementi in base al peso atomico (cioè al numero dei protoni e dei neutroni del nucleo).
Oggi gli elementi sono ordinati in base al numero atomico (cioè al numero dei soli protoni o, se si preferisce, degli elettroni), secondo la tabella scoperta nel 1912 dal ventiseienne Henry Moseley, che morí in guerra tre anni dopo. Come spiegò nel 1919 Irving Langmuir, poi premio Nobel per la chimica nel 1932, le righe corrispondono ai vari livelli energetici dell'atomo, e le colonne al numero di elettroni nel livello più esterno: in tal modo la tavola costituisce, allo stesso tempo, il punto d'arrivo della fisica atomica e il punto di partenza della chimica molecolare, realizzando in maniera scientifica gli arditi sogni letterari dell'I Ching .
Nel testo cinese gli esagrammi comparivano a coppie complementari o simmetriche, ma l'ordine delle coppie era apparentemente casuale. A partire dal secolo XI essi furono invece ordinati in maniera numerica, pensandoli come rappresentazioni binarie di numeri composti dalle sole cifre 0 e 1: gli esagrammi costituiscono dunque la base dell'aritmetica binaria, (ri)-scoperta in Occidente da Leibniz soltanto nel 1679. Ironicamente, dopo aver condito la sua scoperta con salsa metafisica, in un saggio modestamente intitolato Dimostrazione matematica della creazione e dell'ordinamento del mondo, il filosofo tedesco la inviò al padre Joachim Bouvet, un gesuita divenuto tutore dei figli dell'Imperatore Celeste, credendo di fornirgli uno strumento utile per la conversione dei cinesi, e venne invece a sapere dal missionario che essi la conoscevano benissimo da secoli.
La versione aritmetica dell'I Ching lascia presagire una possibile analogia fra chimica e matematica, che puntualmente affiora non appena la si cerchi. Anzitutto, al livello superficiale già suggerito dallo 0 e dall'1: il fatto, cioè, che i numeri sono tutti esprimibili mediante un piccolo numero di cifre (due nel sistema binario, dieci in quello decimale), che costituiscono l'analogo matematico dell'alfabeto letterario. Ma anche, a un livello più profondo, nel fatto che i numeri siano tutti decomponibili in fattori primi per l'argomento di Lucrezio: altrimenti, la loro decomposizione in fattori sempre più piccoli continuerebbe assurdamente all'infinito.
I numeri primi sono dunque l'analogo degli atomi di Lucrezio e di Mendeleev, ma il mondo matematico è molto più complicato di quello fisico: i suoi atomi sono infatti in numero infinito, come già notò Euclide nei suoi monumentali Elementi (IX.20). Il che significa che una loro classificazione non potrà essere una semplice tabella come nella chimica: «potrà», al futuro, perchè al presente nessuna tabella completa è ancora stata compilata. Si sono sí identificate alcune tipologie, che prendono il nome dai loro scopritori (Fermat, Mersenne, Fibonacci) o dalle loro proprietà (i primi gemelli), cosí come alcuni criteri di riconoscimento e alcune regolarità di distribuzione, ma rimangono irrisolte proprietà anche semplici da enunciare, come la congettura di Goldbach: «tutti i numeri pari maggiori di 2 sono la somma di due numeri primi».
In mancanza di dimostrazioni, bisognerà per ora accontentarsi di romanzi quali Zio Petros e La congettura di Golbach di Apostolos Doxiadis (Bompiani, 2000) o Le ostinazioni di un matematico, ovvero come morire tre volte per la congettura di Goldbach di Didier Nordon (Sironi, 2005): dunque, non solo in principio, ma anche alla fine è la letteratura, e la letteratura è vicino alla matematica, e la matematica è letteratura.

Cina
perché non dar loro una mano?

