venerdì 1 agosto 2003

razionalismo, illuminismo ateismo

Repubblica, 1.8.03
Esce l´edizione completa della "Guida dei perplessi"
MAIMONIDE, VITE RISCHIOSE DEI FILOSOFI
La lettura di Leo Strauss sul massimo esponente del pensiero ebraico medievale
di FRANCO VOLPI

La Guida dei perplessi di Mosè Maimonide ­ filosofo, medico e giurista originario di Córdoba, massimo esponente del pensiero ebraico medievale ­ è uno di quei libri appassionanti la cui storia meriterebbe di essere raccontata in un romanzo. Scritto nel penultimo decennio del XII secolo in arabo, al Cairo, ma utilizzando le lettere dell´alfabeto ebraico, esso ebbe una vasta diffusione nel Medioevo. Non solo nel mondo arabo e giudaico, ma soprattutto in quello latino grazie a una fortunata versione anonima che consentì ad Alberto Magno e Tommaso d´Aquino di prendere conoscenza delle tesi del grande aristotelico ebreo. Anche nei secoli successivi l'opera continuò a essere letta, e ai tempi dell´illuminismo berlinese, con Moses Mendelssohn, divenne un vero e proprio libro di culto.
Particolarmente meritoria è dunque la prima traduzione italiana integrale, condotta sull´originale arabo, che Mauro Zonta ha realizzato per la Utet (pagg. 812, euro 65). Ma che cosa, di questo vasto trattato teologico-filosofico, attirò l´attenzione di tanti secoli? Chi sono i «perplessi» ­o dubitantes, secondo la versione latina più tarda ­ cui si rivolge Maimonide? E quale insegnamento intende trasmettere con la sua fortunata Guida?
Conviene, per capirlo, ricordare un antefatto. Nel 1935 in occasione dell´ottavo centenario dalla sua nascita ­ che oggi si sposta al 1138 ­ ci fu un profluvio di studi. Tra questi un appassionante saggio del giovane Leo Strauss intitolato Filosofia e Legge. Contributi alla comprensione di Maimonide e dei suoi precursori. Walter Benjamin aveva in animo di recensirlo nella prospettiva di «una filosofia politica del giudaismo». Ma la recensione non fu mai scritta, e il saggio di Strauss passò quasi inosservato. Rimase una perla per pochi eletti: «La cosa migliore che io abbia scritto», annunciava Strauss a Kojève. «Una professione di ateismo quale più importante soluzione dell´ebraismo», ma «totalmente assurda», commentava Scholem in una lettera a Benjamin.
Proprio questo è il punto interessante. Non si trattava infatti di un ateismo banale, ma di un «ateismo dell´onestà»: esso respinge le credenze e le visioni della religione non perché siano terribili, ma perché sono consolatorie ed edificanti; non perché opprimano l´uomo, ma perché lo illudono e lo ingannano in merito alla durezza del mondo e alla disperata realtà dell´esistenza invitandolo a fuggire in raffigurazioni salvifiche. Egli invece, se è saggio, deve avere l´«onestà» e il coraggio di respingere la religione come autoinganno. L´esercizio della ragione conduce inevitabilmente all´ateismo, e l´«onestà intellettuale» vuole che si riconosca come impossibile ogni mediazione tra la filosofia e la legge, l´ateismo e l´ortodossia religiosa, Atene e Gerusalemme.
Per Strauss, ebreo illuminista e razionalista, ne risulta un inaggirabile aut aut. Un dilemma radicale che turba il sapiente e la sua disposizione a credere, rendendolo perplesso, dubbioso. Se vale l´alternativa secca fra ortodossia e ateismo, l´ebreo come tale deve attenersi all´ortodossia fondata sulla rivelazione e sulla tradizione, rinunciando però alla libertà della ragione. Oppure segue il libero movimento della ragione, ma allora deve abbandonare l´ortodossia e l´ebraismo, e finirà così nell´ateismo. La via che Strauss prospetta per superare tale impasse è un illuminismo che non sia necessariamente ateo, come quello «moderno», ma che si tenga aperto alle originarie radici religiose dell´esperienza umana. Ed egli lo trova storicamente realizzato nel pensiero di Maimonide.
La Guida rappresenta ai suoi occhi il riuscito tentativo di conciliare ebraismo ed aristotelismo, ortodossia e illuminismo, fede e ragione, tradizione e libertà. È la soluzione della radicale perplessità, teorica e pratica, in cui vivono i sapienti. Maimonide conosce la loro difficile situazione: essi fanno filosofia in una comunità politica in cui la tradizione e l´ortodossia basate sulla rivelazione limitano il libero esercizio della ragione. Essi scoprono verità che appaiono in contrasto con la legge, con l´ordine della comunità e con l´opinione popolare, e possono essere comprese solo da chi è preparato a riceverle. I filosofi devono allora ammantarle di un esoterico velo che le nasconda ai molti, trasmettendole solo oralmente, di maestro in discepolo, e praticando altrimenti la «reticenza»: cioè comunicandole, se mai, per vie oblique, tra le righe, secondo quell´«arte della scrittura» con cui essi sanno dire e non dire: di modo che chi è degno capisca, e gli altri nemmeno avvertano.
Secondo l´immagine creata da Strauss, il sapiente si trova a fare filosofia in una «seconda» caverna che sta al di sotto della caverna di cui narra il mito di Platone. La prima caverna, quella platonica, simboleggia i condizionamenti naturali che l´uomo deve superare per poter esercitare liberamente, alla luce del Sole, la ragione. La seconda, quella più profonda immaginata da Strauss, sta a significare i condizionamenti storico-religiosi da cui l´uomo deve affrancarsi per arrivare ad esercitare la ragione naturale, e arrivare alla caverna platonica. Insomma, la Guida può essere letta come un grande trattato teologico-filosofico-politico di immutata attualità. Dove il problema fondamentale, oggi, non è quello di educare l´uomo a uscire dalla caverna di Platone ­come voleva Hans Blumenberg nel suo Uscite dalla caverna del 1989 ­ ma prima ancora quello di insegnargli a entrare.

