Europa (quotidiano diretto da Federico Orlando) 10.1.04
PICASSO INTIME A PARIGI
di Simona Maggiorelli
PARIGI. Un elegante profilo di donna dal collo allungato. Che ricorda Modigliani. Una bellezza scultorea, ammorbidita da un uno sguardo bruno, lievemente malinconico, intenso.
Blu e rosso geometricamente si spartiscono lo sfondo del quadro. È la prima immagine di Jacqueline, dipinta da Picasso. Nel titolo evasivamente indicata come Madame Z, dal nome della villa che la giovane donna abitava a Antibes, quando nel 1954 s’incontrarono. In ventitré anni il pittore spagnolo le ha dedicato un centinaio di ritratti, un variegato carnet d’immagini d’arte nate durante il loro rapporto. Più di un’ottantina sono, fino al 28 marzo, nella Pinacoteca di Parigi, in rue de Paradis, nella rassegna Picasso intime curata da Marc Rastellini. Una collezione privata mostrata, in buona parte, per la prima volta a Barcellona nel 1992.
Straordinaria sotto molti aspetti: dal punto di vista della varietà, della libertà, della forza espressiva, sempre cangiante, che le opere - in maggioranza tele, ma anche sculture e ceramiche - esprimono. Testimoniando di una straordinaria vitalità creativa di Picasso, fino alla morte. E sono autoritratti da fauno, in monture sgargianti da toreador o con pipa e cappello a larghe tese, quasi come nei ritratti di Van Gogh, ma abbracciando un bambino.
Più spesso la figura morbida o geometrica e scomposta di Jacqueline, la musa che non posò mai, ma che Picasso ritraeva, a volte a partire da immagini interiori, a volte in dialogo aperto con certi maestri della pittura, da Velasquez a Manet (rielaborando la sua Dèjeuner sur l’erbe in chiave meno statica, più vivida anche nella scelta dei verdi alla Cézanne). Jacqueline con le gambe incrociate all’orientale. Jacqueline vestita alla turca, ancora nel 1954, rileggendo le Femmes d’Alger di Delacroix, ma anche la splendida Odalisca dell’amico Matisse, all’epoca da poco scomparso. Jacqueline con il cane afghano. Jacqueline con gli occhi neri, enormi, che ricordano le maschere delle Demoiselles d’Avignon. Jacqueline in monocromo grigio e bianco, nel 1962, con una tridimesionalità difficile da realizzare con la sola pittura. Jacqueline, in piedi, seduta, nuda. Spesso con tratti decisi, che fanno pensare a una straordinaria rapidità di esecuzione che va di pari passo all’emergere di nuove immagini. “Je ne suis pas satisfait alors je recommence”. Così si raccontava Picasso.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
domenica 18 gennaio 2004
un convegno voluto dalla on. Burani Procaccini
il programma del Convegno "La Famiglia e il disagio psichico"
COMUNICATO STAMPA
Emergenza psichiatria. Un incontro alla Camera dei Deputati per definire nuovi percorsi.
(ricevuto dall'Ufficio Stampa dell'onorevole forzitaliota e cattolica che ha preparato il progetto di riforma della 180)
Efferati delitti, vere e proprie stragi d’innocenti avvengono sempre più spesso all’interno di normali famiglie. I recenti fatti di cronaca e le statistiche confermano che i delitti in famiglia superano quelli causati dalla delinquenza.
Soltanto quando avviene una tragedia si discute della necessità di ridisegnare la materia tutelando chi soffre di disagi mentali e le rispettive famiglie.
Dovremo invece fare subito qualcosa per stare accanto a queste famiglie e per prevenire le tragedie invece che raccontarle.
Della solitudine delle famiglie e dell’urgenza di creare reti di soccorso intorno alle stesse, in grado di cogliere i primi segnali del disagio psichico, si parlerà al convegno sulla “ Famiglia e disagio psichico. Solitudini, necessità e nuovi percorsi ”.
L’incontro, organizzato dall’AIPPC (Associazione Italiana Psicologi e Psichiatri Cattolici) e patrocinato dalla Camera dei Deputati si svolgerà Martedì 20 gennaio 2004, alle ore 9.30, presso Palazzo Marini, via del Pozzetto, 158.
Interverranno: l’On. M. Burani Procaccini, Presidente della Commissione Palamentare per l’Infanzia; l’On. A. Guidi, Sottosegretario di Stato al Ministero della Salute; S.E. Mons. A. Branvilla, Vescovo per la Pastorale Sanitaria di Roma; l’On. M. Verzaschi, Assessore sanità, regione Lazio; On. D. Bianchi, Capogruppo UDC, Commissione Affari Sociali; P. Pancredi, Ordinario di Psichiatria, Università degli studi “La Sapienza” di Roma; M. Giordano, Psichiatra; M. L. Zardini, Presidente ARAP, Roma; O. Tarzia, Presidente Osservatorio sulla famiglia Regione Lazio; T. Cantelmi, Psichiatra e Presidente AIPPC; G. Miranda, Preside Facoltà Bioetica “Ateneo Pontificio Regina Apostolorum”; G. D’ Amore, Direttore Generale Asl Rma; M.R. Parsi, Psicologa, Presidente Fondazione “Movimento Bambino”; F. De Marco, Presidente SIRP, Primario Psichiatria Formia; C. Ciambriello, Docente corso di laura per infermieri, Università di Tor Vergata, Roma; A. Picano, Psichiatra, Presidente Strade Onlus.
