martedì 3 maggio 2005

fecondazione assistita

una segnalazione di Annalina Ferrante

Corriere della Sera 30 aprile 2005
La procreazione assistita
D'Alema e la fecondazione eterologa: ho dubbi
«Servono limiti: un padre anonimo lede i diritti del bimbo». E attacca la Chiesa: crudele verso il corpo delle donne
Marco Imarisio

TRENTO - « Vi annoierete, perché siamo d'accordo su quasi tutto » . Non incoraggiante, la premessa di Adriano Sofri. Ma onesta, perché è davvero così. S'erano tanto detestati, lui e Massimo D'Alema, ma era qualche vita fa. Adesso la pensano allo stesso modo sulla fecondazione assistita, che almeno nel prossimo mese sarà centrale nel dibattito politico. Una sola differenza tra i due, non piccola: il presidente dei Ds ha « un dubbio » sulla fecondazione eterologa. D'Alema sceglie il dibattito organizzato dalla Sinistra giovanile e un piccolo teatro di Trento per parlare di laicità dello Stato e bioetica, con Sofri immanente sul maxi schermo, in permesso e in collegamento da Firenze.
Voteranno entrambi quattro sì per abrogare la legge che regola la fecondazione assistita. « Non in nome del relativismo etico — dice l'ex premier — ma per i valori della libertà. Questa legge contiene un elemento di irragionevolezza che si spiega più con la stupidità che con i principi della fede » . Ma sulla fecondazione eterologa ( il seme fornito da donatore ignoto) il presidente ds « scarta » rispetto alla posizione prevalente a sinistra: « Ho forti dubbi. La vorrei più severa. Non sarei contrario a usarla solo nei casi in cui esiste il rischio di malformazione del feto. Secondo me l'anonimato del padre lede i diritti del bimbo che nasce. È un tema reale » . Dice D'Alema parlando di questo suo dilemma: « Dimostra anche che non propugno una visione radical libertaria, e neppure commerciale. Semplicemente, ritengo giusto combattere una legge che ha aspetti aber ranti. Ma sarei ugualmente contrario a un testo che non prevede limitazioni su questa materia » . Sofri sottolinea in modo garbato il suo disaccordo con i dubbi di D'Alema sulla fecondazione eterologa: « Su questo tema dobbiamo essere cauti, ma purtroppo ci sono tanti bimbi che hanno problemi anche in famiglie " normali" » . E aggiunge, con D'Alema che annuisce: « È irragionevole che si preferisca far morire degli embrioni in frigo piuttosto che usarli per la ricerca » .
D'Alema manifesta palese insofferenza per gli inviti all'astensione. Soprattutto quando arrivano dagli ambienti della Chiesa. « Un vescovo ha pieno diritto a intervenire motivando eticamente il suo " no". Ma il vescovo che suggerisce l'astensione pratica una astuzia regolamentare. Fa politica, e non nel senso più alto del termine. Spera di sommare una astensione " religiosa" a quella fisiologica di chi se ne andrà al mare per impedire il raggiungimento del quorum. Non mi sembra un ragionamento di ampio respiro». La Chiesa e il suo ruolo, dunque. Va detto, D'Alema non si tira indietro. Ribadisce: « La libertà femminile rappresenta un'enorme sfida al clero cattolico » . Attacca: « In materia di fecondazione, il tema della libertà e della salute della donna per la Chiesa è secondario rispetto ai diritti dell'embrione ». Arriva a parlare di «crudeltà» della Chiesa verso il corpo femminile, « visto solo come luogo regolato della riproduzione » . Il suo auspicio: « La Chiesa dovrebbe mostrare un volto meno in transigente. E comunque, questa sua durezza dogmatica non dovrebbe diventare una legge dello Stato ».
Esattamente quel che è accaduto — dice il leader ds — con la legge 40 sulla fecondazione assistita: « Non ci si è sforzati di trovare un compromesso tra il punto di vista cattolico e la laicità dello Stato » . La sorpresa finale arriva qui, nel ragionamento sull'individuazione delle cause di questo mancato compromesso. Perché D'Alema arriva addirittura a rimpiangere la Democrazia cristiana, e non è un paradosso. « Pur con i suoi difetti, esercitava di fatto una mediazione laica tra Stato e Chiesa » . Soprattutto, nel suo essere collettore e serbatoio di voti cattolici. Adesso, i rapporti dei partiti con la Chiesa e con l'elettorato cattolico sono segnati dal rischio « di una inspiegabile concorrenza elettorale che fa venir meno la responsabilità laica di fronte allo Stato » . Saluti affettuosi con Sofri, applausi dal pubblico. Erano d'accordo su quasi tutto, mancava un avversario (è stato più volte evocato Giuliano Ferrara). Ma non è stato così noioso, anzi.

da altri mondi in viaggio
donne che raccontano

A proposito di alcune autrici che presenteranno i loro libri alla fiera del libro di Torino. Vengono dall'Iran, dall'Afgahanistan, dall'India e dai Caraibi, transitando per vari paesi.

Da Avvenimenti, n.17, 30 aprile - 6 maggio
EDITORIA
Alla Fiera del Libro di Torino, dal 5 al 9 maggio, un pieno di ospiti internazionali discutono di letteratura: alta e sempre più meticcia
Nella casbah delle lingue
Il canone occidentale scricchiola.
Sulla scena internazionale una carica di nuove autrici: le voci più interessanti vengono dall’Asia, dal Medioriente, dall’Africa e dai Caraibi

di Simona Maggiorelli

Un luogo quasi magico, fatato. Carico di frutti. Uccelli multicolori sugli alberi. E fontane da cui sgorgano gocce di diamante. Montagne svettanti, cariche di neve e nel mezzo dell’altopiano assolato, la città di Kabul, cosparsa di ville e minareti. Così raccontava il paese in cui la famiglia aveva vissuto da oltre 900 anni il padre della scrittrice e giornalista Saira Shah. “Da bambina mi faceva narrazioni straordinarie di quella terra, per me, lontanissima”, ricorda la giovane autrice e giornalista, nata in Inghilterra e solo di recente, dopo la guerra, tornata a ritroso sulle strade dell’emigrazione della sua famiglia. Il suo L’albero delle storie (Rizzoli, pp 309, 16,50 euro), che presenterà alla Fiera del libro di Torino il 7 maggio, è uno straordinario racconto di viaggio, evocativo, pieno di poesia e, insieme, di forte denuncia. “Questa volta non mi interessava fare la cronaca dei fatti, non volevo fare un intervento giornalistico - dice Saira, autrice nel 2000 del documentario scandalo Sotto il velo -, ma trasmettere al lettore un po’ di quel fascino che emana da quella terra antichissima, dalla sua millenaria cultura, dalla visione del mondo e dai valori di quell’Islam moderato in cui sono stata allevata”. Valori, dice, come la tolleranza, lo spirito di indipendenza, il coraggio, la dignità. “L’islam che mio padre mi ha trasmesso è quello di un maestro afgano come Baghawi di Herat - dice ad Avvenimenti -. Sosteneva che un’ora di riflessione vale più di una notte di preghiera e che le donne sono la metà gemella degli uomini, con le stesse opportunità”. Un contrasto durissimo con ciò che accade oggi, con storie come quella, feroce, toccata qualche giorno fa a una giovane afgana, lapidata, come vuole la religione dei talebani, perché adultera. (Mentre il suo amante se la cavava con qualche frustata sulla pubblica piazza). Che dire allora dei talebani? E come sono riusciti a prendere il potere? “Certamente ancora oggi i talebani controllano larga parte del paese, ma non tutto - spiega Saira -. Non sono gruppi omogenei fra loro, ma hanno avuto mezzi economici per imporre la legge della violenza. E dal punto di vista religioso sono d’accordo con quei musulmani che denunciano l’analfabetismo dei talebani. Non conoscono veramente l’Islam. Solo alcuni sono persone colte, ma la gran parte di loro è di un’ignoranza abissale”. Ne L’albero delle storie racconta di loro, dei loro scempi, registrati viaggiando attraverso il paese devastato dalla guerra, percorso a bordo di un camion, con indosso il burka e con il cuore in gola per la paura; aiutata dalle attiviste della Revolutionary association of the women che, al suo fianco, rischiavano la vita come lei e più di lei: “prima la tortura e poi una pallottola in testa o più semplicemente la scomparsa nel nulla di Pul i Charki”. Saira non risparmia accuse, ai talebani, ma anche agli invasori stranieri. “Se gli Stati Uniti avessero davvero voluto - accenna - avrebbero potuto sgominare una volta per tutte i talebani. Ma non l’hanno fatto”. E, con amarezza, aggiunge: “Nella sua storia l’Afghanistan ha dovuto registrare due devastazioni. Due superpotenze, l’Urss prima e poi gli Usa, l’hanno invaso, devastato e poi se ne sono andate, lasciando il paese, come è oggi, in ginocchio, senza che l’opinione internazionale più se ne curi”.

