giovedì 30 ottobre 2003

Lidia Menapace: crocefissi e fondamentalismi

Liberazione giovedì 30.10.03
Cristo strumentalizzato per resuscitare nazionalismo, fondamentalismo ed emozioni inconsulte
Sul crocefisso, scontro di inciviltà
di Lidia Menapace


Molti mi sembrano i segni inquietanti di un progressivo scivolamento fuori dalla legalità costituzionale democratica. Cito alla rinfusa: la consuetudine - vere prove generali di presidenzialismo - da parte di Berlusconi di interloquire direttamente e senza possibilità di contraddittorio, dagli schermi televisivi, in questioni ancora da decidere: con ciò si cancella il parlamento, le varie giurisdizioni dei poteri e la formazione dell'opinione pubblica, alla faccia dello sbandierato principio di sussidiarietà e l'importanza dei corpi intermedi, non parliamo poi di federalismo! Ancora a caso: la assoluta mancanza di proporzioni tra le notizie. Dieci milioni di lavoratori e lavoratrici che scioperano sono subito cancellati e nessuno li intervista o rappresenta, perché scoppia la questione del crocefisso e del resto anche la puntualissima inchiesta sulle nuove Br (a una appassionata lettrice di gialli - come sono - le coincidenze sono sempre un po' sospette). Infine il voto di fiducia posto su una questione cruciale come la finanziaria, che strangola il dibattito parlamentare, alla faccia del proclamato "liberalismo" del presidente!

Per capire la faccenda del crocefisso bisogna tenere conto di un processo che vuole e per il quale è necessario suscitare ondate di nazionalismo, di fondamentalismo religioso e di emozioni inconsulte allo scopo di favorire sia leggi restrittive sia un diffuso malessere e sentimento di insicurezza, cancellare le facce dei veri crocefissi contemporanei uomini donne bambine bambini immigrati: insomma intorbidire le acque. Se Bush chiederà armi e soldi e uomini per la sua illegale guerra e occupazione dell'Iraq l'opinione teledipendente già allenata ai condoni fiscali ed edilizi sarebbe forse abbastanza incline a dire di sì al condono bellico.

Si tratta peraltro di uno scontro di "inciviltà": la prova pericolosamente evidente è l'appoggio che il "fronte cattolico libanese" dà alla crociata a favore del crocefisso. Come è noto i falangisti cattolici libanesi sono violenti terroristi e fondamentalisti. Averne la solidarietà è pura vergogna.

Ciò detto veniamo ai fatti: su richiesta di un signore musulmano noto per essere un vero provocatore e assai poco rappresentativo degli islamici che vivono nel nostro paese, ma molto intervistato nelle TV, il magistrato ordina che sia rimosso il crocefisso in un'aula di scuola elementare di un piccolo centro abruzzese, aula frequentata dal figlio del citato signore. Non invidio il bambino, costretto a sopportare le bizze del padre e probabilmente oggetto di curiosità indiscrete e pesanti: il primo dovere delle autorità scolastiche e amministrative è di garantire il massimo di serenità ai bambini, il che si fa, tra l'altro, non sbandierando per giorni a ogni telegiornale meriti e virtù dei crocefissi. Tuttavia la vicenda illustra bene la "cultura" del nostro paese. L'ultima scoperta non è che bisogna ristabilire un clima di convivenza e amicizia nelle scuole, ma che forse il crocefisso è di proprietà del Vaticano e quindi non si potrebbe rimuoverlo senza il benestare del confinante stato confessionale. Ma come mai le leggi di uno stato confessionale hanno vigore e applicazione in uno stato laico? resta vera la rabbiosa definizione dell'Italia che dava un noto laico d'altri tempi: «Questa repubblica monarchica di preti!».