Un recente sondaggio sul rapporto tra gli italiani e la salute mentale ha evidenziato un grave vuoto d’informazione sui disagi mentali. Idee sbagliate per esempio circa alcune patologie ritenute non gravi, e che invece sono addirittura invalidanti come gli stati d’ansia e panico, le ossessioni, le fobie e la depressione.
All’incontro saranno resi noti i risultati del sondaggio e i dati emersi da una recente indagine sugli italiani e i disagi mentali. Inoltre operatori del settore forniranno risposte ad alcune curiosità: se ad esempio i farmaci antidepressivi creano dipendenza, se l’uso di psicofarmaci produce più vantaggi o svantaggi etc.
I GIORNALISTI ACCREDITATI PER AVERE ACCESSO ALLA SALA DEVONO INDOSSARE NECESSARIAMENTE LA GIACCA E LA CRAVATTA
UFFICIO STAMPA - On. Maria Burani
Barbara Carbone 339.1672787
Valentina Cervi e Marco Bellocchio
una segnalazione di Sergio Grom>
dalla intervista di Valentina Cervi, Venerdì di Repubblica 16.1.04
[...]
La sua è una carriera di alti e bassi con pi? successo all'estero che in Italia. Come mai?
«Non lo so, ma va bene così. Ho paura di quelli che non sbagliano mai un colpo. In Italia vorrei lavorare di più, ma non è facile trovare la sceneggiatura giusta. I registi preferiscono attrici più rassicuranti, discrete. Tra i film italiani degli ultimi due anni ce n'è solo uno che avrei voluto fare: Buongiorno, notte, di Bellocchio».
[...]
dalla intervista di Valentina Cervi, Venerdì di Repubblica 16.1.04
[...]
La sua è una carriera di alti e bassi con pi? successo all'estero che in Italia. Come mai?
«Non lo so, ma va bene così. Ho paura di quelli che non sbagliano mai un colpo. In Italia vorrei lavorare di più, ma non è facile trovare la sceneggiatura giusta. I registi preferiscono attrici più rassicuranti, discrete. Tra i film italiani degli ultimi due anni ce n'è solo uno che avrei voluto fare: Buongiorno, notte, di Bellocchio».
[...]
la Cina di oggi e il mercato
Corriere della Sera 18.1.04
Invitato dai comunisti indiani, Mr. Chuing offre una singolare ricetta di sviluppo
Lezione cinese a Bombay «Il mercato? È socialista»
Il delegato di Pechino «gela» il World Social Forum
di D. Ta.
DAL NOSTRO INVIATO BOMBAY (India) - Quando ha preso la parola, i «compagni», come li ha chiamati, erano distratti. Sono però bastate poche battute perché drizzassero le orecchie: Nic Chuing, rappresentante dei cinesi al World Social Forum, non era venuto per lisciare il pelo al movimento. Così, ieri, nella prima giornata di discussioni vere, e non solo di danze e canti, alla kermesse dei no global e dei new global che si tiene a Bombay dal 16 al 21 gennaio, l'evento più significativo è stato che i comunisti indiani (due partiti diversi, all'opposizione) hanno invitato i comunisti cinesi (un partito solo, al potere). E che da Pechino hanno risposto di sì e mandato un loro uomo: non un rappresentante, un ufficiale del Pcc, per carità, ma il capo di un'associazione cultural-sociale.
Il fatto è che i comunisti cinesi hanno poco o nulla da spartire con il movimento che si oppone alla globalizzazione. Nel sistema di mercato internazionale, sono entrati a vele spiegate e oggi sono molto più in sintonia con un banchiere di Wall Street che con un contadino indiano. Alla loro prima apparizione ufficiale a un Social Forum, dunque, hanno rivendicato fino in fondo le loro scelte di sviluppo. Nel tempo - ha spiegato Nic - la Cina comunista ha introdotto elementi di mercato nell'economia di Stato, poi è passata a metterle sullo stesso piano di parità e oggi non fa più differenze del genere.
«La vecchia ideologia che si opponeva al mercato era una camicia di forza - ha detto Nic -. Abbiamo realizzato un nuovo passo in avanti di grande portata nell'elaborazione socialista sul rapporto tra piano e mercato». Il rappresentante cinese, poi, si è soffermato su un punto dolente per i comunisti di tutto il mondo, la questione dell'allocazione delle risorse, sulla quale l'economia di piano ha mostrato la sua inferiorità rispetto al capitalismo. Nella concezione di Pechino, ha detto Nic, «il mercato ha un ruolo fondamentale nell'allocazione delle risorse: questa è l'essenza dell'avere il mercato nel socialismo».
Al Social Forum, la parola mercato è tradotta automaticamente come multinazionali, sfruttamento e imperialismo: figuratevi la freddezza alle parole del «compagno» cinese. I rappresentanti dei partiti comunisti che lo avevano preceduto - da quello cubano al potere da più di 40 anni a quello degli Stati Uniti senza speranze, da quello brasiliano al governo con Lula a Fausto Bertinotti oggi all'opposizione - avevano sviluppato le loro argomentazioni in direzione esattamente contraria. Bertinotti, in particolare, aveva detto che «guadagnare spazi geopolitici» contro l'imperialismo americano si può, e l'America Latina è una speranza a cui guardare. «Vediamo un lungo filo - ha detto il segretario di Rifondazione Comunista - che parte da Lula in Brasile, passa per l'Argentina, per Chavez in Venezuela, per gli zapatisti in Messico e per la lunga storia di Cuba». E, più in generale, ha sostenuto che l'ondata «neoliberista» e imperialista è in crisi, che il movimento è il fatto nuovo e che il mercato non è la soluzione ai problemi del mondo, anzi.