La lingua dei sensi
Il suo primo libro, Caffè Babilonia (Pomegranate soup) è già stato tradotto in 8 lingue, ai capi opposti del mondo. «Una risposta davvero inaspettata», esclama Marsha, occhi luminosi e grandi, su un volto ancora da ragazzina che dimostra meno dei suoi 28 anni. «Tutto è successo così all’improvviso - dice la scrittrice iraniana che sarà alla Fiera del libro il 5 maggio (alle 19,30 nell’Arena Piemonte) per presentare il libro edito da Neri Pozza -, una vera sorpresa, del tutto inaspettata».
A conquistare è stata la freschezza con cui Marsha Merhan racconta di tre sorelle che, con prelibatezze persiane, creano scompiglio in un paese irlandese. «L’unico vero scopo che mi ero data - racconta - era dare un po’ di gioia ai lettori». E puro piacere sensuale, che mobilita tutti e cinque i sensi, si sprigiona dalle pagine di questo romanzo, in parte autobiografico: di vero c’è la fuga con la famiglia dalla rivoluzione kohmeinista, l’infanzia in Argentina dove i genitori di Marsha avevano aperto un caffè persiano, e poi l’Irlanda dove ora la scrittrice vive. «Una storia un po’ complicata la mia - accenna-, con molti approdi fra diverse culture. Quando lasciai l’Iran - racconta - avevo due anni. E la maggior parte dei mie ricordi si legano agli odori, ai sapori. Il profumo delle spezie e dell’acqua di rose, l’odore dei gelsomini, i cancelli scolpiti di casa dei miei nonni, piccole cose, delicate. A Teheran non ho dovuto subire persecuzioni o violenze, come è accaduto a molti della mia famiglia». Nei primi anni 80 era cominciata la rigida imposizione del velo, e le vessazioni della polizia su chi dissentiva dai principi del neo stato teocratico. Ma in Iran oggi molte cose potrebbero cominciare a cambiare, sostiene Mehran: «Basta dire che il 70 per cento della popolazione ha meno di 30 anni. In Iran oggi moltissimi sono i ragazzi educati, colti, esigenti, inquieti, alla ricerca». Notizie che filtrano anche attraverso la rete, frequentatissima dai giovani iraniani. «Un paio di anni fa - racconta ad Avvenimenti- comunicavo via internet con una ragazza iraniana. Con immagini d’arte fotografava l’underground di Teheran e i locali di ritrovo, dove i giovani vanno per un caffè, per fumare e parlare. Discutono di filosofia, di politica, di arte, con lo stesso fervore con cui il loro coetanei occidentali parlano delle ultime tendenze di moda e di attori. Non servono a nulla, mi disse un giorno, scoraggiata: “le mie foto non cambiano nulla”. Il pensiero che il talento di giovani come lei possa andare sprecato mi pare tristissimo. Ma penso che un cambiamento pacifico possa avvenire, spero che accada nel tempo di una generazione» Tornare là però, per Marsha Mehran è più impossibile. Una solida e stratificata tessitura di differenti culture è il segno della sua scrittura. Esuberante, seducente, con ricette persiane a fare da stuzzicante incipit ad ogni capitolo. «Anche l’arte culinaria è un linguaggio - assicura la scrittrice -. Non c’è niente che curi e che unisca di più di un pasto preparato con cura». E poi parlando di “lingua madre”, uno dei fili rossi di questa fiera del libro, racconta: «scrivo in inglese, sogno in inglese ma la mia “anima” è persiana. E questo dualismo mi ha accompagnata da quando sono nata. A Buenos Aires - racconta - frequentavo la Scottish Accademy. Così fin da piccolissima ho imparato ad esprimermi in tre ritmi diversi: spagnolo nella strada, inglese a scuola e lingua farsi a casa. Ogni sera i miei genitori pretendevano che prima di andare a dormire dicessi: "Shab-e kher! Buenas Noches! Goodnight!" Non c’è possibilità per me di separare questi tre elementi, l’est, l’ovest, il persiano, l’inglese. La considero una gran fortuna». Una ricchezza multietnica e moderna contro cui cozzano gli opposti fondamentalismi: del terrorismo islamico e del governo Bush. «Sono tempi precari, quelli che viviamo - suggerisce Meheran -, ma anche stimolanti. Negli Usa ho abitato per anni in città multiculturali come Miami e New York. Non ho mai visto un tale miscuglio di colori, tanta bellezza nelle differenze, come a NY. Certo ci sono anche tensioni, problemi. Ma la città attrae proprio perché è aperta, inclusiva. C’è di che riflettere. Si può sviluppare un forte senso di identità e di tradizione, anche accogliendo una molteplicità di altre tradizioni forti. Ci vuole tempo, pazienza e rispetto. Ma, forse, anche coraggio».

La lingua della ribellione
«Scrivo in inglese. Ma ho sempre avuto un rapporto molto complesso con questa lingua. Continuo a lottare per farle dire ciò che io vorrei. Perché, come ogni altra lingua contiene i residui della sua storia. Ma, come ogni altra lingua, non può opporre resistenza alla forza dell’esperienza e del pensiero». Così, con dolorosa passione, racconta il suo corpo a corpo quotidiano con la lingua del potere la scrittrice, poetessa e saggista caraibica Dionne Brand a Torino (il 7 maggio, alle 18,30 nell’Arena Piemonte) per presentare il suo nuovo romanzo Il libro dei desideri (What we all long for) edito da Giunti. La sua storia, ma anche uno dei suoi romanzi più forti e intensi, Di luna piena e di luna calante (Giunti), hanno radici a Trinidad,dove Brand è nata nel 1953. Una storia quella del romanzo che ce l’ha fatta conoscere, scandita da mattini lussureggianti nel verde e nel rosso dei campi di cacao. Di un rosso che “sa di sangue marcio” come dice la protagonista Marie Ursele, arrivata come schiava dall’Africa. Un giorno, deciderà di giocarsi la vita per far arrivare, ai “sordi” latifondisti, la protesta sua e dei compagni. «La storia di Marie si basa su fatti realmente accaduti a Trinidad - racconta Brand - Una donna che si chiamava Thisbe nel 1802, progettò un suicidio di massa fra gli schiavi di una piantagione. Per questo impiccata, il suo corpo mutilato, fu arso, la testa portata in giro come trofeo. “Questo è un sorso d’acqua rispetto a ciò che ho dovuto sopportare”, disse mentre le mettevano il cappio al collo». Una storia che è anche un grande affresco della storia di Trinidad, raccontata attraverso 150 anni. Terra amatissima da Brand nonostante l’esilio volontario, da 35 anni a Toronto.«La mia eterogeneità, il mio senso di libertà - racconta - lo devo all’essere cresciuta a Trinidad fra culture diversissime». Esperienza poi continuata nella ancora più multicultare Toronto. E dal cuore della città canadese è nata l’ispirazione per questo nuovo Il libro dei desideri, storia di emigrazione e di un’interminabile fuga dagli anni 70 agli anni 90 di una famiglia vietnamita. «Un romanzo - racconta la stessa Brand - che parla delle vite che si incrociano nella metropoli, del caso che le fa ritrovare, di passione giovanile e oblio…». Una storia forte e romantica, ma che non fugge da uno sguardo critico sul presente. «È difficile per me avere speranze positive sugli scenari internazionali» accenna Brand passando ala politica, l’altra sua passione. «Viviamo in tempi segnati dall’imperialismo americano, da corporazioni capitalistiche che controllano la sfera pubblica. Mentre nuovi razzismi richiamano vecchi razzismi. Non so cosa potrà accadere - dice con preoccupazione -. Il gap che va crescendo fra paesi poveri e ricchi non è un fenomeno naturale, né si tratta di un frutto del capitalismo che possa essere corretto e controllato da organismi come l’IMF o la banca mondiale. È un gap è deliberato e atroce”. Ma subito aggiunge: “Detto questo, in questo momento mi trovo a scrivere un libro di poesia. Una contraddizione assoluta. Ma c’è una parte di me che pensa che scrivere sia importante. Una parte di me insopprimibile, malgrado l’evidenza dica esattamente il contrario».

La lingua del viaggio
La lingua madre? «Ognuno ha la sua, originale», racconta Anita Rau Badami (il 6 maggio, alle ore 12, nell’ Arena Piemonte), autrice del romanzo rivelazione Il passo dell’eroe (Marsilio). Epos familiare, ironico e avvincente, che curiosamente ha fatto, di lei nata 38 anni fa in India, una delle voci emergenti della letteratura nordamericana. «Il passo dell’eroe - racconta Badami - è un passo classico nella danza indiana, quello dell’eroe nell’ora dell’attacco da parte dei demoni». Ma a guardar bene, suggerisce, «anche un uomo qualunque, un padre di famiglia, ha il suo passo dell’eroe. È lo stile, assolutamente personale, con cui ognuno di noi affronta le prove, le sfide, i drammi che la vita ci mette davanti». Accade così nel corale affresco di una famiglia indiana che Badami racconta in questo suo affascinante romanzo, in cui si alternano sette voci diverse, sette diverse figure di donne e uomini nel raccontare la vita nelle piccole case disagiate, nelle strette viuzze di Madras sovraffollate, in cui l’attaccamento a antichi riti va di pari passo con l’ultimo modello di computer. «Una società contraddittoria, ma che ha un suo fascino potente - racconta Badami - ho dei parenti là, mi sono nutrita dei loro racconti». Nostalgia di una terra lontana come può esserlo l’India dal Canada? «Sono emigrata all’inizio degli anni 90 - racconta - per seguire mio marito che lavorava qua. Ciclicamente, però, penso di tornare nella mia terra, così piena di gente che parlano, che fanno festa, in cui sai tutto di tutti, ma quando sono là poi mi manca il silenzio dei quartieri canadesi, l’aria metropolitana che si respira qua». Una vita sempre a metà fra due o più mondi quella di Badami, sempre all’incrocio di differenti culture. «Almeno tre, di sicuro - esclama Anita -. Ho sempre avuto a riferimento tre diverse lingue madri, l’inglese che parlavano tutti in casa, l’hindi che avevo imparato a scuola e il kannada, la lingua con cui mia madre ci sgridava. Lo parlava anche mio padre, ma con un dialetto diverso. Insomma sarebbe un vero caos per me dire: questa è la mia lingua madre». Una storia cominciata quando era piccolissima e il lavoro del padre, ufficiale delle ferrovie indiane costringeva di tanto in tanto tutta la famiglia a trasferirsi in una nuova zona. «Avevo una valigia verde allora che ogni volta riempivo con i miei giocattoli e vestiti, elettrizzata dalla prospettiva di una casa nuova e di fare nuovi amici. Quando mio padre andò in pensioni e non ci furono più viaggi, per me fu un momento tristissimo. Da grande poi mi sono accorta che quella valigia verde era diventata un baule pieno di storie e di personaggi da raccontare».

bimbi belli, bimbi brutti...