Reuters giovedì luglio 7, 2005 3.31
Cinesi inesperti di sesso, dichiara esperto sessuologo

PECHINO (Reuters) - I cinesi sono più ignoranti sul sesso che su qualsiasi altro argomento, ha dichiarato un esperto sessuologo secondo l'agenzia ufficiale di notizie Xinhua.
"Nel sondaggio che abbiamo condotto, non solo i giovani ma anche gli adulti sono completamente ignoranti a questo proposito, il quale é una cosa non solo pericolosa ma penosa," ha dichiarato Xu Tianming, presidente dell'Associazione di Sessuologi cinese, secondo quanto riferito da Xinhua.
"I cinesi sanno meno sul sesso che su qualsiasi altra cosa, incluse le persone istruite ed esperti di altri campi," avrebbe aggiunto il sessuologo.
Lo stesso Xu ha una conoscenza singolare dell'argomento, visto che dice che la gente può avere una vita sessuale normale solo fino all'età di 25 anni. Ha aggiunto che bisognerebbe permettere agli adolescenti di socializzare più liberamente con i membri del sesso opposto.
"I genitori e la società dovrebbero permettergli di avere un rapporto normale con il sesso opposto. Questo include il permesso di ballare e di leggere libri con descrizioni esplicite del essso", ha precisato Xu.
Le attitudini del paese nei confronti del sesso si sono addolcite a partire dagli anni 70, da quando la Cina ha intrapreso delle riforme di mercato, causando un aumento enorme nei tassi d'adulterio e di divorzi.

© Reuters 2005. Tutti i diritti assegna a Reuters.

sinistra
tutti divisi verso le primarie

aprileonline.info 7.7.05
L'Unione studia le regole delle primarie. E scopre che non sa da che parte cominciare
Centrosinistra. Lunedì prossimo, summit con Prodi. Dopo tanto agitare il modello americano, si finirà per dare via libera solo a una "consultazione popolare" all'italiana?
Aldo Garzia

Lunedì prossimo c'è un nuovo summit dell'Unione dedicato alle primarie. Arturo Parisi, prodiano di ferro, leader della minoranza della Margherita, politologo, avrà il compito di esporre un decalogo di regole per l'appuntamento che finora resta fissato per l'8 e il 9 ottobre.
Non ci sono indiscrezioni attendibili sulle norme che verranno discusse dai leader del centrosinistra. Si può prevedere, però, che l'esito della riunione dell'11 luglio non sarà scontato. Nonostante la decisione di effettuare le primarie sia stata solennemente presa, ora si cerca di smorzarne il probabile effetto sulla coalizione. Per esempio, c'è una parte della Margherita (quella che fa capo a Rutelli) che ne farebbe volentieri a meno: non fosse altro perché un conto è discutere con Prodi senza numeri, un altro è discutere con un leader legittimato dalle primarie. Un Professore forte, mettiamo il caso, dell'80 per cento dei consensi sarebbe in grado di bacchettare tutti i Rutelli che dovessero creargli ostacoli procedurali e politici. Le primarie, d'altronde, non piacciono neppure a Verdi e Pdci, costretti o a votare Bertinotti come candidato della sinistra dell'Unione o costretti a scegliere la candidatura di bandiera di Pecoraro Scanio.
Gli unici, forse, a volere davvero le primarie (oltre a Prodi) sono Fassino e Bertinotti. "Quando si discute, a me piace andare alla sostanza delle cose, e la sostanza è un meccanismo, che abbiamo chiamato primarie per dare a Prodi il massimo di investitura politica", ha dichiarato ieri il segretario dei Ds. Il leader di Rifondazione, invece, è indeciso se scegliere la strada dei "Comitati Bertinotti" come struttura con cui organizzare la campagna delle preferenze sul proprio nome. Verdi e Pdci sarebbero disponibili ad appoggiarlo solo a condizione che Bertinotti rinunci al veto sulla costruzione di una lista "Arcobaleno" di tutta la sinistra dell'Unione da presentare sulla quota proporzionale della legge elettorale, quando ci saranno le elezioni politiche del 2006. Rifondazione vede però quell'ipotesi come fumo negli occhi. Per questo, pensa di giocarsi la sua leadership a sinistra proprio con un buon risultato (20 per cento?) conquistato dal proprio segretario nelle primarie di ottobre.
Ieri c'è stato pure un siparietto di un quarto d'ora nel Transatlantico di Montecitorio tra Piero Fassino e il responsabile organizzazione della Margherita, Franco Marini. Quest'ultimo ha espresso a viva voce, affinché anche i giornalisti lo ascoltassero, le sue preoccupazioni sulle primarie. "Potrebbero provocare brutte sorprese, trasformandosi in un boomerang", ha detto al segretario della Quercia. Per questo Marini, dopo essere stato uno dei principali protagonisti dell'affossamento del Listone unitario, ora è convinto della necessità che i partiti della cosiddetta Fed (Ds, Margherita, Repubblicani europei e Sdi) facciano fronte comune. Il che, tradotto, vuol dire mettersi d'accordo per sostenere lealmente Prodi contro Bertinotti. A Fassino, vedovo dell'ipotesi della lista Uniti nell'Ulivo, forse propedeutica a un unico "partito riformista", non è parso vero poter dare il suo consenso all'invito a stringersi intorno alla candidatura di Prodi.
Fin qui le schermaglie e le curiosità. Il vero problema restano le regole delle primarie, proprio quelle di cui discuterà l'Unione nel vertice di lunedì prossimo. Dopo averle agitate per anni, il gruppo dirigente del centrosinistra ha sottovalutato le norme per attuarle: voteranno tutti gli elettori che volessero farlo? voteranno solo gli iscritti ai partiti del centrosinistra (ipotesi molto impopolare)? come impedire che qualcuno voti due o tre volte?
Negli Stati Uniti, dove le primarie sono una cosa seria, le anagrafe degli iscritti al Partito democratico e al Partito repubblicano sono aggiornate in modo ferreo. Lì, inoltre, le primarie sono possibili perché c'è un sistema politico bipolare fondato su due grandi partiti e non su due coalizioni come in Italia. Aver sottovalutato tutto ciò, facendo prevalere la propaganda sulla sostanza, può fare delle primarie italiane solo una parodia di quelle statunitensi. Con il rischio per l'Unione di dare il via a un meccanismo che può rivelarsi incontrollabile: se ognuno di noi elettori avrà solo quest'arma per far sentire la propria voce, perché allora non fare le primarie anche sulla scelta dei candidati nei singoli collegi?
Con tutto il rispetto che si deve al professor Parisi, sono in molti a dubitare che il suo decalogo darà una risposta a tutte queste domande. Alla fine, forse, le primarie si terranno davvero. Ma chissà che più sommessamente non si chiamino "consultazione popolare", trovando un'ulteriore mediazione anche sulle norme studiate da Parisi per la riunione di lunedì prossimo.

