saluteeuropa.it
Sono gli insegnanti i più a rischio di patologia psichiatrica
Tra i dipendenti pubblici la categoria professionale più esposta a sviluppare patologie psichiatriche risulta essere quella degli insegnanti. A sostenerlo è uno studio pubblicato dall'autorevole rivista bimestrale La Medicina del Lavoro e ripreso oltralpe dalla redazione della testata Le Monde. Neanche a farlo apposta, la notizia giunge - al milione di docenti e agli otto milioni di studenti con relative famiglie - proprio alla ripresa del nuovo anno scolastico.
E' la prima volta in assoluto che una rivista medico-scientifica prospetta un simile rischio professionale per la categoria che, secondo l'opinione corrente, è sempre stata ritenuta la più "riposata". Stando a 3.447 accertamenti d'inabilità al lavoro per motivi di salute - sostiene il dr Lodolo D'Oria, responsabile dell'Area Scuola e Sanità della Fondazione IARD - il disagio mentale colpisce i docenti con una frequenza pari a due volte quella degli impiegati, due volte e mezzo quella del personale sanitario e tre volte quella degli operai.
A differenza delle altre categorie - prosegue il primo firmatario della ricerca, che sarà reperibile da metà settembre all'indirizzo www.fondazioneiard.org, - la prevalenza di tali affezioni tra i docenti è altresì in costante aumento (dal 44.5% del triennio 92-94 al 56.9% del 2001-03) da quando furono abolite le baby-pensioni con la riforma Amato del 1992.
La severità della prognosi ha indotto i Collegi medici - aggiunge l'autore della ricerca - a sancire l'inabilità all'insegnamento nel 90% dei casi (27% temporanea e 63% definitiva), a riprova della gavità delle condizioni psicofisiche dei docenti esaminati. A differenza dei dati riferiti alla popolazione normale dove, secondo il recente studio dell'OMS, le donne fanno registrare un'incidenza doppia di patologie ansioso-depressive rispetto agli uomini, - riprende Lodolo D'Oria - docenti maschi e femmine si ammalano nella stessa misura, a significare che la professione arriva addirittura ad annullare la cospicua differenza tra i sessi. Mentre non si evidenziano differenze significative di disagio mentale tra docenti di scuola materna, elementare, media e superiore - continua Lodolo D'Oria - a discapito dei docenti c'è anche il rischio di sviluppare tumori, superiore di 1.5-2 volte rispetto ad operai e impiegati, e non è da escludere che ciò sia, almeno in parte, dovuto all'esaurimento psicofisico.
Un quadro a tinte fosche - aggiunge l'autore dello studio - imputabile, almeno in parte, all'inerzia che accompagnò i risultati della ricerca - per alcuni versi profetica - svolta nel lontano 1979 dalla CISL assieme all'Università di Pavia. Già allora emerse che il 30% di 2.000 insegnanti del milanese faceva ricorso agli psicofarmaci al fine di far fronte all'usura psicofisica della professione. Per queste ragioni la Fondazione IARD ha attivato l'Area Scuola e Sanità col proposito - conclude Lodolo D'Oria - di offrire servizi di supporto ad istituti scolastici, singoli insegnanti e dirigenti che volessero prevenire e gestire il disagio approfondendo cause, dinamiche, sintomi e soluzioni. Tutto ciò - conclude il medico - nella speranza che le evidenze emerse in questo studio non siano, ancora una volta, sottovalutate da governo, istituzioni e sindacati soprattutto nell'attuale fase di riforma scolastica e previdenziale, in quanto il disagio mentale appare direttamente correlato all'anzianità di servizio.
Ora che l'autorevole rivista La Medicina del Lavoro ha scoperchiato il vaso di Pandora sulle reali condizioni di usura psicofisica degli insegnanti, oltre ad affrontare il disagio dei giovani, si dovrà finalmente pensare a quello dei docenti. Trattando l'argomento correttamente come fanno i sociologi inglesi che, da almeno dieci anni, pubblicano interi libri sul fenomeno del drop-out da burnout (cioè l'abbandono scolastico degli studenti causato da insegnanti esauriti).
Va piuttosto di moda parlare di mobbing, in quanto la colpa è sempre addossata al datore di lavoro - afferma l'autore dello studio pubblicato dalla Medicina del Lavoro - rifuggendo dal pensare che 9 volte su 10 si tratta di manie di persecuzione, un tipico segno di esaurimento psicofisico dell'individuo. Non esiste altresì - prosegue il medico - alcun tipo di supporto o assistenza psichiatrica (da intendersi come prevenzione, diagnosi, orientamento alla cura e reinserimento al lavoro) per i docenti vittima dell'usura mentale.
Attualmente i dirigenti scolastici non sanno a che santo votarsi - sostiene Lodolo D'Oria - perciò esercitano la loro creatività, talvolta improvvisandosi psichiatri e formulando azzardate ipotesi diagnostiche, talaltra "invitando" il malcapitato a trasferirsi per incompatibilità ambientale. Altri manager della scuola preferiscono confinare il "diverso" in una biblioteca o comminargli sanzioni disciplinari. Più raramente lo affidano al giudizio del Collegio Medico della ASL competente, sperando in un improbabile pre-pensionamento.
Nel frattempo la patologia del soggetto si aggrava - continua il ricercatore - fino a rendere invivibile il clima di lavoro, deteriorato da inevitabili conflitti, minacce e denunce nei confronti di tutto e tutti. Senza un supporto medico diviene inoltre impossibile "agganciare" i casi più delicati che, bisognosi di cure, si trincerano dietro un'ostinata quanto scontata negazione della patologia. Il disagio mentale, in costante aumento dalla riforma previdenziale del 1992, è direttamente proporzionale all'anzianità di servizio. Non si capisce pertanto - secondo lo studioso - perché istituzioni e sindacati, non inseriscano l'argomento all'O.d.G. in fase di riforma. Le parti sociali - conclude Lodolo D'Oria - avrebbero altresì l'obbligo statutario di approfondire il tema, considerando l'ipotesi della causa di servizio almeno per alcune delle affezioni psichiatriche riportate dagli iscritti.
Anche il settore medico-scientifico dovrebbe dare il suo contributo - riprende l'autore - indagando sulla reale entità del problema, allo scopo di allertare medici del lavoro (ai sensi della 626/96) e/o di famiglia, in merito al rischio professionale dei docenti. Non è certo un caso - afferma preoccupato Lodolo D'Oria - se abbiamo dovuto attendere il 2004 per vedere ipotizzata la correlazione tra psicopatie e professione docente, ma in fondo fu proprio grazie ad un'osservazione occasionale che la silicosi venne riconosciuta quale patologia professionale dei minatori.
Naturalmente a nulla servirebbe intervenire su chi soffre se non si pensasse anche a fare prevenzione su chi abbraccia la professione ex-novo e su coloro che si trovano in una fase di stress relativo - noto ai più con il nome di burnout. Pertanto, in attesa che le istituzioni si adoperino - solo Lombardia e Veneto, al momento, sembrano porre una timida attenzione all'argomento - la Fondazione IARD ha attivato appositamente l'Area Scuola e Sanità che propone un intervento a tre livelli: prevenzione, supporto e orientamento alla cura. A tal fine sono stati allestiti servizi di prevenzione, counselling, formazione, orientamento alla cura per medici e insegnanti nonché corsi per dirigenti scolastici che prevedono la gestione medico-legale ed il reinserimento lavorativo.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
sabato 11 settembre 2004
Elisabeth Kubler-Ross
tempomedico.it
11 settembre 2004
La morte di Elisabeth Kubler-Ross
La scomparsa della psicologa che rivoluzionò la visione della morte e del morire
di Nadia Crotti, Istituto nazionale tumori di Genova - Tempo Medico n. 782
Elisabeth Kubler-Ross è morta il 24 agosto scorso, dopo un lungo periodo di malattia invalidante (o come tradurremmo più evocativamente dall'inglese "ingiuriosa" poiché le ha imposto di affrontare invalidità motoria e difficoltà verbali ). Psichiatra, docente di medicina comportamentale e psichiatria, il suo nome per chiunque si occupi di morte o malati gravi è legato al primo libro: "La Morte e il morire" ("On Death and Dying", 1969).Forse, il libro più citato (non so se davvero il più letto ) in ogni pubblicazione successiva sui pazienti terminali. Nel '69 appunto strappa la morte dalla realtà biologica, antropologica, storica, filosofica: ne definisce una fase 'il morire' e quindi un percorso di avvicinamento del vivo che morirà, ed in questo percorso cinque stadi di reazione al lutto di se stessi che inizia dopo una diagnosi a prognosi letale, o dopo la consapevolezza di questa. Gli stadi sono: il diniego , la rabbia, la negoziazione, la depressione, l'accettazione. In queste reazioni possiamo rileggere alcuni meccanismi di difesa (negazione, aggressività, regressione, impotenza) non nuovi ma la proposta nuova di E.K.R. è invece leggerli come fasi reattive di adattamento (o coping: modi della capacità di far fronte) che sono modificabili, progressive anche se non lineari, e su cui quindi agire, Per questo, dalla speculazione esistenziale sull'ineluttabile il morire diventa uno spazio di intervento possibile per sostenere in modo non solo sanitario il morente. Controcorrente, in una epoca in cui i messaggi sociali tendono all'onnipotenza salutistica ed estetica, E.K.R. sfida a responsabilizzarsi verso chi morirà in modo che l'obiettivo non sia solo combattere il dolore fisico ma soprattutto affrontare la sofferenza psichica: riconoscere nel soggetto singolo il tipo di sofferenza ed accompagnarlo verso livelli più adattati. Lo psichiatra, lo psicologo, molti medici ed infermieri che eseguono malati gravi hanno un nuovo lavoro: non combattere per la durata a tutti i costi della sopravvivenza ma valutare la capacità del morente di lasciarsi andare, non solo, verso un ineluttabile. Il primo ed i successivi libri (anche sulla morte dei bambini e sull'AIDS ) sono tradotti oltre che in italiano in moltissime lingue. Né il movimento per le cure palliative né l'apertura in Europa ed in Italia degli hospice può prescindere dal suo messaggio iniziale. Personaggio di forte carisma personale, viene invitata al Congresso mondiale di cure palliative di Milano ( Fondazione Floriani, fine anni ottanta). Per chi non c'era può essere rivelatorio un fatto: per tutta la mattina si era parlato di piaghe, morfine, soffocamento, epidemiologia e presidi possibili per le peggiori esperienze immaginabili. Lei esordì con il racconto della propria gemella morta e della sua visita a vari campi di concentramento in cui aveva riscontrato la costanza dei disegni di bambini: farfalle, voli, metamorfosi. Anche quando il suo discorso si fece più tecnico, qualcosa sul piano emozionale era già scattato per tutti: fu necessario continuare a cambiare le traduttrici poiché la simultanea era ritmata da singhiozzi. Durante una conferenza stampa commemorativa, il figlio Kenneth Ross ha dichiarato : "Per lei la morte non era da temere : era come prendere una laurea, superare un passaggio ad uno stato più alto di consapevolezza". Certo, ci ha segnalato un percorso di lavoro. Forse, oggi, alcuni dei fili che lei ha tessuto per poter 'fare' con il morente e con la morte si sono differenziati. E comunque, in un confronto su questi, lei sarà un interlocutore lontano.
11 settembre 2004
La morte di Elisabeth Kubler-Ross
La scomparsa della psicologa che rivoluzionò la visione della morte e del morire
di Nadia Crotti, Istituto nazionale tumori di Genova - Tempo Medico n. 782
Elisabeth Kubler-Ross è morta il 24 agosto scorso, dopo un lungo periodo di malattia invalidante (o come tradurremmo più evocativamente dall'inglese "ingiuriosa" poiché le ha imposto di affrontare invalidità motoria e difficoltà verbali ). Psichiatra, docente di medicina comportamentale e psichiatria, il suo nome per chiunque si occupi di morte o malati gravi è legato al primo libro: "La Morte e il morire" ("On Death and Dying", 1969).Forse, il libro più citato (non so se davvero il più letto ) in ogni pubblicazione successiva sui pazienti terminali. Nel '69 appunto strappa la morte dalla realtà biologica, antropologica, storica, filosofica: ne definisce una fase 'il morire' e quindi un percorso di avvicinamento del vivo che morirà, ed in questo percorso cinque stadi di reazione al lutto di se stessi che inizia dopo una diagnosi a prognosi letale, o dopo la consapevolezza di questa. Gli stadi sono: il diniego , la rabbia, la negoziazione, la depressione, l'accettazione. In queste reazioni possiamo rileggere alcuni meccanismi di difesa (negazione, aggressività, regressione, impotenza) non nuovi ma la proposta nuova di E.K.R. è invece leggerli come fasi reattive di adattamento (o coping: modi della capacità di far fronte) che sono modificabili, progressive anche se non lineari, e su cui quindi agire, Per questo, dalla speculazione esistenziale sull'ineluttabile il morire diventa uno spazio di intervento possibile per sostenere in modo non solo sanitario il morente. Controcorrente, in una epoca in cui i messaggi sociali tendono all'onnipotenza salutistica ed estetica, E.K.R. sfida a responsabilizzarsi verso chi morirà in modo che l'obiettivo non sia solo combattere il dolore fisico ma soprattutto affrontare la sofferenza psichica: riconoscere nel soggetto singolo il tipo di sofferenza ed accompagnarlo verso livelli più adattati. Lo psichiatra, lo psicologo, molti medici ed infermieri che eseguono malati gravi hanno un nuovo lavoro: non combattere per la durata a tutti i costi della sopravvivenza ma valutare la capacità del morente di lasciarsi andare, non solo, verso un ineluttabile. Il primo ed i successivi libri (anche sulla morte dei bambini e sull'AIDS ) sono tradotti oltre che in italiano in moltissime lingue. Né il movimento per le cure palliative né l'apertura in Europa ed in Italia degli hospice può prescindere dal suo messaggio iniziale. Personaggio di forte carisma personale, viene invitata al Congresso mondiale di cure palliative di Milano ( Fondazione Floriani, fine anni ottanta). Per chi non c'era può essere rivelatorio un fatto: per tutta la mattina si era parlato di piaghe, morfine, soffocamento, epidemiologia e presidi possibili per le peggiori esperienze immaginabili. Lei esordì con il racconto della propria gemella morta e della sua visita a vari campi di concentramento in cui aveva riscontrato la costanza dei disegni di bambini: farfalle, voli, metamorfosi. Anche quando il suo discorso si fece più tecnico, qualcosa sul piano emozionale era già scattato per tutti: fu necessario continuare a cambiare le traduttrici poiché la simultanea era ritmata da singhiozzi. Durante una conferenza stampa commemorativa, il figlio Kenneth Ross ha dichiarato : "Per lei la morte non era da temere : era come prendere una laurea, superare un passaggio ad uno stato più alto di consapevolezza". Certo, ci ha segnalato un percorso di lavoro. Forse, oggi, alcuni dei fili che lei ha tessuto per poter 'fare' con il morente e con la morte si sono differenziati. E comunque, in un confronto su questi, lei sarà un interlocutore lontano.
dov'è la fabbrica dei sogni?
Yahoo!Notizie Venerdì 10 Settembre 2004, 19:39
CERVELLO:LA FABBRICA DEI SOGNI E' IN UN'AREA POSTERIORE E PROFONDA
(ANSA) - ROMA, 10 SET - Si trova in profondita' nella parte posteriore del cervello la fabbrica dei sogni.
L'ha suggerito a un'equipe di neurologi dell'Universita' di Zurigo una paziente che, colpita da ictus, ha perso la possibilita' di sognare.
Del caso clinico gli esperti svizzeri hanno dato notizia in un articolo apparso sulla rivista Annals of Neurology.
La zona del cervello danneggiata, ha spiegato Claudio Bassetti che ha condotto lo studio, e' implicata nell'elaborazione visiva e di emozioni, nonche' nella memoria visiva.
La scoperta ha dato conferma del fatto che la fase Rem durante la quale sogniamo e' regolata da regioni cerebrali distinte da quelle dove sono 'confezionati' e controllati i nostri sogni perche' l'anziana paziente mantiene una fase Rem del tutto normale nonostante il suo sonno sia privo di sogni.
Subito dopo l'ictus la paziente, un'anziana di 73 anni, aveva tragicamente perso la vista, hanno raccontato gli scienziati, e presentava altri disturbi minori.
Dopo poco pero' la donna ha ricominciato a vedere e in concomitanza di questo fortuito recupero, la paziente ha riferito agli scienziati di aver perso i suoi sogni, la capacita' di farne.
Cosi' gli scienziati per alcuni mesi hanno osservato il cervello della donna mentre dormiva monitorando le sue attivita' con la risonanza magnetica funzionale per immagini. La donna aveva un ciclo del sonno perfettamente normale senza distorsioni della fase Rem, o di 'rapid eyes moviments', durante la quale sogniamo. Eppure la donna diceva di non sognare piu', segno che i due eventi sono contemporanei ma dipendono da circuiti nervosi distinti.
Sempre con la risonanza gli scienziati hanno potuto tracciare una mappa precisa della zona danneggiata. Le condizioni della donna somigliano molto a quelle di una rara malattia neuro-oftalmica detta sindrome di Charcot-Wilbrand, ha riferito Bassetti, ma per capire il ruolo delle regioni legate all'elaborazione visiva nella produzione dei sogni sono al momento necessari ulteriori studi incentrati sull'analisi di come cambia il modo di fare sogni in pazienti con simili ma piu' circoscritti danni cerebrali.(ANSA).
CERVELLO:LA FABBRICA DEI SOGNI E' IN UN'AREA POSTERIORE E PROFONDA
(ANSA) - ROMA, 10 SET - Si trova in profondita' nella parte posteriore del cervello la fabbrica dei sogni.
L'ha suggerito a un'equipe di neurologi dell'Universita' di Zurigo una paziente che, colpita da ictus, ha perso la possibilita' di sognare.
Del caso clinico gli esperti svizzeri hanno dato notizia in un articolo apparso sulla rivista Annals of Neurology.
La zona del cervello danneggiata, ha spiegato Claudio Bassetti che ha condotto lo studio, e' implicata nell'elaborazione visiva e di emozioni, nonche' nella memoria visiva.
La scoperta ha dato conferma del fatto che la fase Rem durante la quale sogniamo e' regolata da regioni cerebrali distinte da quelle dove sono 'confezionati' e controllati i nostri sogni perche' l'anziana paziente mantiene una fase Rem del tutto normale nonostante il suo sonno sia privo di sogni.
Subito dopo l'ictus la paziente, un'anziana di 73 anni, aveva tragicamente perso la vista, hanno raccontato gli scienziati, e presentava altri disturbi minori.
Dopo poco pero' la donna ha ricominciato a vedere e in concomitanza di questo fortuito recupero, la paziente ha riferito agli scienziati di aver perso i suoi sogni, la capacita' di farne.
Cosi' gli scienziati per alcuni mesi hanno osservato il cervello della donna mentre dormiva monitorando le sue attivita' con la risonanza magnetica funzionale per immagini. La donna aveva un ciclo del sonno perfettamente normale senza distorsioni della fase Rem, o di 'rapid eyes moviments', durante la quale sogniamo. Eppure la donna diceva di non sognare piu', segno che i due eventi sono contemporanei ma dipendono da circuiti nervosi distinti.
Sempre con la risonanza gli scienziati hanno potuto tracciare una mappa precisa della zona danneggiata. Le condizioni della donna somigliano molto a quelle di una rara malattia neuro-oftalmica detta sindrome di Charcot-Wilbrand, ha riferito Bassetti, ma per capire il ruolo delle regioni legate all'elaborazione visiva nella produzione dei sogni sono al momento necessari ulteriori studi incentrati sull'analisi di come cambia il modo di fare sogni in pazienti con simili ma piu' circoscritti danni cerebrali.(ANSA).
religioni
il manifesto 11.9.04
RELIGIONI
La spada nel nome di dio
Pace e guerra Tutte le fedi predicano la pace. Ma poi nel loro nome si combatte
FILIPPO GENTILONI
Le religioni del mondo in prima pagina, come non mai. Ma anche, come non mai, inutili se non addirittura dannose. Un discorso che certamente non è nuovo, ma che le tragedie di oggi ripropongono con amarezza. Dai palazzi delle religioni e dai loro portavoce si ripetono dichiarazioni, convegni, dibattiti, colloqui: tutti confermano le intenzioni di dialogo e di pace, tutti ripetono che i radicalismi pericolosi sono piccole eccezioni, deviazioni di poco conto. Ma intanto i conflitti e le tragedie, anche le più sanguinose, si ripetono e spesso coinvolgono, in un modo o nell'altro, il rispettivo dio. Pregato, invocato, spesso proprio a giustificare, legittimare, se non addirittura premiare chi spara e uccide. E' una storia antica. Ne parlavano già i nostri libri di scuola quando raccontavano la guerra di Troia, le crociate o, vicino a noi, la stragi recenti, come quella degli armeni. Poi sono venuti i secoli della modernità, e, con essa, della laicità. Si è avuta l'impressione che le religioni, anche se non scomparse, avessero dovuto fare un passo indietro. Che si fossero ritirate nelle loro sacrestie, con beneficio di tutti, anche di loro stesse.
