La Gazzetta del Mezzogiorno 29.7.03
Intervista.
A Christian Parisot Modigliani & Jeanne
le loro mani nella tela ritrovata
di Maria Paola Porcelli
Secondo una recente notizia, dei gitani avrebbero collaborato con i carabinieri di Monza e di Roma al ritrovamento del quadro La ragazza con le calze rosse, ritratto di Germaine Escudié, la piccola ballerina di Montmartre, dipinto a due mani da Modigliani e dalla sua compagna Jeanne Hébuterne. La notizia sarebbe piaciuta molto a Modì, che aveva gran rispetto per i vagabondi, padroni del mondo. Meno contento il proprietario francese del quadro che certo non avrà molto gradito questa passeggiata del suo dipinto, valutato alcuni milioni di euro, in un campo nomadi.
Abbiamo intervistato il professor Christian Parisot, massimo esperto sull'opera di Amedeo Modigliani e Jeanne Hébuterne, presidente degli Archives légales Modigliani di Parigi, nonché curatore della mostra «Amedeo Modigliani, Jeanne Hébuterne e gli artisti di Montmartre e Montparnasse» in corso nel Castello svevo di Bari sino al 25 agosto.
«Si tratta di un olio su cartone - ci dice Parisot - dipinto tra il 1918 ed il '19 a due mani, quella di Jeanne e quella di Amedeo, in due momenti distinti. Due tecniche in uno stesso quadro».
Una pratica diffusa nella «Scuola di Parigi»?
«Certo. Spesso i 'fondi' erano eseguiti con e da altri artisti. Moise Kisling ne ha preparati molti per Modigliani. Le loro mani si alternavano sulle rispettive tele, di fronte alla stessa modella, nello stesso appartamento della rue Joseph Bara a Montparnasse. Stessa donna, stessi pennelli, stessi colori, come aveva già raccontato lo stesso Kisling».
L'opera ritrovata nei giorni scorsi a Monza in un campo rom è conosciuta da vent'anni, ma come opera «da verificare», in un dossier già catalogato da Jeanne Modigliani, figlia di Amedeo.
«Certo. Oggi anche analisi chimiche ufficiali del supporto hanno confermato che risulta d'epoca, come la firma di Modigliani che risulta perfettamente inserita nella pasta cromatica del fondo».
Questa è la sua perizia sul quadro. Eppure esiste qualcuno che insinua il sospetto che l'opera sia un falso?
«Le voci, le polemiche, le opinioni nelle expertise non sono sufficienti. Come può facilmente immaginare, gli interessi che girano attorno ad un'opera del genere sono tanti. Qualcuno prova a confondere il valore commerciale con quello artistico. Una cosa è certa: nel tempo nessuno ha fornito prove scientifiche sufficienti a provare il contrario delle nostre tesi. Due anni fa, dopo aver analizzato l'opera in una riunione di esperti, abbiamo espresso il nostro parere controfirmato da me e da Jean Kisling. Nel parere ufficiale mi soffermavo anche sul cartone incollato su un supporto ligneo col quale si era voluto in passato 'restaurare' l'opera compromettendone una parte importante. È possibile sbagliarsi, ma è molto, molto difficile».
Oggi conferma le sue valutazioni?
«Certo. Confermo l'autenticità dell'opera La ragazza con le calze rosse eseguita da Amedeo con la partecipazione nel 'fondo' della Hébuterne. Una tesi ancora più inconfutabile oggi, dopo i recentissimi ritrovamenti di molte opere di Jeanne nella cantina parigina del fratello André e ora esposte per la prima volta a Bari».
Ci descriva questi segni di riconoscimento.
«Soprattutto il fondo leggermente sfumato con i tre quadretti appesi al muro ripresi e sottolineati da un contorno nero e legati tra loro da un tratto lineare, una sorta di filo nero presente anche in La ragazza con le calze rosse. Segni che appartengono alla costruzione orizzontale degli interni di Jeanne Hébuterne che dipingeva quasi esclusivamente su cartone. Tutti segni d'autenticità che l'artista-musa ha riproposto puntualmente, come fosse una firma, anche sulle altre sue opere».
E la figura centrale? Cosa hanno rivelato le analisi?
«La figura centrale della ragazza seduta è stata dipinta d'un sol getto da Amedeo, in pochi minuti come dimostrano le analisi. Pochi colori sulla superficie liscia del cartone con un pennello ruvido su un fondo ancora umido. Pochi tratti per dipingere dal basso verso l'alto, dalle scarpe slacciate di questa ballerina, la silhouette con il tutu da ballo, la prospettiva assente, il ritratto frontale, la visione centrale tipicamente toscana, scultorea. Il viso inquadrato da due trecce verticali, gli occhi assenti a ricordare la "paura del vuoto"».
Un volto triste?
«Come tutti quelli che Modigliani cercava di eseguire in fretta dopo una richiesta specifica del committente: colori diluiti con la vernice finale affinché l'olio potesse seccare rapidamente. Jeanne e Amedeo hanno dimostrato che la loro unione poteva esprimersi in un segno pittorico di grande livello legati dal colore su di un supporto comune. Nella mostra di Bari c'è una tela, questa volta un supporto caro ad Amedeo, autore solo di dettagli e su cui ha invece dipinto principalmente Jeanne. Esattamente il contrario di quanto è avvenuto in La ragazza con le calze rosse».