Usa
maschio o femmina? puoi saperlo già alla quinta settimana

Corriere della Sera 7.7.05
Sarà maschio o femmina? Ecco il test superveloce
Computer e Dna, il responso alla quinta settimana di gravidanza. Polemiche negli Usa: favorirà l’aborto
Margherita De Bac

Maschio o femmina? La domanda sorge spontanea nella maggior parte delle donne quando scoprono di essere in dolce attesa. La risposta arriva dopo tre mesi di gravidanza, grazie alle metodiche di diagnosi prenatale comunemente disponibili. Esame dei villi coriali, del liquido amniotico (amniocentesi), ecografia. Negli Stati Uniti però la smania di sapere di che colore sarà il fiocco da appendere fuori dalla porta sospinge migliaia di future mamme verso un test che promette la verità già alla quinta settimana. Si ordina su internet, costo 275 dollari. Basta inviare un campione di sangue prelevato con un semplice buchino sull’indice. Nel giro di 24-48 ore vi verrà svelato se preparare corredini rosa o celeste.
La nuova offerta commerciale si chiama «Baby early gender mentor» e sta suscitando scalpore in Usa tanto che la polemica ha riempito pagine di grandi testate giornalistiche. C’è la preoccupazione che alcune donne utilizzino l’informazione sul sesso per decidere se abortire o no, a seconda del gradimento. Soluzione che ricorda su scala diversa riprovevoli usanze cinesi. «Il timore è più che fondato. L’interruzione di gravidanza potrebbe essere determinata da questioni che non dipendono da problemi genetici del nascituro», ritiene più che concreta l’ipotesi Michael Grodin, università di Boston, esperto di bioetica.
Il test non è una novità sul piano tecnico. Finora però era rimasto chiuso nei laboratori e adoperato per scopi di ricerca. Adesso è stato lanciato sul commercio, con un successo al di sopra di ogni aspettativa. L’azienda che lo vende on line afferma di aver distribuito in sole tre settimane circa 1000 kit per la raccolta e l’invio del campione. Il sesso del bebè viene indagato analizzando il Dna delle cellule fetali presenti nel sangue della madre. Viene garantita una risposta con ampio margine di certezza: il 99,9%. Se in un momento successivo si scopre che il sesso è diverso da quello annunciato, si ha diritto a un risarcimento del 200%.
«La percentuale mi sembra eccessiva e comunque l’iniziativa è censurabile; nessun test genetico dovrebbe essere effettuato senza un’adeguata informazione al cliente»: è negativo su tutta la linea il genetista Bruno Dallapiccola, uno dei protagonisti della campagna referendaria per l’astensionismo.
«E’ raro che le pazienti siano talmente ansiose di scoprire se sarà maschio o femmina da chiedere se esistono metodiche di diagnosi prenatale ancora più precoci di quelle tradizionali - si riferisce all’esperienza personale la ginecologa Mirella Parachini, San Filippo Neri di Roma -. In 25 anni sarà capitato un paio di volte che la donna mi abbia domandato se si poteva interrompere la gravidanza dopo aver conosciuto il sesso del bambino. Sono fermamente contraria, ma riflettiamo. La domanda è determinata dall’offerta. Prima la donna desiderava solo che il piccolo fosse sano. Oggi l’amniocentesi viene pretesa anche da chi non presenta fattori di rischio familiare o legato all’età».