RELIGIONI
La spada nel nome di dio
Pace e guerra Tutte le fedi predicano la pace. Ma poi nel loro nome si combatte
FILIPPO GENTILONI
Le religioni del mondo in prima pagina, come non mai. Ma anche, come non mai, inutili se non addirittura dannose. Un discorso che certamente non è nuovo, ma che le tragedie di oggi ripropongono con amarezza. Dai palazzi delle religioni e dai loro portavoce si ripetono dichiarazioni, convegni, dibattiti, colloqui: tutti confermano le intenzioni di dialogo e di pace, tutti ripetono che i radicalismi pericolosi sono piccole eccezioni, deviazioni di poco conto. Ma intanto i conflitti e le tragedie, anche le più sanguinose, si ripetono e spesso coinvolgono, in un modo o nell'altro, il rispettivo dio. Pregato, invocato, spesso proprio a giustificare, legittimare, se non addirittura premiare chi spara e uccide. E' una storia antica. Ne parlavano già i nostri libri di scuola quando raccontavano la guerra di Troia, le crociate o, vicino a noi, la stragi recenti, come quella degli armeni. Poi sono venuti i secoli della modernità, e, con essa, della laicità. Si è avuta l'impressione che le religioni, anche se non scomparse, avessero dovuto fare un passo indietro. Che si fossero ritirate nelle loro sacrestie, con beneficio di tutti, anche di loro stesse.
quattromila e settecento anni fa... sulle Alpi
L'Eco di Bergamo 11.9.04
Tra menhir e stele antropomorfe: antichissime testimonianze a Sion nel Vallese
Il singolare allineamento di antichissimi menhir in un giardino pubblico di Sion
Massimo Centini
L e più antiche tracce di occupazione neolitica del Vallese provengono dal sito della Planta a Sion e risalgono al periodo compreso tra il 4700 e il 4300 a.C. Le indagini condotte in quest'area, hanno permesso di stabilire che si tratta di un sito importante per l'inquadramento della storia della prima colonizzazione agricola delle Alpi. Un'occasione per gli appassionati di storia e cultura delle Alpi che possono trascorrere un piacevole soggiorno a Sion passando in rassegna numerose antiche testimonianze, tra affascinanti resti della cultura megalitica.
Appena raggiunta la città la prima visita d'obbligo è il Museo archeologico cantonale, che raccoglie alcune delle splendide stele antropomorfe rinvenute nell'area del Petit Chasseur, che ne conteneva ventinove. La stele antropomorfa è un'opera in pietra caratterizzata da lavorazioni destinate a rendere riconoscibile non solo il suo legame con la figura antropomorfa, ma anche il sesso del soggetto rappresentato. Di fattura ancora arcaica, probabilmente riproduceva personaggi degni di essere ricordati: antenati mitici, eroi civilizzatori, entità soprannaturali provenienti da un ambito sacrale di cui oggi abbiamo solo una vaga idea.
Quelle di Sion sono caratterizzate da due modelli. Nel primo, il più rozzo, la testa è appena accennata e non vi sono però elementi decorativi relativi al volto. Le braccia sono ripiegate. Completano la raffigurazione dei pugnali. Nel secondo sono invece presenti una testa ben evidenziata, piccole spalle e volto; vi sono l'arco e le frecce e una collana.
Tra il 1967 e il 1972 e in seguito nel biennio 1987-1988, a Sion vennero scavati alcuni importanti documenti della cultura megalitica che con quelle di Aosta (Saint Martin de Corléans) costituiscono una traccia rilevante per conoscere uno degli aspetti più indicativi dell'Età del Rame alpina.
In un giardino pubblico di Sion, Chemin des Collines, è possibile ammirare uno splendido allineamento di menhir che ci riporta alla preistoria, quando queste lunghe pietre erano oggetto di venerazione da parte dell'uomo del Neolitico.
Menhir deriva dal bretone men, pietra, e hir, lunga; indica un monolito infisso nel suolo con dimensioni varie e di forma tendente al parallelepipedo. I menhir possono essere isolati o disposti in allineamenti o circoli. Si tratta di strutture che sembrerebbero ricordare l'obelisco, ovviamente più rozzo e privo di lavorazione. Al menhir sono stati attribuiti numerosi significati: monumenti commemorativi, simboli solari, simulacri di personaggi (antenati), ecc.
Il visitatore sarà particolarmente colpito nell'osservare, nelle stele antropomorfe, la presenza di incisioni raffiguranti il cosiddetto "pendaglio a doppia spirale". È ormai convinzione diffusa tra gli studiosi che si tratti della raffigurazione di monili o gioielli, sono noti esempi rinvenuti in varie tombe È un dato di fatto che questo motivo decorativo fu ampiamente utilizzato dall'Età del Rame a quella del Ferro; in seguito sarà adottato anche l'oro. I documenti più antichi provengono dall'Est europeo, ma in seguito i ritrovamenti si distribuirono su una zona più ampia che dalla Romania giunge alla Svizzera.
Gli archeologi hanno posto questo modello decorativo in relazione al culto della dea madre.
Che il pendaglio a doppia spirale avesse un legame con il divino sembrerebbe confermato dalla presenza di alcuni di questi monili all'interno di siti archeologici in cui si trovavano anche altri oggetti offerti alla divinità. Altri pendagli sono stati rinvenuti nei pressi di corsi d'acqua.
Tra menhir e stele antropomorfe: antichissime testimonianze a Sion nel Vallese
Il singolare allineamento di antichissimi menhir in un giardino pubblico di Sion
Massimo Centini
L e più antiche tracce di occupazione neolitica del Vallese provengono dal sito della Planta a Sion e risalgono al periodo compreso tra il 4700 e il 4300 a.C. Le indagini condotte in quest'area, hanno permesso di stabilire che si tratta di un sito importante per l'inquadramento della storia della prima colonizzazione agricola delle Alpi. Un'occasione per gli appassionati di storia e cultura delle Alpi che possono trascorrere un piacevole soggiorno a Sion passando in rassegna numerose antiche testimonianze, tra affascinanti resti della cultura megalitica.
Appena raggiunta la città la prima visita d'obbligo è il Museo archeologico cantonale, che raccoglie alcune delle splendide stele antropomorfe rinvenute nell'area del Petit Chasseur, che ne conteneva ventinove. La stele antropomorfa è un'opera in pietra caratterizzata da lavorazioni destinate a rendere riconoscibile non solo il suo legame con la figura antropomorfa, ma anche il sesso del soggetto rappresentato. Di fattura ancora arcaica, probabilmente riproduceva personaggi degni di essere ricordati: antenati mitici, eroi civilizzatori, entità soprannaturali provenienti da un ambito sacrale di cui oggi abbiamo solo una vaga idea.
Quelle di Sion sono caratterizzate da due modelli. Nel primo, il più rozzo, la testa è appena accennata e non vi sono però elementi decorativi relativi al volto. Le braccia sono ripiegate. Completano la raffigurazione dei pugnali. Nel secondo sono invece presenti una testa ben evidenziata, piccole spalle e volto; vi sono l'arco e le frecce e una collana.
Tra il 1967 e il 1972 e in seguito nel biennio 1987-1988, a Sion vennero scavati alcuni importanti documenti della cultura megalitica che con quelle di Aosta (Saint Martin de Corléans) costituiscono una traccia rilevante per conoscere uno degli aspetti più indicativi dell'Età del Rame alpina.
In un giardino pubblico di Sion, Chemin des Collines, è possibile ammirare uno splendido allineamento di menhir che ci riporta alla preistoria, quando queste lunghe pietre erano oggetto di venerazione da parte dell'uomo del Neolitico.
Menhir deriva dal bretone men, pietra, e hir, lunga; indica un monolito infisso nel suolo con dimensioni varie e di forma tendente al parallelepipedo. I menhir possono essere isolati o disposti in allineamenti o circoli. Si tratta di strutture che sembrerebbero ricordare l'obelisco, ovviamente più rozzo e privo di lavorazione. Al menhir sono stati attribuiti numerosi significati: monumenti commemorativi, simboli solari, simulacri di personaggi (antenati), ecc.
Il visitatore sarà particolarmente colpito nell'osservare, nelle stele antropomorfe, la presenza di incisioni raffiguranti il cosiddetto "pendaglio a doppia spirale". È ormai convinzione diffusa tra gli studiosi che si tratti della raffigurazione di monili o gioielli, sono noti esempi rinvenuti in varie tombe È un dato di fatto che questo motivo decorativo fu ampiamente utilizzato dall'Età del Rame a quella del Ferro; in seguito sarà adottato anche l'oro. I documenti più antichi provengono dall'Est europeo, ma in seguito i ritrovamenti si distribuirono su una zona più ampia che dalla Romania giunge alla Svizzera.
Gli archeologi hanno posto questo modello decorativo in relazione al culto della dea madre.
Che il pendaglio a doppia spirale avesse un legame con il divino sembrerebbe confermato dalla presenza di alcuni di questi monili all'interno di siti archeologici in cui si trovavano anche altri oggetti offerti alla divinità. Altri pendagli sono stati rinvenuti nei pressi di corsi d'acqua.
Galimberti
di nuovo sabato 11 su Repubblica
Repubblica 11.9.04
Desiderare, sollecitare, pretendere con infinite parole vere e bugiarde
Diffidare degli espistolari amorosi
come sono false le lettere di commiato
Dovendo esprimere l'inesprimibile l'innamorato cerca di mettere in ordine ciò che sfugge alla logica
Quando a regolare il tutto è la passione nessuno è responsabile fino in fondo di quello che è portato a dire
UMBERTO GALIMBERTI
[... chi lo volesse... lo chieda]
Desiderare, sollecitare, pretendere con infinite parole vere e bugiarde
Diffidare degli espistolari amorosi
come sono false le lettere di commiato
Dovendo esprimere l'inesprimibile l'innamorato cerca di mettere in ordine ciò che sfugge alla logica
Quando a regolare il tutto è la passione nessuno è responsabile fino in fondo di quello che è portato a dire
UMBERTO GALIMBERTI
[... chi lo volesse... lo chieda]
Aristotele nella Dichiarazione d'indipendenza americana
Il Giornale di Brescia 10.9.04
Origini classiche del pensiero americano
ARISTOTELE A STELLE E STRISCE
Antonio Donato
La convention di John Kerry e quella del presidente Bush pongono tra i nodi cruciali della politica statunitense la domanda «quale è oggi l’identità degli Usa?». Non è solo uno slogan elettorale ma è uno dei punti su cui intellettuali, politici, giornalisti ma anche gente comune, tanto negli Usa che in Europa, si pongono insistentemente. L’opinione oggi più diffusa è che tra Stati Uniti ed il resto del mondo occidentale, soprattutto l’Europa, sia riscontrabile una radicale differenza riguardo alla concezione dello stato, dell’economia, dell’educazione, dell’arte, della politica e, più in generale, dello stile di vita. Tuttavia, può essere interessante, quanto sorprendente, notare che, secondo gli studi di Henry Jaffa (professore della Claremont Graduate University da poco scomparso), all’origine della cultura degli Stati Uniti ci sia uno degli autori più decisivi per la civiltà europea, Aristotele. Gli studi di Jaffa si concentrano specialmente sulla Dichiarazione d’Indipendenza del 1776 considerata come uno dei punti di partenza fondamentali della cultura statunitense. In questo celebre testo si osserva che i diritti fondamentali dell’uomo che uno stato deve garantire sono tre: il diritto alla libertà, alla vita e alla ricerca della felicità. Tra questi tre diritti l’ultimo è ciò che rende la Dichiarazione d’indipendenza unica ed originale. La maggior parte degli studiosi osserva che questi tre diritti fondamentali si rifanno alla formulazione proposta dal filosofo inglese del XVII secolo John Locke, ovvero «vita, libertà e proprietà». Tuttavia, ciò che stupisce è l’inserimento di un diritto estraneo alla triade di Locke: la ricerca della felicità. Secondo gli studi di Jaffa, questo cambiamento si spiega con l’influenza del pensiero di Aristotele sia su Thomas Jefferson che sugli altri redattori della Dichiarazione d’indipendenza. Il primo elemento che fa parlare in favore di questa tesi è che in quell’epoca in Nord America lo studio di Aristotele in greco era parte del bagaglio culturale di molti intellettuali e uomini politici. Infatti, dalle lettere di Jefferson si apprende di come egli fosse un appassionato lettore tanto dell’Etica Nicomachea quanto della Politica di Aristotele. Jaffa pone come ulteriore prova della sua tesi il fatto che nel XVIII secolo in Nord America si era assistito ad un revival dell’etica e della politica aristotelica e dell’idea che il porre le condizioni per la felicità del cittadino debba essere il fine d’ogni forma di governo. Questo trova riscontro anche nella Dichiarazione dei diritti dello stato della Virginia, di pochi mesi precedente alla Dichiarazione d’indipendenza: «tutti gli uomini per natura hanno dei diritti fondamentali di cui non possono essere privati; essi sono la libertà, la vita e la ricerca della felicità». Il fattore decisivo nel testimoniare le origini aristoteliche della cultura statunitense è la vicinanza tra la nozione di felicità di Aristotele (raffigurato nella foto a fianco) e quella ricavabile sia dalla Dichiarazione d’indipendenza che dagli scritti di Jefferson. La Dichiarazione d’indipendenza con il termine felicità intende l’idea di una vita vissuta bene nel suo complesso, un’esistenza in cui l’individuo è in grado di sviluppare le sue abilità. Questo concetto è lo stesso che Aristotele esprime nel primo libro dell’Etica Nicomachea dove osserva che ciò che rende felice la vita di un individuo è il possedere tutti quei beni come la salute, l’agiatezza, l’amicizia e le virtù che sono elementi costitutivi della felicità e che consentono ad un individuo di realizzare completamente le sue potenzialità. La familiarità di Jefferson con quest’idea di felicità è riscontrabile nel suo testo Osservazioni sullo Stato della Virginia del 1779, nel quale, descrivendo il nuovo del sistema di educazione pubblica da lui implementato, egli nota che «si deve istillare in ogni ragazzo la volontà di sviluppare la felicità mostrando loro che essa non dipende dal caso ma che è il risultato di una buona coscienza, buona salute e libertà». La vicinanza di Jefferson con l’idea aristotelica di felicità è documentata anche da diverse lettere tra cui quella scritta a suo nipote Peter Carr nel 1788 dove raccomanda «sii assiduo nel conoscere, abbi grande cura della tua salute e pratica la virtù, in questo modo sarai davvero felice». Queste parole rivelano una profonda vicinanza con il pensiero d’Aristotele per il quale la felicità consiste nella realizzazione delle capacità dell’individuo considerato nella sua interezza. L’ultimo elemento di vicinanza tra Aristotele e la Dichiarazione d’indipendenza consiste nel modo in cui è concepito il fine di ogni forma di governo. La Dichiarazione d’indipendenza osserva che una società organizzata o un governo deve fornire ad ogni essere umano le condizioni esterne indispensabili per rendere possibile la ricerca della felicità. Infatti, è diritto di ogni individuo l’essere messo in grado di poter ricercare la felicità, non ottenerla. Questa idea è esattamente quella che Aristotele esprime nel capitolo II del primo libro della Politica: «Quando diversi villaggi si uniscono in un’unica comunità, grande abbastanza da essere autosufficiente, nasce lo Stato, che si origina dalla fondamentale esigenza di proteggere la vita e che continua ad esistere per promuovere la felicità di chi ne fa parte». La vicinanza di Jefferson a quest’idea la si può riscontrare in molte delle sue lettere ed, in particolare, in una lettera del 1812 all’amico Van der Kemp: «l’unico fondamentale scopo che un governo deve perseguire è quello di assicurare il più ampio grado di felicità a tutti i suoi cittadini». Forse, quindi, è proprio ricordando le origini classiche della propria cultura che gli Usa possono trovare una promettente via nella ricerca della propria identità. Allo stesso tempo, in Europa, lo scoprire che la cultura statunitense è il risultato di un’originale rielaborazione del pensiero greco può fornire gli strumenti per farci apparire gli Usa sotto una nuova e differente luce.
Origini classiche del pensiero americano
ARISTOTELE A STELLE E STRISCE
Antonio Donato
La convention di John Kerry e quella del presidente Bush pongono tra i nodi cruciali della politica statunitense la domanda «quale è oggi l’identità degli Usa?». Non è solo uno slogan elettorale ma è uno dei punti su cui intellettuali, politici, giornalisti ma anche gente comune, tanto negli Usa che in Europa, si pongono insistentemente. L’opinione oggi più diffusa è che tra Stati Uniti ed il resto del mondo occidentale, soprattutto l’Europa, sia riscontrabile una radicale differenza riguardo alla concezione dello stato, dell’economia, dell’educazione, dell’arte, della politica e, più in generale, dello stile di vita. Tuttavia, può essere interessante, quanto sorprendente, notare che, secondo gli studi di Henry Jaffa (professore della Claremont Graduate University da poco scomparso), all’origine della cultura degli Stati Uniti ci sia uno degli autori più decisivi per la civiltà europea, Aristotele. Gli studi di Jaffa si concentrano specialmente sulla Dichiarazione d’Indipendenza del 1776 considerata come uno dei punti di partenza fondamentali della cultura statunitense. In questo celebre testo si osserva che i diritti fondamentali dell’uomo che uno stato deve garantire sono tre: il diritto alla libertà, alla vita e alla ricerca della felicità. Tra questi tre diritti l’ultimo è ciò che rende la Dichiarazione d’indipendenza unica ed originale. La maggior parte degli studiosi osserva che questi tre diritti fondamentali si rifanno alla formulazione proposta dal filosofo inglese del XVII secolo John Locke, ovvero «vita, libertà e proprietà». Tuttavia, ciò che stupisce è l’inserimento di un diritto estraneo alla triade di Locke: la ricerca della felicità. Secondo gli studi di Jaffa, questo cambiamento si spiega con l’influenza del pensiero di Aristotele sia su Thomas Jefferson che sugli altri redattori della Dichiarazione d’indipendenza. Il primo elemento che fa parlare in favore di questa tesi è che in quell’epoca in Nord America lo studio di Aristotele in greco era parte del bagaglio culturale di molti intellettuali e uomini politici. Infatti, dalle lettere di Jefferson si apprende di come egli fosse un appassionato lettore tanto dell’Etica Nicomachea quanto della Politica di Aristotele. Jaffa pone come ulteriore prova della sua tesi il fatto che nel XVIII secolo in Nord America si era assistito ad un revival dell’etica e della politica aristotelica e dell’idea che il porre le condizioni per la felicità del cittadino debba essere il fine d’ogni forma di governo. Questo trova riscontro anche nella Dichiarazione dei diritti dello stato della Virginia, di pochi mesi precedente alla Dichiarazione d’indipendenza: «tutti gli uomini per natura hanno dei diritti fondamentali di cui non possono essere privati; essi sono la libertà, la vita e la ricerca della felicità». Il fattore decisivo nel testimoniare le origini aristoteliche della cultura statunitense è la vicinanza tra la nozione di felicità di Aristotele (raffigurato nella foto a fianco) e quella ricavabile sia dalla Dichiarazione d’indipendenza che dagli scritti di Jefferson. La Dichiarazione d’indipendenza con il termine felicità intende l’idea di una vita vissuta bene nel suo complesso, un’esistenza in cui l’individuo è in grado di sviluppare le sue abilità. Questo concetto è lo stesso che Aristotele esprime nel primo libro dell’Etica Nicomachea dove osserva che ciò che rende felice la vita di un individuo è il possedere tutti quei beni come la salute, l’agiatezza, l’amicizia e le virtù che sono elementi costitutivi della felicità e che consentono ad un individuo di realizzare completamente le sue potenzialità. La familiarità di Jefferson con quest’idea di felicità è riscontrabile nel suo testo Osservazioni sullo Stato della Virginia del 1779, nel quale, descrivendo il nuovo del sistema di educazione pubblica da lui implementato, egli nota che «si deve istillare in ogni ragazzo la volontà di sviluppare la felicità mostrando loro che essa non dipende dal caso ma che è il risultato di una buona coscienza, buona salute e libertà». La vicinanza di Jefferson con l’idea aristotelica di felicità è documentata anche da diverse lettere tra cui quella scritta a suo nipote Peter Carr nel 1788 dove raccomanda «sii assiduo nel conoscere, abbi grande cura della tua salute e pratica la virtù, in questo modo sarai davvero felice». Queste parole rivelano una profonda vicinanza con il pensiero d’Aristotele per il quale la felicità consiste nella realizzazione delle capacità dell’individuo considerato nella sua interezza. L’ultimo elemento di vicinanza tra Aristotele e la Dichiarazione d’indipendenza consiste nel modo in cui è concepito il fine di ogni forma di governo. La Dichiarazione d’indipendenza osserva che una società organizzata o un governo deve fornire ad ogni essere umano le condizioni esterne indispensabili per rendere possibile la ricerca della felicità. Infatti, è diritto di ogni individuo l’essere messo in grado di poter ricercare la felicità, non ottenerla. Questa idea è esattamente quella che Aristotele esprime nel capitolo II del primo libro della Politica: «Quando diversi villaggi si uniscono in un’unica comunità, grande abbastanza da essere autosufficiente, nasce lo Stato, che si origina dalla fondamentale esigenza di proteggere la vita e che continua ad esistere per promuovere la felicità di chi ne fa parte». La vicinanza di Jefferson a quest’idea la si può riscontrare in molte delle sue lettere ed, in particolare, in una lettera del 1812 all’amico Van der Kemp: «l’unico fondamentale scopo che un governo deve perseguire è quello di assicurare il più ampio grado di felicità a tutti i suoi cittadini». Forse, quindi, è proprio ricordando le origini classiche della propria cultura che gli Usa possono trovare una promettente via nella ricerca della propria identità. Allo stesso tempo, in Europa, lo scoprire che la cultura statunitense è il risultato di un’originale rielaborazione del pensiero greco può fornire gli strumenti per farci apparire gli Usa sotto una nuova e differente luce.