Ecco le prime immagini
del kolossal Modigliani
Le prime immagini del kolossal "Modigliani" interpretato da Andy Garcia con la regia di Mike Davis, saranno proposte in anteprima mondiale da Rai Educational oggi (martedì 29.7.03) su Raitre alle 0.20. Il film uscirà in Usa a dicembre proprio per lanciare verso l'Oscar un travolgente Andy Garcia.
«SEGNALAZIONI» è il titolo della testata indipendente di Fulvio Iannaco che - registrata già nel 2001 - ha ormai compiuto il diciottesimo anno della propria continua ricerca e resistenza.
Dal 2007 - poi - alla sua caratteristica originaria di libera espressione del proprio ideatore, «Segnalazioni» ha unito la propria adesione alla «Associazione Amore e Psiche» - della quale fu fra i primissimi fondatori - nella prospettiva storica della realizzazione della «Fondazione Massimo Fagioli»
L'ASSOCIAZIONE CULTURALE
martedì 29 luglio 2003
gli occhi
Galileo, Agosto 2003
NEUROSCIENZE
Oltre gli occhi
di Giovanna Dall'Ongaro
Con circa 150.000 movimenti al giorno, l'occhio ha un'attività motoria più intensa di quella cardiaca. Mentre il cuore infatti scandisce 60 battiti al minuto, la vista può andare al ritmo di quattro o cinque movimenti al secondo. Tanti ne servono infatti per osservare un'immagine. Si tratta di rapidissime occhiate, dette "saccadi", di cui l'osservatore è inconsapevole e che permettono la percezione dell'oggetto. Nonostante questo "terremoto" oculare, però, noi riusciamo ad avere un'immagine stabile del mondo. Come è possibile? Uno studio della facoltà di Psicologia dell'Università Vita-Salute del San Raffaele, getta nuova luce sul processo che permette al cervello di stabilire se siamo noi o sono gli oggetti a muoversi. Galileo ha intervistato Concetta Morrone che, insieme a David Melcher ha condotto la ricerca, i cui risultati verranno pubblicati sul numero di agosto di "Nature Neuroscience".
Nonostante l'esistenza di numerosi studi sui movimenti oculari e sulla percezione delle immagini, ancora non riusciamo, viene proprio da dirlo, a "vederci chiaro". Resta da spiegare soprattutto il comportamento del cervello. Che cosa avete scoperto a riguardo?
"L'abilità dimostrata dal cervello nel fornire un'immagine stabile del mondo, nonostante la particolare 'turbolenza' della percezione visiva, è nota già dall'anno 1000. Fu uno studioso persiano, Al Hazen, il primo a notarla. Ma finora ancora non si era riusciti a capire come ciò fosse possibile. Il nostro studio cerca di colmare proprio questa lacuna e contraddice quanto finora si era creduto".
Che cosa si pensava che accadesse?
"Fino a oggi si riteneva che, nella percezione di un'immagine, il cervello si creasse come delle 'telecamere' capaci di muoversi insieme agli occhi. Si pensava, cioè, che ogni neurone fosse collegato a gruppi specifici di fotorecettori, le cellule incaricate di ricevere la luce, e che a ogni neurone fosse associata una porzione di mondo".
Ossia il cervello che segue lo sguardo. Invece non è così?
"No. Almeno secondo i nostri dati. Il cervello è in grado di elaborare le informazioni provenienti dal campo visivo, indipendentemente dalla posizione dello sguardo. La telecamera è quindi solidale con il mondo esterno e non con gli occhi. I neuroni effettuano una sorta di "rimappatura" collegandosi ad altri fotorecettori, anche se l'occhio si muove. E' come se si creasse una sorta di traccia, di memoria, anche se il termine non è corretto, a cui il cervello si rivolge nonostante l'occhio cada da tutt'altra parte. Tutto ciò accade a livello sensoriale precoce, cioè a una primissima analisi del segnale visivo e non, come si era creduto finora, a un alto livello cognitivo".
La capacità della mente umana di sintonizzarsi sul mondo esterno vale anche per gli altri sensi?
"Sembrerebbe proprio di sì. Sia nel nostro paese sia negli Stati Uniti sono in corso diverse ricerche a riguardo. Per ora si tratta ancora di esperimenti condotti sulle scimmie, ma presto si passerà all'essere umano. Comunque i risultati sembrano confermare quanto dimostrato per la percezione visiva. Da alcune prime indagini sull'udito, per esempio, emergono importanti analogie con la nostra ricerca. Anche in questo caso infatti c'è una ragione per cui continuiamo a percepire il suono dallo stesso luogo, nonostante il movimento della testa o del corpo intero, ed è che il cervello si collega in qualche modo con la realtà esterna, indipendentemente dalla posizione dell'orecchio".
Questa scoperta sembra avere anche delle implicazioni filosofiche. E' un aspetto a cui avete pensato?