Trovo di esemplare equilibrio la parola di Scialoja che rappresenta molti musulmani del nostro paese quando dichiara che non avrebbe sollevato la questione, ma adesso una risposta gli è dovuta. Le risposte sono arrivate, ma non capisco perché tutti quelli e quelle che sono a favore della laicità dello stato italiano e vorrebbero cogliere l'occasione per levare i crocefissi dalle aule delle scuole pubbliche magari su richiesta, gradualmente, con discussione e non d'imperio, arrivino tutte e solo a me, anche quelle che portano in cima la dizione "Comunicato stampa", tanto da intasarmi la e-mail e nessuna, nemmeno mezza, arrivi ai Tg. Mah! sembrerebbe una censura, o no? E dire che i più indignati sono credenti associazioni cattoliche gruppi di insegnanti cristiani della scuola repubblicana, cattolici singoli giuristi teologi personaggi di fede, mentre persone sulla cui conformità alle norme più note ed elementari della morale cattolica si può dubitare perché le loro posizioni sono note, si stracciano le vesti e piangono calde lacrime di coccodrillo a tutela dell'esposizione dei crocefissi.

Da un po' di tempo l'ostentazione di croci d'oro e diamanti (o similoro e cristalli) sul petto di signore dedite all'intrattenimento mi dava un po' fastidio, meno le croci e crocette appese a un orecchio a mo' di ornamento, magari insieme a mezzalune o a simboli magici, da una cultura giovanile che esprime simbolicamente indifferenza o curiosità generica per il fenomeno religioso. Tutto ciò dimostra una progressiva laicizzazione e banalizzazione dei simboli religiosi, fenomeno cui non si risponde con superstizione rilanci di integrismi e altre sciocchezze pericolose o ordinanze e rilanci a comando. Dirò allora che in uno stato laico i luoghi pubblici non debbono mostrare nessun simbolo religioso di nessuna religione (o sennò di tutte), che informazioni religiose di tipo storico è giusto che vengano trasmesse con atteggiamento critico e non catechistico. Ad esempio la lettura e conoscenza dell'Antico Testamento, un libro di grandissimo valore storico estetico religioso è scarsa in Italia perché, secondo la tradizione cattolica non era ammessa la lettura diretta e il "libero esame" del testo. Sarebbe ora di avviare un liberissimo esame, che allargherebbe gli orizzonti e le cognizioni.

In ogni caso mi auguro che riusciamo a fare argine alle ondate di fondamentalismo che ci arrivano e che albergano anche dentro di noi. Il fondamentalismo è molto infettivo e bisogna difendersene fin da subito, mai rispondendo sullo stesso piano. E' meglio cogliere il tono conciliante e critico di Scialoja, imparare che nell'Islam, come nel Cristianesimo, che sono fenomeni di proporzioni e durata millenarie, vi sono moltissime varianti e sfumature, per trovare ambiti di discorso e di comprensione. Altrimenti si rischia di rimanere travolti da una irrazionalità crescente che produce minacce razzismi esclusioni. Insomma davvero: evitiamo scontri di inciviltà.

Mark Rothko (*)

La Repubblica giovedì 30.10.03 Pagina 44 - Cultura
ROTHKO E LA TELA INFINITA
la mostra del centenario
A un secolo dalla nascita, una selezione di capolavori del pittore morto suicida che voleva rappresentare le emozioni
Voleva che lo spettatore si perdesse nei suoi quadri guardandoli da vicino
BASILEA
FABRIZIO D'AMICO