Giulio Giorello:
Gilgamesh
Corriere della Sera 11.9.04
Gilgamesh nel Paese del Non Ritorno Il destino del dio condannato a morire
di GIULIO GIORELLO
Ben prima di Pascal i poeti dell’antica Mesopotamia sanno che l’uomo è una «canna che pensa». La citazione è tratta dall’epopea di Gilgamesh, il grande poema dei Sumeri che fu poi anche degli Assiri, dei Babilonesi e degli stessi Ittiti (e di cui una pallida eco arriva alla cultura greca dopo Alessandro Magno) e che continua a vivere nella tradizione orale delle genti del vicino Oriente (si veda la ricostruzione di Giovanni Pettinato, La saga di Gilgamesh , Rusconi, 1992; una nuova edizione è annunciata per la fine dell’anno da Mondadori).
Il sovrano di Uruk, sconvolto dalla morte del sodale Enkidu - insieme al quale aveva sconfitto i mostri del Cielo e della Terra - va in cerca del segreto dell’immortalità; ma non riesce a estorcerlo nemmeno all’unico uomo esentato dalla morte, Utanapishtim (prototipo del Noè della Bibbia) che grazie alla sua perizia tecnica era riuscito a salvarsi dal Diluvio, scatenato dagli dèi infastiditi dal «rumore» prodotto dagli umani.
Avuta per consolazione la pianta della perpetua giovinezza, Gilgamesh perde anche questa prima di poterla portare agli Anziani della sua città. Mentre si bagna nel fiume, un serpente gliela sottrae, lasciandogli in cambio «la sua vecchia pelle». Non c’è Fenice che rinasca dalle ceneri, non resurrezione della carne. Nel Paese dei Due Fiumi gli stessi dèi possono morire, ovvero restare sequestrati nel Paese del Non Ritorno, come mostrano le peripezie della splendida e terribile dea Inanna che, spogliata dei suoi amuleti e delle sue vesti, finirà nuda e prigioniera davanti alla divinità che regna sui defunti (riuscirà a scamparla dando una vita in cambio, quella del marito - vedi Giovanni Pettinato, Mitologia sumerica , Utet, 2001).
Così la parola mitica (a rigore quella che tratta degli dèi) e la parola epica (quella per le creature mortali) rivelano un nichilismo radicale:
Eppure, queste genti lontane che detestano la morte che fa di ogni defunto un «prigioniero», sanno amare impetuosamente la vita: nelle loro passioni, nelle loro guerre, nella loro architettura e nella loro scienza.
Ne fa fede la determinazione di Inanna e di Gilgamesh a non arrendersi mai, perché chi sa davvero vivere è capace anche di fare esperienza di libertà. Del resto, come recita un proverbio babilonese: «Persino un cane è libero nella nostra città».
Gilgamesh nel Paese del Non Ritorno Il destino del dio condannato a morire
di GIULIO GIORELLO
«L’umanità è recisa come canne in un canneto
eppure nessuno vede la faccia della morte»
Ben prima di Pascal i poeti dell’antica Mesopotamia sanno che l’uomo è una «canna che pensa». La citazione è tratta dall’epopea di Gilgamesh, il grande poema dei Sumeri che fu poi anche degli Assiri, dei Babilonesi e degli stessi Ittiti (e di cui una pallida eco arriva alla cultura greca dopo Alessandro Magno) e che continua a vivere nella tradizione orale delle genti del vicino Oriente (si veda la ricostruzione di Giovanni Pettinato, La saga di Gilgamesh , Rusconi, 1992; una nuova edizione è annunciata per la fine dell’anno da Mondadori).
Il sovrano di Uruk, sconvolto dalla morte del sodale Enkidu - insieme al quale aveva sconfitto i mostri del Cielo e della Terra - va in cerca del segreto dell’immortalità; ma non riesce a estorcerlo nemmeno all’unico uomo esentato dalla morte, Utanapishtim (prototipo del Noè della Bibbia) che grazie alla sua perizia tecnica era riuscito a salvarsi dal Diluvio, scatenato dagli dèi infastiditi dal «rumore» prodotto dagli umani.
Avuta per consolazione la pianta della perpetua giovinezza, Gilgamesh perde anche questa prima di poterla portare agli Anziani della sua città. Mentre si bagna nel fiume, un serpente gliela sottrae, lasciandogli in cambio «la sua vecchia pelle». Non c’è Fenice che rinasca dalle ceneri, non resurrezione della carne. Nel Paese dei Due Fiumi gli stessi dèi possono morire, ovvero restare sequestrati nel Paese del Non Ritorno, come mostrano le peripezie della splendida e terribile dea Inanna che, spogliata dei suoi amuleti e delle sue vesti, finirà nuda e prigioniera davanti alla divinità che regna sui defunti (riuscirà a scamparla dando una vita in cambio, quella del marito - vedi Giovanni Pettinato, Mitologia sumerica , Utet, 2001).
Così la parola mitica (a rigore quella che tratta degli dèi) e la parola epica (quella per le creature mortali) rivelano un nichilismo radicale:
«I fratelli possono dividersi l’eredità,
vi può essere guerra nel paese,
possono i fiumi ingrossarsi e portare inondazioni:
il tutto assomiglia alle libellule che sorvolano il fiume;
il loro sguardo si rivolge al sole,
e subito non c’è più nulla»
Eppure, queste genti lontane che detestano la morte che fa di ogni defunto un «prigioniero», sanno amare impetuosamente la vita: nelle loro passioni, nelle loro guerre, nella loro architettura e nella loro scienza.
Ne fa fede la determinazione di Inanna e di Gilgamesh a non arrendersi mai, perché chi sa davvero vivere è capace anche di fare esperienza di libertà. Del resto, come recita un proverbio babilonese: «Persino un cane è libero nella nostra città».
Maxime Rodinson:
vivere con gli arabi
Le Monde Diplomatique
Vivere con gli arabi
Maxime Rodinson
Il sociologo e storico orientalista Maxime Rodinson ci ha lasciato il 23 maggio 2004. Autodidatta, è stato un linguista eccezionale (padroneggiava una trentina di lingue e dialetti) e uno scrittore prolifico: gli dobbiamo in particolare Maometto, Islam e capitalismo, Israele e il rifiuto arabo (Einaudi), Il fascino dell'Islam (Dedalo), Gli arabi (Sansoni). Si è battuto soprattutto perché fosse resa giustizia al popolo palestinese. Alla vigilia dello scoppio della guerra del 1967, su Le Monde del 4-5 giugno aveva pubblicato un articolo premonitore, che riportiamo qui di seguito.
Il 9 agosto 1903 il conte Serge de Witte, ministro delle finanze dello zar Nicola II, spiegava benevolmente al giornalista viennese Theodor Herzl, che gli aveva appena dimostrato come l'applicazione della dottrina del sionismo politico (di cui egli stesso era il fondatore) avrebbe dovuto essere sostenuta dall'imperatore ortodosso: «Ero solito dire al povero imperatore Alessandro III: "Se fosse possibile, Maestà, annegare nel mar Nero sei o sette milioni di ebrei, ne sarei pienamente soddisfatto. Ma non è possibile. Allora, dobbiamo lasciarli vivere!"».
Altri sono riusciti a trovare le possibilità tecniche che mancavano agli antisemiti russi. Anche quello, in definitiva, non è servito loro più di tanto. Forse, malgrado tutto, possiamo imparare qualcosa dalla rassegnazione del nobile russo.
Lo stato sionista ha scelto di vivere in Palestina, cioè nel bel mezzo del mondo arabo. Era una scelta pericolosa. Gli avvertimenti non gli sono mancati, soprattutto da parte degli ebrei non sionisti, e non simpatizzanti del sionismo, che per molto tempo sono stati la grande maggioranza. Ma alla fine questo gruppo di ebrei che ha progettato e poi realizzato questo stato, ha tenuto ferma la sua scelta. Scelta che adesso ha avuto tempo di esplicitare tutte le sue conseguenze. Inutile ritornare sulla questione. Ma qualsiasi albero si giudica dai frutti che dà.
La crisi attuale fa emergere un fatto nuovo (fatte le debite riserve sul futuro corso degli eventi). Israele, fino a oggi, nei confronti del mondo arabo parlava un linguaggio chiaro e semplice: «Siamo qui perché siamo i più forti, ci resteremo finché saremo i più forti.
Che vi piaccia o no. E saremo sempre i più forti grazie ai nostri amici del mondo industrializzato. Spetta a voi trarne le conclusioni, prendere atto della vostra sconfitta e della vostra debolezza, accettarci così come siamo sul territorio che vi abbiamo preso». Come rispondere a un discorso del genere, se non con la rassegnazione o con la sfida?
La pace si può conquistare grazie alla rassegnazione araba. Ma questa rassegnazione, auspicata o deplorata che sia, non sembra a portata di mano. Gli arabi non vogliono «sentire ragioni», cioè non vogliono accettare la sconfitta che è loro stata inflitta, senza contropartita, così come l'Irlanda ha finito per accettare (ma è stata veramente senza contropartita?) l'amputazione dell'Ulster sulla base di una colonizzazione inglese protestante vecchia di trecento anni. Forse un giorno l'accetteranno. I politici israeliani sono padroni di scommetterci sopra, se credono di poter resistere sino allora.
La crisi attuale induce soltanto a pensare che gli uomini politici israeliani cominciano a dubitare di poter attendere così a lungo, e a sospettare che gli arabi non si rassegneranno in un futuro prevedibile.
Che cosa vediamo, infatti? Mentre i sionisti e i loro sostenitori avevano sempre dichiarato che l'ostilità a Israele nei paesi arabi era un fenomeno artificioso, abilmente fomentato dai loro dirigenti, vediamo che i capi arabi che hanno più da temere da una mobilitazione popolare danno le armi ai loro peggiori nemici, vediamo i rivali più feroci del presidente egiziano Nasser venire in suo soccorso o porsi ai suoi ordini. E tuttavia è di notorietà pubblica che il più caldo desiderio di questi rivali arabi sarebbe quello di allearsi con Israele per strangolare quell'egiziano così ingombrante. Spesso è vero anche il discorso inverso. Soltanto che questo atteggiamento è impossibile agli uni e agli altri. Non possono far altro che seguire le loro truppe. Come spiegare questo fatto se non in base alla forza del risentimento popolare contro Israele? Che fare dunque? Israele certo può continuare a dialogare da solo, come dice R. Misrahi. Può continuare a spiegare o a far spiegare dai suoi amici agli arabi che sbagliano completamente a comportarsi così, può appellarsi al loro senso di umanità, stigmatizzarli come popolo arretrato, fanatico, antisemita, fascista, e via dicendo.
Non sembra che vent'anni di pratica di queste esortazioni e di queste denunce incoraggino a sperare di ottenere molto con questo sistema.
Alcuni, come il marxista sionista arabo A. R. Abdel-Kader, caso più unico che raro, possono ancora sperare in una rivoluzione politica o sociale che porterebbe al potere nei paesi arabi elementi disposti ad accettare Israele. Le rivoluzioni che hanno conosciuto questi paesi, invece, hanno piuttosto portato al potere elementi la cui politica era sempre più decisamente anti-israeliana. Oppure, se volevano una soluzione pacifica, la pressione della rappresaglia resa possibile unicamente dalla sensibilità della loro opinione pubblica al problema, li riportava in tutta fretta all'anti-israelismo abituale. Ognuno è libero di sognare ancora una rivoluzione inedita, che sarebbe il miracolo e la sorpresa divina per Israele. Pochi realisti lo faranno.
Lo scorso anno, Abdel-Kader dedicava il suo ultimo libro a Mao Tse-tung.
Questi ha dimostrato un anti-israelismo più radicale di tutti i suoi precursori. Ironia della storia! Con gli arabi che si ostinano a scegliere la sfida, non rimane altra soluzione se non la forza. Ma, per la prima volta, Israele sembra dubitare della propria forza. Almeno, è quanto ci fanno intendere i suoi amici.
E poi, supponiamo che scoppi il conflitto e che Israele ne sia il vincitore. Che fare degli arabi? Ritorniamo al conte de Witte. È possibile annegarli tutti nel mar Rosso? Mantenerli sotto amministrazione diretta israeliana? Ancora più impossibile. Insediare ovunque regimi filo israeliani? Nessuno, gli israeliani meno che mai, dubita che sarebbero soltanto regimi fantoccio scossi dalle rivolte, facili prede di una guerriglia incessante. Anche questa soluzione è impraticabile.
È dunque necessario vivere con gli arabi, volenti e nolenti. E con gli arabi non rassegnati. Allora, come fare?
C'è soltanto una probabilità forse, per quanto minima, per uscire da questo vicolo cieco in cui si sono precipitati i sionisti come i mercenari di Cartagine nella Gola dell'Ascia. Consiste nell'offrire agli arabi di negoziare, non più come si fa da vent'anni a questa parte sulla base dell'accettazione pura e semplice del fatto compiuto a loro danno, ma piuttosto proclamando in linea di principio che si vuol rendere loro giustizia, riparare il torto che si è loro fatto.
Penso che sia questo l'unico linguaggio che abbia qualche probabilità di essere accettato dall'altra parte. L'unico discorso che forse potrebbe provocare nell'altro quel riconoscimento tanto atteso del fatto nazionale israeliano, ormai acquisito dai lavori e dalle sofferenze di questi ultimi decenni, e non certo dal ricordo di un mito di venti secoli addietro.
Israele può rifiutare una simile concessione, dichiarata a gran voce.
Lo sciovinismo che ha attecchito, ahimè, in gran parte della sua popolazione, può indignarsi per una simile «viltà» e non consentire ai suoi leader questo gesto di saggezza. E poi, Israele può ancora vincere questa partita, grazie soprattutto ai suoi potenti protettori.
Ma c'è ancora qualcuno che non vede che questa vittoria non potrà ripetersi all'infinito? Non è forse un segno, l'emozione attuale?
Agli zeloti d'Israele e ai loro amici, si può ricordare che i sionisti hanno cercato, e con accanimento, l'accordo delle potenze europee fin dai tempi di Herzl? Hanno bussato alla corte dello zar, del sultano, del papa, dell'Inghilterra. Il loro insediamento non sarebbe stato compiuto, checché ne possano dire, senza la dichiarazione di Balfour, atto politico britannico, senza la decisione di spartizione dell'Onu del 1947, atto politico sovietico-americano.
Siamo nel 1967. Sarebbe ora di cercare l'accordo degli arabi, ai quali questa terra è stata sottratta. Non gli arabi del mito, gli arabi del desiderio, gli arabi che si vorrebbero miracolosamente convertiti alle tesi israeliane grazie alle esortazioni dei filo-sionisti del mondo, le lezioni dei professori di morale, la lettura dell'Antico Testamento o dei testi classici del marxismo-leninismo. Ma semplicemente gli arabi così come sono, gli arabi che rifiutano di accettare senza contropartita una conquista compiuta a loro danno. Si può deplorare che le cose stiano così. Ma sarebbe soltanto un modo di perder tempo.
Se esiste una tradizione nella storia ebraica, è quella del suicidio collettivo. È consentito ai puri esteti di ammirarne la selvaggia bellezza. Forse, come fece Geremia con coloro la cui politica aveva portato alla distruzione del primo tempio, come fece Yohanan ben Zakkai con coloro che provocarono la rovina del terzo tempio, si può ricordare che esiste un'altra via, molto stretta perché così l'ha resa la politica del passato? Si può sperare che coloro che si proclamano innanzitutto costruttori e coltivatori sceglieranno questa via della vita.
(Traduzione di R.I.)
Vivere con gli arabi
Maxime Rodinson
Il sociologo e storico orientalista Maxime Rodinson ci ha lasciato il 23 maggio 2004. Autodidatta, è stato un linguista eccezionale (padroneggiava una trentina di lingue e dialetti) e uno scrittore prolifico: gli dobbiamo in particolare Maometto, Islam e capitalismo, Israele e il rifiuto arabo (Einaudi), Il fascino dell'Islam (Dedalo), Gli arabi (Sansoni). Si è battuto soprattutto perché fosse resa giustizia al popolo palestinese. Alla vigilia dello scoppio della guerra del 1967, su Le Monde del 4-5 giugno aveva pubblicato un articolo premonitore, che riportiamo qui di seguito.
Il 9 agosto 1903 il conte Serge de Witte, ministro delle finanze dello zar Nicola II, spiegava benevolmente al giornalista viennese Theodor Herzl, che gli aveva appena dimostrato come l'applicazione della dottrina del sionismo politico (di cui egli stesso era il fondatore) avrebbe dovuto essere sostenuta dall'imperatore ortodosso: «Ero solito dire al povero imperatore Alessandro III: "Se fosse possibile, Maestà, annegare nel mar Nero sei o sette milioni di ebrei, ne sarei pienamente soddisfatto. Ma non è possibile. Allora, dobbiamo lasciarli vivere!"».
Altri sono riusciti a trovare le possibilità tecniche che mancavano agli antisemiti russi. Anche quello, in definitiva, non è servito loro più di tanto. Forse, malgrado tutto, possiamo imparare qualcosa dalla rassegnazione del nobile russo.
Lo stato sionista ha scelto di vivere in Palestina, cioè nel bel mezzo del mondo arabo. Era una scelta pericolosa. Gli avvertimenti non gli sono mancati, soprattutto da parte degli ebrei non sionisti, e non simpatizzanti del sionismo, che per molto tempo sono stati la grande maggioranza. Ma alla fine questo gruppo di ebrei che ha progettato e poi realizzato questo stato, ha tenuto ferma la sua scelta. Scelta che adesso ha avuto tempo di esplicitare tutte le sue conseguenze. Inutile ritornare sulla questione. Ma qualsiasi albero si giudica dai frutti che dà.
La crisi attuale fa emergere un fatto nuovo (fatte le debite riserve sul futuro corso degli eventi). Israele, fino a oggi, nei confronti del mondo arabo parlava un linguaggio chiaro e semplice: «Siamo qui perché siamo i più forti, ci resteremo finché saremo i più forti.
Che vi piaccia o no. E saremo sempre i più forti grazie ai nostri amici del mondo industrializzato. Spetta a voi trarne le conclusioni, prendere atto della vostra sconfitta e della vostra debolezza, accettarci così come siamo sul territorio che vi abbiamo preso». Come rispondere a un discorso del genere, se non con la rassegnazione o con la sfida?
La pace si può conquistare grazie alla rassegnazione araba. Ma questa rassegnazione, auspicata o deplorata che sia, non sembra a portata di mano. Gli arabi non vogliono «sentire ragioni», cioè non vogliono accettare la sconfitta che è loro stata inflitta, senza contropartita, così come l'Irlanda ha finito per accettare (ma è stata veramente senza contropartita?) l'amputazione dell'Ulster sulla base di una colonizzazione inglese protestante vecchia di trecento anni. Forse un giorno l'accetteranno. I politici israeliani sono padroni di scommetterci sopra, se credono di poter resistere sino allora.
La crisi attuale induce soltanto a pensare che gli uomini politici israeliani cominciano a dubitare di poter attendere così a lungo, e a sospettare che gli arabi non si rassegneranno in un futuro prevedibile.
Che cosa vediamo, infatti? Mentre i sionisti e i loro sostenitori avevano sempre dichiarato che l'ostilità a Israele nei paesi arabi era un fenomeno artificioso, abilmente fomentato dai loro dirigenti, vediamo che i capi arabi che hanno più da temere da una mobilitazione popolare danno le armi ai loro peggiori nemici, vediamo i rivali più feroci del presidente egiziano Nasser venire in suo soccorso o porsi ai suoi ordini. E tuttavia è di notorietà pubblica che il più caldo desiderio di questi rivali arabi sarebbe quello di allearsi con Israele per strangolare quell'egiziano così ingombrante. Spesso è vero anche il discorso inverso. Soltanto che questo atteggiamento è impossibile agli uni e agli altri. Non possono far altro che seguire le loro truppe. Come spiegare questo fatto se non in base alla forza del risentimento popolare contro Israele? Che fare dunque? Israele certo può continuare a dialogare da solo, come dice R. Misrahi. Può continuare a spiegare o a far spiegare dai suoi amici agli arabi che sbagliano completamente a comportarsi così, può appellarsi al loro senso di umanità, stigmatizzarli come popolo arretrato, fanatico, antisemita, fascista, e via dicendo.
Non sembra che vent'anni di pratica di queste esortazioni e di queste denunce incoraggino a sperare di ottenere molto con questo sistema.
Alcuni, come il marxista sionista arabo A. R. Abdel-Kader, caso più unico che raro, possono ancora sperare in una rivoluzione politica o sociale che porterebbe al potere nei paesi arabi elementi disposti ad accettare Israele. Le rivoluzioni che hanno conosciuto questi paesi, invece, hanno piuttosto portato al potere elementi la cui politica era sempre più decisamente anti-israeliana. Oppure, se volevano una soluzione pacifica, la pressione della rappresaglia resa possibile unicamente dalla sensibilità della loro opinione pubblica al problema, li riportava in tutta fretta all'anti-israelismo abituale. Ognuno è libero di sognare ancora una rivoluzione inedita, che sarebbe il miracolo e la sorpresa divina per Israele. Pochi realisti lo faranno.
Lo scorso anno, Abdel-Kader dedicava il suo ultimo libro a Mao Tse-tung.
Questi ha dimostrato un anti-israelismo più radicale di tutti i suoi precursori. Ironia della storia! Con gli arabi che si ostinano a scegliere la sfida, non rimane altra soluzione se non la forza. Ma, per la prima volta, Israele sembra dubitare della propria forza. Almeno, è quanto ci fanno intendere i suoi amici.