"Le riflessioni filosofiche non ci competono. Quello che sicuramente ci sentiamo di dire è che si è fatto un passo avanti nello svelare i misteri e le abilità della mente umana. Grazie alle nostre ricerche si potranno anche curare alcune patologie legate all'instabilità della percezione visiva che affliggono bambini che hanno riportato delle lesioni alla nascita. E questo ci basta".
Magazine, 1 agosto 2003 © Galileo
NEUROSCIENZE
Oltre gli occhi
di Giovanna Dall'Ongaro
Con circa 150.000 movimenti al giorno, l'occhio ha un'attività motoria più intensa di quella cardiaca. Mentre il cuore infatti scandisce 60 battiti al minuto, la vista può andare al ritmo di quattro o cinque movimenti al secondo. Tanti ne servono infatti per osservare un'immagine. Si tratta di rapidissime occhiate, dette "saccadi", di cui l'osservatore è inconsapevole e che permettono la percezione dell'oggetto. Nonostante questo "terremoto" oculare, però, noi riusciamo ad avere un'immagine stabile del mondo. Come è possibile? Uno studio della facoltà di Psicologia dell'Università Vita-Salute del San Raffaele, getta nuova luce sul processo che permette al cervello di stabilire se siamo noi o sono gli oggetti a muoversi. Galileo ha intervistato Concetta Morrone che, insieme a David Melcher ha condotto la ricerca, i cui risultati verranno pubblicati sul numero di agosto di "Nature Neuroscience".
Nonostante l'esistenza di numerosi studi sui movimenti oculari e sulla percezione delle immagini, ancora non riusciamo, viene proprio da dirlo, a "vederci chiaro". Resta da spiegare soprattutto il comportamento del cervello. Che cosa avete scoperto a riguardo?
"L'abilità dimostrata dal cervello nel fornire un'immagine stabile del mondo, nonostante la particolare 'turbolenza' della percezione visiva, è nota già dall'anno 1000. Fu uno studioso persiano, Al Hazen, il primo a notarla. Ma finora ancora non si era riusciti a capire come ciò fosse possibile. Il nostro studio cerca di colmare proprio questa lacuna e contraddice quanto finora si era creduto".
Che cosa si pensava che accadesse?
"Fino a oggi si riteneva che, nella percezione di un'immagine, il cervello si creasse come delle 'telecamere' capaci di muoversi insieme agli occhi. Si pensava, cioè, che ogni neurone fosse collegato a gruppi specifici di fotorecettori, le cellule incaricate di ricevere la luce, e che a ogni neurone fosse associata una porzione di mondo".
Ossia il cervello che segue lo sguardo. Invece non è così?
"No. Almeno secondo i nostri dati. Il cervello è in grado di elaborare le informazioni provenienti dal campo visivo, indipendentemente dalla posizione dello sguardo. La telecamera è quindi solidale con il mondo esterno e non con gli occhi. I neuroni effettuano una sorta di "rimappatura" collegandosi ad altri fotorecettori, anche se l'occhio si muove. E' come se si creasse una sorta di traccia, di memoria, anche se il termine non è corretto, a cui il cervello si rivolge nonostante l'occhio cada da tutt'altra parte. Tutto ciò accade a livello sensoriale precoce, cioè a una primissima analisi del segnale visivo e non, come si era creduto finora, a un alto livello cognitivo".
La capacità della mente umana di sintonizzarsi sul mondo esterno vale anche per gli altri sensi?
"Sembrerebbe proprio di sì. Sia nel nostro paese sia negli Stati Uniti sono in corso diverse ricerche a riguardo. Per ora si tratta ancora di esperimenti condotti sulle scimmie, ma presto si passerà all'essere umano. Comunque i risultati sembrano confermare quanto dimostrato per la percezione visiva. Da alcune prime indagini sull'udito, per esempio, emergono importanti analogie con la nostra ricerca. Anche in questo caso infatti c'è una ragione per cui continuiamo a percepire il suono dallo stesso luogo, nonostante il movimento della testa o del corpo intero, ed è che il cervello si collega in qualche modo con la realtà esterna, indipendentemente dalla posizione dell'orecchio".
Questa scoperta sembra avere anche delle implicazioni filosofiche. E' un aspetto a cui avete pensato?
"Le riflessioni filosofiche non ci competono. Quello che sicuramente ci sentiamo di dire è che si è fatto un passo avanti nello svelare i misteri e le abilità della mente umana. Grazie alle nostre ricerche si potranno anche curare alcune patologie legate all'instabilità della percezione visiva che affliggono bambini che hanno riportato delle lesioni alla nascita. E questo ci basta".
Magazine, 1 agosto 2003 © Galileo
sul caso di Amina
Repubblica Roma 29.7.03
Un libro dedicato alla lotta di Amina
Ci sarà anche Danjo Eguche, ambasciatore nigeriano, oggi in Campidoglio per la presentazione del libro "Amina Lawal", con le immagini dell´installazione di sabbia, stoffe e colori, che il Comune ha chiesto all´artista Maria Dompé di dedicare alla lotta della donna nigeriana contro la condanna alla lapidazione. Alla cerimonia parteciperanno Maria Dompé, Lidia Ravera e gli assessori Mariella Gramaglia, andata alla prima udienza con migliaia di firme di solidarietà, e Gianni Borgna. Il processo d´appello sarà il 27 agosto.