(*) informazioni e immagini su e di MARK ROTHKO possono essere viste QUI

Cade quest´anno il centenario della nascita di Mark Rothko: ed è ancora una volta la Fondazione Beyeler di Basilea, dopo la grande mostra del 2001, a dedicargli un ricordo, intenso ed emozionante: quattro sale raccolgono venticinque suoi dipinti, da un primo del 1938, Entrance to subway, a cui s´usa far risalire il primo snodo rilevante della sua ricerca, sino agli acrilici ultimi, datati fra '69 e '70, l´anno del suicidio. Contemporaneamente, alla Beyeler, è allestita una fin troppo ampia mostra sull´opera tarda di Paul Klee, relativa a quel suo ultimo decennio che lo vide rifugiato nella natia Svizzera dopo la condanna nazista dell´»arte degenerata»: un tempo in cui parte degli studi ha riconosciuto, fors´anche sull´onda emotiva di quell´esilio e della malattia che lo condurrà alla morte nel 1940, uno dei vertici dell´arte di Klee.
Ma è una non banale coincidenza, quest´omaggio parallelo a due fra gli artisti del secolo trascorso più intensamente amati prima di tutto dai loro colleghi pittori, d´ogni tempo e latitudine, sino ad oggi: due pittori che hanno poco o nulla, all´apparenza, da spartire, se non - cruciale - quella primazia riconosciuta da entrambi al pensiero sulla mano; e, assieme, quel rifuggire il messaggio univoco implicito nella propria opera, che pur volevano capace di parlare all´uomo. Klee dipinse, e scrisse sull´atto del dipingere, per insegnare a guardare il mondo, mai per narrarlo. Vent´anni dopo la sua morte, al culmine d´una fama divenuta presto universale, Rothko, che aveva da tempo abbandonato una rabdomantica e imperfetta figurazione surrealista per una pittura di pura effusione cromatica, dichiarò, paradossalmente, di «non essere un pittore astratto». Di essere disinteressato a sondare semplicemente una sintassi possibile di forme e di colori. «Quel che m´interessa è soltanto la rappresentazione delle emozioni fondamentali dell´uomo - tragedia, estasi, destino»; meglio: di suscitare nel riguardante, attraverso la sua opera, la percezione acuita di quelle emozioni.
Il modo in cui lo spettatore avrebbe fruito della sua pittura è sempre stato al centro delle preoccupazioni di Rothko (che ha con ciò anticipato un´attitudine poi divenuta canonica in ambito concettuale); al punto che attraverso l´evolversi delle sue indicazioni e dei suoi interventi relativi all´allestimento delle sue mostre o delle sale museali a lui dedicate (quella, ad esempio, della Tate Gallery di Londra con i Seagram murals) si può seguire, e talora anticipare, l´evoluzione stessa della sua pittura, che proprio dal rapporto che avrebbe cercato con il mondo sarebbe stata influenzata. Raccomandò ad esempio, partecipando nel 1952 alla mostra 15 Americans al Museum of Modern Art di New York, una disposizione molto ravvicinata delle sue tele e un´illuminazione, per esse, forte e clamorosa. In occasione della sua prima retrospettiva (1961, sempre al Moma), alla quale sovrintese personalmente e con grande impegno d´energie mentali, volle invece un´illuminazione molto bassa, così che le opere, anche adesso l´un l´altra ravvicinate, apparissero come fuochi di luce baluginanti nel buio. Già allora dunque, pur esponendo tele datate dal '45 al '60, e dunque di differente temperatura stilistica, s´era affacciata in lui l´idea che la sua opera dovesse mirare ad essere un organismo plastico unitario, dotato di vita e di capacità di parola autonoma rispetto agli elementi da cui era costituito.