Ieri, però, il Social Forum in corso in un quartiere fieristico nel cuore di uno slum di Bombay, ha discusso anche di molto altro. Si è parlato di commercio giusto, di cibo (con un'iniziativa della Regione Toscana), di agricoltura, di donne contro la guerra, di sistema delle caste in India e di intoccabili, di movimenti politici e di opposizione alle guerre.
E da oggi, si parlerà dell'Iraq e dell'occupazione americana. Del patriarcato che in molti paesi ancora inchioda le donne a destini senza speranza. Di organismi geneticamente modificati. Del network «globale» che si sta organizzando per sconfiggere George Bush alle prossime elezioni. Di economia e sviluppo. Dei diritti dei bambini che terranno il loro incontro mondiale in Italia, in maggio, e via dicendo. Se c'è qualcosa che al mondo non va, insomma, a Bombay lo trovate.
Invitato dai comunisti indiani, Mr. Chuing offre una singolare ricetta di sviluppo
Lezione cinese a Bombay «Il mercato? È socialista»
Il delegato di Pechino «gela» il World Social Forum
di D. Ta.
DAL NOSTRO INVIATO BOMBAY (India) - Quando ha preso la parola, i «compagni», come li ha chiamati, erano distratti. Sono però bastate poche battute perché drizzassero le orecchie: Nic Chuing, rappresentante dei cinesi al World Social Forum, non era venuto per lisciare il pelo al movimento. Così, ieri, nella prima giornata di discussioni vere, e non solo di danze e canti, alla kermesse dei no global e dei new global che si tiene a Bombay dal 16 al 21 gennaio, l'evento più significativo è stato che i comunisti indiani (due partiti diversi, all'opposizione) hanno invitato i comunisti cinesi (un partito solo, al potere). E che da Pechino hanno risposto di sì e mandato un loro uomo: non un rappresentante, un ufficiale del Pcc, per carità, ma il capo di un'associazione cultural-sociale.
Il fatto è che i comunisti cinesi hanno poco o nulla da spartire con il movimento che si oppone alla globalizzazione. Nel sistema di mercato internazionale, sono entrati a vele spiegate e oggi sono molto più in sintonia con un banchiere di Wall Street che con un contadino indiano. Alla loro prima apparizione ufficiale a un Social Forum, dunque, hanno rivendicato fino in fondo le loro scelte di sviluppo. Nel tempo - ha spiegato Nic - la Cina comunista ha introdotto elementi di mercato nell'economia di Stato, poi è passata a metterle sullo stesso piano di parità e oggi non fa più differenze del genere.
«La vecchia ideologia che si opponeva al mercato era una camicia di forza - ha detto Nic -. Abbiamo realizzato un nuovo passo in avanti di grande portata nell'elaborazione socialista sul rapporto tra piano e mercato». Il rappresentante cinese, poi, si è soffermato su un punto dolente per i comunisti di tutto il mondo, la questione dell'allocazione delle risorse, sulla quale l'economia di piano ha mostrato la sua inferiorità rispetto al capitalismo. Nella concezione di Pechino, ha detto Nic, «il mercato ha un ruolo fondamentale nell'allocazione delle risorse: questa è l'essenza dell'avere il mercato nel socialismo».
Al Social Forum, la parola mercato è tradotta automaticamente come multinazionali, sfruttamento e imperialismo: figuratevi la freddezza alle parole del «compagno» cinese. I rappresentanti dei partiti comunisti che lo avevano preceduto - da quello cubano al potere da più di 40 anni a quello degli Stati Uniti senza speranze, da quello brasiliano al governo con Lula a Fausto Bertinotti oggi all'opposizione - avevano sviluppato le loro argomentazioni in direzione esattamente contraria. Bertinotti, in particolare, aveva detto che «guadagnare spazi geopolitici» contro l'imperialismo americano si può, e l'America Latina è una speranza a cui guardare. «Vediamo un lungo filo - ha detto il segretario di Rifondazione Comunista - che parte da Lula in Brasile, passa per l'Argentina, per Chavez in Venezuela, per gli zapatisti in Messico e per la lunga storia di Cuba». E, più in generale, ha sostenuto che l'ondata «neoliberista» e imperialista è in crisi, che il movimento è il fatto nuovo e che il mercato non è la soluzione ai problemi del mondo, anzi.
Ieri, però, il Social Forum in corso in un quartiere fieristico nel cuore di uno slum di Bombay, ha discusso anche di molto altro. Si è parlato di commercio giusto, di cibo (con un'iniziativa della Regione Toscana), di agricoltura, di donne contro la guerra, di sistema delle caste in India e di intoccabili, di movimenti politici e di opposizione alle guerre.
E da oggi, si parlerà dell'Iraq e dell'occupazione americana. Del patriarcato che in molti paesi ancora inchioda le donne a destini senza speranza. Di organismi geneticamente modificati. Del network «globale» che si sta organizzando per sconfiggere George Bush alle prossime elezioni. Di economia e sviluppo. Dei diritti dei bambini che terranno il loro incontro mondiale in Italia, in maggio, e via dicendo. Se c'è qualcosa che al mondo non va, insomma, a Bombay lo trovate.
Gagliardi e Curzi sulla nonviolenza
Liberazione 18.1.04
Nonviolenza, l'arma più forte
di cui oggi disponiamo
di Alessandro Curzi e Rina Gagliardi
L'intensa discussione, che si va sviluppando da molti giorni sulle colonne del nostro giornale, suscita interesse e attenzione anche al di là delle nostre fila, nella sinistra, nel movimento, nel sistema dell'informazione.