E poi, supponiamo che scoppi il conflitto e che Israele ne sia il vincitore. Che fare degli arabi? Ritorniamo al conte de Witte. È possibile annegarli tutti nel mar Rosso? Mantenerli sotto amministrazione diretta israeliana? Ancora più impossibile. Insediare ovunque regimi filo israeliani? Nessuno, gli israeliani meno che mai, dubita che sarebbero soltanto regimi fantoccio scossi dalle rivolte, facili prede di una guerriglia incessante. Anche questa soluzione è impraticabile.
È dunque necessario vivere con gli arabi, volenti e nolenti. E con gli arabi non rassegnati. Allora, come fare?
C'è soltanto una probabilità forse, per quanto minima, per uscire da questo vicolo cieco in cui si sono precipitati i sionisti come i mercenari di Cartagine nella Gola dell'Ascia. Consiste nell'offrire agli arabi di negoziare, non più come si fa da vent'anni a questa parte sulla base dell'accettazione pura e semplice del fatto compiuto a loro danno, ma piuttosto proclamando in linea di principio che si vuol rendere loro giustizia, riparare il torto che si è loro fatto.
Penso che sia questo l'unico linguaggio che abbia qualche probabilità di essere accettato dall'altra parte. L'unico discorso che forse potrebbe provocare nell'altro quel riconoscimento tanto atteso del fatto nazionale israeliano, ormai acquisito dai lavori e dalle sofferenze di questi ultimi decenni, e non certo dal ricordo di un mito di venti secoli addietro.
Israele può rifiutare una simile concessione, dichiarata a gran voce.
Lo sciovinismo che ha attecchito, ahimè, in gran parte della sua popolazione, può indignarsi per una simile «viltà» e non consentire ai suoi leader questo gesto di saggezza. E poi, Israele può ancora vincere questa partita, grazie soprattutto ai suoi potenti protettori.
Ma c'è ancora qualcuno che non vede che questa vittoria non potrà ripetersi all'infinito? Non è forse un segno, l'emozione attuale?
Agli zeloti d'Israele e ai loro amici, si può ricordare che i sionisti hanno cercato, e con accanimento, l'accordo delle potenze europee fin dai tempi di Herzl? Hanno bussato alla corte dello zar, del sultano, del papa, dell'Inghilterra. Il loro insediamento non sarebbe stato compiuto, checché ne possano dire, senza la dichiarazione di Balfour, atto politico britannico, senza la decisione di spartizione dell'Onu del 1947, atto politico sovietico-americano.
Siamo nel 1967. Sarebbe ora di cercare l'accordo degli arabi, ai quali questa terra è stata sottratta. Non gli arabi del mito, gli arabi del desiderio, gli arabi che si vorrebbero miracolosamente convertiti alle tesi israeliane grazie alle esortazioni dei filo-sionisti del mondo, le lezioni dei professori di morale, la lettura dell'Antico Testamento o dei testi classici del marxismo-leninismo. Ma semplicemente gli arabi così come sono, gli arabi che rifiutano di accettare senza contropartita una conquista compiuta a loro danno. Si può deplorare che le cose stiano così. Ma sarebbe soltanto un modo di perder tempo.
Se esiste una tradizione nella storia ebraica, è quella del suicidio collettivo. È consentito ai puri esteti di ammirarne la selvaggia bellezza. Forse, come fece Geremia con coloro la cui politica aveva portato alla distruzione del primo tempio, come fece Yohanan ben Zakkai con coloro che provocarono la rovina del terzo tempio, si può ricordare che esiste un'altra via, molto stretta perché così l'ha resa la politica del passato? Si può sperare che coloro che si proclamano innanzitutto costruttori e coltivatori sceglieranno questa via della vita.
(Traduzione di R.I.)
viaggio d'autore:
Claudio Magris in Iran
Corriere della Sera 5.9.04
Dove batte il cuore dell' Iran Una cultura di acqua e deserto
Dal crogiolo di stirpi e religioni al fondamentalismo e al chador
VIAGGIO D' AUTORE
di Claudio Magris
«I turisti americani sono i benvenuti in Iran - dichiara all' inizio dell' estate un alto funzionario del ministero degli Interni a Teheran - e possono essere tranquilli, molto più al sicuro dagli attentati di Al Qaeda che negli Stati Uniti». I pochi occidentali, graditi per i loro dollari, sono visti con simpatia e benevola curiosità dalla gente ed è difficile immaginare un 11 settembre o un 11 marzo a Isfahan o a Shíraz; per strada, al bazar o nel giardino di un museo, non è raro che donne col chador (o comunque rigorosamente coperte secondo la prescrizione del più severo islamismo) s' intrattengano garrule e gentili a porre domande allo straniero, naturalmente senza dargli la mano, cosa proibita in qualsiasi circostanza fra persone di sesso diverso. La guerra in Iraq non sembra aver destato violenze antioccidentali, diversamente che in altri Paesi musulmani; la manifestazione contro l' ambasciata britannica - l' unica dimostrazione di piazza durante le settimane del nostro soggiorno - nasce da un rancore più antico. Molti anzi si rallegrano della guerra in Iraq e ne hanno molte ragioni: la soddisfazione di vedere conciati per le feste un Paese e un regime che, istigato e aiutato dagli Stati Uniti, li ha bombardati per otto anni con missili che arrivavano fino a Teheran; il compiacimento di vedere l' Occidente inguaiato in un pantano sanguinoso che rischia di indebolirne la leadership mondiale; la speranza che quel malaccorto pasticcio possa produrre un governo iracheno sciita, possibilità contemplata da Powell in una dichiarazione vistosamente riportata sui giornali; la convinzione che le impreviste (e goffamente sottovalutate) difficoltà incontrate invadendo l' Iraq distolgano gli Stati Uniti dall' attaccare l' Iran. C' è comunque un' ovvia e grande differenza, anche a questo proposito, tra i rappresentanti del regime (e anche la popolazione, poco entusiasta di quest' ultimo ma ancor meno di venir bombardata da liberatori) e l' alta borghesia colta, avversa agli ayatollah anche se impedita di esprimersi. Un intellettuale che ha vissuto e vive per lunghi periodi in Europa mi dice di aver sperato, a suo tempo, in una vittoria di Saddam Hussein sull' Iran e di approvare l' appoggio dato allora dagli Stati Uniti al tiranno iracheno contro l' Iran fondamentalista islamico.
Scontro di civiltà, guerra di culture, slogan che risuonano sempre più spesso all' inizio del Terzo Millennio, come echeggiavano circa un secolo fa durante la grande crisi irrazionalista dell' Europa, con legioni di profeti che proclamavano il tramonto dell' Occidente, predicavano la guerra fra le razze, annunciavano la nascita dell' uomo nuovo, di un rinnovellato e puro Adamo sorto da rigeneratori bagni di sangue. Il pathos millenarista e apocalittico si inebria di formule totalizzanti e vuote («la fine della storia») e deforma il corso degli eventi in un fumettone, dominato da una cupa ed esaltante fatalità, che travolge gli uomini sotto cicli corruschi e spettacolari da fine del mondo. Fra le tante cose che la cultura dell' Occidente ha da insegnare c'è anzitutto la sobria e lucida critica di ogni enfasi e di ogni polpettone misticheggiante; per capire le sconvolgenti trasformazioni della realtà, che si svolgono sotto i nostri occhi con una velocità che stordisce, c' è bisogno di analisi concrete e differenziate non di sintesi, reboanti e vacue. Il conflitto caratterizza - a vari livelli, barbari o civili - l' esistenza delle comunità umane e può essere fonte di progresso, se lo si sa incanalare entro regole di umanità. Se la guerra, come diceva Clausewitz, è la continuazione dei conflitti politici con altri mezzi, la civiltà e la democrazia consistono nell' elaborazione di meccanismi che impediscano quel passaggio ai mezzi violenti, così come impediscono di risolvere i conflitti individuali di interessi con la violenza fisica. L' attuale fondamentalismo anarco-liberista-ultrà - che oggi inquina la società occidentale con la sua faziosa irrazionalità e vilipende il pensiero liberale, scambiandolo per una caotica licenza e per una giungla selvaggia - fomenta la violenza perché mina le regole con cui la civiltà la tiene a bada. Non sono le «civiltà» a scontrarsi; conflitti e guerre nascono da tensioni e trasformazioni che non riescono a comporsi nell' assetto ordinato di uno Stato o di un complesso di Stati reciprocamente collegati in un sistema equilibrato. La prima e la seconda guerra mondiale non sono state uno scontro da crepuscolo degli dèi fra le civiltà germaniche, latine e slave, bensì lo sbocco, l' immane spurgo sanguinoso dei rivolgimenti che sconquassavano un secolare ordine europeo. Le civiltà hanno una loro fisionomia, ma non esiste una loro rigida e immutabile identità che collimi completamente con un Paese. La democrazia è infinitamente superiore a una dittatura omicida, ma non per questo la Danimarca, che non ha conosciuto l' obbrobrio di quest' ultima, è superiore alla Germania, che l' ha praticata in misura efferata. È ozioso stare a chiedersi se l' Islam sia una civiltà superiore o inferiore, sommando e sottraendo l' Alhambra, la Shari' a, Avicenna e l' infibulazione. Quel che conta è, di volta in volta e dinanzi a una questione concreta, sapere dove sta la civiltà e dove sta l' offesa che le viene inferta. Indubbiamente oggi il fondamentalismo islamico, quali siano i motivi che hanno favorito la sua ascesa, comporta gravi e talora gravissimi attentati agli elementari diritti della persona, che dovrebbero suscitare maggiori proteste da parte dei movimenti libertari occidentali; non si sono visti molti cortei contro la lapidazione di adultere o la decapitazione di omosessuali avvenute in Paesi musulmani.
All' università di Teheran, Roberto Toscano - il nostro ambasciatore in Iran, che svolge in quel difficile contesto un lavoro particolarmente illuminato, unendo una grande disponibilità nei riguardi di quel Paese e una ferma tutela dei nostri valori - tiene una conferenza sui diritti umani e le modalità di valutarli e garantirli sul piano internazionale. Il consenso degli ascoltatori è generale, ma un intellettuale rivendica l' identità di religione e diritto; i comandamenti e precetti religiosi, a suo avviso, non devono limitarsi a ispirare una visione della vita che poi, autonomamente, genererà anche un sistema giuridico ma devono essere, direttamente, le leggi dello Stato; in tal modo, non andare a messa la domenica diverrebbe, per un cattolico, un reato da perseguire. Qui corre una frontiera indiscutibile e invalicabile, che non può essere negoziata ma dev' essere affermata e difesa, ossia la distinzione tra la sfera etico-religiosa e quella giuridica. Questa distinzione è un valore universale ed è uno dei cardini della civiltà occidentale. Il sublime Sermone della montagna evangelico è più grande di ogni codice, ma inadatto a essere preso per un codice. Le civiltà non sono tuttavia statiche, bensì dinamiche e contraddittorie; pure l' Occidente ha conosciuto, sebbene limitatamente, forme di governo ierocratico, come - in certi periodi - negli Stati della Chiesa, o teocratico, come, per un breve periodo, la Repubblica calvinista di Ginevra. Non per questo i Paesi in cui prevale la religione calvinista sono oggi totalitari; anzi, sono fra i più democratici e il calvinismo è all' origine di tante libertà moderne. L' Islam, al tempo della dominazione araba in Spagna, era più tollerante e liberale del cristianesimo. Il volto delle civiltà cambia talora in modo menzognero, pure nell' immaginario collettivo degli altri. Ancora pochissimi anni fa, quando si demonizzavano stupidamente e falsamente i serbi o quando l' Unione Sovietica invadeva stupidamente l' Afghanistan, i musulmani - per i media occidentali - erano buoni e bravi, prodi campioni di libertà; oggi vengono infamati in blocco secondo schemi che sembrano presi dal peggior nazionalismo serbo. Le civiltà e le loro immagini si evolvono e mutano nel tempo, si articolano in elementi diversi e talora contrastanti. Non possono essere fotografate - ha scritto Roberto Toscano - e bloccate in un ritratto statico, come se stessero ferme, ma devono essere cinematografate, colte nel loro movimento che le trasforma.
Da secoli, l' Iran è un Paese che ha il genio dei giardini, delle acque e degli specchi, celebrati in una poesia e in una mistica che appartengono alla più alta letteratura universale; paradiso, in persiano, significa giardino. In quello di Bagh-é-Taríkhí-yé Fin, nei pressi di Kashan, la città-oasi cara allo scià Abbas il grande, le acque scorrono lievi negli agili canali e il mondo sembra frescura e pace; nessuno come i popoli esperti di deserto e di arsura sa cogliere la misteriosa grazia dell' acqua, della sua incolore trasparenza, del suo scorrere e mutare in cui essa rimane uguale a se stessa, del suo impeto che diviene canale, irrigazione, ordine geometrico eppure insondabile. Nella grande lirica persiana e in quel geniale rifacimento-ricreazione che è il Divano occidentale-orientale di Goethe, l' acqua che si dà una mobile e perenne forma nel gioco delle fontane diviene il volto della vita e del suo fluire, della continuità e dell' imprevedibilità di Eros, dell' enigmatica identità di natura e civiltà, disordine sorgivo e ordinato tessuto dell' esistenza. Attraversare l' Iran - le sue città, le sue brulle montagne, le sue aride pianure, le sue improvvise dolci oasi di verde, fiori e specchi d' acqua - è un continuo brusco passaggio da una sensazione di estraneità, anche respingente in tanti aspetti intollerabili del fondamentalismo islamico, a un sentimento di familiarità, quasi di comune appartenenza a una civiltà di lunga durata e ampio respiro, che ci riguarda. Dalle rovine di Persepoli alle vestigia dei Sassanidi, dalle dinastie abbasidi ai Timuridi si respira un senso grande dell' impero, dello Stato che è crogiolo di stirpi, culture e religioni; tracciato di strade che tagliano deserti e montagne collegando i popoli, leggi e acquedotti, orgogliosa lotta col Tempo e gloria di rovine sgretolate dal tempo e divenute polvere del deserto. Certo, Maratona e Salamina, che salvano la Grecia, sono ancor oggi nostre vittorie, ma siamo contemporaneamente eredi pure di quegli imperi persiani che hanno fatto incontrare Oriente e Occidente, l' antica civiltà mesopotamica e l' ebraismo; di quell' Iran che si è contrapposto al Turan centroasiatico come la Grecia si era contrapposta alla Persia achemenide. Se Qom, la città santa pullulante di preti, dà un' impressione di Oriente esotico e per noi alieno e Teheran è un' enorme metropoli che prolifera in periferie disorganiche, vitali e friabili, altre città danno, nonostante la repressione tribale del regime, il senso della Civitas: l' incantevole Isfahan - con l' incredibile bellezza delle sue moschee azzurre, delle sue piazze, dei suoi ponti sul fiume, dove la sera si raccolgono in festosa tranquillità le famiglie - o Shíraz, la città delle rose e dei poeti. La poesia persiana ha l' impronta della classicità; la sua ruba' i (la quartina in cui Omar Khayyam, innamorato della vita e persuaso del suo nulla, scrisse il suo celebre «Rubaïyat») è una forma poetica universale come l' esametro o l' endecasillabo. In queste settimane si commemora Firdusi (in farsi, Ferdósí), il poeta che più di mille anni fa scrisse il poema epico della Persia, «Il libro dei re»; per ricordare un suo anniversario è stato deposto sulla sua tomba, che si trova a Tús nell' Iran orientale, un tappeto di 7,2x2,7 metri, cui hanno lavorato ininterrottamente per tre anni quattro persone. Come la vita stessa, l' epica è un tappeto, incrociarsi e disfarsi di destini come fili di diverso colore, eventi figure e personaggi tessuti e dissolti dal tempo, dal caso, da Dio, da inesorabili necessità o fortuite coincidenze, egualmente vissute, godute e sofferte con passione. «Il libro dei re» non è un testo esotico e lontano, ma un grande poema di guerra, avventura, amore, fede, disillusione e fatalità, che fa parte del nostro mondo e della nostra fantasia come la «Canzone di Orlando» o «I Nibelunghi». Ho avuto la fortuna di leggerlo e amarlo fin da ragazzo nella versione ottocentesca di Italo Pizzi, uno dei molti esempi della gloriosa filologia italiana e della sua apertura universale. Fra le tante vicende che s' intrecciano nel poema, c' è una storia archetipica che compare in tante letterature anche lontane: il tragico scontro, sul campo di battaglia, fra padre e figlio, col primo che uccide il secondo, distruggendo così se stesso e la propria sopravvivenza. Rustem, l' Achille iranico, è costretto a uccidere Sohràb, l' ignaro suo figlio che combatte sotto altre bandiere. «Il libro dei re» mescola l' islamismo col retaggio preislamico della tradizione persiana; i versi del suo proemio che invocano Allah sono una delle più alte espressioni del monoteismo musulmano. Un' autentica spiritualità - quando non si distorce nella propria caricatura che la nega, come accade con i fondamentalismi - è sempre universale, non appartiene solo a chi la professa esplicitamente da fedele e da praticante. A Shíraz, nel mirabile mausoleo di Shah-é-Cheragh, gli abbaglianti cristalli riflessi da innumerevoli specchi e i colori che diventano luce, come nel paradiso dantesco, trasformano il mondo nello specchio di qualcosa d' altro. Qui il chador non appare più uno stucchevole folclore, come la gondola veneziana nella sfera di vetro o una grottesca imposizione, ma un abito rituale adeguato a quel luogo di culto, che è nostra scelta chiedere di visitare, rispettando dunque le sue regole. L' atmosfera è intensa, la preghiera ha uno spessore quasi fisico. Qualche sguardo sospettoso verso gli stranieri infedeli si spegne subito nell' assorta concentrazione. Uscendo dal santuario, le cui sale per uomini e donne sono rigorosamente separate, e reincontrandoci nel cortile, io e J. scopriamo di aver detto spontaneamente tutti e due, dinanzi alla tomba del santo, un' Ave Maria, la preghiera forse più conciliatrice di fedi diverse - o anche di non fedi - e con meno pretese di superiorità rispetto ad altre fedi; comunque la preghiera cattolica più accettabile per un musulmano. (1- continua)
Corriere della Sera 9.9.04
Una lettera per l' Iran di domani dove l' Islam non sia una prigione
Donne, poeti e mistici nel tempo lungo di un paese millenario
Le contraddizioni di un regime in bilico tra censura e aperture.
LA MORALE Le società repressive sono responsabili anche dei vizi che producono
IL FUTURO Si sente il bisogno di una trasformazione in uno Stato aperto e progredito
di Claudio Magris
Pure Khatami, presidente della repubblica, inizia la sua «lettera al domani», pubblicata con grande rilievo e fra accese discussioni sui giornali iraniani in farsi e in inglese, con l' immagine del deserto: che è aridità, morte, minaccia, ma anche prova, pazienza, traversata, ricerca dell' acqua della vita. Quest' ultima, per Khatami, diviene simbolo della speranza di un rinnovamento - a suo avviso necessario, anzi «irreversibile» - nella vita del Paese. Egli si batte contro l' oscurantismo fondamentalista, per una distinzione fra religione e politica e perché l' indipendenza nazionale, conquistata contro lo sfruttamento coloniale e l' asservimento ad altre potenze, non significhi più repressione bensì democrazia e diritti civili. Questi valori laici - che non vuol dire irreligiosi - sono la grandezza dell' Occidente, che peraltro li ha spesso negati nella sua politica di potenza e sfruttamento, specialmente coloniale, reprimendo con violenza - nei paesi che voleva sfruttare - soprattutto le forze modernizzatrici e liberali che, ispirandosi al modello occidentale, volevano fare del proprio Paese uno Stato libero, indipendente e democratico, che quindi non si sarebbe lasciato più schiavizzare dalle potenze coloniali. Se oggi in Iran imperversa la tirannica rivoluzione islamica, negatrice del progresso e del liberalismo occidentale, lo si deve in gran parte a quei governi occidentali che, cinquant' anni fa, hanno fatto cadere con un colpo di Stato il governo di Mossadeq e il suo tentativo di fare dell' Iran un Paese democratico, laico e padrone del proprio destino e delle proprie risorse. Secondo Khatami, la rivoluzione islamica, esaurita la sua funzione rivoluzionaria di riscatto del Paese, deve trasformarsi in uno Stato aperto, progredito e normale, in cui - egli dice, citando Brecht - non ci sia più la triste necessità di eroi. In realtà la sua lettera si colloca in un aspro conflitto all' interno del regime, dall' esito difficilmente prevedibile. Khamenei, l' ayatollah supremo che ha molto più potere di Khatami, è su posizioni duramente illiberali ed è seguito dall' ala clericale intransigente. Sembra che il regime invii intenzionalmente segnali contraddittori. Condanna a morte l' intellettuale antifondamentalista Hashem Aghajari, ma la Corte suprema annulla il processo; non si vedono più in azione le squadre dei guardiani della rivoluzione e della morale sessuale, ma la flagellazione per effusioni erotiche anche moderate, pur praticata sempre meno o quasi mai, è tutt' ora legalmente in vigore e può sempre venir applicata, magari a chi si è reso inviso per le sue idee al regime, che approfitta delle sue attenzioni per l' altro sesso per vendicarsi. Alle donne non si può nemmeno dare la mano quando le si saluta, ma ricoprono ruoli sociali anche eminenti, costituiscono - secondo Le Monde - il 60 per cento degli studenti universitari e usano largamente i contraccettivi. Le più inclini alle riforme non sono le giovani, che sono venute al mondo e cresciute quando c' era già il regime khomeinista, che non hanno dunque vissuto come uno choc ma come una realtà già data. Sono le loro madri - mi dice una di esse - a sentire ad esempio come un oltraggio l' obbligo del chador o comunque di un velo in testa, perché da giovani hanno conosciuto una modernizzazione occidentale, pur basata sulla repressione e anche sulla tortura degli avversari politici, com' era il regime dell' ultimo Scià, così pronto a fuggire, quando il suo trono scricchiolava, col petto coperto di medaglie non guadagnate su campi di battaglia. Farideh Lashai, pittrice e scrittrice di forte talento, è stata a suo tempo nelle galere della famigerata polizia segreta dello Scià ed ha narrato questa esperienza in un libro che ha destato la perplessità dei suoi compagni di fede e di persecuzione politica di allora per la sobrietà antiretorica con cui racconta quella bruciante sofferenza sua e di un' intera generazione. Parlare senza enfasi e obiettivamente delle violenze patite è il miglior segno di libertà interiore, premessa e insieme conseguenza di quella civile. L' Iran sarà un Paese libero quando non sarà più necessario - e quindi non sarà più possibile - scrivere libri come quello, molto interessante, di Azar Nafisi, una dissidente ora emigrata negli Stati Uniti, Leggere Lolita a Teheran: quando cioè leggere il capolavoro di Nabokov sarà un atto ovvio, né trasgressivo né compiuto con vanità trasgressiva, perché la fine della stupida e dispotica proibizione di un libro come Lolita (e altri) farà capire che il suo valore non è nel suo tema, né più né meno stuzzicante di altri, bensì nella poesia con cui viene narrato, e che la pedofilia, di per sé, non è certo più interessante della verginità prematrimoniale di Renzo e Lucia nei Promessi Sposi. Alla libreria dell' albergo Abbasi, a Isfahan, si possono acquistare anche il Decamerone, Kipling e Brecht, ma solo in inglese. Le società moralisticamente repressive sono responsabili anche dei vizi che producono e soprattutto di incrementare, vedendo dappertutto perversione, l' ebete fascino della perversione o di ciò che si presume tale. Tutto è puro per i puri, dice il Vangelo. Ma Nietzsche aggiunge: «Al porco tutto sa di porco».