Un libro dedicato alla lotta di Amina
Ci sarà anche Danjo Eguche, ambasciatore nigeriano, oggi in Campidoglio per la presentazione del libro "Amina Lawal", con le immagini dell´installazione di sabbia, stoffe e colori, che il Comune ha chiesto all´artista Maria Dompé di dedicare alla lotta della donna nigeriana contro la condanna alla lapidazione. Alla cerimonia parteciperanno Maria Dompé, Lidia Ravera e gli assessori Mariella Gramaglia, andata alla prima udienza con migliaia di firme di solidarietà, e Gianni Borgna. Il processo d´appello sarà il 27 agosto.
Hans Jonas
Repubblica 29.7.03
MARTEDÌ, 29 LUGLIO 2003
A dieci anni dalla scomparsa esce la sua autobiografia
Quella cotta per la Arendt di Hans Jonas
si rividero a New York dove entrambI insegnavano
ma lei gli disse che amava Heidegger
di Paola Sorge
La notorietà arrivò tardi per Hans Jonas: il filosofo aveva 75 anni quando «Il principio responsabilità - Un´etica per la civiltà tecnologica» - un libro che ebbe una diffusione rapida e vastissima come pochi altri nel mondo del pensiero - gli diede fama internazionale; da allora, era il 1979, il pensatore originario di Monchengladbach che aveva studiato con Husserl e Heidegger, l´insegnante entusiasta e appassionato che faceva della filosofia qualcosa di vivo e affascinante, divenne estremamente popolare, onnipresente nei dibattiti sul futuro del mondo.
La sua intensa vita che abbraccia quasi tutto il Novecento (dal 1903 al 1993) la racconta lui stesso in maniera semplice e disarmante in un volume uscito ora in Germania (Hans Jonas: Erinnerungen, ed. Insel, pagg. 500); nulla di accademico né di costruito nelle memorie di questo grande filosofo che paiono piuttosto le confidenze di un amico che sente il bisogno di confessarsi, di rivelare con estrema franchezza non solo le tappe del suo iter intellettuale - dalla analisi della spiritualità antica a quella della tecnologia moderna fino alla preoccupazione per il futuro dell´umanità - , ma anche le sue vicende personali, gli aspetti meno conosciuti della sua formazione e della sua carriera, i lati oscuri della sua personalità. Jonas rievoca con dovizia di particolari la sua infanzia, il rapporto con il padre, un agiato fabbricante tessile che stenta a capire le aspirazioni e le tensioni spirituali del figlio e il suo impegno per il sionismo, il tenero legame con la madre e la ferita sempre aperta per la sua tragica morte a Auschwitz; come la maggior parte dei suoi compagni di studi, Hans prova una forte attrazione per Hannah Arendt, conosciuta a Marburg nel 1924, ma lei gli confessa subito la sua relazione con Heidegger per non illuderlo e ne fa il suo confidente e amico per la vita. La descrizione dell´ambiente universitario di Friburgo e poi di Marburg e delle lezioni tenute dai due grandi, allora mitici maestri di Jonas, Husserl e Heidegger, è a dir poco disincantata. Il primo, fondatore della fenomenologia, riteneva che tutti i pensatori dell´era moderna, da Descartes in poi, non erano riusciti a risolvere certi problemi della consapevolezza o della teoria della conoscenza perché non conoscevano il suo metodo, l´unico che dava soluzioni. Tra l´altro, si diverte a ricordare Jonas, era presente alle lezioni la moglie di Husserl che, come un cerbero, controllava che gli studenti fossero attenti e prendessero appunti. Quanto a Heidegger, il giovane Hans ne riconosce il grande valore e la suggestione esercitata dalla sua personalità, ma non esita a dichiarare che spesso non lo capiva: il suo messaggio era cifrato, destinato a pochi iniziati e inoltre, intorno a lui, si avvertiva un´atmosfera «malsana» dovuta agli adoratori del filosofo.