Nella sua pittura, voleva che ci si perdesse: raccomandava perciò una visione ravvicinatissima dei suoi grandi dipinti - «a 45 centimetri»: cosa di fatto oggi purtroppo impossibile, per un allarme che scatta o un custode che ti guarda in cagnesco - così che l´occhio giungesse a smarrire i confini esatti del dipinto: rinunziando così ad un´esperienza puramente estetica, o lucidamente cognitiva, per attingerne una emotiva, esistenziale, interamente coinvolgente. Per questo, ancora, dopo l´esperienza dell´antologica di New York, Rothko fu soprattutto interessato a rispondere a poche, grandi commissioni che prevedessero la possibilità di immaginare ampie serie di suoi dipinti stabilmente collocati in spazi pubblici: sin quando, alla maggiore di quelle commissioni, riguardante una cappella - che egli volle multiconfessionale - a Houston, Rothko destinò ogni sua energia dal '64 al '67, ed oltre: sino al tempo, praticamente, in cui le condizioni di salute non gli impedirono di continuare quel lavoro sulla grande dimensione che ormai prediligeva. In quella cappella, inaugurata appena dopo la sua morte, Rothko aveva cercato quella che Dore Ashton chiamerà «un´espressione della divinità senza un Dio»; e in essa darà figura compiutamente a quel luogo che cercava, creato dal colore - rosso, bruno, nero - e svelato dalla poca luce che lentamente lo avvolge e lo trascina nello spazio della contemplazione, affine ma più complesso di quello unicamente pertinente alla pittura.
A metà del suo ultimo decennio, e in coincidenza con il lavoro per la cappella di Houston, Rothko, partito dalla pittura e senza tradirla, giunge dunque ad immaginare una spazialità che concettualmente esorbita dai suoi canonici confini, e tanto più da quella nozione di superficie commentata da linee e colori che una ormai antica coscienza moderna le aveva attribuito. È entro quel suo tempo che, forse, trova una plausibile giustificazione la sua volontà d´essere qualcosa di diverso da «un pittore astratto»; ed è per quel suo tempo, che l´ha portato lontano da quel colore respirante che era stato il suo straordinario tesoro negli anni Cinquanta, che egli rimane ancora oggi, ad oltre trent´anni dalla morte, e in un´epoca che sembra aver rinunciato così vastamente alla specificità del linguaggio pittorico, così attuale, così universalmente amato.
Ma Rothko non s´è fermato su quello spalto, assalito da un´ansia che lo trascinava in qualche misura al di là della pittura. È vero invece che negli ultimi anni - amari, tormentati: nonostante la fama crescente - Rothko torna a ragionare sui termini più casti, e fin più agri, della sua prassi antica. E vengono, in numero ristretto, i Black on Gray Paintings: diciotto dipinti in tutto, sei dei quali sono oggi raccolti a Basilea in un´ultima, strepitosa sala che ripete, con ancora maggior respiro, quella finale della grande mostra di Washington, New York e Parigi del 1998-´99. Sono immagini che dicono, nel pittore non più giovane e malato, l´insorgere di una lucida volontà di un nuovo avvio: stavolta rigorosamente ancorato alla superficie, lontano da quell´intento di frastornarne la nuda apparenza che aveva innescato la sua pittura d´un tempo, ansimante fra un fondo profondissimo dell´immagine e una prima pelle emozionata, e quasi ferita, del dipinto. I colori di un tempo, il giallo e l´arancio, l´azzurro ed il verde, già sopiti dal montare dei bruni scurissimi, dei rossi intrisi di nero, dei viola annottati degli anni Sessanta, scompaiono. E insieme s´eclissano quelle forme imperfettamente geometriche, quei rettangoli smangiati che sembravano galleggiare come in un amnio nel manto del colore tremante del fondo. Solo, adesso, un grigio o un bruno sormontato da un corpo unito e sordo di nero. Un filo appena percepibile di bianco margina appena l´immagine; un´altra sottile strusciata di pennello designa la linea di demarcazione fra i due corpi cromatici. È l´orizzonte: di questi che altro non sono, altro non potrebbero nominarsi, se non paesaggi dell´anima. Nudi, spogli paesaggi, tirati in una grande dimensione che ormai non aspira più al monumentale, che non cerca vertigini o brusche impennate d´orgoglio. Ed è come se Rothko, in questi quadri ciechi di profondità e di spessori, avesse persino rinunciato a cercare, come aveva fatto per tanti anni, un rapporto con l´altro; quadri costruiti da un nulla, sublime e muto; quadri che davvero annunciano una morte.