Ne prendiamo atto con soddisfazione: è una prova in più che questo dibattito "molteplice" - anzi, questi dibattiti che si susseguono e, talora, si intrecciano su questioni politiche e ideali di prima grandezza - non è mosso da spirito autoreferenziale. E' un confronto vivo che ha a che fare, non a caso, con la politica viva del presente, dove si misurano non solo posizioni diverse, ma culture politiche, esperienze e spesso "vissuti" tra di loro lontani. Noi, per parte nostra, abbiamo cercato di garantire sia la pari dignità di tutte le voci, interne ed esterne a Rifondazione, che hanno voglia di farsi sentire, sia di contribuire, per come possiamo, ad una "buona dialettica": ovvero ad una discussione che, senza pensare a sintesi oggi impossibili, ci arricchisca, ci aiuti a fare un passo avanti, nella comprensione e nella chiarezza reciproca.
Con questo articolo, vogliamo anche noi dire la nostra, misurandoci con quel nodo teorico-politico, violenza e nonviolenza, che appassiona non da oggi il movimento operaio e la sinistra.
E diciamo subito - da militanti comunisti, diversi per sesso e generazione, per pratica di vita e riferimenti culturali - che l'opzione strategica pacifista e nonviolenta, che Fausto Bertinotti ha avanzato e Pietro Ingrao ha rilanciato proprio su "Liberazione", ci persuade profondamente. Ovvero: è la stessa scelta che abbiamo maturato in questi anni, nel fuoco dei conflitti drammatici che hanno devastato il mondo, nel dipanarsi concreto dell'impegno.
Non è in questione, s'intende, un "assoluto" che, chissà perché, molti compagni vedono o paventano tutte le volte che viene dichiarata la necessità di una pratica nonviolenta: per noi laici e comunisti non esistono mai "assoluti" o fedi astratte, al di là del tempo e dello spazio. E' in questione, ci pare, un'idea della politica e - se la parola non è troppo grossa - della rivoluzione del futuro: nell'era della guerra globale, infinita e preventiva, la violenza non è più una via di autentica liberazione dei popoli, delle classi e delle persone e, al tempo stesso, non è più uno strumento capace di garantire la "vittoria finale". Nell'era, insomma, della spirale guerra-terrorismo, che concerne il "qui" e l'"ora" del capitalismo globalizzato, il terrore è tutto dell'avversario e dei suoi apparati colossali di sterminio e di morte: gli appartiene fino in fondo, perfino come vocazione e come nuova idealità. Ce lo spiega bene Kagan, teorico dei neocons nordamericani, nel suo lucido pamphlet "Il Paradiso e il Potere", quando contrappone la civiltà dell'America fondata sulla forza militare e sullo spirito di aggressione alla civiltà dell'Europa, continente "imbelle" e vocato ai diritti sociali piuttosto che alle armi.
Questa nostra persuasione è il risultato, anche e soprattutto, dei nostri rispettivi percorsi di vita. Noi non siamo nati pacifisti: abbiamo creduto nella "guerra giusta" e nel valore liberatorio della guerra e della guerriglia di popolo. Uno di noi ha partecipato, giovanissimo, alla Resistenza: ha impugnato le armi, da partigiano, ha praticato l'antifascismo. E non solo non se ne pente, ma continua ad andare orgoglioso del proprio passato. Una di noi ha condiviso, finché è stata giovane, le lotte, anche quelle "dure" dei movimenti occidentali e quelle armate dei movimenti di liberazione del Terzo Mondo. E non ha nulla di cui pentirsi. C'è stata un'epoca della nostra storia nella quale la violenza delle armi ci è apparsa non solo una risposta necessaria alla violenza del potere, ma anche la risposta più radicale, più in sé rivoluzionaria, più efficace: la Resistenza ha vinto, la lotta del popolo vietnamita ha vinto, il movimento di liberazione dei popoli colonizzati ha vinto. Non si tratta certo oggi di proiettare su questo passato le idee che abbiamo maturato nel presente: questo sì sarebbe puro "pentitismo", opportunismo oltre tutto antistorico. Si tratta di ben altro: far tesoro di quelle esperienze, anche alla luce di alcuni, forse non casuali, esiti negativi, mettendone in causa il valore assoluto e l'attualità schematica.
Oggi, insomma, sentiamo la necessità di una strada nuova, di nuovi percorsi: un ciclo della storia si è chiuso, con il ‘900, un nuovo ciclo può avviarsi. L'immagine che abbiamo ancora negli occhi è quella dei 110 milioni di persone che nello stesso giorno di febbraio sono scese in piazza, in tutto il mondo, contro la guerra di Bush. Quelle masse, che il "New York Times" ha definito la "seconda potenza mondiale", hanno fatto paura, davvero, ai nostri avversari imperiali. Non sono riusciti, no, a impedire la guerra: ma hanno pur segnato un gigantesco salto di qualità, di coscienza critica, di consapevolezza, di soggettività. Un patrimonio immenso, anche dal punto di vista della forza, che a tutt'oggi domanda alla politica una risposta adeguata.
La nonviolenza, dunque, come pratica alta del conflitto - come opposto della passività o della rassegnazione - è oggi l'arma più forte di cui disponiamo. La nonviolenza, anche, come "smilitarizzazione" delle nostre coscienze e della politica (che continua, proprio nel suo linguaggio tutto nutrito di "tattica", "strategia", "schieramento", "obiettivo", "battaglia", a mostrare il suo profondo spirito bellico), nella sua connessione profonda con la società altra che vogliamo costruire.