«Non riuscivo a sopportare quella congrega di cultori di Heidegger dall´atteggiamento bigotto e altezzoso» - osserva Jonas ricordando i seminari frequentati a Marburgo dal 1924 - «essi credevano di possedere la verità rivelata: quella non era filosofia ma qualcosa di settario, quasi una nuova fede...». Queste prime, sgradevoli impressioni saranno poi rafforzate dal celebre discorso tenuto da Heidegger nel '33 in favore di Hitler e dal suo vergognoso comportamento nei riguardi di Husserl. In realtà per il giovane studente pieno di ideali, che credeva che la filosofia dovesse proteggere l´uomo da errori, migliorarlo e nobilitarlo, l´inaspettata adesione del grande filosofo al nazismo non significa solo il crollo di un idolo, ma anche il fallimento catastrofico della filosofia stessa, «la bancarotta del pensiero filosofico». Dopo la guerra Hans Jonas si distaccherà definitivamente dalla filosofia dell´esistenzialismo contrapponendole la «filosofia della vita»; a differenza della Arendt, non perdonerà mai colui che ritiene il più profondo pensatore del suo tempo, anche se accetterà di incontrarlo brevemente nel 1969, in occasione del suo ottantesimo compleanno. «Ma tra noi ci fu solo uno scambio di ricordi del tempo di Marburg», nota Jonas. Dopo la notizia dell´avvento di Hitler al potere appresa durante un´allegra festa in maschera, Hans si rifugia a Gerusalemme, partecipa alla seconda guerra mondiale arruolandosi nell´esercito inglese, combatte in Italia, a Taranto, a Forlì, a Udine, e rimane piacevolmente sorpreso nel constatare che la popolazione protegge e nasconde gli ebrei in barba alle leggi razziali. Quando nel '45 torna in Germania e vede le città tedesche rase al suolo - città fantasma che sembravano paesaggi lunari, piene di crateri e di rovine - , prova una gioia incontenibile per la vendetta che si è compiuta: «E´ qualcosa che non vorrei mai più provare», confessa Jonas, « ma che non voglio tacere». E, senza remore aggiunge che per molti anni quello è stato per lui il momento di più intensa felicità. «Oggi non lo potrei più dire «, nota il filosofo « perché nella mia vita ho vissuto momenti ben più felici».
A New York, dove dal 1955 ha la cattedra di filosofia, ritrova Hannah Arendt e frequenta la sua cerchia di amici a Manhattan fino a quando la pubblicazione degli articoli della scrittrice sul processo di Eichmann a Gerusalemme lo sconvolge profondamente: Jonas non crede ai suoi occhi, non riesce a capacitarsi delle dure critiche mosse dalla Arendt agli stessi ebrei, del tono tagliente e sarcastico da lei usato nei loro confronti, della sua posizione antisionista. Lo scontro fra i due amici di un tempo è inevitabile: Hans rimprovera a Hannah - che non ha mai letto la Bibbia - la sua ignoranza sulla religione e sulla storia ebraica antica, tenta inutilmente di farla desistere dalle sue posizioni, si rifiuta infine di vederla. Solo dopo due anni riprenderà i contatti con la donna da lui stesso definita «un genio dell´amicizia».
MARTEDÌ, 29 LUGLIO 2003
A dieci anni dalla scomparsa esce la sua autobiografia
Quella cotta per la Arendt di Hans Jonas
si rividero a New York dove entrambI insegnavano
ma lei gli disse che amava Heidegger
di Paola Sorge
La notorietà arrivò tardi per Hans Jonas: il filosofo aveva 75 anni quando «Il principio responsabilità - Un´etica per la civiltà tecnologica» - un libro che ebbe una diffusione rapida e vastissima come pochi altri nel mondo del pensiero - gli diede fama internazionale; da allora, era il 1979, il pensatore originario di Monchengladbach che aveva studiato con Husserl e Heidegger, l´insegnante entusiasta e appassionato che faceva della filosofia qualcosa di vivo e affascinante, divenne estremamente popolare, onnipresente nei dibattiti sul futuro del mondo.
La sua intensa vita che abbraccia quasi tutto il Novecento (dal 1903 al 1993) la racconta lui stesso in maniera semplice e disarmante in un volume uscito ora in Germania (Hans Jonas: Erinnerungen, ed. Insel, pagg. 500); nulla di accademico né di costruito nelle memorie di questo grande filosofo che paiono piuttosto le confidenze di un amico che sente il bisogno di confessarsi, di rivelare con estrema franchezza non solo le tappe del suo iter intellettuale - dalla analisi della spiritualità antica a quella della tecnologia moderna fino alla preoccupazione per il futuro dell´umanità - , ma anche le sue vicende personali, gli aspetti meno conosciuti della sua formazione e della sua carriera, i lati oscuri della sua personalità. Jonas rievoca con dovizia di particolari la sua infanzia, il rapporto con il padre, un agiato fabbricante tessile che stenta a capire le aspirazioni e le tensioni spirituali del figlio e il suo impegno per il sionismo, il tenero legame con la madre e la ferita sempre aperta per la sua tragica morte a Auschwitz; come la maggior parte dei suoi compagni di studi, Hans prova una forte attrazione per Hannah Arendt, conosciuta a Marburg nel 1924, ma lei gli confessa subito la sua relazione con Heidegger per non illuderlo e ne fa il suo confidente e amico per la vita. La descrizione dell´ambiente universitario di Friburgo e poi di Marburg e delle lezioni tenute dai due grandi, allora mitici maestri di Jonas, Husserl e Heidegger, è a dir poco disincantata. Il primo, fondatore della fenomenologia, riteneva che tutti i pensatori dell´era moderna, da Descartes in poi, non erano riusciti a risolvere certi problemi della consapevolezza o della teoria della conoscenza perché non conoscevano il suo metodo, l´unico che dava soluzioni. Tra l´altro, si diverte a ricordare Jonas, era presente alle lezioni la moglie di Husserl che, come un cerbero, controllava che gli studenti fossero attenti e prendessero appunti. Quanto a Heidegger, il giovane Hans ne riconosce il grande valore e la suggestione esercitata dalla sua personalità, ma non esita a dichiarare che spesso non lo capiva: il suo messaggio era cifrato, destinato a pochi iniziati e inoltre, intorno a lui, si avvertiva un´atmosfera «malsana» dovuta agli adoratori del filosofo.