Apcom 3.5.05
RICERCA RIVELA: I BAMBINI BELLI TRATTATI MEGLIO DEI "BRUTTI"
Un team canadese studia comportamento genitori nei supermercati

New York, 3 mag. (Apcom) - Un team di ricercatori universitari canadesi ha condotto uno studio sulla maniera in cui papà e mamme trattano i propri figli ed ha raggiunto un risultato inquietante: nelle famiglie, i bimbi belli verrebbero trattati meglio di quelli brutti. La ricerca è stata condotta dall'università dell'Alberta che ha analizzato la maniera in cui i genitori con figli si comportano durante le spedizioni al supermercato. Allo studio, che sarà presentato ad un convegno di psicologi a Edmonton, in Alberta, dedica un articolo il New York Times.
Sotto esame, a insaputa dei genitori, sono finiti una serie di comportamenti ricorrenti. Ad esempio le volte in cui i bambini venivano fatti accomodare sui seggiolini dei carrelli della spesa, le volte in cui venivano lasciati liberi di svolgere attività potenzialmente pericolose o di girare da soli, senza controllo. I ricercatori hanno inoltre catalogato la bellezza dei bambini utilizzano una scala da uno a dieci. E la realtà è saltata agli occhi: bambini belli e bambini brutti venivano trattati in maniera estremamente differente. Non solo: meno sono belli, secondo gli studiosi, e peggio vengono trattati.
I brutti anatroccoli vengono sistemati sull'apposito seggiolino nel 4% cento dei casi, i belli di mamma il 13,3% delle volte. I papà sono in generale più crudeli delle mamme: i "brutti" (se così si può dire di un bambino) non vengono mai assicurati al carrello, quando sono loro a far la spesa, i bambini con aspetto migliore invece lo sono nel 12,5% dei casi. I brutti inoltre finiscono più spesso degli altri lontano dallo sguardo dei genitori, e nella maggior parte dei casi vengono tenuti a circa tre metri di distanza.
La scarsa cura cresce in maniera esponenziale con l'età dei genitori che, in età più avanzata, non si preoccupano troppo neppure se i figli si lasciano andare ad attività pericolose. Incide anche il sesso: i maschietti di bell'aspetto vengono in generale trattati meglio delle femminucce. I ricercatori spiegano questa 'stranezza' con la maggiore maturità delle bambine, più indipendenti rispetto ai coetanei di sesso maschile.
Lo studio è stato condotto su dati raccolti in 400 sopralluoghi in 14 supermercati. I ricercatori sono divisi sul significato da attribuire alle scoperte. Per alcuni i bambini belli sono sentiti come portatori di un patrimonio genetico migliore e quindi "protetti" meglio dai genitori. Altri ribattono che lo studio avrebbe dovuto tenere in considerazione il reddito delle famiglie sotto osservazione, sottolineando che vengono trattati peggio i bambini che vivono in nuclei familiari a reddito inferiore. Anche questa ipotesi tuttavia non reggerebbe, secondo i ricercatori che hanno condotto lo studio: la bellezza ha poco a che fare con il reddito delle famiglie.

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rischio psicosi per gli insegnanti

La Stampa 3 Maggio 2005
ALLARME. LA CUB SCUOLA
Gli insegnanti sempre più a rischio psicosi

Il disagio psichico tra i docenti - in ogni ordine di scuola - è sempre più all’ordine del giorno. E senza strategie di contrasto. L’allarme viene dalla Cub Scuola, il sindacato di base che ha patrocinato, alla libreria Comunardi, la presentazione del libro del medico Vittorio Lodolo D’Oria «Scuola di follia» (Armando Editore), una ricerca che presenta oltre 30 casi di docenti milanesi passati al vaglio del «Collegio Medico» per il riconoscimento dell’inabilità al lavoro. «E’ un tema di cui si parla poco questo - dice Cosimo Scarinzi, segretario provinciale Cub Scuola - e che necessita di soluzioni rispettose dei diritti dei lavoratori e degli studenti». Nel libro sfilano inquietudini e psicosi, stress, attacchi di panico e altro ancora. Situazioni spesso gravi, sia per chi le ha vissute sia per i bambini e i ragazzi che le hanno condivise. «A Torino e provincia - dice Scarinzi, a partire da uno studio ancora inedito - su quasi 25.000 insegnanti, quelli che negli ultimi anni hanno subito una visita in sede medico-legale sono 600 circa, il 2,4%». Il 3,1% nella scuola materna, il 2,6% alle elementari, il 2,4% alle medie e l’1,7% nella superiore. Le donne sono l’81%, gli uomini il 19%. «La predominanza femminile si spiega sia tenendo conto della composizione della categoria sia per la relativa maggiore incidenza nella scuola materna ed elementare». I casi accertati di patologie psichiche sono il 25%, le patologie psichiche associate ad altre il 24%, le altre patologie il 51%. Tra queste ultime, rilevanti sono le oncologiche (17,12%), oltre a quelle di carattere fonatorio. «Le patologie psichiche consistono per il 37,82% in disturbi dell’umore, per il 29,82% della personalità, per il 10,91% dell’adattamento, per il 9,09% disturbi d’ansia. Le vere malattie psicotiche sono il 5,45%, in media con le altre categorie di lavoratori». È interessante notare, osserva ancora Scarinzi «che le colleghe e i colleghi affetti da questi disturbi hanno una media di 23,2 anni di servizio. Inoltre, è da evidenziare l’abnorme rilevanza di disturbi di carattere psichico rispetto alle patologie gravi che caratterizzano altre categorie di lavoratori».

Darwin

Il Messaggero Martedì 3 Maggio 2005
Scuola
Oggi si celebra il giorno dell’evoluzionismo

E Darwin torna sui banchi

di ROMEO BASSOLI

OGGI, in migliaia di scuole italiane, si celebra il “Darwin day della scuola” organizzato dall'Anisn, l’Associazione degli insegnanti di scienze naturali, che raggruppa quasi 4.000 docenti delle scuole medie e superiori italiane.
L’iniziativa è un po’ in ritardo rispetto al compleanno del grande scienziato britannico (cadeva a febbraio) ma in tempo per celebrare la vittoria degli evoluzionisti nella partita sui programmi scolastici. Nei giorni scorsi, infatti, il ministro Moratti ha fatto sapere che verrà reintrodotto l’evoluzionismo nelle indicazioni nazionali per la scuola primaria e secondaria di primo grado.
Come è noto, uno degli elementi scatenanti del movimento dei Darwin Day in Italia (se ne sono già tenuti in una quindicina di città italiane, promossi da musei, università, riviste, associazioni) è stato la liquidazione dell’evoluzionismo nella prima fase della formazione scolastica, dovuto ad un documento ministeriale che aveva acceso le proteste degli scienziati e dei docenti. Il ministro, di fronte alla protesta, aveva formato una commissione presieduta da Rita Levi Montalcini che aveva formulato alcune ipotesi, accolte ora dal ministro. Così, non solo il pensiero di Darwin, ma anche quello di Galileo, Newton e Einstein vengono introdotti come punto di riferimento per l’insegnamento.
Insomma, la giornata darwiniana di oggi finisce per essere una giornata dell’orgoglio per gli insegnanti di scienze naturali. «In questa circostanza - commenta Alessandra Magistrelli del direttivo dell’Anisn - il ministro Moratti ha dato prova di serietà. Credo che si sia sperimentato quanto sia opportuno che i cittadini vigilino attentamente sulle cose che i politici realizzano. Noi dell’Anisn siamo contenti dei risultati ottenuti».
Così, oggi saranno molti a parlare di Darwin. Non solo nelle scuole, però. Nell'aula magna della facoltà d'Agraria di Bari si terrà un incontro tra professori universitari, docenti e studenti sulla teoria evolutiva. Per l’occasione, si premieranno anche i vincitori regionali delle Olimpiadi di Scienze naturali del 2005 (una manifestazione nazionale giunta ormai al terzo anno con la partecipazione di trecento scuole).
Al dipartimento di Zoologia dell’Università di Napoli si terrà una tavola rotonda sull' evoluzione con la partecipazione di docenti universitari, docenti di scuola, e studenti. La manifestazione terminerà con uno spettacolo teatrale con musiche composte e suonate da insegnanti e studenti.
A Roma, nell'aula magna del liceo Virgilio, l’etologo Enrico Alleva e lo zoologo Vittorio Sbordoni (Università Tor Vergata) parleranno dell'importanza della teoria evolutiva nelle loro discipline. Nella scuola Convitto nazionale gli alunni delle medie spiegheranno ai loro compagni di quinta elementare la teoria evolutiva, di cui hanno parlato in classe con l'insegnante. A Belvedere Marittimo (Cosenza) si terrà uno spettacolo tratto dal libro di Lewis Il più grande uomo del Pleistocene di cui gli studenti hanno fatto la sceneggiatura. Lo spettacolo sarà preceduto da un balletto degli studenti sull'evoluzione dei vertebrati.

il sogno nella Storia

La Stampa TuttoLibri 30.4.05
Dai Greci alla Rivoluzione: ritrovare l’Età dell’Oro
Alessandro Barbero