Non siamo "anime belle", siamo ahimè fin troppo contaminati con le brutture che ci circondano, e conosciamo tutte le sottigliezze della politica e della Realpolitik: ma non è l'ora di cominciare a colmare l'abisso che separa i nostri valori generali dalle nostre pratiche? Ma davvero possiamo continuare in eterno a propugnare una distanza - così "assoluta" - tra i fini che ci proponiamo e i mezzi che mettiamo in atto per realizzarli? Torna a proposito, qui, la questione del terrorismo, dal quale siamo sempre stati lontani e che mai ci è appartenuto, anche per le ragioni che osservava ieri Lidia Menapace.
E' vero, sì, che i nostri avversari battezzano sotto la dizione di "terrorismo" anche ciò che è pura resistenza all'invasore. E forse hanno ragione quei compagni che dicono che ci sono luoghi del mondo in cui la nonviolenza è una pratica difficile, quasi impossibile, se non un lusso: infatti noi non ci permettiamo di criticare coloro che, di fronte ad aggressioni od invasioni armate, reagiscono anche impugnando le armi.
La nonviolenza, lo dicevamo, non è un imperativo categorico. E tuttavia, anche nel passato recente, ci sono esempi significativi sui quali riflettere. La prima Intifada palestinese, quella nonviolenta, con i ragazzi che si opponevano alla potenza dei carri armati israeliani con le fionde e con i sassi, conquistò nel mondo un consenso enorme alla causa dell'indipendenza nazionale palestinese: avrebbe potuto vincere, se l'Europa, invece di limitarsi ad applaudire, fosse intervenuta ed avesse messo in campo la sua potenza politica.
Oggi, quali sono le prospettive concrete di vittoria della lotta e della guerriglia armata nel Medio Oriente? A parere quasi unanime, nessuna. E quegli attentati suicidi - come l'ultimo della giovane madre che voleva essere martire - possiamo sì distinguerli dal terrorismo e battezzarli "azione di guerriglia militare", se hanno soldati nemici come bersaglio. Ma possiamo tacere del loro carattere feroce, disperato, perdente? Quando una lotta di liberazione entra in contrasto così totale con i valori della vita, della speranza, della costruzione, quando il sacrificio di sé è ricercato come valore e perfino simbolo positivo, vuol dire che in essa la dimensione della tragedia è diventata dominante. Vuol dire, anche, che forse non si è abbastanza riflettuto sul fatto che, anche e soprattutto là dove l'oppressione e la prevaricazione sono massime, la violenza del potere, introiettata e metabolizzata senza anticorpi, produce una violenza distruttiva uguale e contraria.
L'aveva scritto Marx, un secolo e mezzo fa: la nostra rivoluzione dovrà essere un processo di lunga durata, di "rivoluzionamento" dei rapporti economici e sociali esistenti, anche perché soltanto in un processo di lunga durata potremo liberarci dal "sudiciume" che la società del capitale ha disseminato in ciascuno in noi. Era già questa un'idea di rivoluzione nonviolenta, di comunismo. Che oggi, soltanto oggi, possiamo cominciare a praticare. Almeno, a provarci.
Nonviolenza, l'arma più forte
di cui oggi disponiamo
di Alessandro Curzi e Rina Gagliardi
L'intensa discussione, che si va sviluppando da molti giorni sulle colonne del nostro giornale, suscita interesse e attenzione anche al di là delle nostre fila, nella sinistra, nel movimento, nel sistema dell'informazione.
Ne prendiamo atto con soddisfazione: è una prova in più che questo dibattito "molteplice" - anzi, questi dibattiti che si susseguono e, talora, si intrecciano su questioni politiche e ideali di prima grandezza - non è mosso da spirito autoreferenziale. E' un confronto vivo che ha a che fare, non a caso, con la politica viva del presente, dove si misurano non solo posizioni diverse, ma culture politiche, esperienze e spesso "vissuti" tra di loro lontani. Noi, per parte nostra, abbiamo cercato di garantire sia la pari dignità di tutte le voci, interne ed esterne a Rifondazione, che hanno voglia di farsi sentire, sia di contribuire, per come possiamo, ad una "buona dialettica": ovvero ad una discussione che, senza pensare a sintesi oggi impossibili, ci arricchisca, ci aiuti a fare un passo avanti, nella comprensione e nella chiarezza reciproca.
Con questo articolo, vogliamo anche noi dire la nostra, misurandoci con quel nodo teorico-politico, violenza e nonviolenza, che appassiona non da oggi il movimento operaio e la sinistra.
E diciamo subito - da militanti comunisti, diversi per sesso e generazione, per pratica di vita e riferimenti culturali - che l'opzione strategica pacifista e nonviolenta, che Fausto Bertinotti ha avanzato e Pietro Ingrao ha rilanciato proprio su "Liberazione", ci persuade profondamente. Ovvero: è la stessa scelta che abbiamo maturato in questi anni, nel fuoco dei conflitti drammatici che hanno devastato il mondo, nel dipanarsi concreto dell'impegno.
Non è in questione, s'intende, un "assoluto" che, chissà perché, molti compagni vedono o paventano tutte le volte che viene dichiarata la necessità di una pratica nonviolenta: per noi laici e comunisti non esistono mai "assoluti" o fedi astratte, al di là del tempo e dello spazio. E' in questione, ci pare, un'idea della politica e - se la parola non è troppo grossa - della rivoluzione del futuro: nell'era della guerra globale, infinita e preventiva, la violenza non è più una via di autentica liberazione dei popoli, delle classi e delle persone e, al tempo stesso, non è più uno strumento capace di garantire la "vittoria finale". Nell'era, insomma, della spirale guerra-terrorismo, che concerne il "qui" e l'"ora" del capitalismo globalizzato, il terrore è tutto dell'avversario e dei suoi apparati colossali di sterminio e di morte: gli appartiene fino in fondo, perfino come vocazione e come nuova idealità. Ce lo spiega bene Kagan, teorico dei neocons nordamericani, nel suo lucido pamphlet "Il Paradiso e il Potere", quando contrappone la civiltà dell'America fondata sulla forza militare e sullo spirito di aggressione alla civiltà dell'Europa, continente "imbelle" e vocato ai diritti sociali piuttosto che alle armi.