«Non riuscivo a sopportare quella congrega di cultori di Heidegger dall´atteggiamento bigotto e altezzoso» - osserva Jonas ricordando i seminari frequentati a Marburgo dal 1924 - «essi credevano di possedere la verità rivelata: quella non era filosofia ma qualcosa di settario, quasi una nuova fede...». Queste prime, sgradevoli impressioni saranno poi rafforzate dal celebre discorso tenuto da Heidegger nel '33 in favore di Hitler e dal suo vergognoso comportamento nei riguardi di Husserl. In realtà per il giovane studente pieno di ideali, che credeva che la filosofia dovesse proteggere l´uomo da errori, migliorarlo e nobilitarlo, l´inaspettata adesione del grande filosofo al nazismo non significa solo il crollo di un idolo, ma anche il fallimento catastrofico della filosofia stessa, «la bancarotta del pensiero filosofico». Dopo la guerra Hans Jonas si distaccherà definitivamente dalla filosofia dell´esistenzialismo contrapponendole la «filosofia della vita»; a differenza della Arendt, non perdonerà mai colui che ritiene il più profondo pensatore del suo tempo, anche se accetterà di incontrarlo brevemente nel 1969, in occasione del suo ottantesimo compleanno. «Ma tra noi ci fu solo uno scambio di ricordi del tempo di Marburg», nota Jonas. Dopo la notizia dell´avvento di Hitler al potere appresa durante un´allegra festa in maschera, Hans si rifugia a Gerusalemme, partecipa alla seconda guerra mondiale arruolandosi nell´esercito inglese, combatte in Italia, a Taranto, a Forlì, a Udine, e rimane piacevolmente sorpreso nel constatare che la popolazione protegge e nasconde gli ebrei in barba alle leggi razziali. Quando nel '45 torna in Germania e vede le città tedesche rase al suolo - città fantasma che sembravano paesaggi lunari, piene di crateri e di rovine - , prova una gioia incontenibile per la vendetta che si è compiuta: «E´ qualcosa che non vorrei mai più provare», confessa Jonas, « ma che non voglio tacere». E, senza remore aggiunge che per molti anni quello è stato per lui il momento di più intensa felicità. «Oggi non lo potrei più dire «, nota il filosofo « perché nella mia vita ho vissuto momenti ben più felici».
A New York, dove dal 1955 ha la cattedra di filosofia, ritrova Hannah Arendt e frequenta la sua cerchia di amici a Manhattan fino a quando la pubblicazione degli articoli della scrittrice sul processo di Eichmann a Gerusalemme lo sconvolge profondamente: Jonas non crede ai suoi occhi, non riesce a capacitarsi delle dure critiche mosse dalla Arendt agli stessi ebrei, del tono tagliente e sarcastico da lei usato nei loro confronti, della sua posizione antisionista. Lo scontro fra i due amici di un tempo è inevitabile: Hans rimprovera a Hannah - che non ha mai letto la Bibbia - la sua ignoranza sulla religione e sulla storia ebraica antica, tenta inutilmente di farla desistere dalle sue posizioni, si rifiuta infine di vederla. Solo dopo due anni riprenderà i contatti con la donna da lui stesso definita «un genio dell´amicizia».
itinerari
Repubblica Milano 29.7.03
Quello specchio d´acqua che incantò Nietzsche
«Un delizioso piccolo lago ai piedi del Monte Rosa, un´isola ben situata sulle acque calmissime, civettuola e semplice». Così scriveva lo scrittore francese Honoré de Balzac del Lago d´Orta, il più romantico d´Italia, a due passi dalla sponda piemontese del "cugino" Lago Maggiore. Un luogo di grande fascino che ha ispirato anche Browning e Nietzsche, il quale nel 1882 soggiornò per qualche giorno sulle sue rive assieme alla bella e giovanissima Lou Salomé, visitando anche il Sacro Monte che si erge alle spalle. Un´atmosfera di spiritualità, silenzio, raccoglimento mistico avvolge l´Isola di San Giulio (la si raggiunge in battello da Orta), dominata dal convento, dove si è insediata la comunità delle monache Benedettine, e dalla Basilica fondata nel 390 e poi modificata nei secoli successivi. Suggestiva è la leggenda secondo la quale l´Isola era un tempo abitata da un grosso serpente che aveva distrutto ogni cosa. La pace tornò quando Giulio, un santo che sapeva comandare alle acque, si avvicinò al lago e stese il suo mantello facendo dileguare il feroce animale. A pochi chilometri da Milano (per raggiungerlo ci vuole circa un´ora di macchina), il Lago d´Orta, con le sue bellezze paesaggistiche che paiono uscire da un acquarello e le belle ville patrizie, val bene una gita. E, se il visitatore è appassionato di gastonomia, non mancherà di assaggiare la classica mortadella ortese e il tapulon, piatto tipico a base di carne di asino.
(p.z.)