Se all' inizio il regime khomeinista era più esplicitamente e violentemente repressivo, ora sembra preferire una tacita intimidazione. Puoi fare ciò che vuoi, si dice, ma loro possono fare di te ciò che vogliono. Ci si stupisce di sentire persone anche con un ruolo preciso, ad esempio le guide turistiche riconosciute, criticare apertamente il governo, affermare che al massimo il 10 per cento della popolazione gli è favorevole e che vige una doppia morale, di cui non si parla ma di cui tutti sono a conoscenza. Talvolta le critiche sembrerebbero perfino fatte ad arte e su suggerimento delle autorità, per dare agli stranieri l' impressione di un Paese più libero. La prostituzione ufficialmente non esiste, ma esiste ufficialmente il matrimonio a tempo, solo fra musulmani: un uomo e una donna celebrano davanti a un mullah un matrimonio specificando la durata della sua validità, in teoria anche una settimana o una notte, dopodiché tutto è lecito. C' è un detto: chador e sotto niente.
I poeti riposano vicino all' acqua, come Sa' di e Hafez a Shiràz; i loro versi - specie quelli di quest' ultimo, il lirico persiano per eccellenza - trascolorano e fluiscono, inconfondibili e variabili all' infinito, come il mormorio di quelle acque e della vita stessa. Venerato anche religiosamente, Hafez canta Dio, l' eternità del suo respiro e dello svanire di ogni vita, in ogni istante, in quel respiro - forse anch' esso soffio che svanisce - ma canta pure il vino, le rose, gli usignoli, l' ebbrezza di un eros inesauribile, appassionato e lieve. Amare una fugace rosa è amare la rosa che fiorisce da sempre, dall' eternità, nella mente di Dio, come dice un verso di un grande mistico - e sacerdote cattolico - del Seicento, Angelus Silesius, verso che potrebbe essere di Hafez o di un altro poeta mistico di altro tempo e paese. La mistica è infatti abolizione del tempo, identità di vita e di morte, dell' Io individuale e del Tutto in cui questi sprofonda, dissolvendosi nell' ombra di un Dio così indefinibile da assomigliare al nulla. Dio è un grande Nulla, ripetono nel tardo Medioevo tanti mistici cattolici tedeschi. Si allentano i confini tra la fede in un Dio trascendente e quella in un panteismo in cui non ci sono più né Dio né l' Uomo; per Rumi, altro grande lirico persiano, raggiungere Dio significa l' annientarsi dell' ombra nella luce, il rompersi dell' onda nel mare. Felicità e disperazione, abbandono gioioso all' amore, che tutto avvolge e dissolve, o malinconia dello svanire sono quasi la stessa cosa; non dipendono da una concezione religiosa o filosofica, ma da uno stato d' animo, forse da come le endorfine reagiscono a uno stesso stimolo, alla rosa che fa ricordare quella identica dell' anno passato, forse rinata ma certamente morta. Se Omar Khayyam sente con cupa tristezza l' inesorabile roteare delle stelle schiave come gli uomini, si potrebbe essere pure inebriati di quella monotona necessità universale, come Hafez s' inebriava dello sfogliarsi dei fiori, delle coppe di vino vuotate e delle fanciulle e dei coppieri che le riempivano. La poesia, ammoniva nel Trecento, come già un tempo i greci, un trattatista persiano, Sciams e Qeis, è anche menzogna, falsità e smodata iperbole. (2 - continua.)
Corriere della Sera 11.9.04
Nel crogiolo delle religioni antiche e moderne che segnano la civiltà persiana
di Claudio Magris
Francesca Toscano ci porta alla cattedrale armena di Isfahan. La comunità cristiana armena, che vive soprattutto nell’adiacente quartiere, ha un seggio in Parlamento garantito per legge. Documenti e cimeli ricordano il grande sterminio degli armeni a opera soprattutto dei Giovani Turchi, il primo massacro di massa del Ventesimo secolo, circa un terzo dell’intero popolo; l’imbarazzo a definirlo o no genocidio, che caratterizza le discussioni diplomatiche internazionali sull’argomento, è molto significativo. Dinanzi a quelle testimonianze di atrocità, ognuno resta turbato; mi chiedo se, fra noi, Nil Papa Cerrahoglu - giornalista turca impegnata sui fronti avanzati dell’informazione del suo Paese e nostra amica, con suo marito, da tanti anni - lo sia forse in modo particolare. Conosco bene i sentimenti contraddittori che in queste o in analoghe circostanze, prova ogni persona, tranne chi sia stato disumanizzato da un viscerale nazionalismo. Dinanzi a un’orribile pagina di storia del proprio Paese si è facilmente presi da impeti contrastanti; si vorrebbe sorvolare e tirar via ma anche insistervi con accanimento maggiore di quello rivolto a crimini commessi da altri; lo scrupolo filologico di rettificare dettagli magari esagerati è bloccato dal timore, forse non infondato, che quell’onesta rettifica nasca inconsciamente dal desiderio di sminuire l’accaduto, come succede spesso a tanti storici revisionisti. Il complesso di colpa, che non nasce dalla chiara consapevolezza morale ma da tortuosità psicologiche, è un cattivo consigliere. E’ giusto, è doveroso, oppure è sbagliato sentirci responsabili di ciò che hanno compiuto altre persone e altre forze politiche del proprio Paese, che magari abbiamo combattuto? Pietro Nenni, esule in Francia, quando l’Italia di Mussolini attaccò la Francia già prostrata dai tedeschi, sentì l’impulso di chiedere scusa ai propri vicini di casa francesi, ma forse questi avrebbero dovuto invece ringraziarlo, perché si batteva anche per la loro libertà. E tuttavia è pure vero, come diceva Croce parlando nel 1947 alla Costituente contro il dettato di pace, che non ci si può distaccare dal bene e dal male della propria patria. Dell’umanità intera, potremmo aggiungere. Detto questo, non si deve mai dimenticare che le malefatte e le atrocità non le compiono genericamente i tedeschi, i serbi, i musulmani, gli italiani, bensì determinate e ben precise persone e forze politiche. Quelle testimonianze del martirio armeno non autorizzano certo a dare addosso ai turchi di oggi o alla Turchia in generale né a sottovalutare le ripercussioni negative che - osserva Giampaolo Papa, il quale la conosce a fondo da diplomatico e da studioso di politica - avrebbe oggi un atteggiamento sprezzante dell’Europa nei confronti di una Turchia il cui governo moderato islamico cerca l’Europa, frenando così il pericoloso fondamentalismo.
In Iran i seguaci di Zoroastro sono solo 30.000, ma sono rispettati e la loro religione, che ha segnato profondamente la civiltà persiana, è riconosciuta; come i cristiani e gli ebrei - pur così fanaticamente odiati dal fondamentalismo islamico - hanno un seggio al Parlamento garantito per legge. Zoroastro (o Zarathustra) è uno dei creatori del monoteismo; non a caso, a riverire Gesù neonato, a Betlemme, arrivano i Magi, sacerdoti zoroastriani, quasi a simboleggiare l’incontro delle religioni trascendenti, e per la stessa ragione Nathan il Saggio , il capolavoro illuminista di Lessing sulla ricerca della verità e sulla tolleranza religiosa, affianca un rappresentante dello zoroastrismo a quelli del cristianesimo, dell’ebraismo e dell’Islam. Zoroastro non è stato il primo a concepire l’idea di un Dio unico e trascendente, ma è stato il primo a proclamare la sopravvivenza dell’anima individuale dopo la morte e la sua salvezza o perdizione in base alle azioni buone o malvagie. Nietzsche lo considerò il primo di quelli che per lui erano i corruttori dell’umanità: i Socrate, Platone, Gesù e gli altri fondatori di religioni che avevano voluto imporre al libero e selvaggio fluire della vita ignara di bene e di male le catene della morale, della fede, dei valori, di tutto ciò che pretende di trascendere e reprimere la vita. Il suo Zarathustra è colui che, liberandosi da queste catene, libera gli uomini e annuncia l’avvento di un nuovo tipo d’uomo e la morte di Dio. Così parlò Zarathustra , l’unico libro brutto, stridulo ed enfatico di Nietzsche fra tanti suoi geniali e poetici capolavori, è meno affascinante dello Zend Avesta , il libro sacro dello zoroastrismo. Venerato oggi nei Templi del Fuoco, Zoroastro morì martire, ucciso a colpi di bastone. Una delle componenti fondanti della nostra civiltà, il monoteismo, riconduce anche all’Iran. I Baha’i sono ben più numerosi degli zoroastriani, ma la loro religione - una derivazione dell’Islam nata nell’Ottocento - non è riconosciuta e il suo culto pubblico non è ammesso. In fondo, nessuno - colpevolmente - se ne stupisce o se ne scandalizza, forse perché la sua origine è così recente e noi sentiamo la sacralità delle religioni solo quando sono avvolte dall’aura dell’antichità, dei tempi remoti e non crediamo che in un’epoca vicina a noi possano avvenire nuove Rivelazioni - anche se la distanza temporale fra Abramo e oggi, rispetto all’età o anche solo alla storia del mondo, è brevissima, un attimo rispetto a millenni.
Paesaggi arsi, oasi di frescure e di verde, il volto delle ragazze afghane a Abyaneh, l’antico incantevole villaggio sulle brulle montagne vicine a Kàshàn, con le sue case rivolte a oriente, al calare del sole. Non lontano da Kàshàn, in un territorio arido e afoso, s’innalza come una torva divinità arcaica una ziggurat, l’antica torre mesopotamica costruita a piani sovrapposti che salgono con ampiezza decrescente, come una piramide. La ziggurat affascina la fantasia occidentale con la sua aura di millenni remoti - cupa seduzione dei primordi, grandiosità impenetrabile del mito, Torre di Babele, assalto al cielo, altari di idoli e dèi spietati. E’ soprattutto una presunta sacralità dell’origine a suggestionare, talora in forme pure pacchiane, noi postmoderni timorosi o compiaciuti di essere sfatti epigoni lontani dalle sorgenti della vita. Sacro è una parola - e una dimensione - ambigua; vuol dire anche maledetto, intoccabile, minacciosamente precluso ai profani; i moderni si sentono, in qualche modo, tutti profani, sia che accettino con voluttà servile di restar fuori dal tempio inaccessibile degli dèi sia che, colti da periodiche furie iconoclaste, distruggano tutti i templi che capitano a tiro. Come ogni idolatrica superstizione, quella sacralità e quell’aureola dell’origine sono un abbaglio, spesso pure un inganno. Il sacro autentico è il rispetto religioso per tutta la creazione in ogni suo momento, per tutta l’esistenza - per ogni casa in cui nascono e vivono gli uomini, per ogni chicco di grano che muore e rinasce. Quando diviene un culto arcano riservato a luoghi, cose o immagini privilegiate e falsamente misteriose, è un trucco, un inganno o un autoinganno, stanza che si tiene al buio per impedire di accorgersi che dentro non c’è niente e che il preteso dio è un feticcio. L’idolatria che declassa Dio e il divino a mistero da Luna Park, è il nemico della religione. L’origine - di un individuo, di una nazione, di una civiltà - non è affatto più sacra di qualsiasi altro momento della vita. La falsa sacralità è violenza, è la paura e l’oscurità di cui ogni brutale potere ha bisogno per rendere schiavi. Arrampicandomi su questa Torre di Babele, mi viene in mente la sala del Palazzo di Golestan (il palazzo imperiale di Teheran) visitata pochi giorni prima, la sala in cui nel 1943 s’incontrarono Roosevelt, Churchill e Stalin e decisero - più che a Yalta - la spartizione e la sorte del mondo per mezzo secolo. E’ a Stalin che fanno pensare queste arcane rovine. Il Cremlino staliniano - sacrario di potenza, oscurità e terrore - è stato a suo modo una ziggurat. Entrambi lontani nel tempo e insieme, rispetto alla storia del mondo, vicinissimi, contemporanei, cronaca di ieri sera.
Teheran. Alla Casa degli Artisti, a parlare di letteratura di frontiera e dei temi che un discorso del genere, ogni volta, implica in forme nuove e in nuovi contesti: sradicamento, esilio, migrazioni, identità ossessiva, purezze e pulizie etniche, politiche o religiose, meticciati. Ci sono studenti, diplomatici, professori, intellettuali, scrittori; molte donne, particolarmente rigorose nell’esigenza di discutere con franchezza. La discussione, quando si sfiorano argomenti direttamente politici, ha ovviamente dei confini. Mi accorgo di essere incerto sul tono giusto da assumere, sulla frontiera tra il rispetto della verità e il rispetto delle persone, la responsabile attenzione a non mettere altri in difficoltà e la cautela convenzionale. Mi sarebbe facile tuonare di libertà, democrazia e Occidente, senza preoccuparmi di mettere altri in imbarazzo e senza pagare dazio, lasciando che siano altri, eventualmente, a pagarlo. L’etica della responsabilità, che pensa non solo alla purezza degli ideali, ma anche alle loro conseguenze per gli altri, è un fondamento della vita civile e della democrazia. Mai come quando si viaggia, tuttavia, si sente quanto facilmente essa possa sfumare in involontaria complicità o almeno in colpevole neutralità. I residenti, i sedentari sono costretti a fare i conti a fondo con la realtà in cui vivono, senza svicolare, come è consentito invece a chi la notte dopo dormirà sotto un altro cielo. Viaggiare è immorale, diceva l’inflessibile Weininger. Ma lo diceva durante un viaggio... (3 - fine)
Dove batte il cuore dell' Iran Una cultura di acqua e deserto
Dal crogiolo di stirpi e religioni al fondamentalismo e al chador
VIAGGIO D' AUTORE
di Claudio Magris
«I turisti americani sono i benvenuti in Iran - dichiara all' inizio dell' estate un alto funzionario del ministero degli Interni a Teheran - e possono essere tranquilli, molto più al sicuro dagli attentati di Al Qaeda che negli Stati Uniti». I pochi occidentali, graditi per i loro dollari, sono visti con simpatia e benevola curiosità dalla gente ed è difficile immaginare un 11 settembre o un 11 marzo a Isfahan o a Shíraz; per strada, al bazar o nel giardino di un museo, non è raro che donne col chador (o comunque rigorosamente coperte secondo la prescrizione del più severo islamismo) s' intrattengano garrule e gentili a porre domande allo straniero, naturalmente senza dargli la mano, cosa proibita in qualsiasi circostanza fra persone di sesso diverso. La guerra in Iraq non sembra aver destato violenze antioccidentali, diversamente che in altri Paesi musulmani; la manifestazione contro l' ambasciata britannica - l' unica dimostrazione di piazza durante le settimane del nostro soggiorno - nasce da un rancore più antico. Molti anzi si rallegrano della guerra in Iraq e ne hanno molte ragioni: la soddisfazione di vedere conciati per le feste un Paese e un regime che, istigato e aiutato dagli Stati Uniti, li ha bombardati per otto anni con missili che arrivavano fino a Teheran; il compiacimento di vedere l' Occidente inguaiato in un pantano sanguinoso che rischia di indebolirne la leadership mondiale; la speranza che quel malaccorto pasticcio possa produrre un governo iracheno sciita, possibilità contemplata da Powell in una dichiarazione vistosamente riportata sui giornali; la convinzione che le impreviste (e goffamente sottovalutate) difficoltà incontrate invadendo l' Iraq distolgano gli Stati Uniti dall' attaccare l' Iran. C' è comunque un' ovvia e grande differenza, anche a questo proposito, tra i rappresentanti del regime (e anche la popolazione, poco entusiasta di quest' ultimo ma ancor meno di venir bombardata da liberatori) e l' alta borghesia colta, avversa agli ayatollah anche se impedita di esprimersi. Un intellettuale che ha vissuto e vive per lunghi periodi in Europa mi dice di aver sperato, a suo tempo, in una vittoria di Saddam Hussein sull' Iran e di approvare l' appoggio dato allora dagli Stati Uniti al tiranno iracheno contro l' Iran fondamentalista islamico.
Scontro di civiltà, guerra di culture, slogan che risuonano sempre più spesso all' inizio del Terzo Millennio, come echeggiavano circa un secolo fa durante la grande crisi irrazionalista dell' Europa, con legioni di profeti che proclamavano il tramonto dell' Occidente, predicavano la guerra fra le razze, annunciavano la nascita dell' uomo nuovo, di un rinnovellato e puro Adamo sorto da rigeneratori bagni di sangue. Il pathos millenarista e apocalittico si inebria di formule totalizzanti e vuote («la fine della storia») e deforma il corso degli eventi in un fumettone, dominato da una cupa ed esaltante fatalità, che travolge gli uomini sotto cicli corruschi e spettacolari da fine del mondo. Fra le tante cose che la cultura dell' Occidente ha da insegnare c'è anzitutto la sobria e lucida critica di ogni enfasi e di ogni polpettone misticheggiante; per capire le sconvolgenti trasformazioni della realtà, che si svolgono sotto i nostri occhi con una velocità che stordisce, c' è bisogno di analisi concrete e differenziate non di sintesi, reboanti e vacue. Il conflitto caratterizza - a vari livelli, barbari o civili - l' esistenza delle comunità umane e può essere fonte di progresso, se lo si sa incanalare entro regole di umanità. Se la guerra, come diceva Clausewitz, è la continuazione dei conflitti politici con altri mezzi, la civiltà e la democrazia consistono nell' elaborazione di meccanismi che impediscano quel passaggio ai mezzi violenti, così come impediscono di risolvere i conflitti individuali di interessi con la violenza fisica. L' attuale fondamentalismo anarco-liberista-ultrà - che oggi inquina la società occidentale con la sua faziosa irrazionalità e vilipende il pensiero liberale, scambiandolo per una caotica licenza e per una giungla selvaggia - fomenta la violenza perché mina le regole con cui la civiltà la tiene a bada. Non sono le «civiltà» a scontrarsi; conflitti e guerre nascono da tensioni e trasformazioni che non riescono a comporsi nell' assetto ordinato di uno Stato o di un complesso di Stati reciprocamente collegati in un sistema equilibrato. La prima e la seconda guerra mondiale non sono state uno scontro da crepuscolo degli dèi fra le civiltà germaniche, latine e slave, bensì lo sbocco, l' immane spurgo sanguinoso dei rivolgimenti che sconquassavano un secolare ordine europeo. Le civiltà hanno una loro fisionomia, ma non esiste una loro rigida e immutabile identità che collimi completamente con un Paese. La democrazia è infinitamente superiore a una dittatura omicida, ma non per questo la Danimarca, che non ha conosciuto l' obbrobrio di quest' ultima, è superiore alla Germania, che l' ha praticata in misura efferata. È ozioso stare a chiedersi se l' Islam sia una civiltà superiore o inferiore, sommando e sottraendo l' Alhambra, la Shari' a, Avicenna e l' infibulazione. Quel che conta è, di volta in volta e dinanzi a una questione concreta, sapere dove sta la civiltà e dove sta l' offesa che le viene inferta. Indubbiamente oggi il fondamentalismo islamico, quali siano i motivi che hanno favorito la sua ascesa, comporta gravi e talora gravissimi attentati agli elementari diritti della persona, che dovrebbero suscitare maggiori proteste da parte dei movimenti libertari occidentali; non si sono visti molti cortei contro la lapidazione di adultere o la decapitazione di omosessuali avvenute in Paesi musulmani.