intervista a Marco Bellocchio

Il Gazzettino di Venezia Venerdì, 1 Agosto 2003
Roma
«A me non interessa...»

Roma
«A me non interessa, non essendo uno storico, cercare di scoprire la verità. Io ho voluto cercare all'interno di questa tragedia un movimento che non fosse solo apparente». Marco Bellocchio parla così di "Buongiorno, notte", il film che presenterà in concorso alla Mostra del cinema di Venezia e uno dei più attesi eventi della rassegna. La pellicola racconta, attraverso gli occhi di una giovane terrorista appartenente alla lotta armata, il sequestro Moro o meglio gli anni di piombo e le contraddizioni di quel periodo. «Oggi - spiega Bellocchio - c'è anche un'esigenza civile e morale, non solo artistica, di "tradire" la storia, nel senso di non subirla fatalmente. Per mia formazione e per ricerca non simpatizzavo per le Br e ho avuto orrore per la conclusione della vicenda Moro, mi sembrava prima di tutto un'azione folle».

«Nell'immaginare il personaggio di Moro - prosegue il regista - spesso mi è venuta in mente la figura di mio padre, che è morto quando ero piccolo. Mio padre aveva qualcosa in comune con Moro, che peraltro non ho mai conosciuto né visto: anche lui era un uomo molto tenace, un conservatore, che però aveva un'umanità profonda che ho cancellato con la sua morte. L'immagine di mio padre è entrata nel film e ha dato corpo a un personaggio che non ho mai conosciuto. Forse non è un caso la scelta di Herlitzka che è del Nord e parla settentrionale, come mio padre».

Il film si basa su vari documenti, tra cui le lettere di Moro e libri sul caso. «Non ho quasi mai parlato con i brigatisti - spiega Bellocchio - ho avuto un unico incontro breve con Lanfranco Pace quando morì Maccari e venne fuori la versione che Maccari avrebbe ucciso materialmente Moro, perché Gallinari si era messo a piangere e a Moretti si era inceppato il mitra. Pace mi confermò, la notizia era già apparsa sui giornali, che Maccari non voleva uccidere Moro, lo fece per ubbidienza, per disciplina militare e subito dopo sparì dalle Br. Le Br di oggi mi paiono ancor più fuori dal mondo e dalla realtà e non credo che abbiano molta acqua in cui nuotare. Al tempo stesso - conclude - la storia oggi propone un terrorismo mondiale in cui tutto si moltiplica, la vittima diventa migliaia di vittime. Quando ci fu l'11 settembre ero già alle prese con il progetto di questo film e il dramma mi suggerì di cercare delle strade di racconto diverse. Ho anche seguito un'idea che provava a mettere in relazione tutti questi orfani, i figli dei poliziotti, quelli delle Torri, il nipote di Moro. Ma poi ho lasciato perdere, vedevo il rischio di un parallelismo schematico e mentale».