Quello specchio d´acqua che incantò Nietzsche
«Un delizioso piccolo lago ai piedi del Monte Rosa, un´isola ben situata sulle acque calmissime, civettuola e semplice». Così scriveva lo scrittore francese Honoré de Balzac del Lago d´Orta, il più romantico d´Italia, a due passi dalla sponda piemontese del "cugino" Lago Maggiore. Un luogo di grande fascino che ha ispirato anche Browning e Nietzsche, il quale nel 1882 soggiornò per qualche giorno sulle sue rive assieme alla bella e giovanissima Lou Salomé, visitando anche il Sacro Monte che si erge alle spalle. Un´atmosfera di spiritualità, silenzio, raccoglimento mistico avvolge l´Isola di San Giulio (la si raggiunge in battello da Orta), dominata dal convento, dove si è insediata la comunità delle monache Benedettine, e dalla Basilica fondata nel 390 e poi modificata nei secoli successivi. Suggestiva è la leggenda secondo la quale l´Isola era un tempo abitata da un grosso serpente che aveva distrutto ogni cosa. La pace tornò quando Giulio, un santo che sapeva comandare alle acque, si avvicinò al lago e stese il suo mantello facendo dileguare il feroce animale. A pochi chilometri da Milano (per raggiungerlo ci vuole circa un´ora di macchina), il Lago d´Orta, con le sue bellezze paesaggistiche che paiono uscire da un acquarello e le belle ville patrizie, val bene una gita. E, se il visitatore è appassionato di gastonomia, non mancherà di assaggiare la classica mortadella ortese e il tapulon, piatto tipico a base di carne di asino.
(p.z.)
da Le Scienze (ed.it. dello Scientific American)... sulla depressione
Le Scienze 24.07.2003
Un gene raddoppia il rischio di depressione
Scoperto il legame fra una proteina del cervello e un disturbo psichico
Fra le persone che hanno vissuto più eventi stressanti nell'arco di 5 anni, il 43 per cento di chi possiede una determinata versione di un gene sviluppano uno stato di depressione, contro soltanto il 17 per cento di chi ha un'altra versione dello stesso gene. Lo afferma una ricerca finanziata in parte dal National Institute of Mental Health (NIMH) degli Stati Uniti. I soggetti che presentano la versione "corta", o sensibile allo stress, del gene trasportatore della serotonina sono risultati inoltre ad alto rischio di depressione se avevano subito abusi da bambini. Invece, a prescindere da quanti eventi stressanti avessero vissuto o sopportato, le persone con la versione "lunga", o protettiva, non erano soggetti alla depressione più di coloro cui erano stati risparmiati simili eventi difficili.
Secondo Avshalom Caspi, Terrie Moffitt e colleghi dell'Università del Wisconsin e del King’s College di Londra, la variante breve del gene sembra conferire una vulnerabilità agli stress, eventi come la perdita del lavoro, la rottura con il partner, la morte di una persona cara, o una malattia prolungata. Il gene codifica per 5-HTT, la proteina nei neuroni che ricicla il messaggero chimico serotonina dopo che è stato secreto nella sinapsi. Poiché la più diffusa e prescritta classe di antidepressivi agisce bloccando questa proteina, il gene è stato uno dei principali sospettati per i disturbi dell'umore e l'ansia. Eppure il suo legame con la depressione aveva eluso ogni identificazione in otto precedenti studi.
"Abbiamo trovato la connessione - spiega Moffitt - solo perché abbiamo indagato sugli eventi stressanti nel passato dei partecipanti allo studio. Alcuni di questi eventi ambientali cruciali, che possono includere infezioni, tossine e anche traumi psicosociali, possono essere la chiave per svelare i segreti della genetica psichiatrica".
Lo studio è stato descritto in un articolo pubblicato sul numero del 18 luglio della rivista "Science".
Caspi, A. et al. Influence of life stress on depression: moderation by a polymorphism in the 5-HTT gene. Science, 301, 385 - 389, (2003).
© 1999 - 2003 Le Scienze S.p.A.
Un gene raddoppia il rischio di depressione
Scoperto il legame fra una proteina del cervello e un disturbo psichico
Fra le persone che hanno vissuto più eventi stressanti nell'arco di 5 anni, il 43 per cento di chi possiede una determinata versione di un gene sviluppano uno stato di depressione, contro soltanto il 17 per cento di chi ha un'altra versione dello stesso gene. Lo afferma una ricerca finanziata in parte dal National Institute of Mental Health (NIMH) degli Stati Uniti. I soggetti che presentano la versione "corta", o sensibile allo stress, del gene trasportatore della serotonina sono risultati inoltre ad alto rischio di depressione se avevano subito abusi da bambini. Invece, a prescindere da quanti eventi stressanti avessero vissuto o sopportato, le persone con la versione "lunga", o protettiva, non erano soggetti alla depressione più di coloro cui erano stati risparmiati simili eventi difficili.
Secondo Avshalom Caspi, Terrie Moffitt e colleghi dell'Università del Wisconsin e del King’s College di Londra, la variante breve del gene sembra conferire una vulnerabilità agli stress, eventi come la perdita del lavoro, la rottura con il partner, la morte di una persona cara, o una malattia prolungata. Il gene codifica per 5-HTT, la proteina nei neuroni che ricicla il messaggero chimico serotonina dopo che è stato secreto nella sinapsi. Poiché la più diffusa e prescritta classe di antidepressivi agisce bloccando questa proteina, il gene è stato uno dei principali sospettati per i disturbi dell'umore e l'ansia. Eppure il suo legame con la depressione aveva eluso ogni identificazione in otto precedenti studi.