QUANDO si parla del sogno nella Storia, il medievista non può fare a me- no di tornare alle parole con cui Georges Duby concludeva uno dei suoi libri più belli, Lo specchio del feudalesimo, dedicato all'immaginario della società feudale. E' un libro degli Anni Settanta, di quel decennio che un consenso becero si è permesso di ribattezzare "anni di piombo", mentre è forse l'ultima epoca in cui in Occidente sia stato possibile un pensiero veramente libero e critico. E Duby, che non era certamente un pericoloso comunista, chiude un percorso di quasi cinquecento pagine osservando come nessun tentativo di giustificare ideologicamente l'ordine sociale abbia mai impedito agli uomini «di essere ossessionati dall'utopia antichissima, dal miraggio: una società che non sia più divisa in classi e che non per questo cessi di essere ordinata. Il sogno...». E nella tradizione occidentale è davvero così. Altri uomini, come gli aborigeni d'Australia, hanno vissuto nella certezza che il sogno, quello vero, quello che ci viene incontro mentre dormiamo, sia l'unica autentica realtà, ben più solida di quella, fluttuante e inafferrabile, che ci circonda da svegli. In Occidente, il disagio verso la realtà ha invece preso la forma di un sogno ad occhi aperti, a volte soltanto vagheggiato, a volte, invece, lucidamente perseguito. All'inizio, il sogno era identificato col passato: un passato remoto e ormai perduto per sempre, in cui gli uomini erano stati felici. I dettagli costitutivi di quel sogno appaiono stranamente simili presso i popoli più diversi: l'Età dell'Oro dei Greci, in cui gli uomini erano simili agli dei, non conoscevano paura, miseria né malattia, e godevano dei frutti della terra senza bisogno di lavorare, assomiglia come una goccia d'acqua, nonostante la diversità del contesto teologico, al giardino dell'Eden immaginato dagli Ebrei. Molto presto, però, si scoprì che il sogno del passato poteva tramutarsi nell'agenda del presente. In un Israele sconfitto e sottomesso, il ricordo del Paradiso perduto poteva giustificare il nuovo patto di un intero popolo col suo Dio e la marcia verso la conquista della Terra promessa. A Roma, un po' più cinicamente, l'ufficio stampa di un politico ambizioso poteva garantire al popolo, pagando bene i servigi d'un poeta promettente, che l'Età dell'Oro sarebbe presto tornata fra gli uomini grazie agli sforzi del grand'uomo; che è, più o meno, il succo d'un famoso passo delle Bucoliche di Virgilio. Nel Medioevo cristiano, un papa spregiudicato come Gregorio VII non esiterà a far coincidere l'insegnamento della Genesi e il mito classico del secolo aureo, per dedurne una interpretazione sovversiva del potere imperiale con cui stava giocando una partita mortale: lo sappiamo tutti, scrive in una lettera a un vescovo tedesco, che gli uomini in origine erano uguali, e come credi che sia nato, allora, il potere? E' chiaro, sono i delinquenti, i ladri e gli assassini che hanno spogliato e terrorizzato tutti gli altri, e poi si sono fatti chiamare imperatori, principi e re...
E' il papa, ma sembra Bakunin; e infatti non ci vorrà molto, in quel Medioevo che è in realtà il crogiolo della nostra modernità, perché una lettura come questa cominci a filtrare anche fra le masse, e ad essere interpretata in termini di classe. «Quando Adamo zappava ed Eva filava, dov'era allora il gentiluomo?» chiedevano con insolenza i contadini ribelli, nell'Inghilterra di Wyclif come nella Germania di Lutero. Il sogno, improvvisamente, sembrava diventato attuabile, anche se non tutti avevano le idee ben chiare sull'obiettivo da raggiungere: qualcuno si sarebbe accontentato di abolire il castello del signore e l'esattore dell'imposta regia, altri invece, come gli Anabattisti in Germania, volevano riportare addirittura il regno di Dio sulla terra, a costo di trasformare la loro utopia in una feroce dittatura. Ma al di là dei singoli episodi, che raramente o mai ebbero un successo duraturo, ciò che veramente caratterizza la nostra modernità è il definitivo insediamento del sogno egualitario nella coscienza collettiva: non più come il ricordo d'un passato perduto per sempre, da ritrovare semmai in un'altra vita, ma come un'aspettativa per il presente, o almeno per il futuro. «Il presente è una brutta bestia / anche se molti ne fanno festa», scriveva un poeta francese del Trecento, incitando i contadini a ribellarsi ai loro padroni in nome dell'eguaglianza naturale; e proseguiva avvertendo i ricchi che il loro tempo era contato: «il presente lo vediamo finire, / ma il futuro ha da venire». Ci vorranno secoli perché questa aspettativa confusa, questo rancore represso, questa fiducia nascente nelle leggi della Natura e della Ragione si solidifichino in ideologie coerenti, in progetti operativi, nella volontà scientifica di cambiare il mondo; ma è qui che vanno cercate le radici delle rivoluzioni e delle utopie, di quella illuminista come di quella marxista. Oggi, in certi ambienti, è di moda liquidare come "catastrofi" non soltanto la rivoluzione d'Ottobre, ma anche quella del 1789; eppure tutta la storia d'Europa tendeva a quel sogno, e ora che bisogna voltare pagina è molto difficile trovarne un altro che valga la pena di sognare.

rendersi conto
Emanuele Severino

BresciaOggi Martedì 3 Maggio 2005
Il filosofo Emanuele Severino protagonista al Sancarlino
«Così la tecnica sovrana governa tutto il mondo»
«Viviamo un’epoca analoga alla fine dell’impero romano»
Nino Dolfo

Dopo la caduta del Muro di Berlino si era parlato incautamente di fine della Storia. In effetti, dopo quella data è successo ancora di tutto e oggi è più che mai ci troviamo ad interrogarci sul destino dell'Occidente, sul senso della democrazia e della libertà. Un tema davvero nevralgico quello che ieri sera si è discusso nell'ambito dei Lunedì del Sancarlino curati da Roberto Chiarini per la Provincia e intitolati "Nel nome di Alexis De Tocqueville. A duecento anni dalla nascita". Il relatore era Emanuele Severino, uno dei pensatori più lucidi del nostro tempo, che ha riflettuto su "Capitalismo e democrazia", stimolato dalle domande dello stesso Chiarini.
Di fronte ad un uditorio gremito (Severino non smentisce mai il suo magnetismo: è uomo da en plein), il filosofo bresciano ha messo a punto quello che da anni è il fulcro della sua speculazione, una sorta di leit-motiv: il significato della tecnica. Si tende a confondere il capitalismo con la tecnica - ha esordito - ma non sono lo stesso fenomeno, anzi queste due dimensioni si dirigono in direzioni opposte. Per tecnica non si intende solo la "macchina" (per Max Weber lo Stato è una macchina tecnica razionale, che consente di prevedere ciò che accadrà), ma un insieme di sottosistemi (produttivo, giudiziario, militare, educativo coniugati con i vari tipi della concettualità scientifica).
La diversità tra capitalismo e tecnica consiste in questo: il primo è interessato alla perpetuazione delle scarsità delle merci, mentre la seconda vuole gestire la totalità planetaria degli strumenti, è per la eliminazione della scarsità delle merci, è per aumentare la potenza dell'uomo.
«Il capitalismo - ha detto Severino - è brama di profitto, non è certo un'opera di beneficenza o assistenziale». Le sue ascendenze sono nobili, come ha sottolineato sempre Max Weber , perché hanno radici nell'etica protestante e calvinista. In questo senso l'uomo religioso, convinto della predestinazione, ritrova nel successo mondano il sogno della benedizione divina. Ma questo non vuol dire che costui sia ancora un capitalista, perchè il capitalismo si invera solo quando il successo mondano è solo fine a se stesso ed è dunque definito solo dalla volontà di incrementare il profitto.
Oggi - ha rimarcato Severino - il capitalismo è sottoposto a una serie di pressioni che lo spingono a scopi diversi da quelli che lo avevano definito in precedenza. Le ultime encicliche, che hanno tutte una consistenza concettuale rilevante («non a caso c'era dietro Ratzinger») sottolineano che il capitalismo deve porsi come problema il bene comune. È come dire ad un imprenditore di non essere capitalista... La Chiesa si sta mostrando, rispetto al capitalismo, eversiva quanto lo era stato il comunismo».
Il mondo è in continua trasformazione. Cambiano gli scenari, è in crisi anche la figura storica dello Stato, una struttura organizzata che ci ha permesso conquiste di garanzie e di civiltà. Alcuni Stati si sfilacciano, altri invece (gli Usa) sembrano diventare più forti. Quale futuro ci spetta? «Stiamo vivendo un'epoca paragonabile alla fine dell'impero romano», ha commentato Severino. Ogni critica fatta alla tecnica nel nome dei valori della tradizione umanistica è destinata a fallire. La tecnica è imbattibile, anzi essa è diventata lo strumento della grandi forze della tradizione. Anche il cristianesimo ricorre alla tecnica («non è più possibile pensare alla carità privata, ma bisogna ormai pensare alla organizzazione tecnologica della carità»). Lo stesso Islam non è da meno. La tecnica è uno strumento nelle mani di diversi operatori, ognuno dei quali gestisce una frazione dell'apparto tecnico-scientifico. Il passato è dunque destinato al tramonto e l'alternativa sta in un qualcosa che è al di fuori dell'Occidente.
Per quanto riguarda il futuro, secondo il filosofo, è in atto un rovesciamento, riconoscibile soprattutto nel modello americano. Nella fattispecie, qui i mezzi tecnologici invertono la funzione e diventano scopo. Non sono più il capitalismo e la democrazia che si servono della tecnica, ma viceversa. E questo cambia il volto, il significato dell'agire politico. Non solo: oggi filosofia e tecnica concordano. La filosofia del nostro tempo mostra che non ci sono limiti assoluti né per la tecnica né per l'agire dell'uomo. Un asserto questo davvero pesante, perché il limite dei limiti è Dio. La Chiesa, secondo Severino, scambia per relativismo un filosofia che relativista non è.

Il Giornale di Brescia
Emanuele Severino al Sancarlino
LA DEMOCRAZIA IN OSTAGGIO DELLA TECNICA
Alberto Ottaviano

Come cambierà la democrazia in un mondo dominato dalla tecnica? Cosa avverrà del nostro sistema democratico se sarà ridotto a un mezzo a servizio dell’apparato tecnologico? Se lo è chiesto Emanuele Severino al termine di una conversazione tutta dedicata a uno dei punti centrali del suo pensiero: il prevalere della tecnica nella civiltà occidentale. Per il filosofo bresciano siamo di fronte a un rovesciamento straordinario, a un fenomeno terrificante: la tecnica, guidata dalla concettualità della scienza moderna, finora mezzo delle grandi forze protagoniste della tradizione occidentale (dal capitalismo alla democrazia, dal cristianesimo al comunismo), sta diventando lo scopo stesso dell’agire. Non è più, ad esempio, il capitale che si serve della tecnica, ma la tecnica che si serve del capitale. È un dato sconvolgente che dobbiamo guardare in faccia: il padrone sarà il sistema tecnologico. Severino ha ripetuto il monito contenuto in molti suoi libri davanti a un’affollata platea del Sancarlino. L’occasione è stata la ripresa dei «Lunedì» dedicati alle questioni della democrazia nel segno di Tocqueville, di cui ricorre quest’annno il bicentenario della nascita. Roberto Chiarini, curatore del ciclo di incontri e ieri interlocutore di Severino, ha sottolineato le conseguenze concrete della prospettiva emersa dalle parole del filosofo: lo Stato è la cornice che ha finora assicurato una certa libertà, l’indipendenza, l’istruzione di massa, il benessere. È drammaticamente pericolosa - ha affermato - una situazione in cui lo Stato va «in panne», in cui esso viene a mancare. Ma l’analisi di Severino è impietosa. Per quanto riguarda lo Stato - sottolinea - siamo in un’epoca paragonabile alla fine dell’Impero romano. Nella storia della civiltà occidentale è sempre fallita ogni critica alla tecnica fatta in nome dei valori della tradizione (cioè dello Stato o della religione o del capitalismo e così via): siamo di fronte all’inevitabilità del tramonto della tradizione occidentale. Dunque lo Stato ce lo stiamo lasciando alle spalle. Prima di giungere a queste conclusioni, il filosofo chiarisce il concetto di tecnica. È un equivoco da sfatare che tecnica e capitalismo, cioè produzione tecnologica e produzione capitalistica, siano lo stesso fenomeno: in realtà il capitalismo punta alla perpetuazione della scarsità media delle merci per incrementare il profitto, mentre la tecnica punta all’eliminazione della scarsità delle merci aumentando continuamente la potenza a disposizione dell’uomo. Dunque le due cose sono in contraddizione. È sempre il fine che definisce un’azione, sottolinea il filosofo: se cambia il fine, cambia l’azione stessa. Il capitalismo - seppure nato con un’ascendenza religiosa, secondo la classica analisi di Max Weber - si definisce in quanto tale quando l’impresa assume come suo scopo l’incremento del profitto. Oggi il capitalismo è pressato da un insieme di forze che vogliono fargli cambiare il fine dal quale è definito. Così la Chiesa - rileva ancora Severino -, quando con le sue formidabili encicliche dice che il capitalismo deve avere come scopo il bene comune, è eversiva nei confronti del capitalismo stesso: chiede in realtà che esso non sia più tale. È un esempio del conflitto in atto tra le grandi forze della tradizione occidentale. Sono forze (capitalismo, cristianesimo, democrazia, lo stesso Islam...) che si servono della tecnica come strumento, usano ciascuna una frazione dell’apparato tecnologico. Ma per non perdere nel conflitto esse devono inevitabilmente puntare all’aumento della potenza della propria tecnologia. E per questo è necessario che i valori di ciascuna forza non intralcino la crescita della tecnica (come è accaduto al marxismo): lo scopo di ogni forza diventa allora il potenziamento del proprio apparato tecnologico; quello che era il mezzo è diventato il fine. Sta in questo processo - sottolinea Severino - quel formidabile rovesciamento, di cui si diceva all’inizio, che sta portando al dominio della tecnica.