Edoardo Sanguineti su Ulisse

Il Giornale di Brescia mercoledì 29.10.03
Edoardo Sanguineti al S. Barnaba
L’ARCAICO ULISSE CHE VIENE DAL NORD
COLLEZIONI DISPERSE
di Alberto Ottaviano


Inutile cercare in Ulisse anticipazioni dell’uomo moderno occidentale, scorgere nell’eroe di Omero l’interprete di una prima razionalità che tenta di emanciparsi dal mito, vedere nell’Odissea il prototipo del romanzo borghese. Le vicende omeriche avvengono in realtà in un mondo pre-logico, dove ancora non c’è coscienza dell’unità del soggetto; non c’è nulla di razionale nella metis (l’astuzia) di Ulisse, nulla che abbia a che fare con la logica. Addirittura - secondo l’ipotesi avanzata in un recente saggio - le vicende cantate da Omero sarebbero racconti di aedi scandinavi trasposti nel mondo mediterraneo: quanto di più lontano possibile quindi dalla linea di pensiero greco-romana poi sfociata nella razionalità dell’uomo dei nostri giorni. A stroncare qualsiasi valorizzazione della modernità di Ulisse è stato Edoardo Sanguineti, che ha tenuto ieri il quarto incontro dei Pomeriggi in San Barnaba dedicati all’eterno ritorno del mito. Con una densa relazione mantenuta decisamente su toni alti, il poeta e studioso - già protagonista della neo-avanguardia - ha compiuto una cavalcata lungo i sentieri delle interpretazioni di Ulisse, soffermandosi in particolare sul modo in cui l’eroe è stato proposto negli stessi poemi omerici, in Dante e in Joyce. Alla conclusione della conversazione di martedì della scorsa settimana, quando Eva Cantarella aveva parlato di Penelope, avevamo colto in qualche ascoltatore del San Barnaba una certa delusione, perché la relatrice - con alcune battute sulla fedeltà di Ulisse, con le sue ipotesi sugli ambigui comportamenti di Penelope - era parsa banalizzare la vicenda raccontata da Omero: insomma la Cantarella sarebbe stata troppo facile. Potremmo dire che quegli ascoltatori sono stati ieri accontentati: saltando da Adorno a Defoe, da Petronio a Pound, da De Sanctis a Giordano Bruno - e leggendo lunghe citazioni - Sanguineti ha messo a dura prova l’attenzione del foltissimo pubblico (qualcuno ha lasciato la sala in anticipo) con una conversazione di cui è decisamente difficile riferire tutti i passaggi. Il relatore comincia col confutare l’interpretazione che dell’Ulisse di Omero hanno dato Adorno ed Horkheimer: per i due esponenti della Scuola di Francoforte l’eroe sarebbe un anticipato trionfo del logos , l’espressione dell’illuminismo colto nel suo primo concretarsi, qualcuno che mette in crisi il mondo del mito; l’Odissea sarebbe così vicina al settecentesco romanzo di avventura. Ma una lettura romanzesca di Omero è assolutamente deformante,  contesta Sanguineti; non si può guardare a Ulisse come a un Robinson Crusoe. C ome parlare di moderno eroe della razionalità se nel mondo omerico ancora c’è un’assoluta inconsistenza del soggetto: soltanto a partire da Aristotele nascono
nell’antica Grecia le categorie razionali e muore il mondo magico. Dante poi, sottolinea Sanguineti, nel proporre il suo Ulisse
suscita nel lettore un meccanismo devastante e perfido, lo stesso meccanismo che si verifica per Francesca da Rimini nel celebre episodio. Il lettore finisce per commuoversi di fronte all’Ulisse del «fatti non foste a viver come bruti» e per essere anch’egli trascinato a superare le colonne d’Ercole, a violare i limiti per fondarsi sulle sole forze umane. Joyce, da parte sua, è interessato alla struttura del mito, ma del contenuto non resta quasi più nulla. L’Ulisse dello scrittore è in realtà un anti-Ulisse privo ormai di qualsiasi nostalgia per il mito omerico. Con Joyce, nota Sanguineti, l’eterno ritorno del mito si conclude per sempre. Il relatore chiude riferendo della suggestiva ipotesi, cui accennavamo all’inizio, avanzata nello studio di un ingegnere nucleare sulla geografia omerica: è una geografia che non corrisponde al mondo mediterraneo; è inutile cercare dov’era Troia. Il sospetto è che Ulisse venga dal Nord: Omero sarebbe l’espressione nel mondo greco di leggende della Scandinavia. Una conferma potrebbe venire dall’archeologia, ma scavando a Nord, dove aveva vita un mondo arcaico.

Emanuele Severino su filosofia e politica

Corriere della Sera giovedì 30.10.03
Cari democratici,
diffidate dei filosofi
di EMANUELE SEVERINO