All' università di Teheran, Roberto Toscano - il nostro ambasciatore in Iran, che svolge in quel difficile contesto un lavoro particolarmente illuminato, unendo una grande disponibilità nei riguardi di quel Paese e una ferma tutela dei nostri valori - tiene una conferenza sui diritti umani e le modalità di valutarli e garantirli sul piano internazionale. Il consenso degli ascoltatori è generale, ma un intellettuale rivendica l' identità di religione e diritto; i comandamenti e precetti religiosi, a suo avviso, non devono limitarsi a ispirare una visione della vita che poi, autonomamente, genererà anche un sistema giuridico ma devono essere, direttamente, le leggi dello Stato; in tal modo, non andare a messa la domenica diverrebbe, per un cattolico, un reato da perseguire. Qui corre una frontiera indiscutibile e invalicabile, che non può essere negoziata ma dev' essere affermata e difesa, ossia la distinzione tra la sfera etico-religiosa e quella giuridica. Questa distinzione è un valore universale ed è uno dei cardini della civiltà occidentale. Il sublime Sermone della montagna evangelico è più grande di ogni codice, ma inadatto a essere preso per un codice. Le civiltà non sono tuttavia statiche, bensì dinamiche e contraddittorie; pure l' Occidente ha conosciuto, sebbene limitatamente, forme di governo ierocratico, come - in certi periodi - negli Stati della Chiesa, o teocratico, come, per un breve periodo, la Repubblica calvinista di Ginevra. Non per questo i Paesi in cui prevale la religione calvinista sono oggi totalitari; anzi, sono fra i più democratici e il calvinismo è all' origine di tante libertà moderne. L' Islam, al tempo della dominazione araba in Spagna, era più tollerante e liberale del cristianesimo. Il volto delle civiltà cambia talora in modo menzognero, pure nell' immaginario collettivo degli altri. Ancora pochissimi anni fa, quando si demonizzavano stupidamente e falsamente i serbi o quando l' Unione Sovietica invadeva stupidamente l' Afghanistan, i musulmani - per i media occidentali - erano buoni e bravi, prodi campioni di libertà; oggi vengono infamati in blocco secondo schemi che sembrano presi dal peggior nazionalismo serbo. Le civiltà e le loro immagini si evolvono e mutano nel tempo, si articolano in elementi diversi e talora contrastanti. Non possono essere fotografate - ha scritto Roberto Toscano - e bloccate in un ritratto statico, come se stessero ferme, ma devono essere cinematografate, colte nel loro movimento che le trasforma.
Da secoli, l' Iran è un Paese che ha il genio dei giardini, delle acque e degli specchi, celebrati in una poesia e in una mistica che appartengono alla più alta letteratura universale; paradiso, in persiano, significa giardino. In quello di Bagh-é-Taríkhí-yé Fin, nei pressi di Kashan, la città-oasi cara allo scià Abbas il grande, le acque scorrono lievi negli agili canali e il mondo sembra frescura e pace; nessuno come i popoli esperti di deserto e di arsura sa cogliere la misteriosa grazia dell' acqua, della sua incolore trasparenza, del suo scorrere e mutare in cui essa rimane uguale a se stessa, del suo impeto che diviene canale, irrigazione, ordine geometrico eppure insondabile. Nella grande lirica persiana e in quel geniale rifacimento-ricreazione che è il Divano occidentale-orientale di Goethe, l' acqua che si dà una mobile e perenne forma nel gioco delle fontane diviene il volto della vita e del suo fluire, della continuità e dell' imprevedibilità di Eros, dell' enigmatica identità di natura e civiltà, disordine sorgivo e ordinato tessuto dell' esistenza. Attraversare l' Iran - le sue città, le sue brulle montagne, le sue aride pianure, le sue improvvise dolci oasi di verde, fiori e specchi d' acqua - è un continuo brusco passaggio da una sensazione di estraneità, anche respingente in tanti aspetti intollerabili del fondamentalismo islamico, a un sentimento di familiarità, quasi di comune appartenenza a una civiltà di lunga durata e ampio respiro, che ci riguarda. Dalle rovine di Persepoli alle vestigia dei Sassanidi, dalle dinastie abbasidi ai Timuridi si respira un senso grande dell' impero, dello Stato che è crogiolo di stirpi, culture e religioni; tracciato di strade che tagliano deserti e montagne collegando i popoli, leggi e acquedotti, orgogliosa lotta col Tempo e gloria di rovine sgretolate dal tempo e divenute polvere del deserto. Certo, Maratona e Salamina, che salvano la Grecia, sono ancor oggi nostre vittorie, ma siamo contemporaneamente eredi pure di quegli imperi persiani che hanno fatto incontrare Oriente e Occidente, l' antica civiltà mesopotamica e l' ebraismo; di quell' Iran che si è contrapposto al Turan centroasiatico come la Grecia si era contrapposta alla Persia achemenide. Se Qom, la città santa pullulante di preti, dà un' impressione di Oriente esotico e per noi alieno e Teheran è un' enorme metropoli che prolifera in periferie disorganiche, vitali e friabili, altre città danno, nonostante la repressione tribale del regime, il senso della Civitas: l' incantevole Isfahan - con l' incredibile bellezza delle sue moschee azzurre, delle sue piazze, dei suoi ponti sul fiume, dove la sera si raccolgono in festosa tranquillità le famiglie - o Shíraz, la città delle rose e dei poeti. La poesia persiana ha l' impronta della classicità; la sua ruba' i (la quartina in cui Omar Khayyam, innamorato della vita e persuaso del suo nulla, scrisse il suo celebre «Rubaïyat») è una forma poetica universale come l' esametro o l' endecasillabo. In queste settimane si commemora Firdusi (in farsi, Ferdósí), il poeta che più di mille anni fa scrisse il poema epico della Persia, «Il libro dei re»; per ricordare un suo anniversario è stato deposto sulla sua tomba, che si trova a Tús nell' Iran orientale, un tappeto di 7,2x2,7 metri, cui hanno lavorato ininterrottamente per tre anni quattro persone. Come la vita stessa, l' epica è un tappeto, incrociarsi e disfarsi di destini come fili di diverso colore, eventi figure e personaggi tessuti e dissolti dal tempo, dal caso, da Dio, da inesorabili necessità o fortuite coincidenze, egualmente vissute, godute e sofferte con passione. «Il libro dei re» non è un testo esotico e lontano, ma un grande poema di guerra, avventura, amore, fede, disillusione e fatalità, che fa parte del nostro mondo e della nostra fantasia come la «Canzone di Orlando» o «I Nibelunghi». Ho avuto la fortuna di leggerlo e amarlo fin da ragazzo nella versione ottocentesca di Italo Pizzi, uno dei molti esempi della gloriosa filologia italiana e della sua apertura universale. Fra le tante vicende che s' intrecciano nel poema, c' è una storia archetipica che compare in tante letterature anche lontane: il tragico scontro, sul campo di battaglia, fra padre e figlio, col primo che uccide il secondo, distruggendo così se stesso e la propria sopravvivenza. Rustem, l' Achille iranico, è costretto a uccidere Sohràb, l' ignaro suo figlio che combatte sotto altre bandiere. «Il libro dei re» mescola l' islamismo col retaggio preislamico della tradizione persiana; i versi del suo proemio che invocano Allah sono una delle più alte espressioni del monoteismo musulmano. Un' autentica spiritualità - quando non si distorce nella propria caricatura che la nega, come accade con i fondamentalismi - è sempre universale, non appartiene solo a chi la professa esplicitamente da fedele e da praticante. A Shíraz, nel mirabile mausoleo di Shah-é-Cheragh, gli abbaglianti cristalli riflessi da innumerevoli specchi e i colori che diventano luce, come nel paradiso dantesco, trasformano il mondo nello specchio di qualcosa d' altro. Qui il chador non appare più uno stucchevole folclore, come la gondola veneziana nella sfera di vetro o una grottesca imposizione, ma un abito rituale adeguato a quel luogo di culto, che è nostra scelta chiedere di visitare, rispettando dunque le sue regole. L' atmosfera è intensa, la preghiera ha uno spessore quasi fisico. Qualche sguardo sospettoso verso gli stranieri infedeli si spegne subito nell' assorta concentrazione. Uscendo dal santuario, le cui sale per uomini e donne sono rigorosamente separate, e reincontrandoci nel cortile, io e J. scopriamo di aver detto spontaneamente tutti e due, dinanzi alla tomba del santo, un' Ave Maria, la preghiera forse più conciliatrice di fedi diverse - o anche di non fedi - e con meno pretese di superiorità rispetto ad altre fedi; comunque la preghiera cattolica più accettabile per un musulmano. (1- continua)
Corriere della Sera 9.9.04
Una lettera per l' Iran di domani dove l' Islam non sia una prigione
Donne, poeti e mistici nel tempo lungo di un paese millenario
Le contraddizioni di un regime in bilico tra censura e aperture.
LA MORALE Le società repressive sono responsabili anche dei vizi che producono
IL FUTURO Si sente il bisogno di una trasformazione in uno Stato aperto e progredito
di Claudio Magris
Pure Khatami, presidente della repubblica, inizia la sua «lettera al domani», pubblicata con grande rilievo e fra accese discussioni sui giornali iraniani in farsi e in inglese, con l' immagine del deserto: che è aridità, morte, minaccia, ma anche prova, pazienza, traversata, ricerca dell' acqua della vita. Quest' ultima, per Khatami, diviene simbolo della speranza di un rinnovamento - a suo avviso necessario, anzi «irreversibile» - nella vita del Paese. Egli si batte contro l' oscurantismo fondamentalista, per una distinzione fra religione e politica e perché l' indipendenza nazionale, conquistata contro lo sfruttamento coloniale e l' asservimento ad altre potenze, non significhi più repressione bensì democrazia e diritti civili. Questi valori laici - che non vuol dire irreligiosi - sono la grandezza dell' Occidente, che peraltro li ha spesso negati nella sua politica di potenza e sfruttamento, specialmente coloniale, reprimendo con violenza - nei paesi che voleva sfruttare - soprattutto le forze modernizzatrici e liberali che, ispirandosi al modello occidentale, volevano fare del proprio Paese uno Stato libero, indipendente e democratico, che quindi non si sarebbe lasciato più schiavizzare dalle potenze coloniali. Se oggi in Iran imperversa la tirannica rivoluzione islamica, negatrice del progresso e del liberalismo occidentale, lo si deve in gran parte a quei governi occidentali che, cinquant' anni fa, hanno fatto cadere con un colpo di Stato il governo di Mossadeq e il suo tentativo di fare dell' Iran un Paese democratico, laico e padrone del proprio destino e delle proprie risorse. Secondo Khatami, la rivoluzione islamica, esaurita la sua funzione rivoluzionaria di riscatto del Paese, deve trasformarsi in uno Stato aperto, progredito e normale, in cui - egli dice, citando Brecht - non ci sia più la triste necessità di eroi. In realtà la sua lettera si colloca in un aspro conflitto all' interno del regime, dall' esito difficilmente prevedibile. Khamenei, l' ayatollah supremo che ha molto più potere di Khatami, è su posizioni duramente illiberali ed è seguito dall' ala clericale intransigente. Sembra che il regime invii intenzionalmente segnali contraddittori. Condanna a morte l' intellettuale antifondamentalista Hashem Aghajari, ma la Corte suprema annulla il processo; non si vedono più in azione le squadre dei guardiani della rivoluzione e della morale sessuale, ma la flagellazione per effusioni erotiche anche moderate, pur praticata sempre meno o quasi mai, è tutt' ora legalmente in vigore e può sempre venir applicata, magari a chi si è reso inviso per le sue idee al regime, che approfitta delle sue attenzioni per l' altro sesso per vendicarsi. Alle donne non si può nemmeno dare la mano quando le si saluta, ma ricoprono ruoli sociali anche eminenti, costituiscono - secondo Le Monde - il 60 per cento degli studenti universitari e usano largamente i contraccettivi. Le più inclini alle riforme non sono le giovani, che sono venute al mondo e cresciute quando c' era già il regime khomeinista, che non hanno dunque vissuto come uno choc ma come una realtà già data. Sono le loro madri - mi dice una di esse - a sentire ad esempio come un oltraggio l' obbligo del chador o comunque di un velo in testa, perché da giovani hanno conosciuto una modernizzazione occidentale, pur basata sulla repressione e anche sulla tortura degli avversari politici, com' era il regime dell' ultimo Scià, così pronto a fuggire, quando il suo trono scricchiolava, col petto coperto di medaglie non guadagnate su campi di battaglia. Farideh Lashai, pittrice e scrittrice di forte talento, è stata a suo tempo nelle galere della famigerata polizia segreta dello Scià ed ha narrato questa esperienza in un libro che ha destato la perplessità dei suoi compagni di fede e di persecuzione politica di allora per la sobrietà antiretorica con cui racconta quella bruciante sofferenza sua e di un' intera generazione. Parlare senza enfasi e obiettivamente delle violenze patite è il miglior segno di libertà interiore, premessa e insieme conseguenza di quella civile. L' Iran sarà un Paese libero quando non sarà più necessario - e quindi non sarà più possibile - scrivere libri come quello, molto interessante, di Azar Nafisi, una dissidente ora emigrata negli Stati Uniti, Leggere Lolita a Teheran: quando cioè leggere il capolavoro di Nabokov sarà un atto ovvio, né trasgressivo né compiuto con vanità trasgressiva, perché la fine della stupida e dispotica proibizione di un libro come Lolita (e altri) farà capire che il suo valore non è nel suo tema, né più né meno stuzzicante di altri, bensì nella poesia con cui viene narrato, e che la pedofilia, di per sé, non è certo più interessante della verginità prematrimoniale di Renzo e Lucia nei Promessi Sposi. Alla libreria dell' albergo Abbasi, a Isfahan, si possono acquistare anche il Decamerone, Kipling e Brecht, ma solo in inglese. Le società moralisticamente repressive sono responsabili anche dei vizi che producono e soprattutto di incrementare, vedendo dappertutto perversione, l' ebete fascino della perversione o di ciò che si presume tale. Tutto è puro per i puri, dice il Vangelo. Ma Nietzsche aggiunge: «Al porco tutto sa di porco».
Se all' inizio il regime khomeinista era più esplicitamente e violentemente repressivo, ora sembra preferire una tacita intimidazione. Puoi fare ciò che vuoi, si dice, ma loro possono fare di te ciò che vogliono. Ci si stupisce di sentire persone anche con un ruolo preciso, ad esempio le guide turistiche riconosciute, criticare apertamente il governo, affermare che al massimo il 10 per cento della popolazione gli è favorevole e che vige una doppia morale, di cui non si parla ma di cui tutti sono a conoscenza. Talvolta le critiche sembrerebbero perfino fatte ad arte e su suggerimento delle autorità, per dare agli stranieri l' impressione di un Paese più libero. La prostituzione ufficialmente non esiste, ma esiste ufficialmente il matrimonio a tempo, solo fra musulmani: un uomo e una donna celebrano davanti a un mullah un matrimonio specificando la durata della sua validità, in teoria anche una settimana o una notte, dopodiché tutto è lecito. C' è un detto: chador e sotto niente.
I poeti riposano vicino all' acqua, come Sa' di e Hafez a Shiràz; i loro versi - specie quelli di quest' ultimo, il lirico persiano per eccellenza - trascolorano e fluiscono, inconfondibili e variabili all' infinito, come il mormorio di quelle acque e della vita stessa. Venerato anche religiosamente, Hafez canta Dio, l' eternità del suo respiro e dello svanire di ogni vita, in ogni istante, in quel respiro - forse anch' esso soffio che svanisce - ma canta pure il vino, le rose, gli usignoli, l' ebbrezza di un eros inesauribile, appassionato e lieve. Amare una fugace rosa è amare la rosa che fiorisce da sempre, dall' eternità, nella mente di Dio, come dice un verso di un grande mistico - e sacerdote cattolico - del Seicento, Angelus Silesius, verso che potrebbe essere di Hafez o di un altro poeta mistico di altro tempo e paese. La mistica è infatti abolizione del tempo, identità di vita e di morte, dell' Io individuale e del Tutto in cui questi sprofonda, dissolvendosi nell' ombra di un Dio così indefinibile da assomigliare al nulla. Dio è un grande Nulla, ripetono nel tardo Medioevo tanti mistici cattolici tedeschi. Si allentano i confini tra la fede in un Dio trascendente e quella in un panteismo in cui non ci sono più né Dio né l' Uomo; per Rumi, altro grande lirico persiano, raggiungere Dio significa l' annientarsi dell' ombra nella luce, il rompersi dell' onda nel mare. Felicità e disperazione, abbandono gioioso all' amore, che tutto avvolge e dissolve, o malinconia dello svanire sono quasi la stessa cosa; non dipendono da una concezione religiosa o filosofica, ma da uno stato d' animo, forse da come le endorfine reagiscono a uno stesso stimolo, alla rosa che fa ricordare quella identica dell' anno passato, forse rinata ma certamente morta. Se Omar Khayyam sente con cupa tristezza l' inesorabile roteare delle stelle schiave come gli uomini, si potrebbe essere pure inebriati di quella monotona necessità universale, come Hafez s' inebriava dello sfogliarsi dei fiori, delle coppe di vino vuotate e delle fanciulle e dei coppieri che le riempivano. La poesia, ammoniva nel Trecento, come già un tempo i greci, un trattatista persiano, Sciams e Qeis, è anche menzogna, falsità e smodata iperbole. (2 - continua.)
Corriere della Sera 11.9.04
Nel crogiolo delle religioni antiche e moderne che segnano la civiltà persiana
di Claudio Magris
Francesca Toscano ci porta alla cattedrale armena di Isfahan. La comunità cristiana armena, che vive soprattutto nell’adiacente quartiere, ha un seggio in Parlamento garantito per legge. Documenti e cimeli ricordano il grande sterminio degli armeni a opera soprattutto dei Giovani Turchi, il primo massacro di massa del Ventesimo secolo, circa un terzo dell’intero popolo; l’imbarazzo a definirlo o no genocidio, che caratterizza le discussioni diplomatiche internazionali sull’argomento, è molto significativo. Dinanzi a quelle testimonianze di atrocità, ognuno resta turbato; mi chiedo se, fra noi, Nil Papa Cerrahoglu - giornalista turca impegnata sui fronti avanzati dell’informazione del suo Paese e nostra amica, con suo marito, da tanti anni - lo sia forse in modo particolare. Conosco bene i sentimenti contraddittori che in queste o in analoghe circostanze, prova ogni persona, tranne chi sia stato disumanizzato da un viscerale nazionalismo. Dinanzi a un’orribile pagina di storia del proprio Paese si è facilmente presi da impeti contrastanti; si vorrebbe sorvolare e tirar via ma anche insistervi con accanimento maggiore di quello rivolto a crimini commessi da altri; lo scrupolo filologico di rettificare dettagli magari esagerati è bloccato dal timore, forse non infondato, che quell’onesta rettifica nasca inconsciamente dal desiderio di sminuire l’accaduto, come succede spesso a tanti storici revisionisti. Il complesso di colpa, che non nasce dalla chiara consapevolezza morale ma da tortuosità psicologiche, è un cattivo consigliere. E’ giusto, è doveroso, oppure è sbagliato sentirci responsabili di ciò che hanno compiuto altre persone e altre forze politiche del proprio Paese, che magari abbiamo combattuto? Pietro Nenni, esule in Francia, quando l’Italia di Mussolini attaccò la Francia già prostrata dai tedeschi, sentì l’impulso di chiedere scusa ai propri vicini di casa francesi, ma forse questi avrebbero dovuto invece ringraziarlo, perché si batteva anche per la loro libertà. E tuttavia è pure vero, come diceva Croce parlando nel 1947 alla Costituente contro il dettato di pace, che non ci si può distaccare dal bene e dal male della propria patria. Dell’umanità intera, potremmo aggiungere. Detto questo, non si deve mai dimenticare che le malefatte e le atrocità non le compiono genericamente i tedeschi, i serbi, i musulmani, gli italiani, bensì determinate e ben precise persone e forze politiche. Quelle testimonianze del martirio armeno non autorizzano certo a dare addosso ai turchi di oggi o alla Turchia in generale né a sottovalutare le ripercussioni negative che - osserva Giampaolo Papa, il quale la conosce a fondo da diplomatico e da studioso di politica - avrebbe oggi un atteggiamento sprezzante dell’Europa nei confronti di una Turchia il cui governo moderato islamico cerca l’Europa, frenando così il pericoloso fondamentalismo.
In Iran i seguaci di Zoroastro sono solo 30.000, ma sono rispettati e la loro religione, che ha segnato profondamente la civiltà persiana, è riconosciuta; come i cristiani e gli ebrei - pur così fanaticamente odiati dal fondamentalismo islamico - hanno un seggio al Parlamento garantito per legge. Zoroastro (o Zarathustra) è uno dei creatori del monoteismo; non a caso, a riverire Gesù neonato, a Betlemme, arrivano i Magi, sacerdoti zoroastriani, quasi a simboleggiare l’incontro delle religioni trascendenti, e per la stessa ragione Nathan il Saggio , il capolavoro illuminista di Lessing sulla ricerca della verità e sulla tolleranza religiosa, affianca un rappresentante dello zoroastrismo a quelli del cristianesimo, dell’ebraismo e dell’Islam. Zoroastro non è stato il primo a concepire l’idea di un Dio unico e trascendente, ma è stato il primo a proclamare la sopravvivenza dell’anima individuale dopo la morte e la sua salvezza o perdizione in base alle azioni buone o malvagie. Nietzsche lo considerò il primo di quelli che per lui erano i corruttori dell’umanità: i Socrate, Platone, Gesù e gli altri fondatori di religioni che avevano voluto imporre al libero e selvaggio fluire della vita ignara di bene e di male le catene della morale, della fede, dei valori, di tutto ciò che pretende di trascendere e reprimere la vita. Il suo Zarathustra è colui che, liberandosi da queste catene, libera gli uomini e annuncia l’avvento di un nuovo tipo d’uomo e la morte di Dio. Così parlò Zarathustra , l’unico libro brutto, stridulo ed enfatico di Nietzsche fra tanti suoi geniali e poetici capolavori, è meno affascinante dello Zend Avesta , il libro sacro dello zoroastrismo. Venerato oggi nei Templi del Fuoco, Zoroastro morì martire, ucciso a colpi di bastone. Una delle componenti fondanti della nostra civiltà, il monoteismo, riconduce anche all’Iran. I Baha’i sono ben più numerosi degli zoroastriani, ma la loro religione - una derivazione dell’Islam nata nell’Ottocento - non è riconosciuta e il suo culto pubblico non è ammesso. In fondo, nessuno - colpevolmente - se ne stupisce o se ne scandalizza, forse perché la sua origine è così recente e noi sentiamo la sacralità delle religioni solo quando sono avvolte dall’aura dell’antichità, dei tempi remoti e non crediamo che in un’epoca vicina a noi possano avvenire nuove Rivelazioni - anche se la distanza temporale fra Abramo e oggi, rispetto all’età o anche solo alla storia del mondo, è brevissima, un attimo rispetto a millenni.