uomini e macchine
l'orizzonte postumano

La Stampa TuttoLibri 30.4.05
Gli stregoni della tecnica mirano all’innesto fra uomini e macchine
Marco Belpoliti


AUGUST Kekulé, il chimico tedesco, studioso di chimica organica, che analizzò la composizione del carbonio, introducendo la teoria della sua tetravalenza (1857) e dei legami multipli, ha raccontato di aver scoperto in sogno la formula esagonale del benzene. Il sogno come alimento della scienza? Secondo Roger Caillois il regno del sogno estende il suo dominio anche nel regno della veglia, sin dentro la razionalità moderna; mentre per Karl Popper, pragmatista raffinato, nella scienza quello che conta è la scoperta, che può venire da ogni parte, non importa quale, persino dall'intuizione, qualità che il filosofo idealista Hegel tendeva a negarne l'esistenza. La scienza ha sempre sognato anche se si è interrogata incessantemente sui confini tra realtà e sogno, come fa Cartesio alle origini della razionalità moderna. Anche Galileo sognava, per quanto il suo sogno fosse sempre rigorosamente a occhi aperti e riguardava, come ha scritto anni fa Enrico Bellone, le «trame lente della ragione». Ma oggi la scienza cosa sogna? Prima di tutto di dominare la materia, quella umana in particolare. Un doppio sogno: da un lato, curare le malattie, raggiungere l'immortalità, e dall'altro innestare l'uomo nella macchina, o viceversa. L'orizzonte postumano alimenta oggi i sogni profondi della scienza. R. Kurzweil, ingegnere e manager, esperto del riconoscimento vocale delle macchine, inventore di computer per far leggere i ciechi, ha scritto due libri molto discussi ma pieni di fascino: L'età delle macchine intelligenti nel 1990 e L'età delle macchine spirituali nel 1999. Egli immagina scambi futuri tra uomo e macchina, veri e propri innesti fisici. Nei suoi libri, duramente contestati da Dominique Lecourt, il sogno religioso del rabbino di Praga di creare un Golem e quello letterario di K. Capek nel romanzo fantapolitico R.U.R. (1920) di costruire un Robot, sembra vicino alla realizzazione. Kurtzweil ha enunciato la legge di Moore, che prende il nome dall'inventore dei circuiti integrati. Secondo questa legge vi sarà presto una convergenza tra genetica, nanotecnologie e robotica: prima della fine del nostro millennio gli esseri umani non saranno i più intelligenti del pianeta. Le macchine li supereranno. Hans Moravec in Mente infantile. Il futuro dei robot e l'intelligenza umana parla di una mente umana che potrà essere implementata su di un computer, una liposuzione cranica che ricorda molto da vicina quella che il regista Cronenberg ha descritto in Existez. L'orizzonte postumano, così potentemente evocato dagli artisti come Orlan, Franko B. e Cindy Sherman, appare nelle opere dei neo-tecnologi a portata di mano, un sogno già in parte realizzato. In questa zona gli scienziati, gli aspiranti stregoni, si mescolano, come è sempre stato nei momenti ricchi ma anche torbidi delle rivoluzioni scientifiche, con religiosi, teologi, eretici, estremisti. La scienza non è una casa razionalista tutta finestre e angoli retti, ma contiene sottoscale, cantine, solai, zone d'ombra dove si covano idee eterodosse, confuse e tuttavia a volte anche proficue. La storia della scienza è discontinua, fatti di scienziati e alchimisti, come Newton, gran sognatore, ci insegna. Solo a posteriori gli storici della scienza trovano il bandolo della matassa, separando il grano della vera scienza dalle piante inutili o dannose dei pseudo-scienziati. Ecco dunque la funzione ambigua ma produttiva del sogno, la sua appartenenza al doppio regime della ragione, dove sogni e incubi si scambiano continuamente di posto. Unabomber, alias Thomas Kaczynski, è stato mosso, come affermano i suoi deliranti documenti, dal timore della tecnologia: la scienza può divorare l'uomo, ha affermato con preoccupazione. Per rimediare al sogno della ragione ha ucciso. La manipolazione genetica è una delle realtà incombenti che la scienza sta sognando per noi, giorno dopo giorno, anche se a volte, a proclamare il raggiungimento di obiettivi impossibili (la clonazione) ci pensano sette tecno-religiose o tecnologi di ispirazione profetica e teologica. Nel famoso libro di Bacone, La Nuova Atlantide, testo utopico che ci racconta di un'immaginaria isola e di un popolo reso felice dal progresso umano, gli scienziati si riuniscono nella Casa di Salomone per verificare se le nuove scoperte vadano o no divulgate. La scienza quando sogna non può fare a meno di sospettare, dice Bacone, che il suo sogno si trasformi in un incubo. A Cernobil, davanti agli uffici che avrebbero dovuto governare le sei centrali atomiche progettare dai sovietici, è stato eretto un monumento profetico: Prometeo che consegna il fuoco agli uomini. Il suo sogno di emancipazione non si è forse trasformato nel peggiore dei nostri incubi possibili?

stress da capitalismo avanzato

Tempo Medico on line 3 maggio 2005
Il cocktail micidiale di stress e povertà

L'epidemiologo Michael Marmot spiega i meccanismi alla base delle disuguaglianze di salute
di Raffaella Daghini

Trentaquattro anni in Sierra Leone, quasi ottantadue in Giappone. Già solo la differenza nella speranza di vita al momento della nascita può dare un'idea di quanto siano significative le disuguaglianze di salute tra i vari paesi del mondo. Ma anche all'interno dello stesso paese le differenze possono essere notevoli: negli Stati Uniti, per esempio, il divario tra l'aspettativa di vita di chi appartiene alla classe sociale più alta e quella dei più svantaggiati è di circa 20 anni.Oggi il tema del rapporto tra condizione socioeconomica e stato di salute sembra suscitare l'interesse non solo degli studiosi, ma anche delle istituzioni a livello mondiale. La Comunità europea, infatti, ha inserito tra gli obiettivi e i programmi di intervento in sanità pubblica per il periodo 2003-2008 la lotta alle disuguaglianze di salute. E l'Organizzazione mondiale della sanità ha istituito una Commissione indipendente sui determinanti sociali della salute, che nei prossimi 3 anni avrà il compito di approfondire la conoscenza e alimentare il dibattito su questi temi e di trasformare il patrimonio di conoscenza e di esperienza acquisito attraverso le ricerche in strategie politiche efficaci.La relazione tra disuguaglianze socioeconomiche e stato di salute fu analizzata per la prima volta con un approccio scientifico agli inizi degli anni ottanta in Gran Bretagna: fu il rapporto Black a mettere in chiaro il legame tra tasso di mortalità e appartenenza a una determinata classe sociale. Da allora molti studi hanno contribuito a chiarire il fenomeno anche dal punto di vista quantitativo.L'epidemiologo inglese Michael Marmot si interessa al tema delle disuguaglianze di salute e dell'individuazione dei determinanti socioeconomici da più di 20 anni. Il suo è un lungo impegno dedicato alla comprensione di quanto sta dietro al cosiddetto "gradiente sociale nella salute", il fenomeno per cui a una più alta posizione sociale corrisponde una più lunga aspettativa di vita e una più bassa probabilità di ammalarsi. "Inizialmente l'interesse dei ricercatori in questo campo era focalizzato sulla povertà" ha spiegato Marmot in occasione del ricevimento del premio Balzan 2004. "La mancanza di risorse materiali comporta malnutrizione, probabilità elevate di infezioni e bassa resistenza ai loro effetti, esposizione agli elementi naturali e alle sostanze chimiche tossiche. Le disuguaglianze di salute, quindi, comportano alte probabilità di malattia per i più poveri, salute migliore per gli altri".Ma il fenomeno del gradiente di salute non è limitato ai paesi più poveri o alle classi sociali indigenti, come ha dimostrato lo studio dello stesso Marmot sui dipendenti statali inglesi. "Ci siamo chiesti il motivo per cui un dirigente con una formazione universitaria dovrebbe avere una salute peggiore e un più alto rischio di morte di un suo superiore gerarchico, ma uno stato di salute migliore di un suo sottoposto" continua l'epidemiologo inglese. "Tra queste persone, tutti "colletti bianchi" con un impiego sicuro, nessuno era povero secondo il significato comune del termine; tuttavia c'era comunque un gradiente sociale di salute che percorreva la catena gerarchica dall'alto verso il basso".Per capirne la ragione, Marmot e i suoi collaboratori sono partiti dalla convinzione che l'ambiente sociale abbia influenza sui processi psicologici che, a loro volta, hanno influenza su quelli biologici. L'importanza di questo aspetto è stata messa in luce dallo stesso Marmot nei suoi studi sugli immigrati giapponesi negli Stati Uniti. Con l'arrivo nella nuova patria, l'incidenza di malattie cardiache nei primi gruppi di giapponesi immigrati crebbe, mentre diminuì quella delle malattie cerebrovascolari. Questo sottolinea l'importanza dell'ambiente inteso nel senso più ampio del termine, che comprende condizioni sociali e comportamenti" spiega Marmot. "E' come se ci fosse una sorta di relazione dose-risposta tra il grado di "americanizzazione" e l'incidenza di malattie cardiache: i giapponesi che restavano più vicini alle proprie tradizioni, all'interno di un gruppo unito di connazionali risultavano meno soggetti a queste patologie. E, cosa interessante, i tassi di malattia più elevati risultavano indipendenti da caratteristiche come il fumo, la dieta, la pressione o il colesterolo. La nostra ipotesi è che la cultura tradizionale giapponese, che favorisce la coesione sociale, è efficace nel ridurre lo stress".Lo stress, quindi, è un importante fattore psicosociale che può influenzare l'incidenza delle malattie. Una ipotesi che Marmot sostiene anche quando analizza soggetti e contesti del tutto diversi. Il primo studio sui dipendenti statali ha mostrato un gradiente sociale nella mortalità per cause cardiache. "Una risposta comune a questi risultati è che ci sono differenze di comportamento nei confronti della salute tra le varie classi sociali: chi appartiene ai ceti più bassi più facilmente fuma, segue una dieta scorretta ed è più raro che faccia attività fisica regolare" spiega Marmot. "C'è del vero in questo. Ma i risultati di entrambi gli studi Whitehall confermano che i tradizionali fattori di rischio sono in grado di spiegare meno di un terzo del gradiente sociale osservato per le malattie cardiache". Ci devono essere altri fattori che concorrono, e per Marmot l'ipotesi dello stress non è in contraddizione con la prevalenza di queste patologie nei livelli lavorativi inferiori: la questione è cosa si intende per condizioni di lavoro stressanti. I dati raccolti anche da studi sul comportamento animale hanno suggerito che le condizioni di stress si manifestano se manca un controllo sulla propria attività, in presenza di una minaccia al proprio status, in assenza di supporti sociali e di valide alternative.Ma se le gerarchie sono presenti in tutte le società, come si possono eliminare le disuguaglianze di salute che ne derivano? "La presenza di gerarchie nelle società moderne non sembra essere eliminabile, ma le sue conseguenze possono variare" sostiene Marmot. "La propria posizione nella scala sociale diventa importante e ha conseguenze sulla salute solo se la persona è privata di alcune possibilità collegate a bisogni fondamentali per il benessere di ognuno: il controllo sulla propria vita, la possibilità di partecipazione sociale, la possibilità di soddisfare i bisogni fondamentali per la propria salute"