«Bellocchio portabandiera: Bertolucci e i grandi film Usa fuori concorso»

La Gazzetta di Parma 1.8.03
Bellocchio portabandiera
Bertolucci e i grandi film Usa fuori concorso

ROMA - Come sempre la visione d'insieme del cartellone della Mostra di Venezia - che sarà inaugurata il 27 agosto da Anything Else di Woody Allen (ovviamente fuori concorso) - fa oscillare tra eccitazione e smarrimento: tantissimi i titoli, molte le suggestioni e le attese, qualche delusione per mancati arrivi e la curiosità di scoprire il capolavoro ancora inedito.

Sono venti i film del concorso e portano in bella evidenza un'Europa ritornata a parlare con le sue tante lingue e cinematografie spesso ignorate nell'ultimo periodo dai grandi percorsi dei festival internazionali. A fianco di una generazione di maestri consacrati come il nostro Marco Bellocchio, il francese Jacques Doillon che ha girato in Marocco, l'israeliano Amos Gitai, il portoghese Manoel de Oliveira, la tedesca Margarethe von Trotta e l'inglese Michael Winterbottom, si affacciano nuovi talenti che parlano jugoslavo come Srdjan Karanovic, il francese come Bruno Dumont o Noemie Lvovsky, l'italiano come Paolo Benvenuti e Edoardo Winspeare. Altra novità da segnalare è che l'Asia, il cui cinema era dato per perduto a causa di un'epidemia capace di isolare un intero continente dal resto del mondo, porta in concorso invece due dei suoi talenti più attesi come il giapponese Takeshi Kitano e il taiwanese Tsai-Ming Liang.

Si potrebbe obiettare che per un solo film americano in competizione, peraltro firmato da un iberico come Gonzales Inarritu, sono tantissimi quelli fuori concorso. Ma questa non è una novità e sempre più spesso, per giudicare il lavoro di un direttore di Festival, è necessario guardare all'intero menu piuttosto che alle singole sezioni del programma. Altrimenti capita che anche nel giudizio su Venezia 2003 una sezione nominalmente alternativa come «Controcorrente» prometta più del concorso ufficiale. Qui infatti si sprecano i nomi famosi da Sofia Coppola a Lars von Trier, da Goutam Ghose a Ciprì & Maresco fino agli iraniani Jalili e Payami e ai veterani Raoul Ruiz, John Sayles e Peter Greenaway. Chi ha memoria dell'ultimo Festival di Cannes sa bene che la distanza critica tra attese e risultati può rivelarsi dolorosa. E quindi allo stesso modo, nel fare un bilancio preventivo della prossima Mostra di Venezia è opportuno non dolersi troppo delle assenze annunciate (Tarantino, Bergman, Angelopoulos, Virzì) perchè è assai probabile che il giorno di chiusura di Venezia il bilancio risulti radicalmente diverso dalle indiscrezioni della vigilia.

E' facile invece garantire che alla Mostra non mancheranno divi famosi e grandi interpreti tra Sean Penn e George Clooney, da Maya Sansa a Luigi Lo Cascio, da Catherine Deneuve a Tim Robbins, da Omar Sharif a Antonio Banderas, da Nicolas Cage a Woody Allen fino a Catherine Zeta-Jones e Nicole Kidman. In buona sintesi, almeno ad ascoltare i bene informati, la numero 60 sarà una bella edizione della Mostra in cui l'Italia rafforza il suo ruolo di «potenza emergente» senza imporre l'arroganza del padrone di casa visto che si limita a tre film in concorso (di cui due a «Controcorrente») più l'atteso ritorno di Bernardo Bertolucci fuori concorso con The Dreamers.