Questa nostra persuasione è il risultato, anche e soprattutto, dei nostri rispettivi percorsi di vita. Noi non siamo nati pacifisti: abbiamo creduto nella "guerra giusta" e nel valore liberatorio della guerra e della guerriglia di popolo. Uno di noi ha partecipato, giovanissimo, alla Resistenza: ha impugnato le armi, da partigiano, ha praticato l'antifascismo. E non solo non se ne pente, ma continua ad andare orgoglioso del proprio passato. Una di noi ha condiviso, finché è stata giovane, le lotte, anche quelle "dure" dei movimenti occidentali e quelle armate dei movimenti di liberazione del Terzo Mondo. E non ha nulla di cui pentirsi. C'è stata un'epoca della nostra storia nella quale la violenza delle armi ci è apparsa non solo una risposta necessaria alla violenza del potere, ma anche la risposta più radicale, più in sé rivoluzionaria, più efficace: la Resistenza ha vinto, la lotta del popolo vietnamita ha vinto, il movimento di liberazione dei popoli colonizzati ha vinto. Non si tratta certo oggi di proiettare su questo passato le idee che abbiamo maturato nel presente: questo sì sarebbe puro "pentitismo", opportunismo oltre tutto antistorico. Si tratta di ben altro: far tesoro di quelle esperienze, anche alla luce di alcuni, forse non casuali, esiti negativi, mettendone in causa il valore assoluto e l'attualità schematica.
Oggi, insomma, sentiamo la necessità di una strada nuova, di nuovi percorsi: un ciclo della storia si è chiuso, con il ‘900, un nuovo ciclo può avviarsi. L'immagine che abbiamo ancora negli occhi è quella dei 110 milioni di persone che nello stesso giorno di febbraio sono scese in piazza, in tutto il mondo, contro la guerra di Bush. Quelle masse, che il "New York Times" ha definito la "seconda potenza mondiale", hanno fatto paura, davvero, ai nostri avversari imperiali. Non sono riusciti, no, a impedire la guerra: ma hanno pur segnato un gigantesco salto di qualità, di coscienza critica, di consapevolezza, di soggettività. Un patrimonio immenso, anche dal punto di vista della forza, che a tutt'oggi domanda alla politica una risposta adeguata.
La nonviolenza, dunque, come pratica alta del conflitto - come opposto della passività o della rassegnazione - è oggi l'arma più forte di cui disponiamo. La nonviolenza, anche, come "smilitarizzazione" delle nostre coscienze e della politica (che continua, proprio nel suo linguaggio tutto nutrito di "tattica", "strategia", "schieramento", "obiettivo", "battaglia", a mostrare il suo profondo spirito bellico), nella sua connessione profonda con la società altra che vogliamo costruire.
Non siamo "anime belle", siamo ahimè fin troppo contaminati con le brutture che ci circondano, e conosciamo tutte le sottigliezze della politica e della Realpolitik: ma non è l'ora di cominciare a colmare l'abisso che separa i nostri valori generali dalle nostre pratiche? Ma davvero possiamo continuare in eterno a propugnare una distanza - così "assoluta" - tra i fini che ci proponiamo e i mezzi che mettiamo in atto per realizzarli? Torna a proposito, qui, la questione del terrorismo, dal quale siamo sempre stati lontani e che mai ci è appartenuto, anche per le ragioni che osservava ieri Lidia Menapace.
E' vero, sì, che i nostri avversari battezzano sotto la dizione di "terrorismo" anche ciò che è pura resistenza all'invasore. E forse hanno ragione quei compagni che dicono che ci sono luoghi del mondo in cui la nonviolenza è una pratica difficile, quasi impossibile, se non un lusso: infatti noi non ci permettiamo di criticare coloro che, di fronte ad aggressioni od invasioni armate, reagiscono anche impugnando le armi.
La nonviolenza, lo dicevamo, non è un imperativo categorico. E tuttavia, anche nel passato recente, ci sono esempi significativi sui quali riflettere. La prima Intifada palestinese, quella nonviolenta, con i ragazzi che si opponevano alla potenza dei carri armati israeliani con le fionde e con i sassi, conquistò nel mondo un consenso enorme alla causa dell'indipendenza nazionale palestinese: avrebbe potuto vincere, se l'Europa, invece di limitarsi ad applaudire, fosse intervenuta ed avesse messo in campo la sua potenza politica.
Oggi, quali sono le prospettive concrete di vittoria della lotta e della guerriglia armata nel Medio Oriente? A parere quasi unanime, nessuna. E quegli attentati suicidi - come l'ultimo della giovane madre che voleva essere martire - possiamo sì distinguerli dal terrorismo e battezzarli "azione di guerriglia militare", se hanno soldati nemici come bersaglio. Ma possiamo tacere del loro carattere feroce, disperato, perdente? Quando una lotta di liberazione entra in contrasto così totale con i valori della vita, della speranza, della costruzione, quando il sacrificio di sé è ricercato come valore e perfino simbolo positivo, vuol dire che in essa la dimensione della tragedia è diventata dominante. Vuol dire, anche, che forse non si è abbastanza riflettuto sul fatto che, anche e soprattutto là dove l'oppressione e la prevaricazione sono massime, la violenza del potere, introiettata e metabolizzata senza anticorpi, produce una violenza distruttiva uguale e contraria.