mondi tolemaici: la Francia
sul destino dell'uomo nel neoliberismo, in salsa lacaniana...

Le Monde Diplomatique maggio 2005
L'uomo modificato dal neoliberismo
Dalla riduzione delle teste all'alterazione dei corpi
Un altro « uomo nuovo », ecco quel che il mercato sta fabbricando sotto i nostri occhi. Distruggendo ogni forma di legge in grado di porre un freno alla merce, la deregulation neoliberista produce effetti in tutti i campi, non soltanto in quello economico. La stessa psiche umana è disturbata, sconvolta. Si moltiplicano le depressioni, i disturbi dell'identità, i suicidi e le perversioni. Come se al mercato non interessasse più l'essere umano in quanto tale. Per mezzo della clonazione e dell'ingegneria genetica, esige ormai la trasformazione biologica dell'umanità.
Dany-Robert Dufour

In L'art de réduire les têtes (1) avevo tentato di porre in evidenza la profonda riconfigurazione delle menti a opera del mercato. Dimostrarla è relativamente semplice: il mercato ricusa qualsiasi considerazione (morale, trascendente, trascendentale, culturale, ambientale...) che possa ostacolare la libera circolazione delle merci nel mondo.
Perciò il nuovo capitalismo cerca di smantellare ogni valore simbolico, a esclusivo vantaggio del valore monetario neutro delle merci. Poiché ormai non esiste più nulla al di fuori dei prodotti da scambiare, al loro puro e semplice valore mercantile, gli esseri umani devono sbarazzarsi di tutto quel di più culturale e simbolico che un tempo garantiva i loro scambi.
Un buon esempio della desimbolizzazione prodotta dall'estendersi del regno delle merci è quello delle banconote in euro. Come si può notare, sono scomparse le raffigurazioni dei grandi personaggi della cultura - da Pasteur a Pascal, da Cartesio a Delacroix, nel caso della Francia - che fino a ieri indicizzavano gli scambi monetari sul patrimonio dei valori culturali degli stati-nazione. Oggi, i vari tagli dell'euro non rappresentano altro che ponti, porte e finestre, a esaltazione di una fluidità deculturata. Siamo invitati a piegarci al gioco della circolazione infinita delle merci. Si può dunque dire che la legge del mercato tende a distruggere ogni forma di legge suscettibile di imporre vincoli alle merci.
Con l'abolizione di ogni valore comune, il mercato si accinge a fabbricare un inedito «uomo nuovo», decaduto dalla sua facoltà di giudicare (senz'altro principio che quello del massimo guadagno), spinto a godere senza desiderare (la sola salvezza possibile si trova nelle merci), formato a tutte le fluttuazioni identitarie (non esiste più il soggetto, ma solo soggettivazioni temporanee, precarie) e aperto a tutte le interconnessioni mercantili. Ci troviamo in presenza di un aspetto molto particolare della deregulation neoliberista, che purtroppo non è stata ancora ben compresa, ma che produce fin d'ora effetti considerevoli in tutti i campi, e in particolare sulla psiche umana. Alcuni psichiatri e psicanalisti stanno mettendo a punto un inventario dei nuovi sintomi causati da questa deregulation, quali la depressione, svariate forme di dipendenza, disturbi narcisistici, perversioni sempre più estese ecc.
Questa deregulation di nuovo genere provoca grande confusione negli attuali dibattiti. È infatti accompagnata da un sentore libertario, fondato sulla proclamazione dell'autonomia di ciascuno e su una tolleranza estesa a tutti gli ambiti sociali (compresa la morale sessuale) per farci credere che stiamo vivendo un intenso periodo di liberazione.
Visto che il vecchio patriarcato oppressivo è ormai alle corde, si vorrebbe credere all'avvento di una rivoluzione senza precedenti, dimenticando che è lo stesso capitalismo a tenere le fila di questa «rivoluzione», volta a favorire la penetrazione delle merci dove ancora non avevano stabilito il loro regno: nel campo dei costumi e in quello della cultura. Karl Marx, che non si era fatto ingannare da questa faccia «rivoluzionaria» del capitalismo, scrive: «La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l'immutato mantenimento dell'antico sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'ininterrotto scuotimento di tutte le istituzioni sociali, l'incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l'epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti (2)». Questa capacità di trasformare i rapporti sociali è stata portata al suo culmine da questo nuovo stato del capitalismo, a volte giustamente definito «anarco-capitalismo».
Questo sconvolgimento ha funzionato così bene che molti hanno avuto la tentazione di cogliere solo l'aspetto «libertario», «giovanile» e «in» di questa nuova forma, trovando nella conseguente evoluzione del costume un facile motivo di entusiasmo. La confusione è tale che molti si credono grandissimi rivoluzionari solo perché seguono passivamente il corso di questa deregulation culturale e simbolica: penso a quella parte della sinistra «in», tanto facile a entusiasmarsi per le cause che «fanno tendenza». Ma è proprio questo l'obiettivo dell'anarco- capitalismo, che se non ama la «rivoluzione», favorisce però ogni forma di deregulation culturale e, come ben dimostrano tutti gli spot pubblicitari.
La popolazione non ha mancato di intuire i gravi rischi potenzialmente insiti in questa deregulation dei simboli per la nostra stessa civiltà.
Ma il mercato riesce a strumentalizzare tutto a proprio vantaggio: già sono sulla breccia numerosi gruppi che vantano e vendono una morale da paccottiglia. Sarebbe però un errore cruciale abbandonare il dibattito sui valori ai conservatori, siano essi «neo» o di vecchio stampo. Se si trascura questo terreno, ad occuparlo provvedono George W. Bush, i tele-evangelisti e i loro accoliti puritani, come sta accadendo negli Stati uniti, oppure i populisti fascistoidi come in Europa. È dunque urgente costruire una nuova riflessione sui valori, sul significato della vita nella società e sul bene comune, rivolgendosi a fasce di cittadini allarmati, sia pure confusamente, dai guasti morali dovuti all'espandersi indefinito del regno delle merci. È chiaro che se si trascura questo terreno, molti cittadini saranno tentati di lasciarsi trascinare dalla parte di chi lo occupa in maniera tanto abusiva quanto rumorosa.
Ma restringendo il dibattito a questi aspetti culturali si mancherebbe di cogliere l'intera portata della questione. È infatti evidente che la riconfigurazione delle menti è solo la prima fase di un meccanismo molto più ampio. In due parole, la «riduzione delle menti» e la soppressione dei simboli sono solo il preludio a una nuova e profonda ridefinizione dell'uomo, che stavolta prende di mira non solo la sua mente, ma il suo stesso corpo.
La «desimbolizzazione» interviene in un momento decisivo dell'avventura umana: per la prima volta nella storia del vivente una creatura riesce a leggere quella scrittura della quale essa stessa è espressione.
Con la chiusura di questo cerchio si è aperta la strada a un evento incredibile: la creatura potrà tornare alla creazione per rifare se stessa. In quest'istante la creatura interferirà nella sua propria creazione e ponendosi come creatrice di se stessa. Siamo dunque alle soglie del momento inconcepibile in cui una specie potrà intervenire sul proprio divenire, sostituendosi alle leggi naturali dell'evoluzione.
Tutto avviene come se l'esortazione umanista lanciata al Rinascimento da uno dei suoi grandi pensatori, Pico della Mirandola, fosse stata raccolta al di là di ogni misura. Contrapponendosi alle antiche forme di dominio assoluto del divino, Pico volle introdurre una parte di libero arbitrio umano; e incitò l'uomo a «scolpire la sua propria statua (3)». Quest'appello fu raccolto da tutta la filosofia successiva, che oggi potremmo considerare come uno sviluppo di lunghissimo respiro sul tema del libero arbitrio umano, dalla costruzione del cogito cartesiano al tema nietzschiano della morte di Dio, passando per l'ideale critico dei Lumi.
Ma l'uomo attuale sta oltrepassando quest'ideale. Di fatto, se effettivamente si sta accingendo a scolpire la propria statua, si potrebbe trattare di una statua vivente progettata per sostituirsi all'umano. Notiamo per inciso che un tale progetto di ridefinizione delle basi materiali dell'umanità implicherebbe, né più né meno, la fine della filosofia.
Il suo compimento presuppone infatti l'irrimediabile trasformazione dell'impresa di riformare lo spirito, rilanciata incessantemente fin dall'antichità (attraverso l'ascesi, la ricerca dell'autonomia, la rifondazione dell'intelletto) in un progetto puramente tecnicista di modifica del corpo. Ma a che pro guadagnare un corpo nuovo per perdere lo spirito?
E una questione tanto più importante da porre, in quanto già esiste un diffuso programma di fabbricazione di una «post-umanità». È un programma dissimulato, cui non si è data alcuna pubblicità. Difatti, non è il caso di spaventare la gente; ma soprattutto bisogna evitare di farle capire che la si fa lavorare all'abolizione dell'umanità, cioè alla propria cancellazione. Frattanto però il mondo vivente è stato a tal punto investito dal capitalismo, nella sua ricerca di nuovi spazi per le merci, che alcune delle possibili conseguenze per la stessa umanità hanno finito per filtrare dalle crepe del muro del silenzio. Ad esempio un paladino del neoliberismo come Francis Fukuyama, che dopo la caduta del muro di Berlino preannunciò la «fine della storia», con l'avvento generalizzato delle democrazie neoliberiste, ha dovuto correggersi ammettendo che il trionfo del mercato non era l'ultimo episodio della storia umana: la fase successiva sarebbe la trasformazione biologica dell'umanità (4). Ma questa rivelazione è stata per lui solo un'occasione per incappare in un nuovo errore di valutazione.
Francis Fukuyama vorrebbe credere che a preservarci da quel fatale ingranaggio sarà il neoliberismo... il quale però di fatto ci sta spingendo proprio in quella direzione. Per lui, la democrazia di mercato sarebbe una condizione perfetta, se non fosse minacciata dallo sviluppo di alcune tecnologie: «Una tecnologia tanto potente da rimodellare ciò che noi siamo rischia senz'altro di avere conseguenze potenzialmente nefaste per la democrazia liberale (5)». In questo non si può dargli torto: evidentemente, una volta eliminata l'umanità c'è un certo rischio che la democrazia giri a vuoto. Per evitare un tale periglio basterebbe, secondo Fukuyama, che «gli stati regolino politicamente lo sviluppo e l'uso della tecnologia». Una pia intenzione che non costa nulla, e consente all'autore di passare sottosilenzio il punto essenziale: di fatto, è lo stesso mercato a spingere lo sviluppo sconfinato delle tecno-scienze, le quali, in assenza di regole, ci trascinano in linea retta verso l'uscita: fuori dall'umanità.