Se Marco Bellocchio pone di diritto un'ipoteca a un premio maggiore con Buongiorno, notte molti sostengono che le vere rivelazioni del programma potrebbero essere Pornografia di Jan Jakok Kolski o ancora il russo Andrey Zvyagintsev con Il ritorno. Più difficile infine tracciare una mappa e trovare la bussola all'interno della sezione «Nuovi Territori» storicamente rivolta alla sperimentazione, ai nuovi linguaggi, ai formati anomali.

Quel che appare certo, nel diluvio di titoli e autori sconosciuti selezionati per l'occasione è che si impone una via italiana al documentario, genere da tempo abbandonato ed ora riscoperto con reale passione dai più giovani talenti ai cineasti affermati come Wilma Labate o Giuseppe Piccioni o Vincenzo Marra. Questa si annuncia davvero come la novità dell'anno, almeno nell'ottica italiana, e potrebbe essere una buona ragione per far passare alla storia il cartellone della 60/a Mostra, capace di guardare al nuovo senza trascurare i valori della memoria come dimostrano il Leone d'oro a Dino de Laurentiis, il Premio Pasinetti assegnato dai giornalisti cinematografici a Luciano Emmer, il Premio Bianchi che andrà a Nino Manfredi e la grande retrospettiva «L'industria dei prototipi» dedicata ai produttori italiani del tempo che fu.

Maurizio Porro su Marco Bellocchio e Venezia

Corriere della Sera 1.8.03
L’autore di «Buongiorno, notte»: lo statista assassinato dalle Br mi ricordava mio padre, non mi interessa scoprire la verità sui terroristi
Dal caso Moro a Salvatore Giuliano: sfide del nostro cinema
di Maurizio Porro

Il cinema italiano farà sentire alta e chiara la sua voce a Venezia. Si parte con gli attesi acuti dei maestri coevi Bertolucci e Bellocchio che si passano idealmente il testimone, riprendendo il primo con The Dreamers, fuori concorso, l’utopia del ’68 che finisce con il lancio del porfido dei marciapiedi parigini. «Così finirà male...» dice uno dei tre ragazzi: la traiettoria del lancio per alcuni porterà infatti troppo lontano. Porterà verso il terrorismo di cui si occupa Bellocchio con Buongiorno, notte che ricostruisce più in interni di coscienza che storicamente, attraverso gli occhi di una giovane combattuta terrorista (Maya Sansa), il caso Moro. Dice Bellocchio: «A me non interessa, non essendo uno storico, scoprire la verità. Non ho mai simpatizzato per le brigate rosse, né sposato l’assurda causa di cambiare il mondo ammazzando gente. Ho parlato poco con i terroristi, oggi che il fenomeno è cambiato, diventato globale. Ma mi è venuto in mente mio padre, che aveva qualcosa in comune con Moro. Un uomo tenace e conservatore con una profonda umanità». Nel cast Luigi Lo Cascio e Roberto Herlitzka (un somigliante Moro). A testimoniare il rinnovato impegno del nostro cinema ecco in gara il severo Paolo Benvenuti che riesplora con Segreti di Stato la storia di Salvatore Giuliano e la strage di Portella delle Ginestre. Non in contrasto col capolavoro di Rosi, ma forse avendo potuto approfondire i fatti, vedere i documenti, anche quelli usciti di recente da Washington. Ma la sostanza dell’accusa non cambia: il film chiama in causa, con nomi e cognomi, la mafia, la Dc, il Vaticano, la Cia, da Andreotti a Pio XII, preoccupando non poco il produttore eroe Domenico Procacci.
In concorso ci sarà anche il neofita 38enne Edoardo Winspeare, pugliese di origini anglo-austriache, già autore di due film geniali (Sangue vivo e Pizzicata), contentissimo di esserci anche se consapevole dei rischi dell’arena del Lido. «Specie con Miracolo in cui tratto temi massimalisti, un dodicenne che uscito da uno choc dopo un incidente viene creduto capace di miracoli e vede una luce che forse è Dio. S’immagini lei. Girando con cifra realistica, ma con spazio per la dimensione onirica, per la sospensione del tempo».
Il nostro cinema ha di nuovo messo i pugni in tasca, riflette in modo critico sulla storia. Nella sezione «Controcorrente», il già tanto discusso Il ritorno di Cagliostro di Ciprì e Maresco, maxi provocazione horror sociale, in gotico palermitano, verso il B movie anni ’50. Si racconta della Trinacria Film, sgangherata produzione d’epoca, compromessa con la mafia. Robert Englund, il mostro di Nightmare, è nel ruolo di Cagliostro, mago e alchimista di origine palermitana. «E’ il nostro film più divertente - dicono gli "scandalosi" autori rifiutati a Cannes - e che ha maggiori possibilità di coinvolgere il pubblico». Nella stessa sezione c’è Liberi di Tavarelli, che torna al tema del lavoro, molto frequentato dal cinema europeo d’oggi, con la storia di una fabbrica che chiude e una famiglia che si sfascia. «Il titolo - dice il regista - esprime il tentativo di vivere secondo la libertà personale, di esprimersi per come si è dentro, sia dentro che fuori casa».
E poi ci sono le feste e gli omaggi, che partono col Leone alla carriera a quel ragazzino ottantatreenne di Dino De Laurentiis, con il premio Bianchi al caro Manfredi. E i libri: uno sulla Biennale e le storie della laguna, uno di Silvio Danese Anni fuggenti, 30 autoritratti di gloriose cine-personalità, Capitani coraggiosi, volume sui produttori italiani dal ’45 al ’75 cui è dedicata la retrospettiva. Infine l’omaggio a Zavattini di Lizzani, il profetico blob tv di san Fellini, il nuovo film di Emmer con la Ferilli, i molti titoli nella sezione Nuovi Territori. E Ballo a tre passi di Salvatore Mereu alla Settimana della Critica, storia molto truffautiana di un gruppo di bambini sardi che nella loro vita non hanno mai visto il mare.