storia
il razzismo di Mussolini

Corriere della Sera 7.7.05
Sarfatti: «Aperta una nuova strada di ricerca». Sabbatucci: «Sbagliato applicare la nostra sensibilità ai pregiudizi degli inizi del ’900»
Mussolini antisemita, un peccato di gioventù
di DINO MESSINA

«Nel 1981 De Felice ha scritto che Mussolini fino agli anni Trenta "non era stato mai razzista e nemmeno antisemita". E ci si permetta di sottolineare quel "mai". A De Felice si è poi allineato uno studioso di grande peso, George Mosse, che su varie questioni ha visto giustissimo ma, sembrerebbe, non su questa, o non del tutto». Giorgio Fabre, storico e giornalista di Panorama , noto per la capacità di trovare materiale inedito negli archivi (si veda il suo libro più recente, Il contratto, sul ruolo avuto da Mussolini nella pubblicazione del Mein Kampf in Italia) pubblica la sua opera più ambiziosa. E questa citazione ne è la dimostrazione. Il libro, Mussolini razzista (Garzanti, pagine 508, 25) fin dal sottotitolo, «Dal socialismo al fascismo: la formazione di un antisemita», annuncia di voler ribaltare la tesi del massimo biografo del Duce. Un compito da far tremare i polsi. Oggetto della ricerca è il periodo precedente la promulgazione delle leggi razziali, nella seconda metà del 1938. L’autore sostiene la sua tesi, che cioè l’antisemitismo di Mussolini non solo è precedente agli anni Trenta, ma addirittura risale alla fase socialista, con radici riscontrabili nel periodo della formazione, utilizzando materiale d’archivio, anche inedito, ma soprattutto attraverso una lettura mirata degli scritti mussoliniani.
I primi segni, secondo Fabre, si possono trovare nel breve saggio scritto nel 1908, a 25 anni, a commento di una conferenza tenuta da Claudio Treves a Forlì sulla «filosofia della forza». Ribaltando l’interpretazione fatta dallo studioso e politico socialista di alcuni passi di Nietzsche, il giovane Benito arrivava a scrivere frasi come questa: «I deboli trionfano sui forti e i pallidi giudei sfasciano Roma. Ciò che era buono diventa cattivo». Sicuramente, avverte Fabre, in questo, come in altri scritti del periodo di formazione, Mussolini ancora non ha un’opinione netta su molte questioni, a cominciare da quella razziale, ma certe posizioni risultano facili a un uomo che, come scrisse De Felice, aveva «un fondo di antisemitismo tradizionale». A sostegno di questo antisemitismo «di strada», l’autore ricorda il clima che il futuro capo del fascismo aveva respirato in casa. Il padre di Benito, Alessandro, era stato molto influenzato dagli scritti dell’anarchico Bakunin, che detestava Marx in quanto «tedesco, comunista, ebreo».
Il lungo saggio di Fabre non è soltanto dedicato all’antisemitismo, ma è questo l’aspetto del razzismo di Mussolini che viene maggiormente analizzato. Fabre non omette nessun particolare, anche gli episodi più controversi: i rapporti con Margherita Sarfatti, la scrittrice ebrea che tanta influenza ebbe sul capo del fascismo anche per quanto riguarda il razzismo antinero; i finanziamenti al Popolo d’Italia da parte della Banca commerciale italiana guidata dall’ebreo Giuseppe Toeplitz; la partecipazione di numerosi ebrei al fascismo.