Eppure la connessione è chiara: dato che il mercato comporta la fine di ogni forma di inibizione simbolica (cioè la fine dei riferimenti a qualsiasi valore trascendentale o morale, a vantaggio esclusivo del valore mercantile) restando in questa logica, nulla potrà impedire all'uomo di affrancarsi da ogni idea che pretenda di mantenerlo al suo posto, per uscire, non appena ne avrà i mezzi, dalla sua condizione ancestrale. Non è dunque la scienza da sola, come spesso di dice, a permettere la realizzazione di questo programma, bensì la scienza sommata agli effetti deleteri del mercato sui valori trascendentali.
Dobbiamo dunque porci il seguente interrogativo: esiste, nelle nostre democrazie post-moderne dove tutto si può dire, un'istanza politica per decidere se vogliamo questa mutazione? Nulla di meno certo.
Ora, l'assenza di una sede o di un'istanza del genere è gravida di conseguenze. Già si intravede dove potrebbe condurre il programma di fabbricazione di una post-umanità: direttamente verso la soglia di un'era di produzione di individui ritenuti «superiori» per aver eluso la procreazione, e di individui inferiori, adibiti a mansioni subalterne. L'esistenza, ormai banalizzata, di organismi geneticamente modificati dovrebbe metterci una pulce nell'orecchio: a breve termine potrebbe essere avviata la fabbricazione, per clonazione e modificazione genetica, di nuove varianti umane. Non è anzi da escludere che stiano per essere intraprese, o siano già in atto sperimentazioni in questa direzione.
Quando verrà quel giorno, saremo passati dalla post-modernità - un'epoca intasata dalla caduta degli idoli - alla post-storia. Se nessuno può prevedere come sarà, si può dire però fin d'ora ciò che non sarà.
Uno sviluppo del genere avrebbe infatti conseguenze inesorabili su cinque grandi topoi dell'umanità: fine della comune umanità, fine dell'usata fatalità della morte, fine dell'individuazione, fine degli arrangiamenti (problematici) tra i sessi, sconvolgimento della successione generazionale.
Il pericolo che minaccia il genere umano non è solo eugenetico: a breve termine è a rischio anche la pura e semplice conservazione e perpetuazione della nostra specie. Difatti, la sua conservazione non procede da sé, ma passa per tramiti simbolici e culturali. La spiegazione risiede nel fatto, riconosciuto da parte della ricerca paleo-antropologica, che l'uomo è concepibile come un essere a nascita prematura, incapace di raggiungere uno sviluppo germinale completo, e tuttavia in grado di riprodursi e di trasmettere i propri caratteri infantili, normalmente transitori negli altri animali. A questo riguardo si parla della neotenia dell'uomo (6), vale a dire l'esigenza propria all'essere umano, non finito, a differenza degli altri animali, di completarsi al di fuori della sua prima natura, in una seconda natura che generalmente viene chiamata cultura. Si trovano molte cose in questa seconda natura: gli dei, i racconti, le grammatiche riferite a qualsivoglia oggetto del mondo (le stelle, i sassi, i microbi, la musica, la narrazione, il calcolo, la soggettività, la socialità...) un'intensa attività protesica (tutti gli oggetti che consentono a quest'animale non finito di abitare il mondo) e inoltre le leggi, i principi, i valori... Ora, se questo ambito viene danneggiato, se si confondono le leggi e i princìpi che lo governano, possiamo attenderci non solo effetti deleteri e livello sociale e individuale, ma anche una minaccia per la stessa specie - poiché più nulla avrà la legittimità necessaria per contrastare le manipolazioni volte a trasformarla, non appena se ne profili la possibilità.
L'essere addomesticato Fin d'ora, nella stessa intellighentia si levano voci pronte ad accogliere la «buona novella» di una prossima mutazione dell'uomo. In particolare, il filosofo tedesco Peter Sloterdijk, che già si era reso celebre alla fine del 1999 per aver pronunciato, sull'altra sponda del Reno, una conferenza intitolata «Regole per il parco umano (7)» in occasione di un colloquio dedicato a Heidegger. Quella conferenza suscitò una grossa controversia, in particolare con Jürgen Habermas. I discorsi di questo «nietzschiano di sinistra» sembrano molto indicativi di come l'attuale deregulation simbolica possa confondere le idee. In un'altra conferenza, tenuta a Centro Georges Pompidou nel marzo 2000 (8), lo stesso Sloterdijk ha ripreso - ma per rovesciarla - una tesi di Heidegger. Non è più vero che la tecnologia è «l'oblio dell'Essere», ma essa al contrario concorre ad «addomesticare l'Essere», in quanto maggiore attributo dell'uomo neotenico, che oggi è sulla via di riprodursi da sé. Come se la tecnologia fosse la sola conquista dell'uomo neotenico, Come se il quadro simbolico, fatto di prescrizioni e di divieti, non fosse mai esistito! Con simili premesse si giustificano in partenza tutte le possibili conseguenze della tecnologia. D'altronde, in questo discorso «disinibito» la deliberazione morale è così poco considerata che in definitiva la tecnologia rimane la sola a poter determinare un'etica. E non una qualunque, ma «l'etica dell'uomo maggiore», e come tale aperta alle «automanipolazioni biotecnologiche».
In questo discorso, l'etica consiste dunque nell'allontanare qualsiasi forma di esame morale. In questo modo l'uomo, che l'Essere ha tirato fuori da lui stesso, dovrebbe farsi carico di cambiare la propria condizione biologica per aprirsi alla molteplicità biologica (9).
All'uomo, nato insufficiente e divenuto un prodotto della tecnologia, non rimane allora più altro che portare quest'ultima alle sue estreme conseguenze. Il vecchio uomo dev'essere quindi ribattezzato «uomo primo» - termine in cui si intuisce un chiaro eufemismo di «primitivo» (come nel caso del «museo delle Arti Prime»): difatti è oramai ridotto ad essere un primitivo, a fronte degli uomini superiori prossimi venturi. Meglio evitare l'allucinazione di un ritorno dell'Essere nella funesta farsa storica del nazismo - è stato solo un deplorevole errore del mio caro maestro, sembra voler dire Sloterdijk. No, la vera estasi si presenta oggi, con l'arrivo dell'uomo superiore, quello vero, e già i suoi adulatori ne cantano le lodi e provvedono al servizio d'ordine per aprirgli la strada.
Ma questa strada è ingombra di «uomini primi»: ecco qual è il problema.
Per il nostro profeta, il vecchio uomo primitivo è scaltro e costituzionalmente sordo - citazione testuale - al «potenziale generoso» della trasformazione «plurivalente». Peggio ancora: nel suo «antico egoismo», è capace solo di «esercitare il potere sulle materie prime» per «disporne» allo scopo di sottrarle ai cambiamenti promessi: dove si comprende che queste «materie prime» potrebbero essere lo stesso corpo umano.
Il «vecchio uomo» sarebbe ovviamente nient'altro che «l'uomo del risentimento», pronto a convocare «assembramenti» per «irreggimentare» le popolazioni disinformate e spingerle verso «falsi dibattiti su minacce incomprese, agli ordini di editorialisti lascivi»... Dunque, abbasso la vecchia «umanolatria», l' «isterismo antitecnologico» di chi si oppone a questo salto al quale l'Essere ci chiama - perché naturalmente in questa volontà di «trasformarsi attraverso l'autotecnologia» non c'è assolutamente «nulla di perverso»... Proprio per il loro carattere eccessivo, queste esternazioni di Sloterdijk sono di grande utilità, poiché consentono di comprendere che l'attuale disinibizione simbolica non è solo questione di liberazione del costume, o di uscita più o meno sofferta dal patriarcato. Di fatto, oggi l'abolizione dei divieti rivela che è tuttora in atto un vero e proprio progetto post-nazista volto a sacrificare l'umano. E questo progetto, lo sta portando avanti l'anarco-capitalismo, che rompendo tutte le regole simboliche consente alla tecnologia di avanzare da sola, fino a sconquassare l'umanità.
«Il discorso capitalista - come già aveva detto Jacques Lacan - è di un'astuzia pazzesca (...): funziona come un ingranaggio ben lubrificato, al massimo dell'efficienza. Ma per l'appunto, cammina troppo in fretta e lo si consuma. Lo si consuma tanto che finisce per consumarsi (10)».
Insomma, il vero problema del capitalismo è che funziona troppo bene.
Tanto bene che un giorno finirà per consumare tutto: le risorse, la natura, tutto - compresi gli individui che lavorano al suo servizio.
Nella logica capitalistica, come già ha precisato Lacan, «agli antichi schiavi si sostituiscono uomini ridotti allo stato di "prodotti" (...) consumabili né più né meno degli altri (11)». Questa osservazione aiuta a comprendere che si devono intendere esattamente in questo senso, quanto mai minaccioso, le espressioni vagamente euforizzanti in uso in tutta la letteratura neoliberista: il «materiale umano», il «capitale umano», la gestione intelligente delle «risorse umane», o il «buongoverno legato allo sviluppo umano».
L'anarco-capitalismo ha accreditato l'idea che dotarsi di leggi è crudele, tanto da sconfinare in una sorta di insopportabile masochismo.
E cinicamente taccia di puritanesimo oscurantista chiunque senta il bisogno di un supplemento d'anima. Va però ricordato che per i filosofi dei Lumi quali Jean-Jacques Rousseau o Immanuel Kant, il solo e vero senso della libertà è l'obbedienza alle leggi di cui ci siamo dotati. Di fatto, abbiamo bisogno di leggi giuridiche e morali vere, e non dei loro surrogati moralizzanti, per rendere infine giustizia e salvaguardare il mondo, prima che sia troppo tardi, nonché per preservare il genere umano minacciato da una logica cieca. Ma intanto si stanno abrogando tutte le leggi - tranne quella del più forte. E se proseguiamo in questa direzione funesta, andremo incontro a una crudeltà ben peggiore dell'obbligo di osservare un insieme di leggi. La crudeltà sconosciuta di voler modificare questo corpo umano che ha alle spalle 100.000 anni, per tentare di raffazzonarne altri.