Le Scienze: formazione musicale e memoria verbale

Le Scienze 31.07.2003
La musica rafforza la memoria verbale
L'istruzione musicale modifica la parte sinistra del cervello

Secondo uno studio pubblicato sul numero di luglio della rivista "Neuropsychology" (http://www.apa.org/journals/neu.html), i bambini che hanno ricevuto un'istruzione musicale presentano una memoria verbale significativamente migliore di quelli che non l'hanno ricevuta. Inoltre, più a lungo hanno studiato musica, meglio funziona la loro memoria. Queste scoperte sottolineano un fatto già noto: quando un'esperienza modifica una particolare regione cerebrale, anche le altre funzioni di quella regione ne possono ricevere un beneficio. Si tratta di un tipo di effetto collaterale cognitivo che, oltre che favorire i bambini sani, potrebbe aiutare nella cura dei pazienti con danni al cervello.
Gli psicologi dell'Università Cinese di Hong Kong hanno studiato 90 ragazzi fra i sei e i quindici anni di età. Metà di questi avevano seguito lezioni di musica in quanto membri dell'orchestra d'archi della loro scuola, oltre che lezioni di musica classica con strumenti occidentali, per un periodo da uno a cinque anni. Gli altri 45 erano compagni di scuola privi di istruzione musicale. I ricercatori, guidati da Agnes S. Chan, hanno sottoposto i bambini a esercizi di memoria verbale per vedere quante parole erano in grado di ricordare da una lista e a esercizi di memoria visiva, simili ai precedenti ma con immagini al posto delle parole.
Gli studenti che avevano seguito le lezioni di musica erano in grado di ricordare un numero di parole significativamente superiore agli altri. L'effetto era tanto maggiore quanto più lunga era la durata degli studi musicali sostenuti. Per quello che riguarda la memoria visiva, invece, non si è osservata alcuna differenza sostanziale.
Gli autori concludono che anche pochi anni di istruzione musicale possono migliorare la memoria verbale, a causa di una maggiore riorganizzazione corticale nella regione temporale sinistra. In altre parole, lo studio della musica stimola la parte sinistra del cervello, la stessa area che gestisce funzioni come l'apprendimento verbale.
Yim-Chi Ho, Mei-Chun Cheung, Agnes S. Chan, Music Training Improves Verbal but Not Visual Memory: Cross-Sectional and Longitudinal Explorations in Children. Neuropsychology, Vol. 17, No. 3 (2003)