L'aveva scritto Marx, un secolo e mezzo fa: la nostra rivoluzione dovrà essere un processo di lunga durata, di "rivoluzionamento" dei rapporti economici e sociali esistenti, anche perché soltanto in un processo di lunga durata potremo liberarci dal "sudiciume" che la società del capitale ha disseminato in ciascuno in noi. Era già questa un'idea di rivoluzione nonviolenta, di comunismo. Che oggi, soltanto oggi, possiamo cominciare a praticare. Almeno, a provarci.
l'intervento di Bertinotti a Bombay
Liberazione 8.1.04
Dobbiamo rispondere a domande difficili ma nel movimento si può
L'intervento di Fausto Bertinotti
Bombay. Buonasera a tutti e a tutte; mi scuso di dovervi imporre la traduzione del mio discorso. Il movimento delle donne ci ha insegnato molte cose. La prima di queste è che ogni discorso politico deve partire dall'esperienza e cioè da noi stessi. A noi oggi è utile cercare di capire cosa stia accadendo qui in India a Bombay. Credo che si possa vedere qui che esistono le condizioni per ricominciare a mettere all'ordine del giorno la trasformazione della società capitalistica. Abbiamo imparato negli ultimi anni che l'unico modo per parlare di socialismo è trasformare la società capitalistica. Abbiamo di fronte un grande e difficile problema: da un lato il socialismo manifesta sempre di più la sua maturità, la sua attualità e la sua necessità. Un antico slogan del movimento operaio è sempre più attuale: "socialismo o barbarie".
Ma dall'altra parte dobbiamo riconoscere che le forze che vogliono il socialismo sono del tutto inadeguate nel realizzarlo nel mondo. Perché abbiamo questa difficoltà? Sostanzialmente per due ragioni: la prima è che veniamo da una grande sconfitta, la sconfitta che si è manifesta nel crollo dei regimi dell'est e la sconfitta dei movimenti operai alla fine del secolo scorso. La seconda ragione è che siamo di fronte ad una rivoluzione capitalistica restauratrice che ha spiazzato tanta parte della nostra cultura politica. Ma contro gli effetti di questa rivoluzione si è messo in moto un movimento in tanta parte del mondo. Cosa è questo nuovo capitalismo, nostro avversario? E' un capitalismo persino peggiore di quello che lo ha preceduto. Dopo la vittoria contro il nazi-fascismo il capitalismo ha vissuto la sua stagione dell'oro. Ma oggi rivela la stagione del ferro.
La globalizzazione capitalista produce incertezze, ingiustizie e squilibri; mette in discussione la democrazia e non è più in grado di governare il mondo con il consenso. Per questo Bush ha elaborato la strategia della guerra preventiva. La guerra è la risposta dell'Impero alla crisi. Il mondo rischia di essere stritolato nella spirale tra guerra e terrorismo. Come diceva Jean Joret: «Questo capitalismo porta la guerra come le nuvole portano la pioggia». E la guerra c'è perché il capitalismo produce distruzioni e devastazioni ambientali.
Aveva ragione Marx: il capitalismo può produrre la fine dell'umanità. Contro questa tendenza si è levato il movimento di critica alla globalizzazione, raggiungendo il mondo intero. Su questo movimento ne è nato uno gigantesco per la pace. Ed è grazie a questo movimento che dove c'era la pace sociale ora sono ripresi il conflitto e la lotta dei lavoratori. Il mondo non ha di fronte a sé solo la novità drammatica della globalizzazione capitalista. C'è anche la speranza dei movimenti. La politica di trasformazione della società capitalistica nasce da qui. Questo movimento può restituire un significato universale alla parola rivoluzione. Ma la rivoluzione non ci sarà certamente regalata. Per parlare di socialismo dobbiamo realizzare una grande politica. Primo: questa politica deve essere mondiale. Secondo: nei paesi occidentali deve liberarsi dal predominio delle forze riformiste sul movimento operaio. Terzo: i comunisti del mondo devono fare i conti con gli errori della loro storia. Non costruiremo il socialismo se non ci porremo domande difficili.
E la più difficile delle domande è: perché un movimento che è nato per liberare l'umanità ha creato anche forme di oppressione? Dobbiamo delle risposte, le dobbiamo per poter riprendere il cammino, per poter dire all'umanità che il nostro comunismo è la liberazione degli uomini e delle donne. Ma allora bisogna anche affermare che lo stalinismo non tornerà mai più nella nostra storia. Possiamo riprendere il cammino dei comunisti nel mondo e possiamo riprendere la forza della nostra iniziativa in ogni luogo, in ogni territorio in ogni nazione, in ogni realtà. Possiamo riprendere il cammino per costruire oggi in ogni parte del mondo elementi di socialismo e cioè parti di società diverse dalla logica del mercato, parti del mondo autogovernate. Abbiamo un solo modo per farlo: è quello di vivere in questo movimento e di esserne partecipi.
La seconda cosa che dobbiamo riuscire a fare con la nostra politica è guadagnare degli spazi geopolitici contro l'impero. Non è impossibile. Ce lo dice la rinascita delle forze di sinistra nell'America Latina. Noi dall'Europa guardiamo alla loro esperienza con grande interesse. Vediamo un filo che collega l'esperienza di Lula in Brasile, all'Argentina, al Venezuela di Chavez con quella degli zapatisti e con la lunga storia di indipendenza di Cuba. Guardiamo con interesse alle esperienze in Africa e in Asia. Ma anche in Europa qualcosa si muove e non solo nel movimento. Sono contento di poter dire a questa assemblea che stiamo costruendo un fatto nuovo in Europa anche nella politica. La nascita del partito della Sinistra Europea.