A quanti non sopportano l’aria di superiorità di buona parte del pensiero filosofico consiglierei la lettura di "Verità e progresso" del filosofo americano Richard Rorty (Feltrinelli). Per lui la democrazia è il bene supremo dell’uomo. Se gli intellettuali non servono a rafforzarla, si faccian da parte. Poiché soprattutto i filosofi hanno contribuito a indebolirla, l’invito va rivolto soprattutto a essi. Anche scienza e tecnica, per Rorty, debbono stare al servizio della democrazia. Le preoccupazioni di Rorty sono motivate. Dopo la sconfitta del totalitarismo di destra e sinistra, sta facendosi innanzi anche una profonda delegittimazione della politica democratica. Non intendo quella (deprecabile, che però non è la fine del mondo) dovuta al comportamento degli avversari politici che, come in Italia, si delegittimano a vicenda.
Mi riferisco invece alla delegittimazione costituita dalla tendenza, deprecata da Rorty, dove la competenza tecnico-scientifica mira a guidare le comunità democratiche - e dalla quale, aggiungo, quelle islamico-teocratiche si illudono ancora di non essere guidate.
Gli Stati Uniti mostrano un sintomo significativo di tale tendenza planetaria. Si servono sempre più della loro ricchezza per essere potenti; mentre prima si servivano della loro potenza per difendere la loro ricchezza. Dalla volontà di esser forti per portare la democrazia nel mondo, alla volontà di portare la democrazia nel mondo per esser forti.
Ma una democrazia che si serve della tecno-scienza e la guida è qualcosa di essenzialmente diverso da una democrazia che è al servizio della tecno-scienza e ne è guidata. La delegittimazione autentica della politica democratica è appunto il passaggio di quest’ultima dal ruolo di guida a quello di servitore. Quando una struttura sociale (come il capitalismo democratico) deve la propria sopravvivenza a un certo strumento (come l’apparato scientifico-tecnologico), è inevitabile che tale struttura eviti di indebolirlo e anzi ne accresca sempre di più la potenza per resistere e prevalere sui propri avversari - che ieri erano, per le democrazie, i totalitarismi e oggi sono il terrorismo e, alla base di esso, la povertà di gran parte dei popoli. A questo punto tale struttura non assume più come scopo i propri valori, ma il potenziamento indefinito del proprio strumento.
Tuttavia questo rovesciamento può avvenire solo se scienza e tecnica sanno che la crescita della loro potenza non ha davanti a sé alcun limite assoluto; e questo sapere esse non se lo possono dare da sole, ma lo ricevono dall’esterno, cioè dal risultato essenziale della filosofia contemporanea. Che nella totalità della realtà quel limite non possa esistere - che non esista alcun ordine immutabile al di sopra del divenire del mondo - non può essere la scienza a dirlo: lo dice la filosofia del nostro tempo.
I democratici alla Rorty hanno ragione di diffidare dei filosofi, perché costoro, dopo aver evocato i fondamenti del totalitarismo politico, hanno evocato anche quel senso della realtà che legittima la scienza e la tecnica a oltrepassare ogni limite e a porsi alla guida (anche) della democrazia capitalistica, che in tal modo resta delegittimata: nella misura in cui pretende di stare essa alla guida di tutto il resto.
In questa situazione, preoccuparsi della democrazia significa incominciare a domandarsi che cosa essa possa essere quando, da scopo e guida, diventa mezzo e strumento per il crescente potenziamento della tecnica legittimata dalla filosofia. Diventa pertanto sempre più obsoleto chiedersi che cosa possono fare gli intellettuali per salvaguardare la sovranità e l’autonomia della politica democratica. Certo, gli «intellettuali» che si limitano a ereditare la superficie della filosofia del nostro tempo, e che non sanno nulla della relazione profonda tra scienza, tecnica e filosofia, fanno ben poco per vincere le battaglie di retroguardia in favore della politica democratica.
Di questi intellettuali è giusto dire, come è stato detto su queste colonne, che hanno un ruolo conservatore e che si accodano a quelli che essi ritengono gli orientamenti politici prevalenti. Ma chi ha portato alla luce gli «orientamenti» - politici e non politici -, se non i veri intellettuali?
E, anche qui, quale grande concezione politica non è riconducibile al sapere che è stato portato alla luce da quegli intellettuali che sono i filosofi autentici? Pericle non parla forse agli Ateniesi dando ascolto ad Anassagora? L’illuminismo non sta alla radice della rivoluzione americana e francese? Il marxismo, che è uno sviluppo di quest’ultima, non è la base della rivoluzione sovietica?
Socrate e Gesù (anche il suo messaggio è profonda filosofia) sono dei conservatori rispetto alle società che li hanno condannati, o non sono anch’essi grandi anticipatori dei tempi? Tutto questo non significa che la filosofia non sia dannosa. Perfino Gesù diceva di essere venuto a portare la spada.
In un certo senso la filosofia sta alla radice di tutto ciò che è dannoso. Ma chi sono i danneggiati se non gli «orientamenti» che, guidati anch’essi dalla filosofia, non hanno saputo resistere al suo evolversi? Che cosa sono se non le forme perdenti rispetto a quelle vincenti della volontà di potenza?