Paesaggi arsi, oasi di frescure e di verde, il volto delle ragazze afghane a Abyaneh, l’antico incantevole villaggio sulle brulle montagne vicine a Kàshàn, con le sue case rivolte a oriente, al calare del sole. Non lontano da Kàshàn, in un territorio arido e afoso, s’innalza come una torva divinità arcaica una ziggurat, l’antica torre mesopotamica costruita a piani sovrapposti che salgono con ampiezza decrescente, come una piramide. La ziggurat affascina la fantasia occidentale con la sua aura di millenni remoti - cupa seduzione dei primordi, grandiosità impenetrabile del mito, Torre di Babele, assalto al cielo, altari di idoli e dèi spietati. E’ soprattutto una presunta sacralità dell’origine a suggestionare, talora in forme pure pacchiane, noi postmoderni timorosi o compiaciuti di essere sfatti epigoni lontani dalle sorgenti della vita. Sacro è una parola - e una dimensione - ambigua; vuol dire anche maledetto, intoccabile, minacciosamente precluso ai profani; i moderni si sentono, in qualche modo, tutti profani, sia che accettino con voluttà servile di restar fuori dal tempio inaccessibile degli dèi sia che, colti da periodiche furie iconoclaste, distruggano tutti i templi che capitano a tiro. Come ogni idolatrica superstizione, quella sacralità e quell’aureola dell’origine sono un abbaglio, spesso pure un inganno. Il sacro autentico è il rispetto religioso per tutta la creazione in ogni suo momento, per tutta l’esistenza - per ogni casa in cui nascono e vivono gli uomini, per ogni chicco di grano che muore e rinasce. Quando diviene un culto arcano riservato a luoghi, cose o immagini privilegiate e falsamente misteriose, è un trucco, un inganno o un autoinganno, stanza che si tiene al buio per impedire di accorgersi che dentro non c’è niente e che il preteso dio è un feticcio. L’idolatria che declassa Dio e il divino a mistero da Luna Park, è il nemico della religione. L’origine - di un individuo, di una nazione, di una civiltà - non è affatto più sacra di qualsiasi altro momento della vita. La falsa sacralità è violenza, è la paura e l’oscurità di cui ogni brutale potere ha bisogno per rendere schiavi. Arrampicandomi su questa Torre di Babele, mi viene in mente la sala del Palazzo di Golestan (il palazzo imperiale di Teheran) visitata pochi giorni prima, la sala in cui nel 1943 s’incontrarono Roosevelt, Churchill e Stalin e decisero - più che a Yalta - la spartizione e la sorte del mondo per mezzo secolo. E’ a Stalin che fanno pensare queste arcane rovine. Il Cremlino staliniano - sacrario di potenza, oscurità e terrore - è stato a suo modo una ziggurat. Entrambi lontani nel tempo e insieme, rispetto alla storia del mondo, vicinissimi, contemporanei, cronaca di ieri sera.
Teheran. Alla Casa degli Artisti, a parlare di letteratura di frontiera e dei temi che un discorso del genere, ogni volta, implica in forme nuove e in nuovi contesti: sradicamento, esilio, migrazioni, identità ossessiva, purezze e pulizie etniche, politiche o religiose, meticciati. Ci sono studenti, diplomatici, professori, intellettuali, scrittori; molte donne, particolarmente rigorose nell’esigenza di discutere con franchezza. La discussione, quando si sfiorano argomenti direttamente politici, ha ovviamente dei confini. Mi accorgo di essere incerto sul tono giusto da assumere, sulla frontiera tra il rispetto della verità e il rispetto delle persone, la responsabile attenzione a non mettere altri in difficoltà e la cautela convenzionale. Mi sarebbe facile tuonare di libertà, democrazia e Occidente, senza preoccuparmi di mettere altri in imbarazzo e senza pagare dazio, lasciando che siano altri, eventualmente, a pagarlo. L’etica della responsabilità, che pensa non solo alla purezza degli ideali, ma anche alle loro conseguenze per gli altri, è un fondamento della vita civile e della democrazia. Mai come quando si viaggia, tuttavia, si sente quanto facilmente essa possa sfumare in involontaria complicità o almeno in colpevole neutralità. I residenti, i sedentari sono costretti a fare i conti a fondo con la realtà in cui vivono, senza svicolare, come è consentito invece a chi la notte dopo dormirà sotto un altro cielo. Viaggiare è immorale, diceva l’inflessibile Weininger. Ma lo diceva durante un viaggio... (3 - fine)
da Venezia
Antonioni, De Oliveira, Caprara
Corriere della Sera 10.9.04
Finalmente «Eros», ma Antonioni voleva cambiarlo
«Insoddisfatto del finale con le donne nude». La gaffe di un errore tecnico durante la proiezione
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
VENEZIA - Michelangelo Antonioni è un bellissimo vecchio signore del cinema. Sta in carrozzella, non può parlare, ma agita la mano, guarda negli occhi, riceve commosso giuste ovazioni, punta all’Oscar per il meraviglioso documentario sull'altro Michelangelo, lo scultore, che inizierà un tour nelle cattedrali italiane, magari finendo in gloria in San Pietro. In più, appena può, Michelangelo corteggia ragazze, insistendo che è un istintivo, non intellettuale come abbiamo creduto per anni. Quando la Ranieri ha bussato a casa sua, per un caffè le ha chiesto di alzare la sottana. «E’ nato per il cinema e le donne» dice divertita la moglie.
Ieri alla Mostra è stata la sua gran giornata con Eros , e per lui è stato come tornare a casa. Puntata precedente: il maestro ha girato, due anni fa, in una Capalbio magistralmente ripresa da Marco Pontecorvo, l'ultimo dei tre episodi del trittico eretico ed erotico diretto anche da Soderbergh e Wong Kar Wai, che la Fandango manderà in sala il 3 dicembre. Un incidente tecnico surreale ha ieri aggiunto un quarto autore: alla proiezione stampa, accolta con contrasti, nell'episodio di Soderbergh è stato inserito per errore un rullo del film di giovani Stryker tra l'ironia feroce del pubblico.
Il film, passato tra vicissitudini legali e la rinuncia di Almodóvar troppo preso dalla Mala educación , è così in ritardo che Antonioni, cui i suoi film piacciono sempre dopo (pare abbia apprezzato ora in tv Deserto rosso , chiamandosi matto) lo vorrebbe già cambiare. Lo racconta sua moglie: «Lui dice che ha fatto un piccolo film. Avrebbe voluto cambiare il finale, girarlo di nuovo. Ma lui è sempre stato così: difficilmente ha amato subito i suoi film». Avrebbe voluto aggiungere anche l'uomo, complicando le traiettorie sentimentali, nell'incontro finale sulla spiaggia tra le due ragazze ignude, birichine e poeticamente danzanti. Avrebbe voluto, terrorizzando i produttori, inserire, oltre a raffinati effetti speciali fatti da Lucas, l'impaurito Christopher Buchholz (figlio di Horst, eroe dei Magnifici 7 ) tra le disinibite Regina Nemni, nei panni di una moglie che non accetta di essere banale e Luisa Ranieri, famosa per lo spot in cui ha caldo e poi freddo. L'attore è ancora preoccupato del rischio corso: «Ci dovevano essere scene più spinte, Antonioni voleva filmare il mio membro in erezione». Le due ragazze sono invece grate e contente: non si sarebbero spogliate per altri, ma per lui sì.
Certo, ci voleva un regista quasi novantaduenne (li compie il 29 settembre) per fare un po' di sesso: «Il film è come far l'amore con Michelangelo - dice la moglie -: è elegante, discreto, senza nulla di torbido. Ma da quando ha girato Eros è ancora cambiato, ora gode di una grande libertà di esprimersi, specie con la pittura: dipinge 6 ore al giorno». Il maestro ha infatti ancora nelle immagini un segno prepotente che lascia nella storia, interiorizzandola come per incanto: nel film tutto quello che tocca è sensuale, le auto, i volti, i paesaggi. Precisa il poeta e sceneggiatore Tonino Guerra contraddicendo il suo spot del «come si fa a non essere ottimisti»: «In questi tempi brutti mi piace il devoto, tenero omaggio di Antonioni alla natura».
Se l'oggetto sensuale di Antonioni (intestata a lui anche la canzone dell'amico di famiglia Caetano Veloso) è il piede della Ranieri, assaggiato dito per dito dal ghiotto Buchholz, altrettanto indimenticabile è la mano dall'unghia laccata di rosso di Gong Li, che si insinua peccaminosa tra pieghe dei pantaloni del giovane sarto nel magnifico e finalmente torbido, episodio di Wong Kar Wai che riconosce in Antonioni la fonte della sua ispirazione. Che, assente, manda a dire: «Abbiamo lavorato con l'incubo della Sars, a Hong Kong, anche a oltranza per 48 ore di seguito, ogni giorno pulendoci le mani e mettendo le maschere, senza contatti tra noi: è proprio tutto ciò che mi ha ispirato un film sul tatto». Che tatto, Gong Li. Anche l'attore, Chang Chen, arrossisce e ammette: «Prima del film la mia visione del sesso era molto ristretta, ero depresso: ora è cambiato tutto».
Steven Soderbergh, autore di Ocean's eleven e anche del Twelve , il sequel, ha firmato l'episodio centrale freudiano alla Woody Allen, datato al 1955, perché ogni generazione crede di essersi inventata un sesso nuovo: «La proposta era allettante, firmare accanto ad Antonioni un onore, l'ordine degli episodi l'abbiamo stabilito con Michelangelo a casa sua, ma il problema era cosa scegliere in un tema così vasto. Ho voluto il sogno perché solo qui l'attività erotica è onirica e libera, non puoi controllarla».
Maurizio Porro
Repubblica 11.10.04
NUDI E CRUDI
A ciascuno il suo eros
NATALIA ASPESI
COSA è l´eros per Wong Kar-wai? Una imperiosa mano di donna che si insinua tra le gambe nude di un uomo atterrito tra timidezza e piacere. Cosa è l´eros per Soderbergh? Andare a letto con una bellissima e sognare di andare dallo psicanalista a raccontarglielo in forma di sogno. Cosa è l´eros per Antonioni? Una coppia in crisi, una scopata con una sconosciuta, definita "avventura mentale".
I tre episodi del film "Eros" sono un test erotico per gli spettatori. I maschi soprattutto se di fantasia sessuale corrente, stanno certamente con Antonioni che intitola "Il filo pericoloso delle cose" il nudo popputo di due donne, una si masturba, l´altra danza, poi si incontrano. Le donne non hanno dubbi, stanno con il languore romantico cinese, vorrebbero avere gli abiti meravigliosi di Gong Li ed essere amate devotamente dal delicato Chang Chen. "La mano" si intitola l´episodio, e mai si videro mani più disperatamente carezzevoli. Chi ha smesso di desiderare può divertirsi con l´ironia americana, con l´"Equilibrium" di Soderbergh: l´oggetto erotico è un parrucchino sulla testa di Alan Arkin, la simbologia analitica una freccia di carta nel vuoto, la donna da sognare tutta vestita, con cappello, veletta e guanti lunghi.
Repubblica 11.9.04
Leone alla carriera al regista portoghese che presenta fuori concorso "Il quinto impero"
De Oliveira: re Sebastiano tra storia e memoria
Mette in scena un'antica leggenda alle cui origini c´è la vera storia del Portogallo
Ricardo Trepa, nipote del regista, è il giovane re che passa la notte pianificando il suicidio
ROBERTO NEPOTI
VENEZIA - Alla Mostra per ricevere il Leone d´Oro alla carriera, Manoel de Oliveira continua a viaggiare al ritmo di uno-due lungometraggi l´anno. Dopo Il quinto impero, che ha presentato fuori concorso al Lido, il novantaseienne regista portoghese sta già lavorando a un altro paio di progetti. Frattanto, la nuova opera del grande Manoel si è manifestata ai festivalieri in tutta la sua magica, evocativa ieraticità. Adattamento del dramma di José Regio (un autore morto nel 1968, ma capace di scrivere come i drammaturghi del XVI secolo), il film mette in scena un´antica leggenda alle cui origini c´è la vera storia del Portogallo: de Oliveira ce l´aveva già narrata, brevemente, per bocca della protagonista di "Un film parlato". È la vicenda del re Sebastiano, che sognò l´unificazione di tutto il mondo sotto un impero cristiano, condusse l´ultima crociata contro l´Islam, fu sconfitto e morì in battaglia. Secondo il mito (presente anche nella cultura musulmana, dove il re cattolico è sostituito dal dodicesimo Imam), Sebastiano tornerà un giorno a portare la pace, come un´apparizione uscita dalla nebbia.
Nella bella interpretazione di Ricardo Trepa, nipote del regista, il giovane re passa la notte vagheggiando il suo progetto suicida. Congedati consiglieri, cortigiani e buffoni, riceve la visita dei fantasmi delle antiche teste coronate, nonché di un profeta, il Calzolaio Santo (lo interpreta Luis Miguel Cintra, l´attore-feticcio del regista), che gli preconizza il fallimento della sua utopia. All´alba la decisione è presa: l´esercito portoghese marcerà verso la disfatta di Alcacer-Quibir.
Sono due ore di sublime esercizio stilistico, racchiuso in un unico contesto (il castello), tra il calar delle tenebre e il sorgere del sole. Un film in costume, dunque; un film «difficile», dove le preoccupazioni etiche vanno di pari passo con il rigore estetico. Tutt´altro che un film fuori del tempo, però: lo specifica l´eloquente sottotitolo «Ieri come oggi». «Ci sono due cose che rispetto da sempre - dice il regista - e cioè la Storia e la memoria, senza le quali non potremmo capire il presente. All´epoca di Sebastiano, il culmine della gerarchia dei valori era rappresentato da Dio e dal Papa; oggi c´è un nuovo tipo di religione: l´ateismo». Eppure, gli obiettiamo, il fanatismo religioso genera crociate anche ai nostri giorni. «Il mondo musulmano non ha la croce, ma il terrorismo, cui ricorre per la sua inferiorità tecnologica e militare rispetto all´Occidente. Però il terrorismo, irrazionale, è la strada sbagliata, come lo è ogni genere di guerra. Nel film ho voluto mostrarlo con la spada di Sebastiano che, gettata a terra, vibra come un serpente».
Cosa dire, allora, del Presidente americano, che parla della guerra in Iraq come di una crociata contro il Male? «Quello di Sebastiano, il re Annunciato, era il sogno di conquistare il mondo per portare la pace. Folle, ma sorretto da un ideale religioso, da una fede; dal desiderio che Dio lo amasse. L´"ideale" di George Bush è solo d´imporre a tutti la forza e la volontà dell´America». Chiediamo allora a de Oliveira quale sia il ruolo, in tutto ciò, di un film come il suo che, con l´impianto teatrale e le battute declamate, si pone agli antipodi del tipo di denuncia alla Michael Moore. Come spesso accade quando s´incontra il quasi centenario maestro, la risposta è sorprendente. «Ai tempi della tragedia greca, non solo autori e attori erano pagati per rappresentarla, ma anche il pubblico per vederla: perché la tragedia aveva una funzione educativa, da applicare nella vita pratica. Poi fu il pubblico a pagare per assistere agli spettacoli e, da allora, si è scesi sempre più in basso».
Il Mattino 11.9.04
FUORI CONCORSO
Cortometraggi d’autore nel segno del manierismo
DALL'INVIATO
VALERIO CAPRARA
Venezia. In dirittura finale il concorso si fa leggero leggero, è il momento di divertirsi col TotoLeoni. Riflettori puntati, dunque, sugli invitati d'onore, tra cui spiccava l'atteso trittico «Eros» scandito dai cortometraggi di tre big dell'erotismo d'autore. Come spesso succede, però, alle operazioni troppo premeditate, il film non è risultato all'altezza delle ambizioni e in assenza di un filo conduttore creativo o espressivo toccherà al lanternino personale d'ogni spettatore farsene una ragione: se gli infiniti risvolti dell'argomento non potevano certo esaurirsi nell'occasione, è certo che gli esploratori dell'enigma amoroso saranno ancora più disorientati al termine della proiezione.
Ne «La mano» il maestro cinese Wong Kar Wai rimette in scena le sue preziose e apprezzate visioni: nella Shanghai del 1963 l'apprendista sarto Xiao (Chang Chen) è sedotto dalle misure del corpo di Miss Hua (Gong Li), altera e conturbante prostituta d'alto bordo... Passeranno gli anni, ma la feticistica dedizione dell'uomo resta inalterata anche quando il destino cinico e baro ha deciso di chiudere i conti con la traviata dagli occhi a mandorla e dalle mises da urlo. Wong Kar Wai è come al solito insuperabile nell'attorniare gli amanti sfortunati di luci ambigue, piogge opprimenti, echi di canzoni strazianti, ma questa volta lo stile impressionistico arriva a «mangiarsi l'anima» del racconto, a renderlo simile a un'auto-citazione d'impeccabile manierismo.
«Equilibrium» di Steven Soderbergh è ancora meno significativo, uno sketch grottesco che contrappone il pubblicitario Robert Downey Jr. ossessionato dal sogno di una bella sconosciuta al suo psicanalista Alan Arkin che, durante la seduta d'analisi, invece di ascoltarlo si dedica a spiare dalla finestra dello studio qualcosa di travolgente. Michelangelo Antonioni - a cui è dedicata la canzone originale di Caetano Veloso che scorre sui disegni di Lorenzo Mattotti che fungono da raccordo degli episodi - ritorna con «Il filo pericoloso delle cose» alla scomposizione poetica delle immagini. Una coppia di quarantenni in crisi si rinfaccia ogni male deambulando tra le dune e il retroterra di Capalbio, quando, all'improvviso, l'uomo viene attratto dall'apparizione di una ragazza. Interpretata con slancio voluttuoso dall'emergente Luisa Ranieri, la messaggera di un erotismo libero e innocente rivitalizza concretamente il fortunato; ma, quando sarà partito e ormai lontano, le due donne intrecciano nude sulla spiaggia un balletto dalle tonalità metafisiche e rituali. Peccato che la sequenza, oltre a dover subire il discutibile timbro dello sceneggiatore Tonino Guerra, finisca col suggellare l'intero film in chiave di forzature estetizzanti e pretestuoso poeticismo.
Ci perdonino gli intellettuali in servizio permanente, ma ben altra euforia ha comunicato l'anteprima mondiale di «Shark Tale», il lungometraggio d'animazione in 3D con cui la Dreamworks di Spielberg risponde all'exploit di «Nemo». Magari l'ambientazione sottomarina suggerisce sospetti, ma al di là del plagio industriale i registi Jenson & Bergeron e gli sceneggiatori Letterman & Wilson hanno avuto la mano felice nello sciorinare fantasia eccentrica e ritmo travolgente. Grazie anche alle voci originali (i doppiatori vanno da De Niro a Scorsese, da Will Smith a Jack Black, dalla Zellweger alla Jolie), il film non si limita a fare il verso al gangster-movie, ma s'inventa una commedia che trasforma le avventure della barriera corallina nella spassosa e intelligente parodia di vizi e virtù di una metropoli occidentale postmoderna.
Finalmente «Eros», ma Antonioni voleva cambiarlo
«Insoddisfatto del finale con le donne nude». La gaffe di un errore tecnico durante la proiezione
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
VENEZIA - Michelangelo Antonioni è un bellissimo vecchio signore del cinema. Sta in carrozzella, non può parlare, ma agita la mano, guarda negli occhi, riceve commosso giuste ovazioni, punta all’Oscar per il meraviglioso documentario sull'altro Michelangelo, lo scultore, che inizierà un tour nelle cattedrali italiane, magari finendo in gloria in San Pietro. In più, appena può, Michelangelo corteggia ragazze, insistendo che è un istintivo, non intellettuale come abbiamo creduto per anni. Quando la Ranieri ha bussato a casa sua, per un caffè le ha chiesto di alzare la sottana. «E’ nato per il cinema e le donne» dice divertita la moglie.
Ieri alla Mostra è stata la sua gran giornata con Eros , e per lui è stato come tornare a casa. Puntata precedente: il maestro ha girato, due anni fa, in una Capalbio magistralmente ripresa da Marco Pontecorvo, l'ultimo dei tre episodi del trittico eretico ed erotico diretto anche da Soderbergh e Wong Kar Wai, che la Fandango manderà in sala il 3 dicembre. Un incidente tecnico surreale ha ieri aggiunto un quarto autore: alla proiezione stampa, accolta con contrasti, nell'episodio di Soderbergh è stato inserito per errore un rullo del film di giovani Stryker tra l'ironia feroce del pubblico.