Nulla secondo l’autore interrompe tuttavia la formazione di un pensiero antisemita che coesisterà con il credo socialista e che si farà via via più esplicito. Quando per esempio, nel marzo 1915, ormai lontano dal giovanile timore reverenziale, da direttore del Popolo d’Italia Mussolini attacca il vecchio Claudio Treves: «palancagreca», «ruba il linguaggio agli straccioni del ghetto»; oppure si scaglia contro «un Modigliani che è grande soltanto nell’onore del mento e della fronte». Con il passare degli anni gli insulti antiebraici diventano sempre più pesanti. Quando nel dicembre 1917 scrive un articolo sul nuovo commissario bolscevico della guerra Krylenko, Mussolini chiosa: «Si chiama Abram. Altro impasto di lettere che puzza di tedesco e di sinagoga».
Per Fabre, che si tratti di politica internazionale o di politica interna, l’antisemitismo è una costante del pensiero mussoliniano. Un pensiero che si manifesta in atti concreti già nel 1929. All’inizio del libro viene raccontato un episodio inedito che secondo l’autore lascia intravedere le vere future intenzioni di Mussolini. Questi «il 12 febbraio 1929 scrisse al governatore della Banca d’Italia Bonaldo Stringher: "Esigo l’immediato esonero del direttore della filiale di Genova della Banca d’Italia"». Il funzionario in questione, Ugo Del Vecchio, non era soltanto accusato di «disfattismo e antifascismo», ma era sotto inchiesta in quanto ebreo. Il 1° marzo il capo del governo telegrafò personalmente al prefetto di Genova: «Mi accerti se sia vero che ultimo figlio direttore locale Banca d’Italia commendatore Del Vecchio sia stato battezzato et in quale chiesa cattolica». Siamo sicuri che si tratti soltanto di un episodio minore? E davvero appartiene solo alla storia privata il mancato matrimonio tra Edda Mussolini e il giovane ebreo Dino Mondolfi? Edda raccontò che donna Rachele aveva cercato di far mangiare al giovane pretendente del prosciutto, e che il padre le aveva detto «inferocito»: «Gli ebrei sono i miei peggiori nemici».
Il saggio di Giorgio Fabre è uno di quei libri che fanno discutere. Dice Michele Sarfatti, direttore a Milano del Centro di documentazione ebraica: «Il libro di Fabre apre una strada di ricerca che va ben al di là del fascismo. Intanto si parla di un razzismo italiano. Una questione che non è mai stata affrontata volentieri. Ma il vero aspetto nuovo è che Fabre ripropone nella biografia di Mussolini un itinerario con varie fasi alla luce della costante razzista. Un lavoro che nemmeno De Felice ha fatto».
A differenza di Michele Sarfatti, lo storico Giovanni Sabbatucci, pur non avendo ancora affrontato in profondità il saggio di Fabre, non è affatto d’accordo sulla tesi di fondo: «Non è vero innanzitutto che De Felice non ha letto le opere di Mussolini alla luce dell’antisemitismo. De Felice di Mussolini conosceva tutto, è semplicemente arrivato a conclusioni diverse». Sul tema dell’antisemitismo d’inizio secolo Sabbatucci ha un’idea precisa: «E’ sbagliato applicare a quei tempi il nostro metro di giudizio. Come ha dimostrato anche una recente discussione su De Gasperi, agli inizi del secolo scorso i sentimenti antiebraici erano molto diffusi. Espressioni antigiudaiche si trovano in personaggi insospettabili come Gaetano Salvemini che usò frasi oggi impronunciabili».