"Abbiamo trovato la connessione - spiega Moffitt - solo perché abbiamo indagato sugli eventi stressanti nel passato dei partecipanti allo studio. Alcuni di questi eventi ambientali cruciali, che possono includere infezioni, tossine e anche traumi psicosociali, possono essere la chiave per svelare i segreti della genetica psichiatrica".
Lo studio è stato descritto in un articolo pubblicato sul numero del 18 luglio della rivista "Science".
Caspi, A. et al. Influence of life stress on depression: moderation by a polymorphism in the 5-HTT gene. Science, 301, 385 - 389, (2003).
© 1999 - 2003 Le Scienze S.p.A.
da Le Scienze (ed.it. dello Scientific American)... sull'autismo
Le Scienze 24.07.2003
Autismo e sviluppo del cervello
Le vaccinazioni in età infantile non sarebbero responsabili del disturbo
I neonati la cui testa comincia di colpo a crescere rapidamente sembrerebbero più a rischio di autismo. Lo indicano i risultati di uno studio che suggerisce come il disturbo, sempre più comune nei paesi industrializzati, potrebbe forse essere dovuto a connessioni mancanti nei cervelli che si espandono troppo velocemente. La ricerca sembra inoltre fornire nuove prove secondo cui le vaccinazioni in tenera età non sarebbero una causa di autismo, come altri scienziati avevano invece ipotizzato.
Lo studio, condotto da Eric Courchesne e colleghi dell'Università della California di San Diego, ha coinvolto 48 pazienti autistici. Il 59 per cento ha presentato una crescita accelerata del cranio - e presumibilmente un'espansione del cervello - a cominciare dall'età di due mesi fino a un'età compresa fra i quattro e i dodici mesi. I risultati, pubblicati sulla rivista "Journal of the American Medical Association", indicano che il cranio dei bambini autistici può passare da essere più piccolo del 75 per cento dei bambini fino a essere più grande dell'84 per cento al termine dell'improvviso sviluppo.
"Questa rapida crescita si verifica in un breve periodo di tempo, - spiega Courchesne - e dunque non può essere causata da eventi che hanno luogo più tardi, come le vaccinazioni contro gli orecchioni, il morbillo o la rosolia, o dall'esposizione a sostanze tossica durante l'infanzia".
In passato, le vaccinazioni e l'esposizione a veleni ambientali come il mercurio sono state considerate come una possibile causa di autismo. Uno studio nei mesi scorsi aveva indagato su una possibile componente genetica legata al cromosoma 15. Ora, la questione fondamentale per i ricercatori è capire se la rapida crescita del cervello - che in teoria è troppo veloce perché si formino le connessioni neurologiche vitali - sia la causa o soltanto un sintomo dell'autismo. Il disturbo di solito viene diagnosticato più tardi, non prima dell'età di due anni.
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Autismo e sviluppo del cervello
Le vaccinazioni in età infantile non sarebbero responsabili del disturbo
I neonati la cui testa comincia di colpo a crescere rapidamente sembrerebbero più a rischio di autismo. Lo indicano i risultati di uno studio che suggerisce come il disturbo, sempre più comune nei paesi industrializzati, potrebbe forse essere dovuto a connessioni mancanti nei cervelli che si espandono troppo velocemente. La ricerca sembra inoltre fornire nuove prove secondo cui le vaccinazioni in tenera età non sarebbero una causa di autismo, come altri scienziati avevano invece ipotizzato.
Lo studio, condotto da Eric Courchesne e colleghi dell'Università della California di San Diego, ha coinvolto 48 pazienti autistici. Il 59 per cento ha presentato una crescita accelerata del cranio - e presumibilmente un'espansione del cervello - a cominciare dall'età di due mesi fino a un'età compresa fra i quattro e i dodici mesi. I risultati, pubblicati sulla rivista "Journal of the American Medical Association", indicano che il cranio dei bambini autistici può passare da essere più piccolo del 75 per cento dei bambini fino a essere più grande dell'84 per cento al termine dell'improvviso sviluppo.
"Questa rapida crescita si verifica in un breve periodo di tempo, - spiega Courchesne - e dunque non può essere causata da eventi che hanno luogo più tardi, come le vaccinazioni contro gli orecchioni, il morbillo o la rosolia, o dall'esposizione a sostanze tossica durante l'infanzia".
In passato, le vaccinazioni e l'esposizione a veleni ambientali come il mercurio sono state considerate come una possibile causa di autismo. Uno studio nei mesi scorsi aveva indagato su una possibile componente genetica legata al cromosoma 15. Ora, la questione fondamentale per i ricercatori è capire se la rapida crescita del cervello - che in teoria è troppo veloce perché si formino le connessioni neurologiche vitali - sia la causa o soltanto un sintomo dell'autismo. Il disturbo di solito viene diagnosticato più tardi, non prima dell'età di due anni.
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