Il film, passato tra vicissitudini legali e la rinuncia di Almodóvar troppo preso dalla Mala educación , è così in ritardo che Antonioni, cui i suoi film piacciono sempre dopo (pare abbia apprezzato ora in tv Deserto rosso , chiamandosi matto) lo vorrebbe già cambiare. Lo racconta sua moglie: «Lui dice che ha fatto un piccolo film. Avrebbe voluto cambiare il finale, girarlo di nuovo. Ma lui è sempre stato così: difficilmente ha amato subito i suoi film». Avrebbe voluto aggiungere anche l'uomo, complicando le traiettorie sentimentali, nell'incontro finale sulla spiaggia tra le due ragazze ignude, birichine e poeticamente danzanti. Avrebbe voluto, terrorizzando i produttori, inserire, oltre a raffinati effetti speciali fatti da Lucas, l'impaurito Christopher Buchholz (figlio di Horst, eroe dei Magnifici 7 ) tra le disinibite Regina Nemni, nei panni di una moglie che non accetta di essere banale e Luisa Ranieri, famosa per lo spot in cui ha caldo e poi freddo. L'attore è ancora preoccupato del rischio corso: «Ci dovevano essere scene più spinte, Antonioni voleva filmare il mio membro in erezione». Le due ragazze sono invece grate e contente: non si sarebbero spogliate per altri, ma per lui sì.
Certo, ci voleva un regista quasi novantaduenne (li compie il 29 settembre) per fare un po' di sesso: «Il film è come far l'amore con Michelangelo - dice la moglie -: è elegante, discreto, senza nulla di torbido. Ma da quando ha girato Eros è ancora cambiato, ora gode di una grande libertà di esprimersi, specie con la pittura: dipinge 6 ore al giorno». Il maestro ha infatti ancora nelle immagini un segno prepotente che lascia nella storia, interiorizzandola come per incanto: nel film tutto quello che tocca è sensuale, le auto, i volti, i paesaggi. Precisa il poeta e sceneggiatore Tonino Guerra contraddicendo il suo spot del «come si fa a non essere ottimisti»: «In questi tempi brutti mi piace il devoto, tenero omaggio di Antonioni alla natura».
Se l'oggetto sensuale di Antonioni (intestata a lui anche la canzone dell'amico di famiglia Caetano Veloso) è il piede della Ranieri, assaggiato dito per dito dal ghiotto Buchholz, altrettanto indimenticabile è la mano dall'unghia laccata di rosso di Gong Li, che si insinua peccaminosa tra pieghe dei pantaloni del giovane sarto nel magnifico e finalmente torbido, episodio di Wong Kar Wai che riconosce in Antonioni la fonte della sua ispirazione. Che, assente, manda a dire: «Abbiamo lavorato con l'incubo della Sars, a Hong Kong, anche a oltranza per 48 ore di seguito, ogni giorno pulendoci le mani e mettendo le maschere, senza contatti tra noi: è proprio tutto ciò che mi ha ispirato un film sul tatto». Che tatto, Gong Li. Anche l'attore, Chang Chen, arrossisce e ammette: «Prima del film la mia visione del sesso era molto ristretta, ero depresso: ora è cambiato tutto».
Steven Soderbergh, autore di Ocean's eleven e anche del Twelve , il sequel, ha firmato l'episodio centrale freudiano alla Woody Allen, datato al 1955, perché ogni generazione crede di essersi inventata un sesso nuovo: «La proposta era allettante, firmare accanto ad Antonioni un onore, l'ordine degli episodi l'abbiamo stabilito con Michelangelo a casa sua, ma il problema era cosa scegliere in un tema così vasto. Ho voluto il sogno perché solo qui l'attività erotica è onirica e libera, non puoi controllarla».
Maurizio Porro
Repubblica 11.10.04
NUDI E CRUDI
A ciascuno il suo eros
NATALIA ASPESI
COSA è l´eros per Wong Kar-wai? Una imperiosa mano di donna che si insinua tra le gambe nude di un uomo atterrito tra timidezza e piacere. Cosa è l´eros per Soderbergh? Andare a letto con una bellissima e sognare di andare dallo psicanalista a raccontarglielo in forma di sogno. Cosa è l´eros per Antonioni? Una coppia in crisi, una scopata con una sconosciuta, definita "avventura mentale".
I tre episodi del film "Eros" sono un test erotico per gli spettatori. I maschi soprattutto se di fantasia sessuale corrente, stanno certamente con Antonioni che intitola "Il filo pericoloso delle cose" il nudo popputo di due donne, una si masturba, l´altra danza, poi si incontrano. Le donne non hanno dubbi, stanno con il languore romantico cinese, vorrebbero avere gli abiti meravigliosi di Gong Li ed essere amate devotamente dal delicato Chang Chen. "La mano" si intitola l´episodio, e mai si videro mani più disperatamente carezzevoli. Chi ha smesso di desiderare può divertirsi con l´ironia americana, con l´"Equilibrium" di Soderbergh: l´oggetto erotico è un parrucchino sulla testa di Alan Arkin, la simbologia analitica una freccia di carta nel vuoto, la donna da sognare tutta vestita, con cappello, veletta e guanti lunghi.
Repubblica 11.9.04
Leone alla carriera al regista portoghese che presenta fuori concorso "Il quinto impero"
De Oliveira: re Sebastiano tra storia e memoria
Mette in scena un'antica leggenda alle cui origini c´è la vera storia del Portogallo
Ricardo Trepa, nipote del regista, è il giovane re che passa la notte pianificando il suicidio
ROBERTO NEPOTI
VENEZIA - Alla Mostra per ricevere il Leone d´Oro alla carriera, Manoel de Oliveira continua a viaggiare al ritmo di uno-due lungometraggi l´anno. Dopo Il quinto impero, che ha presentato fuori concorso al Lido, il novantaseienne regista portoghese sta già lavorando a un altro paio di progetti. Frattanto, la nuova opera del grande Manoel si è manifestata ai festivalieri in tutta la sua magica, evocativa ieraticità. Adattamento del dramma di José Regio (un autore morto nel 1968, ma capace di scrivere come i drammaturghi del XVI secolo), il film mette in scena un´antica leggenda alle cui origini c´è la vera storia del Portogallo: de Oliveira ce l´aveva già narrata, brevemente, per bocca della protagonista di "Un film parlato". È la vicenda del re Sebastiano, che sognò l´unificazione di tutto il mondo sotto un impero cristiano, condusse l´ultima crociata contro l´Islam, fu sconfitto e morì in battaglia. Secondo il mito (presente anche nella cultura musulmana, dove il re cattolico è sostituito dal dodicesimo Imam), Sebastiano tornerà un giorno a portare la pace, come un´apparizione uscita dalla nebbia.
Nella bella interpretazione di Ricardo Trepa, nipote del regista, il giovane re passa la notte vagheggiando il suo progetto suicida. Congedati consiglieri, cortigiani e buffoni, riceve la visita dei fantasmi delle antiche teste coronate, nonché di un profeta, il Calzolaio Santo (lo interpreta Luis Miguel Cintra, l´attore-feticcio del regista), che gli preconizza il fallimento della sua utopia. All´alba la decisione è presa: l´esercito portoghese marcerà verso la disfatta di Alcacer-Quibir.
Sono due ore di sublime esercizio stilistico, racchiuso in un unico contesto (il castello), tra il calar delle tenebre e il sorgere del sole. Un film in costume, dunque; un film «difficile», dove le preoccupazioni etiche vanno di pari passo con il rigore estetico. Tutt´altro che un film fuori del tempo, però: lo specifica l´eloquente sottotitolo «Ieri come oggi». «Ci sono due cose che rispetto da sempre - dice il regista - e cioè la Storia e la memoria, senza le quali non potremmo capire il presente. All´epoca di Sebastiano, il culmine della gerarchia dei valori era rappresentato da Dio e dal Papa; oggi c´è un nuovo tipo di religione: l´ateismo». Eppure, gli obiettiamo, il fanatismo religioso genera crociate anche ai nostri giorni. «Il mondo musulmano non ha la croce, ma il terrorismo, cui ricorre per la sua inferiorità tecnologica e militare rispetto all´Occidente. Però il terrorismo, irrazionale, è la strada sbagliata, come lo è ogni genere di guerra. Nel film ho voluto mostrarlo con la spada di Sebastiano che, gettata a terra, vibra come un serpente».
Cosa dire, allora, del Presidente americano, che parla della guerra in Iraq come di una crociata contro il Male? «Quello di Sebastiano, il re Annunciato, era il sogno di conquistare il mondo per portare la pace. Folle, ma sorretto da un ideale religioso, da una fede; dal desiderio che Dio lo amasse. L´"ideale" di George Bush è solo d´imporre a tutti la forza e la volontà dell´America». Chiediamo allora a de Oliveira quale sia il ruolo, in tutto ciò, di un film come il suo che, con l´impianto teatrale e le battute declamate, si pone agli antipodi del tipo di denuncia alla Michael Moore. Come spesso accade quando s´incontra il quasi centenario maestro, la risposta è sorprendente. «Ai tempi della tragedia greca, non solo autori e attori erano pagati per rappresentarla, ma anche il pubblico per vederla: perché la tragedia aveva una funzione educativa, da applicare nella vita pratica. Poi fu il pubblico a pagare per assistere agli spettacoli e, da allora, si è scesi sempre più in basso».
Il Mattino 11.9.04
FUORI CONCORSO
Cortometraggi d’autore nel segno del manierismo
DALL'INVIATO
VALERIO CAPRARA
Venezia. In dirittura finale il concorso si fa leggero leggero, è il momento di divertirsi col TotoLeoni. Riflettori puntati, dunque, sugli invitati d'onore, tra cui spiccava l'atteso trittico «Eros» scandito dai cortometraggi di tre big dell'erotismo d'autore. Come spesso succede, però, alle operazioni troppo premeditate, il film non è risultato all'altezza delle ambizioni e in assenza di un filo conduttore creativo o espressivo toccherà al lanternino personale d'ogni spettatore farsene una ragione: se gli infiniti risvolti dell'argomento non potevano certo esaurirsi nell'occasione, è certo che gli esploratori dell'enigma amoroso saranno ancora più disorientati al termine della proiezione.
Ne «La mano» il maestro cinese Wong Kar Wai rimette in scena le sue preziose e apprezzate visioni: nella Shanghai del 1963 l'apprendista sarto Xiao (Chang Chen) è sedotto dalle misure del corpo di Miss Hua (Gong Li), altera e conturbante prostituta d'alto bordo... Passeranno gli anni, ma la feticistica dedizione dell'uomo resta inalterata anche quando il destino cinico e baro ha deciso di chiudere i conti con la traviata dagli occhi a mandorla e dalle mises da urlo. Wong Kar Wai è come al solito insuperabile nell'attorniare gli amanti sfortunati di luci ambigue, piogge opprimenti, echi di canzoni strazianti, ma questa volta lo stile impressionistico arriva a «mangiarsi l'anima» del racconto, a renderlo simile a un'auto-citazione d'impeccabile manierismo.
«Equilibrium» di Steven Soderbergh è ancora meno significativo, uno sketch grottesco che contrappone il pubblicitario Robert Downey Jr. ossessionato dal sogno di una bella sconosciuta al suo psicanalista Alan Arkin che, durante la seduta d'analisi, invece di ascoltarlo si dedica a spiare dalla finestra dello studio qualcosa di travolgente. Michelangelo Antonioni - a cui è dedicata la canzone originale di Caetano Veloso che scorre sui disegni di Lorenzo Mattotti che fungono da raccordo degli episodi - ritorna con «Il filo pericoloso delle cose» alla scomposizione poetica delle immagini. Una coppia di quarantenni in crisi si rinfaccia ogni male deambulando tra le dune e il retroterra di Capalbio, quando, all'improvviso, l'uomo viene attratto dall'apparizione di una ragazza. Interpretata con slancio voluttuoso dall'emergente Luisa Ranieri, la messaggera di un erotismo libero e innocente rivitalizza concretamente il fortunato; ma, quando sarà partito e ormai lontano, le due donne intrecciano nude sulla spiaggia un balletto dalle tonalità metafisiche e rituali. Peccato che la sequenza, oltre a dover subire il discutibile timbro dello sceneggiatore Tonino Guerra, finisca col suggellare l'intero film in chiave di forzature estetizzanti e pretestuoso poeticismo.
Ci perdonino gli intellettuali in servizio permanente, ma ben altra euforia ha comunicato l'anteprima mondiale di «Shark Tale», il lungometraggio d'animazione in 3D con cui la Dreamworks di Spielberg risponde all'exploit di «Nemo». Magari l'ambientazione sottomarina suggerisce sospetti, ma al di là del plagio industriale i registi Jenson & Bergeron e gli sceneggiatori Letterman & Wilson hanno avuto la mano felice nello sciorinare fantasia eccentrica e ritmo travolgente. Grazie anche alle voci originali (i doppiatori vanno da De Niro a Scorsese, da Will Smith a Jack Black, dalla Zellweger alla Jolie), il film non si limita a fare il verso al gangster-movie, ma s'inventa una commedia che trasforma le avventure della barriera corallina nella spassosa e intelligente parodia di vizi e virtù di una metropoli occidentale postmoderna.
Screening for Mental Health
il suicidio negli USA
Yahoo! Salute 10.9.04
Il Pensiero Scientifico Editore
Psichiatria, Psicologia e Neurologia
Stop al suicidio!
In occasione della Giornata Mondiale della Prevenzione del Suicidio (10 settembre), numerose associazioni e organizzazioni che si occupano di salute mentale operanti negli Stati Uniti hanno unito le loro forze per lanciare una massiccia campagna di prevenzione del suicidio.
Ogni anno in America più di 30000 persone si suicidano. Si calcola che almeno il 70 per cento di loro avverta qualcuno delle proprie intenzioni in anticipo. L’obiettivo della prevenzione quindi si può raggiungere insegnando a riconoscere i segni premonitori del suicidio e ad intervenire nel caso una persona cara abbia bisogno di aiuto. È Douglas G. Jacobs, direttore esecutivo del programma Screening for Mental Health (SMH) a precisare le finalità del progetto: “Il suicidio è una reazione irrimediabile a una condizione reversibile, la maggior parte delle volte una depressione. La nostra campagna indica la strada da percorrere quando si è preoccupati che un amico o una persona amata sia depressa o potenzialmente suicida. Le persone a rischio-suicidio sono talmente depresse che non cercano aiuto di loro iniziativa, sono le persone che le circondano la loro unica chance”.
I tre step consigliati sono: Conoscenza, Cura, Terapia. Conoscere il problema, far capire alla persona coinvolta che ci si preoccupa del problema, portarla da uno specialista per aiutarla a risolvere il problema.
Parlare di suicidio con una persona depressa fa paura, è vero, ma ignorare il problema può portare a risultati tragici: mai sottovalutare segni premonitori come il parlare ossessivamente di morte, avere drastici sbalzi d’umore, dedicarsi ossessivamente ad attività rischiose, perdere interesse per hobby e attività precedenti.
Spiega ancora Jacobs: “Se siete preoccupati per qualcuno, avvertite un medico: meglio un amico o un familiare arrabbiato che uno morto”.
Per informazioni sull'iniziativa visitate il sito di Stop a suicide today! In Italia: Associazione Famiglie Italiane Prevenzione Suicidio (AFIPRES), Via G. Besio 31,33 – Palermo. Tel/fax 091 - 6859793
Il Pensiero Scientifico Editore
Psichiatria, Psicologia e Neurologia
Stop al suicidio!
In occasione della Giornata Mondiale della Prevenzione del Suicidio (10 settembre), numerose associazioni e organizzazioni che si occupano di salute mentale operanti negli Stati Uniti hanno unito le loro forze per lanciare una massiccia campagna di prevenzione del suicidio.
Ogni anno in America più di 30000 persone si suicidano. Si calcola che almeno il 70 per cento di loro avverta qualcuno delle proprie intenzioni in anticipo. L’obiettivo della prevenzione quindi si può raggiungere insegnando a riconoscere i segni premonitori del suicidio e ad intervenire nel caso una persona cara abbia bisogno di aiuto. È Douglas G. Jacobs, direttore esecutivo del programma Screening for Mental Health (SMH) a precisare le finalità del progetto: “Il suicidio è una reazione irrimediabile a una condizione reversibile, la maggior parte delle volte una depressione. La nostra campagna indica la strada da percorrere quando si è preoccupati che un amico o una persona amata sia depressa o potenzialmente suicida. Le persone a rischio-suicidio sono talmente depresse che non cercano aiuto di loro iniziativa, sono le persone che le circondano la loro unica chance”.
I tre step consigliati sono: Conoscenza, Cura, Terapia. Conoscere il problema, far capire alla persona coinvolta che ci si preoccupa del problema, portarla da uno specialista per aiutarla a risolvere il problema.
Parlare di suicidio con una persona depressa fa paura, è vero, ma ignorare il problema può portare a risultati tragici: mai sottovalutare segni premonitori come il parlare ossessivamente di morte, avere drastici sbalzi d’umore, dedicarsi ossessivamente ad attività rischiose, perdere interesse per hobby e attività precedenti.
Spiega ancora Jacobs: “Se siete preoccupati per qualcuno, avvertite un medico: meglio un amico o un familiare arrabbiato che uno morto”.
Per informazioni sull'iniziativa visitate il sito di Stop a suicide today! In Italia: Associazione Famiglie Italiane Prevenzione Suicidio (AFIPRES), Via G. Besio 31,33 – Palermo. Tel/fax 091 - 6859793
ossessioni
Yahoo! Salute 6.9.04, 17:45
Psichiatria: Gas aperto o luce accesa: una ossessione per il 3% degli italiani
Roma, 6 set. (Adnkronos Salute) - La luce lasciata accesa, il rubinetto del gas aperto o la porta di casa chiusa male. Banali dimenticanze che per il 3% degli italiani sono veri e propri 'disturbi ossessivi', che colpiscono soprattutto le persone più maniacali e i giovani adulti. E che spingono chi ne soffre a tornare indietro per controllare se queste operazioni, generalmente 'automatiche', siano state eseguite correttamente. A 'fotografare' l'ossessione dei nostri connazionali, che riguarda in particolare gli uomini, in rapporto di due a uno rispetto alle donne, e' lo psichiatra Tonino Cantelmi, docente all' Università gregoriana di Roma, che sottolinea come ''la scarsa memoria o le dimenticanze legate all'eta' non abbiano nulla a che fare con queste manie''. "Tutti noi non prestiamo attenzione - spiega l'esperto all'Adnkronos Salute - nei gesti 'ripetitivi' quotidiani che facciamo in maniera semi-automatica. A tutti può capitare di non ricordare se si è chiusa o meno la porta o la luce di casa, ma nelle persone 'ossessive' il dubbio diventa sempre più insistente, fino a costringerle a tornare indietro per controllare. Una situazione - aggiunge - che rientra a pieno titolo nella categoria dei disturbi ossessivi ed e' 'parente stretta' di forme piu' gravi e pericolose, come il gioco d'azzardo o l'internet-mania''. Lo specialista chiarisce che non è possibile ricordare in maniera precisa tutto ciò che si fa ogni giorno, anche a causa dell'enorme quantità di stimoli, circa 3.000 al secondo, che la nostra mente riceve. Ma suggerisce agli 'eterni dubbiosi' di ''fermarsi a focalizzare le azioni a cui di solito non si presta attenzione per cercare di ricordare il gesto fatto in maniera automatica''. (Stg/Adnkronos Salute)
Psichiatria: Gas aperto o luce accesa: una ossessione per il 3% degli italiani
Roma, 6 set. (Adnkronos Salute) - La luce lasciata accesa, il rubinetto del gas aperto o la porta di casa chiusa male. Banali dimenticanze che per il 3% degli italiani sono veri e propri 'disturbi ossessivi', che colpiscono soprattutto le persone più maniacali e i giovani adulti. E che spingono chi ne soffre a tornare indietro per controllare se queste operazioni, generalmente 'automatiche', siano state eseguite correttamente. A 'fotografare' l'ossessione dei nostri connazionali, che riguarda in particolare gli uomini, in rapporto di due a uno rispetto alle donne, e' lo psichiatra Tonino Cantelmi, docente all' Università gregoriana di Roma, che sottolinea come ''la scarsa memoria o le dimenticanze legate all'eta' non abbiano nulla a che fare con queste manie''. "Tutti noi non prestiamo attenzione - spiega l'esperto all'Adnkronos Salute - nei gesti 'ripetitivi' quotidiani che facciamo in maniera semi-automatica. A tutti può capitare di non ricordare se si è chiusa o meno la porta o la luce di casa, ma nelle persone 'ossessive' il dubbio diventa sempre più insistente, fino a costringerle a tornare indietro per controllare. Una situazione - aggiunge - che rientra a pieno titolo nella categoria dei disturbi ossessivi ed e' 'parente stretta' di forme piu' gravi e pericolose, come il gioco d'azzardo o l'internet-mania''. Lo specialista chiarisce che non è possibile ricordare in maniera precisa tutto ciò che si fa ogni giorno, anche a causa dell'enorme quantità di stimoli, circa 3.000 al secondo, che la nostra mente riceve. Ma suggerisce agli 'eterni dubbiosi' di ''fermarsi a focalizzare le azioni a cui di solito non si presta attenzione per cercare di ricordare il gesto fatto in maniera automatica''. (Stg/Adnkronos Salute)
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