note:

* Directeur de programme al Collège international de philosopie, Parigi. Autore, tra l'altro, di: On achève bien les hommes, Denoël, Parigi, 2005.

(1) Dany-Robert Dufour, L'art de réduire les têtes - sur la nouvelle servitude de l'homme libéré à l'ère du capitalisme total, Denoël, Parigi, 2003.
(2) Karl Marx e Friederich Engels, Manifesto del partito comunista, trad. di Emma Cantimori Mezzamonti, Einaudi, 1962.
(3) Giovanni Pico della Mirandola [1463-94], Discorso sulla dignità dell'uomo a cura di Francesco Bausi, Ugo Guanda, 2003.
(4) Ne La fine della storia dieci anni dopo Fukuyama ribadisce il suo credo: «La democrazia liberale e l'economia di mercato sono le sole possibilità praticabili per le nostre società moderne»; ma riconosce ua lacuna nella sua concezione della fine della storia: «La Storia non può finire fintanto che le scienze e la natura contemporanee non giungano al loro termine. E noi siamo alla vigilia di nuove scoperte scientifiche, che per la loro stessa essenza aboliranno l'umanità in quanto tale». Le Monde, 17 giugno 1999.
(5) Cfr. Francis Fukuyama, L' uomo oltre l'uomo. Le conseguenze della rivoluzione biotecnologica, Mondadori, 2002.
(6) Si vedano i testi del grande antropologo americano Stephen Jay Gould: Questa idea di vita. La sfida di C. Darwin, Editori Riuniti, 1977, e Il pollice del panda, Editori Riuniti, 1983.
(7) Peter Sloterdijk, Règles pour le parc humain, Mille et une nuits, Parigi, 2000.
(8) Conferenza ripresa in una raccolta intitolata La Domestication de l'Etre, Mille et une nuits, Parigi, 2000. Da questo stesso testo sono tratte tutte le citazioni che seguono.
(9) In effetti questa diversificazione è già in atto: il settimanale americano Science, nel suo numero del 27 luglio 2001, riferisce che un'équipe americana è riuscita a impiantare cellule staminali umane in cervelli di feti di scimmia Macaca radiata durante la dodicesima settimana di gestazione; con questo impianto si può arrivare alla creazione di scimmie antropoidi, dal cervello, per così dire, «umanizzato» meccanicamente.
(10) Jacques Lacan, «Conferenza all'università di Milano», 12 maggio 1972, inedita.
(11) Jacques Lacan, L'Envers de la Psychanalyse, Seuil, Parigi, 1991, sessione del 17 dicembre 1969, p. 35. (Traduzione di E. H.) aa

staminali

una segnalazione di Francesco Troccoli

Corriere della Sera 30 aprile 2005
Torna la vista a 7 ciechi con le cellule staminali

Cellule staminali prelevate dalla cornea di un donatore hanno ridato la vista a 7 pazienti divenuti ciechi per danni causati da acidi, sostanze tossiche, metalli ad elevate temperature o da malattie congenite. Al Queen Victoria Hospital di Londra un'équipe britannica ha messo a punto una tecnica in grado di rigenerare la cornea danneggiata. Le cellule staminali prelevate dal donatore sono state coltivate in laboratorio fino a creare una 'striscia' di staminali da applicare sulla parte danneggiata dell'occhio. I risultati sono stati pubblicati sul Times

mondi tolemaici
omosessuali e la cultura di Repubblica

una segnalazione di Francesco Baldini

Repubblica 3.5.05

I corsi per "guarire" i gay
In Italia "terapie" dagli Usa
di NATALIA ASPESI

PAREVA una fissazione solo americana, invece anche in Italia c'è chi vuole "guarire" gay e lesbiche: proprio adesso che da noi diventano presidenti di regione e che, in una nazione molto cattolica come la Spagna, il governo approva leggi per consentire loro matrimonio e adozioni. O forse proprio per questo, perché se l'omosessualità diventa definitivamente una condizione esclusivamente privata, accettata, "sdoganata", cosa farà la resistenza omofobica, clericale e laica, tuttora viva e vegeta anche da noi? Il mensile gay italiano Pride pubblica nel suo numero di maggio una lunga inchiesta su questi "guaritori" di una malattia che non esiste.
Come ha sancito da decenni anche l'Organizzazione mondiale della Sanità: e che anziché aiutare quei gay che non sono orgogliosi di esserlo, ad accettarsi e raggiungere un proprio equilibrio, li illudono, talvolta aumentando angosce, insicurezze, sensi di colpa. La massima autorità italiana nella santa impresa è la dottoressa Chiara Atzori, medico infettivologo dell'ospedale Sacco di Milano, mentre molto se ne parla a Radio Maria, si pubblicano libri e corrono sul web sia consigli per "aiutare a fiorire" (per non usare la parola sbagliata, guarire) con ormoni, psicoterapia che sempre colpevolizza i genitori, soprattutto preghiera, che lettere di convertiti: "Sono diventato omosessuale per una madre castrante e un padre ostile. Sono stato in analisi per tre anni (narth. com) e ora sono felicemente sposato e quasi del tutto etero". Di quel quasi non sarà felicissima la sua signora.
Si fa chiamare Giovanni il collaboratore di Pride che, dopo aver tentato invano di intervistare la dottoressa Atzori, si infiltra nel gruppo gay italiano "In cammino nel ricupero dell'identità sessuale ferita" e viene invitato a un incontro per la fine del corso organizzato "per abbandonare lo stile di vita gay", 100 euro il costo. Aula Magna dell'istituto Padre Beccaro a Milano, al centro l'icona della Resurrezione del santuario mariano di Medjugorie, tredici persone tra cui cinque promotori del gruppo e otto giovani gay e lesbiche un po' delusi. "I nodi si possono sciogliere con volontà personale. La falsa identità può essere squarciata per fare emergere la vera identità".
Nume terapeutico della cristiana anche se incerta conversione all'eterosessualità è il cattolico americano Joseph Nicolosi che con un gruppo di psicanalisti considera l'omosessualità curabile con una terapia "che può durare anni", detta riparativa: otto anni fa le associazioni scientifiche l'hanno dichiarata inefficace se non addirittura dannosa. Sempre meno dell'accanimento curativo del passato quando si usava l'elettroshock o addirittura il trapianto dei testicoli. Ma anche meno utile forse delle terapie dei grandi Masters e Johnson che, per cominciare, insegnavano ai gay come conversare con le donne e come intrecciare sguardi infuocati con loro. Il gruppo americano più forte, Exodus, pur segnalando suoi risultati miracolosi, col 30% di convertiti e lietamente accasati, 30% non più gay ma prudentemente casti, e solo 30% di irrecuperabili, ha subito un'antipatica sconfitta quando due suoi membri fondatori tra i più devoti alla causa si sono innamorati e sono fuggiti insieme, mentre 13 dei loro 83 centri hanno dovuto chiudere essendo i loro responsabili tornati allegramente alle precedenti abitudini, comprese le ciglia finte. Più dei giovani gay, sono spesso padri e madri a disperarsi, e Pride pubblica la storia ossessiva e distruttiva di Marco, 22 anni, che a 13 fu portato dai genitori che avevano scoperto una sua lettera a un compagno di classe, in un reparto di psichiatria per essere "salvato". Fu affidato ai medici per due anni, poi dichiarato "sano" e restituito ai genitori, i quali non del tutto convinti, lo affidarono per un anno a uno psicologo cattolico. Cocciuti gli affranti genitori, ma anche lui, Marco: iscritto all'università in un'altra città del sud, va a convivere con un compagno, i genitori cercano di fargli smettere gli studi, poi lo fanno seguire da un detective. Altro giro di psichiatri che rifiutano l'insano compito mentre il medico curante gli consiglia d'innamorarsi della mamma per vivere il complesso edipico.
Ascoltando Radio Maria la mamma scopre il centro studi Achille Dedè di Milano, che suggerisce come cura preghiere e buona volontà. Per rappacificarsi con i suoi, Marco telefona al centro e parla con lo psicologo Marchesini che, definendolo privo di dignità, gli suggerisce di rivivere il rapporto col padre, abbandonare gli amici etero colpevoli di averlo accettato; concludendo che i genitori avevano fatto bene a cacciarlo in quanto omosessuale. Il ragazzo si è stufato e si è allontanato dai genitori. La mamma per punire tutti è diventata anoressica e i suoi medici hanno chiesto al figlio di non tornare più a casa.