Noi non possiamo più aspettare che qualcuno in una parte del mondo, all'ora x, faccia la rivoluzione per tutti. La rivoluzione la ricominciamo ogni giorno, ognuno in ogni parte del mondo.
Dobbiamo rispondere a domande difficili ma nel movimento si può
L'intervento di Fausto Bertinotti
Bombay. Buonasera a tutti e a tutte; mi scuso di dovervi imporre la traduzione del mio discorso. Il movimento delle donne ci ha insegnato molte cose. La prima di queste è che ogni discorso politico deve partire dall'esperienza e cioè da noi stessi. A noi oggi è utile cercare di capire cosa stia accadendo qui in India a Bombay. Credo che si possa vedere qui che esistono le condizioni per ricominciare a mettere all'ordine del giorno la trasformazione della società capitalistica. Abbiamo imparato negli ultimi anni che l'unico modo per parlare di socialismo è trasformare la società capitalistica. Abbiamo di fronte un grande e difficile problema: da un lato il socialismo manifesta sempre di più la sua maturità, la sua attualità e la sua necessità. Un antico slogan del movimento operaio è sempre più attuale: "socialismo o barbarie".
Ma dall'altra parte dobbiamo riconoscere che le forze che vogliono il socialismo sono del tutto inadeguate nel realizzarlo nel mondo. Perché abbiamo questa difficoltà? Sostanzialmente per due ragioni: la prima è che veniamo da una grande sconfitta, la sconfitta che si è manifesta nel crollo dei regimi dell'est e la sconfitta dei movimenti operai alla fine del secolo scorso. La seconda ragione è che siamo di fronte ad una rivoluzione capitalistica restauratrice che ha spiazzato tanta parte della nostra cultura politica. Ma contro gli effetti di questa rivoluzione si è messo in moto un movimento in tanta parte del mondo. Cosa è questo nuovo capitalismo, nostro avversario? E' un capitalismo persino peggiore di quello che lo ha preceduto. Dopo la vittoria contro il nazi-fascismo il capitalismo ha vissuto la sua stagione dell'oro. Ma oggi rivela la stagione del ferro.
La globalizzazione capitalista produce incertezze, ingiustizie e squilibri; mette in discussione la democrazia e non è più in grado di governare il mondo con il consenso. Per questo Bush ha elaborato la strategia della guerra preventiva. La guerra è la risposta dell'Impero alla crisi. Il mondo rischia di essere stritolato nella spirale tra guerra e terrorismo. Come diceva Jean Joret: «Questo capitalismo porta la guerra come le nuvole portano la pioggia». E la guerra c'è perché il capitalismo produce distruzioni e devastazioni ambientali.
Aveva ragione Marx: il capitalismo può produrre la fine dell'umanità. Contro questa tendenza si è levato il movimento di critica alla globalizzazione, raggiungendo il mondo intero. Su questo movimento ne è nato uno gigantesco per la pace. Ed è grazie a questo movimento che dove c'era la pace sociale ora sono ripresi il conflitto e la lotta dei lavoratori. Il mondo non ha di fronte a sé solo la novità drammatica della globalizzazione capitalista. C'è anche la speranza dei movimenti. La politica di trasformazione della società capitalistica nasce da qui. Questo movimento può restituire un significato universale alla parola rivoluzione. Ma la rivoluzione non ci sarà certamente regalata. Per parlare di socialismo dobbiamo realizzare una grande politica. Primo: questa politica deve essere mondiale. Secondo: nei paesi occidentali deve liberarsi dal predominio delle forze riformiste sul movimento operaio. Terzo: i comunisti del mondo devono fare i conti con gli errori della loro storia. Non costruiremo il socialismo se non ci porremo domande difficili.
E la più difficile delle domande è: perché un movimento che è nato per liberare l'umanità ha creato anche forme di oppressione? Dobbiamo delle risposte, le dobbiamo per poter riprendere il cammino, per poter dire all'umanità che il nostro comunismo è la liberazione degli uomini e delle donne. Ma allora bisogna anche affermare che lo stalinismo non tornerà mai più nella nostra storia. Possiamo riprendere il cammino dei comunisti nel mondo e possiamo riprendere la forza della nostra iniziativa in ogni luogo, in ogni territorio in ogni nazione, in ogni realtà. Possiamo riprendere il cammino per costruire oggi in ogni parte del mondo elementi di socialismo e cioè parti di società diverse dalla logica del mercato, parti del mondo autogovernate. Abbiamo un solo modo per farlo: è quello di vivere in questo movimento e di esserne partecipi.
La seconda cosa che dobbiamo riuscire a fare con la nostra politica è guadagnare degli spazi geopolitici contro l'impero. Non è impossibile. Ce lo dice la rinascita delle forze di sinistra nell'America Latina. Noi dall'Europa guardiamo alla loro esperienza con grande interesse. Vediamo un filo che collega l'esperienza di Lula in Brasile, all'Argentina, al Venezuela di Chavez con quella degli zapatisti e con la lunga storia di indipendenza di Cuba. Guardiamo con interesse alle esperienze in Africa e in Asia. Ma anche in Europa qualcosa si muove e non solo nel movimento. Sono contento di poter dire a questa assemblea che stiamo costruendo un fatto nuovo in Europa anche nella politica. La nascita del partito della Sinistra Europea.
Noi non possiamo più aspettare che qualcuno in una parte del mondo, all'ora x, faccia la rivoluzione per tutti. La rivoluzione la ricominciamo ogni giorno, ognuno in ogni parte del mondo.
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